- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
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- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
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L'ASCOLTO CHE GUARISCE
Psicoguide, Cittadella Editrice, Assisi 1989
pp. 189-194
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Quando persone che, a diverso titolo, sono impegnate nell'offrire aiuto terapeutico agli altri tematizzano l'ascolto, vediamo emergere due atteggiamenti principali: la convinzione di saper ascoltare, oppure il dubbio sulle proprie capacità di ascolto. La complessità della condizione umana complica però questo schema lineare. Una faccia nascosta e complementare accompagna permanentemente l'atteggiamento che occupa il primo piano. Chi ritiene di saper ascoltare è tormentato dal dubbio di non farlo ― di non ascoltare abbastanza, di non ascoltare come dovrebbe fare ―; chi invece è pronto ad accusarsi di essere carente nell'ascolto, dimostra poi una singolare propensione a esercitare professioni in cui l'ascolto è l'attività prioritaria. Come si esprimeva efficacemente un partecipante a proposito delle motivazioni che possono averci indotto ad aderire all'incontro, ci sentiamo sufficientemente malati nell'ascolto da voler guarire, e sufficientemente sani da voler guarire gli altri.
La complessità non dipende esclusivamente dall'ambivalenza degli atteggiamenti umani. È la stessa categoria dell'ascolto che ci trascina
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lontano dalla terra ferma, verso i territori più inesplorati dell'Essere. Soprattutto l'ascolto che nasce in ambito terapeutico. Ciò che infatti si offre qui all’ascoltatore, per mezzo della concreta domanda di aiuto, è la persona intera dell’altro, la quale a sua volta ha una predeterminazione connaturata a trascendersi oltre il livello personale.
È la dimensione che dal sintomo conduce alla salute, e da questa a quello stato che Nietzsche amava chiamare «la grande salute», cioè quella salute «che non solamente si ha, ma la si conquista e la si deve conquistare continuamente, perché sempre di nuovo la si perde, la si deve perdere» 1.
L’ascolto è messo in moto dall’invocazione. Nelle nostre rispettive professioni della salute ― medici, infermieri, psicanalisti, psicoterapeuti, pastori ― siamo indotti ad ascoltare perché qualcuno grida la sua necessità e il suo appello ci sollecita a porgere ascolto. Una volta presi all’amo dall’invocazione, siamo condotti in dimensioni sempre più profonde contenute nello stato di malessere da cui proviene l’appello: personali, interpersonali, transpersonali, religiose e cosmiche; Paolo rappresenta la creazione intera come una partoriente che sospira e soffre le doglie di un parto (Rm 8,22).
L’invocazione più profonda, che soggiace a tutte le invocazioni particolari e le giustifica, è quella esprimibile nel concetto biblico globale di una richiesta di shalom.
L’ascolto come risposta a un’interpellazione
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è stato descritto in modo efficacissimo da Maria Montessori in una pagina meritatamente famosa ― è stata ricordata anche durante il nostro incontro ― nella quale descrive mediante quali esperienze ha educato i bambini all’ascolto. Vale la pena di rileggerla nella sua integralità:
«Il "silenzio", nelle scuole comuni, vuol dire la "cessazione del chiasso”, l’arresto di una reazione, la negazione della scompostezza e del disordine.
Mentre il silenzio può intendersi in modo positivo come uno stato "superiore" al normale ordine delle cose. Come una inibizione istantanea che costa uno sforzo, una tensione della volontà e che distacca dai rumori della vita comune quasi isolando l’anima dalle voci esteriori.
Questo è il silenzio a cui siamo giunti nelle nostre scuole: silenzio profondo, benché prodotto in una classe di oltre quaranta bambini piccoletti tra i tre e i sei anni.
È necessario insegnare ai bambini "il silenzio": per questo faccio eseguire vari esercizi di silenzio, che contribuiscono in modo notevole alla sorprendente capacità di disciplina dei nostri bambini. Richiamo l’attenzione dei piccini sopra di me, "che faccio silenzio (...)". I fanciulli restano affascinati da quel silenzio come da una loro reale conquista. "Ecco", dice la direttrice, "ora è tutto quieto come se non ci fosse più nessuno".
