Il dolore non necessario

Sandro Spinsanti

IL DOLORE NON NECESSARIO: DECISIONI ETICHE NELLE TERA-PIE ANTALGICHE

in Il dolore non necessario, prospettive medico-sanitarie e culturali, a cura di Domenico Gioffrè

Bollati Boringhieri, Torino 2004

pp. 147-163

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Dobbiamo essere preparati eticamente e culturalmente

a rispettare due diritti fondamentali del malato:

non soffrire e mantenere una dignità e qualità di vita

accettabile durante la malattia.

Arthur Schopenhauer

Il signor Nedo P. viene ricoverato in Ospedale di Comunità, trasferito dalla Unità operativa di Medicina generale con la diagnosi di tromboflebite arto inferiore sinistro da metastasi diffuse per carcinoma polmonare. Per Ospedale di Comunità si intende una struttura sanitaria territoriale che prevede ricoveri a ciclo di 24 ore (per periodi non superiori a 120 giorni) e ricoveri a ciclo di 12 ore. Non è, quindi, né una struttura per lungodegenza, né un albergo sanitario. Prevede diversi momenti assistenziali, garantiti sia dai servizi territoriali che da quelli ospedalieri. Questo tipo di istituzione è particolarmente indicato per la fase postacuta di pazienti anziani a rischio di non autosufficienza e in vista della stabilizzazione di patologie croniche.

L’obiettivo del ricovero in Ospedale di Comunità è quello di stabilizzare la sintomatologia tromboflebitica e di impostare una terapia antalgica per un eventuale ritorno a casa seguito dal servizio dell’ADI (Assistenza domiciliare integrata). Circa due anni fa al signor Nedo, dopo alcuni episodi di difficoltà respiratoria, è stato consigliato dal curante un rx torace, che ha evidenziato una massa polmonare. Ulteriori accertamenti hanno confermato una diagnosi di carcinoma polmonare. Non essendo possibile un intervento chirurgico demolitore, viene consigliata una radio e chemioterapia. Nedo e i familiari sono a conoscenza dell’importanza e della gravità della malattia e affrontano il delicato periodo con costanza e apparente serenità.

La radio e chemioterapia dopo circa due anni sono risultate inefficaci. La malattia si è ulteriormente aggravata, producendo metastasi. Vista la loro diffusione, il prosieguo della terapia è stato ritenuto inutile. Con il sopraggiungere di una tromboflebite e di dolori diffusi il paziente viene ricoverato in Medicina, per la durata di circa un mese. Durante il periodo di degenza in Medicina e in Ospedale di Comunità il signor Nedo è lucido e cosciente sullo stato di avanzamento della malattia; per questo prega i familiari di stargli vicino 24 ore su 24. Nedo ha una grande paura di morire e chiede costantemente al curante che gli venga somministrata una terapia antalgica efficace, non solo

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per togliere o attenuare il dolore fisico, ma ― come riferisce lui ― «una terapia che nei momenti più brutti o nel momento finale mi renda incosciente... perché non voglio vedere la morte in faccia».

Il desiderio di Nedo, purtroppo, non è stato realizzato. Il periodo di degenza, fino alla morte di Nedo, è stato di dieci giorni; in questo lasso di tempo è stata somministrata una terapia del dolore non adeguata. Fin dal suo arrivo in Ospedale di Comunità a Nedo viene somministrata una fiala di FANS (Voltaren) al dì. Al medico di famiglia viene chiesto dal paziente, dai familiari e dagli infermieri una terapia antidolorifica più forte e specifica. Il medico si dimostra molto «parsimonioso» nell’aumentare o cambiare terapia, perché secondo lui una terapia con oppiacei o similari è troppo «forte». Nedo è rimasto cosciente fino alla morte. Quando è morto la sua terapia consisteva soltanto nella somministrazione di 2 fiale di Lixidol al dì più una fiala al bisogno.

Uno scandaloso ritardo italiano

Tra quanto è possibile e giusto fare per eliminare e controllare il dolore fisico e quanto in pratica viene fatto riscontriamo una vistosa differenza. Oggi abbiamo conoscenze precise relative alla fisiologia del dolore. E soprattutto disponiamo di un arsenale vastissimo di metodologie di intervento ― non invasive e invasive, neurochirurgiche e psicologiche, oltre a tutta la gamma di terapie farmacologiche ― che permettono di combattere il dolore nella quasi totalità dei casi.

A questa capacità viene attribuito dalla nostra cultura un valore altamente positivo. Non è soltanto l’etica che nasce da una visione secolare che enfatizza i comportamenti volti a combattere il dolore. Anche le morali di matrice religiosa concordano sostanzialmente su questo punto. Tale richiamo vale in particolare per il cristianesimo, al quale è stata talvolta indebitamente attribuita una coltivazione malsana del dolore. Il «dolorismo» può essersi appoggiato al cristianesimo, ma non ne è un figlio legittimo. La posizione dottrinale cristiana si iscrive in un equilibrio tra il feticismo del dolore di coloro che lo considerano come valore supremo e la fobia del dolore, che induce a vedere in esso il non-valore assoluto. La teologia cristiana valorizza il dolore ― soprattutto quello connesso con la fase finale della vita e il distacco dal corpo ―

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attribuendogli un denso significato antropologico e salvifico, senza tuttavia farne un idolo, perché non è il dolore in sé che purifica e salva ma solo la grazia che produce l’amore.

La morale cattolica ufficiale si ispira ai princìpi formulati in un celebre discorso di Pio XII al congresso della Società italiana di anestesiologia (24 febbraio 1957). In modo realistico, il pontefice ha riconosciuto che

a lungo andare, il dolore impedisce il raggiungimento di beni e di interessi superiori. Può accadere che esso sia preferibile per una determinata persona e in una determinata situazione concreta; ma, in generale, i danni che provoca costringono gli uomini a difendersi da esso. Indubbiamente non si riuscirà mai a farlo scomparire completamente dall’umanità, ma si possono contenere in più stretti limiti i suoi effetti nocivi.

