
- Parlare o tacere?
- La terapia del dolore: orientamenti bioetici
- Il diritto di non soffrire
- L'aspetto culturale del dolore
- Terapia del dolore ed etica della sofferenza
- Il dolore non necessario
- Dolore e sofferenza nel malato di cancro
- Sofferenza
- Terapia del dolore e problematiche etiche
- Dolore e dolorismo
- La terapia del dolore: le leggi, l'etica e la cultura
- La lotta al dolore: un orizzonte possibile?
- Ma è solo il dolore che può uccidere la voglia di vivere
- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
PARLARE O TACERE? CONSIDERAZIONI TRANSCULTURALI PER AFFRONTARE IL DOLORE DELLE PROGNOSI INFAUSTE IN MEDI-CINA
in AA. VV., Schmerz in Wissenschaft, Kunst und Literatur
Guido Pressler Verlag, Hürtgenwald, 2000
pp. 251-255
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L’alternativa tra parlare e tacere, in quanto strategie fondamentali per affrontare notizie traumatiche ― tra le quali con buone ragioni possiamo considerare la comunicazione di una diagnosi grave o di una prognosi infausta ― viene per lo più affrontata in bioetica a partire dai principi ai quali si fa riferimento. Mentre il modello che si orienta al “bene del paziente”, ispirato per lo più a una concezione paternalistica, è prevalentemente incline a tacere, il modello concentrato sull’autonomia considera la sottrazione dell’informazione come inconciliabile con il principio dell’autodeterminazione del soggetto. Consideriamo, in modo schematico e sinottico, i valori in gioco tra i diversi protagonisti del rapporto terapeutico così come sono strutturati dall’etica medica tradizionale e dalla bioetica contemporanea:
Stagioni dell’etica in medicina
Epoca pre-moderna Epoca moderna
Etica medica Bioetica
La buona medicina “Quale trattamento porta il “Quale trattamento rispetta
maggior beneficio il malato nei suoi valori
al paziente”? e nell’autonomia delle sue scelte”?
L’ideale medio Paternalismo benevolo Autorità democraticamente
(scienza e coscienza) condivisa
Il buon paziente Obbediente Partecipante
(compliance) (consenso informato)
Il buon rapporto Alleanza terapeutica Partnership
(il dottore con il suo paziente) (professionista-utente)
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Qualunque sia il valore che questi modelli teorici, ritengo che la bioetica riceverebbe un utile ampliamento di orizzonte dall’assimilazione dei risultati di altre scienze dell’uomo. Tra queste in primo luogo va considerata l’antropologia culturale. Tra gli apporti più interessanti della ricerca italiana recente si segnala la ricerca antropologica condotta da Deborah Gordon ed Eugenio Paci in Toscana circa la pratica di informare o non informare i malati di cancro (Gordon, Paci, 1997). Nello spirito di una ricerca etnografica ― che mira a comprendere i comportamenti e le motivazioni che li ispirano a partire dall’ottica dei protagonisti, escludendo ogni intento valutativo o normativo ― lo studio mirava a esplorare le pratiche dominanti, i vissuti e i costrutti teorici che le giustificano diffusi tra i professionisti sanitari circa la comunicazione: a) con i pazienti in generale; b) con i pazienti affetti da cancro o da altre malattie potenzialmente fatali; c) con le persone in contesti non sanitari.
Le domande rivolte con questionario rispecchiavano l’ipotesi che le pratiche comunicative riferite al cancro non sono comportamenti isolati, ma rappresentano un approccio tipico a problemi di natura analoga. Le pratiche mediche e i vissuti relativi alla malattia e alla cura del paziente (chi prende le decisioni, chi detiene le informazioni, gli assunti relativi a che cosa serve per stare meglio, dove attingere la speranza, il significato da attribuire al cancro, in che cosa consiste una “buona morte”) si coagulano in modo coerente intorno a due modelli, che portano l’uno a rivelare al malato il male da cui è affetto, l’altro a nasconderglielo. Le modalità di comunicazione relative al cancro sono costitutive di vissuti e pratiche di portata più ampia.
Gordon e Paci non si sono limitati a contare quanti tra gli operatori sanitari sono per il “dire” e quanti per il “tacere”. Hanno studiato invece come questi orientamenti sono collegati, in profondità, con le convinzioni che riguardano la vita, la morte e la sofferenza; con il modo di gestire le “cattive notizie” anche in contesti diversi da quello della salute; con i modelli fondamentali di educazione (orientata a promuovere l’autonomia personale oppure a consolidare la dipendenza dai genitori e dalla famiglia); con le modalità che vengono utilizzate preferenzialmente per aiutare qualcuno in difficoltà. A questi modelli globali Gordon e Paci danno il nome di “narrazione culturale”. La “narrazione culturale” dà ragione di ciò che si intende produrre. Schematicamente, la narrazione culturale di “protezione sociale” organizza i comportamenti con l’intento di proteggere il paziente, mentre
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la narrazione che possiamo chiamare di “autonomia-controllo” si prefigge di favorire il controllo della situazione da parte dell'individuo.