Raggiunto questo grado, chiudevo al buio le finestre e dicevo ai bambini: "Adesso ascoltate una voce leggera che vi chiama per nome". Allora, in una stanza vicina dietro ai bambini, attraverso la porta spalancata, chiamavo a voce afona, ma strisciando le sillabe lungamente,
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come si chiamerebbe qualcuno attraverso le montagne, e questa voce quasi occulta sembrava che giungesse al cuore dei bambini e chiamasse la loro anima. Ogni chiamato si alzava silenziosamente cercando di non muovere la sedia e camminava in punta di piedi così impercettibilmente da non farsi quasi sentire: tuttavia il suo passo risuonava nel silenzio assoluto che non s’interrompe mai, tra l’immobilità persistente di tutti gli altri. E giungeva alla porta con volto gioioso, facendo qualche salto nella stanza vicina, soffocando piccoli scoppi di risa; ovvero si attaccava alle mie vesti appoggiandomisi addosso; o si poneva a guardare i compagni che ancora erano nell’aspettativa silenziosa. Il chiamato sentiva quasi un privilegio, un dono, un premio, pure sapendo che "tutti" saranno chiamati, cominciando "dal più assolutamente silenzioso che sta nella sala". Così ciascuno cercava di meritare, nell’attesa perfetta, la chiamata sicura. Io vidi un volta una piccina di tre anni cercar di soffocare uno starnuto e riuscirvi! Ella tratteneva il respiro nel suo piccolo petto scosso, e resisteva fino a riuscire vittoriosa.
Tale giuoco affascina i piccoli: i loro volti intenti, la loro immobilità paziente rivelano la ricerca di un grande piacere. In principio, quando l'anima del fanciullo mi era sconosciuta, avevo pensato di far vedere loro piccoli dolci e piccoli giocattoli promettendo di darli al "chiamato", supponendo che i regali dovessero essere l’attrattiva necessaria a ottenere simili sforzi dall’infanzia. Ma ben presto dovetti accorgermi che era cosa inutile.
bambini giungevano dopo aver superato gli sforzi, le emozioni e i godimenti del "silenzio",
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come navi in porto; erano felici di tutto ciò: di aver sentito qualche cosa di nuovo, e di aver riportato una vittoria. Questo era il loro compenso. "Dimenticavano" la promessa dei dolci e non si curavano di prendere l’oggetto, che supponevo li attraesse. Abbandonai così quel mezzo inutile e vidi con stupore che il giuoco ripetuto si perfezionava sempre più, fino a trattenere i bambini di tre anni immobili nel silenzio, durante tutto il tempo necessario a chiamare e far uscire ben quaranta altri bambini. Allora mi accorsi che l'anima del fanciullo ha pur essa i suoi premi e i suoi godimenti spirituali. Dopo tali esercizi sembrava ch’essi mi amassero di più: certo erano divenuti più ubbidienti, più dolcemente miti. Infatti ci eravamo isolati dal mondo e avevamo passato qualche minuto insieme uniti tra noi: io a desiderarli e a chiamarli, ed essi a ricevere, nel silenzio più profondo, la voce che si rivolgeva personalmente a ciascuno di loro, giudicandolo in quel momento il migliore di tutti» 2.
Trasfigurato dalle parole della grande pedagogista, ci giunge il concetto che abbiamo inseguito in queste pagine dedicate all’ascolto: nell’ascolto si tratta essenzialmente di amore. È un’affermazione che, al di fuori dell’esperienza, suona come intollerabilmente retorica. Eppure il vissuto la convalida: l’essere chiamato con amore è una categoria antropologica fondamentale, che struttura tanto il nostro essere, quanto il nostro fare. Lo scontento riguardo all’ascolto che registriamo nella pratica delle professioni della salute
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riceve, a questo punto, una lettura più profonda. Per quanto coloro che esercitano queste professioni perfezionino la propria capacità di ascolto, non colmeranno mai la misura del desiderio di essere ascoltato che muove chi a loro fa appello. Non ci sentiamo mai ascoltati abbastanza, perché la nostra domanda veicola un’invocazione rivolta all’Essere. Lo sviluppo più coerente di questa intuizione ci porta ad affermare che l’attività professionale connessa con l’ascolto dell’invocazione proveniente dal malessere si presenta a pieno diritto come una «vocazione». La domanda di aiuto è un’invocazione, destinata a incontrare sulla sua strada una vocazione.
Non sembra affatto opportuno rilanciare una categoria come quella di «vocazione» per parlare delle professioni sanitarie. Troppi malintesi si sono nutriti di questa etichetta altisonante. Caso mai dovessimo usare la parola, mettiamola sempre tra virgolette... Pur con tutte le opportune riserve, non possiamo tuttavia evitare di far i conti con questa categoria, se vogliamo assumere con coerenza tutte le implicazioni dell’ascolto. Nelle professioni rivolte alla salute c’è sempre un’eccedenza, che impedisce di ridurle a quel saper fare in cui può pacificarsi la pratica di altre professioni. Dalle esigenze di questo ascolto pieno le professioni della salute sono costantemente tallonate, trovando in esso il motivo irriducibile della loro grandezza e delle loro miserie.
Note
1 Cfr. H. Schipperges, Homo patiens, ed. Piper, München 1985, pp. 210-238 («Von der Krankheit zur "grossen Gesundheit"»).
2 M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 1970, pp. 151-153.