La “narrazione della protezione sociale” potrebbe cominciare così: «In principio c’erano Dio e la famiglia, che hanno creato i bambini e proteggono i deboli nei momenti di difficoltà». La vita e le persone sono fondamentalmente fragili e bisognose di protezione. La sofferenza non può essere eliminata, ma può e deve essere ridotta al minimo, in parte attraverso la protezione del gruppo sociale: qualsiasi mezzo utilizzato dal gruppo a questo fine è buono, anche inventare storie e mentire. Ai duri colpi della vita si fa fronte mantenendo la continuità della vita quotidiana. La maturità non è un processo lineare: si rimane bambini per tutta la vita di fronte a Dio, ai genitori, alle persone più anziane. Questo comporta che in caso di malattie ci saranno altri che assumeranno in toto la responsabilità delle cure. Il primo dovere è proteggere gli altri dalla sofferenza, non dare “dispiaceri”. Lo stile comunicativo predilige il silenzio, l’ambiguità dei messaggi, la comunicazione indiretta. Il campo sociale è immaginato come una efficace difesa di fronte a verità che farebbero soffrire (come, appunto, una diagnosi di cancro). Per questo la “narrazione della protezione sociale” tende a una pratica comunicativa in cui chi detiene le informazioni sulla malattia ― il medico e la famiglia ― non le trasmette al malato.
La narrazione sottostante alla pratica della comunicazione aperta della diagnosi ― che in ambito medico si traduce soprattutto nella promozione del consenso informato ― potrebbe iniziare il suo racconto della creazione con: «In principio c’era l’individuo». Nella “narrazione culturale di autonomia-controllo”, infatti, l’individuo è sovrano: sulla sua vita, sul suo corpo, sulla propria identità personale. Solo la persona coinvolta sa cosa è meglio per se stessa ed è davvero capace di prendere le decisioni che la riguardano. L’autonomia e l’autodeterminazione sono valori primari e rappresentano dei diritti fondamentali di ogni essere umano. L’informazione è essenziale per poter scegliere. Per questo è necessaria una comunicazione chiara ed esplicita. Vista dalla prospettiva della narrazione dell’autonomia e del controllo, la non rivelazione della diagnosi appare come una grossolana negazione dei diritti umani e impedisce il controllo della propria vita, del corpo, della mente. Il medico e la famiglia che sottraggono l’informazione appaiono in questo modello oppressivi e paternalistici. In modo schematico, le due “narrazioni culturali” possono essere rappresentate come segue:
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Narrazione culturale: Vissuti e pratiche Narrazione culturale
“Autonomia-controllo” “Protezione sociale”
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individuo Priorità gruppo sociale
paritario Natura del monde sociale gerarchico
mondo fisico, Chi o che cosa stabilisce mondo sociale, autorità
“oggettività” la verità
individuo, esseri umani, Fonte di speranza gruppo sociale, Dio, destino,
scienza, tecnologia, progresso, protezione sociale,
conoscenza e azione unità/continuità del quotidiano,
“non sapere”
trasferimento di informazioni Modalità prevalenti di vivere parola detta come capace di
la comunicazione evocare una situazione oltre
che di trasferire informazione
controllo Modi prevalenti adattamento, cercare di creare
attraverso la conoscenza, di affrontare il pericolo un’altra storia,
azione preventiva protezione sociale
“soluzione del problema”, Modi prevalenti evitare di pensare
oggettività, condivisione di affrontare la sofferenza e di parlare del problema,
distrarre, proteggere
infinitamente perfettibile Natura della vita misteriosa, imprevedibile,
e conoscibile sempre problematica
L’apporto della ricerca è di dare uno sfondo antropologico-culturale ai problemi del consenso informato, che evidenzia la frattura tra i diversi modi di praticare la medicina e le giustificazioni teoriche che vengono offerte dei comportamenti: «In Italia diventa sempre più chiaro che le pratiche tradizionali devono attraversare un processo di cambiamento. Si osserva una insoddisfazione diffusa nei confronti della comunicazione che si instaura nelle situazioni, ancora relativamente frequenti, in cui non si rivela la diagnosi: diversi pazienti hanno l’impressione che la mancanza di informazione significa “non riconoscerli come persone”; che fornire loro una diagnosi diversa da quella reale significa “mentire” od organizzare una “congiura del silenzio”; la protezione è vissuta come oppressione, potere, atteggiamento difensivo (“risparmiare l’altro” vuol dire solo risparmiare se stesso). Molte famiglie continuano a non rivelare la diagnosi al paziente, ma
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psicologicamente si sentono isolate e senza sostegno; molti medici non se la sentono di continuare a vivere con la menzogna, ma sono costretti a continuare a comportarsi in questo modo sotto la spinta delle famiglie e della propria incertezza. Anche delle tensioni che si registrano sono da imputare alla presenza contemporanea all’interno del sistema di queste due diverse versioni di narrazioni e pratiche divergenti relativamente alla rivelazione della diagnosi» (Gordon, Paci, 1997, p. 97).
Non si tratta di contrapporre semplicisticamente una cultura americana, basata sull’individuo, l’autonomia, l’informazione, a una cultura europea o ancor più italiana, centrata sulla protezione che il gruppo sociale ― in particolar modo la famiglia ― offre al singolo. I mondi culturali “locali” sono trasversali a queste distinzioni macroscopiche. Le diverse posizioni riguardo all’informazione dipendono dal mondo esistenziale in cui le persone vivono, anche in aree culturalmente omogenee (come la Toscana, in cui è stata condotta la ricerca). La pratica del consenso informato dovrà cercare di realizzare un nuovo equilibrio che permetta una maggiore espressione dell’individualità all’interno dei rapporti molto avvolgenti della famiglia e di un mondo sanitario protettivo, ma contemperi allo stesso tempo l’individualismo estremo del modello autonomista preservando l’importanza dell’appartenenza al gruppo sociale.
BIBLIOGRAFIA
Gordon D., Paci E., “Parlare o tacere? Narrazioni culturali e cancro”, in L’Arco di Giano, n. 14, 1997, pp. 83-99.