Di conseguenza, secondo la dottrina morale cattolica «il paziente desideroso di evitare o di calmare il dolore può, senza inquietudini di coscienza, avvalersi dei mezzi trovati dalla scienza». E accettato come lecito il ricorso ad analgesici che portano anche alla perdita della coscienza, purché questo mezzo sia giustificato da un intento terapeutico, e l’accettazione di trattamenti antalgici che hanno come effetto secondario quello di abbreviare la vita, purché motivi veramente validi li giustifichino.

Con il tempo l’orientamento dottrinale non è cambiato, se il Catechismo della Chiesa cattolica, del 1992, a proposito del dolore e del suo contenimento nella fine della vita afferma:

L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

Né diversamente suonano le formulazioni morali di altre tradizioni religiose. Riportiamo, a titolo esemplificativo, le conclusioni cui giunge Amos Luzzatto dopo un’analisi accurata dell’atteg-giamento ebraico:

La tradizione ebraica, nella sua parte maggiore, non ha fatto propria una specie di vocazione alla sofferenza e al dolore, anche se le circostanze

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storiche l’hanno spesso costretta a sopportare l’una e l’altro (...). Il dolore cessa di rappresentare un ideale simile all’ascesi o un aspetto fondamentale del rapporto dell’uomo con Dio, che si sposta a un altro e più elevato livello; e ritorna a essere una sgradevole ma non evitabile esperienza di vita che, certo con l’aiuto di Dio, ma soprattutto con il permesso e con la compiacenza di Dio, l’uomo ha il diritto di contrastare con i suoi mezzi 1.

Alla legittimità culturale ed etica riconosciuta alla lotta contro il dolore si accompagna l’iscrizione delle azioni rivolte a tale fine tra le priorità del servizio sanitario pubblico. Il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000, che si propone come un «patto di solidarietà per la salute», individua l’assistenza alle persone nella fase terminale della vita tra gli obiettivi da privilegiare. Nell’ambito del quarto obiettivo ― rafforzare la tutela dei soggetti deboli ― il Piano indica l’assistenza alle persone affette da patologie evolutive irreversibili, per le quali non esistono trattamenti risolutivi. Nell’ambito del patto di solidarietà, la sanità pubblica si impegna a fornire a queste persone «un’assistenza finalizzata al controllo del dolore, alla prevenzione e cura delle infezioni, al trattamento fisioterapico e al supporto psicosociale». Tra le azioni da privilegiare il Piano individua l’erogazione di assistenza farmaceutica a domicilio tramite le farmacie ospedaliere e il potenziamento degli interventi di terapia palliativa e antalgica.

Se la capacità clinica di controllare il dolore, fortemente legittimata dal punto di vista sia etico che sociale, fosse tradotta in atto, non si vedrebbe la necessità di lanciare un progetto internazionale sotto lo slogan programmatico «Verso un ospedale senza dolore». Il progetto è stato originariamente varato dall’Ospedale St. Luc di Montréal con l’intento di modificare gli atteggiamenti verso il dolore e il comportamento sia dei professionisti sanitari che della popolazione, in particolare dei malati ricoverati. Dal Canada il progetto è poi passato ad altri paesi: la Francia ― dove il ministro della Sanità ha avviato un progetto triennale per diffondere la pratica delle cure palliative e mobilitare gli operatori sanitari a utilizzare

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tutti i mezzi necessari per il controllo del dolore ―, la Svizzera, il Belgio, la Spagna, gli Stati Uniti. Anche in Italia si è annunciata un’attenzione al progetto, anche se relativamente isolata 2.

Proprio in Italia, invece, la sensibilizzazione alla terapia del dolore dovrebbe aver luogo con carattere di urgenza. La situazione italiana è descritta, con tono di denuncia, da una lettera aperta inviata al ministro della Sanità e sottoscritta da diverse associazioni e società scientifiche (la lettera è stata pubblicata dalla rivista «Tempo Medico» del 25 febbraio 1998). Il primo firmatario è l’Associazione europea per le cure palliative. Quindi è chiaro: la richiesta parte da chi si occupa di malati per i quali la medicina non ha più risposte curative. Ciò non vuol dire che l’arte medica non abbia più niente da fare. In particolare può fare ciò che le concezioni mediche dell’Antichità consideravano come l’opera «divina» per eccellenza: togliere il dolore. Questo è appunto uno degli obiettivi principali delle cure palliative.

Per controllare il dolore sono necessari farmaci oppioidi, soprattutto la morfina. Da quasi un ventennio l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha elaborato delle linee guida per il trattamento efficace del dolore (scala analgesica OMS). Sono tre i gradini da percorrere, a seconda dell’intensità del dolore. Farmaci antinfiammatori non steroidei per il dolore lieve, oppioidi deboli per quello moderato e oppioidi forti per quello severo. Soprattutto per il dolore da cancro, la morfina e altri analgesici oppioidi sono considerati essenziali, tanto che il loro consumo annuale viene assunto come un indicatore sensibile per valutare l’efficacia dei programmi di controllo del dolore da cancro. Da quando l’OMS si è impegnata in questa campagna umanitaria tra tutte ― la lotta al dolore evitabile ― si è registrato un progressivo aumento del consumo di morfina nei paesi che già avevano un alto livello di utilizzo. Fino al 1984 il consumo di morfina è stato stazionario, mentre negli anni successivi è progressivamente aumentato, fino a quadruplicare nel 1993.

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Questa tendenza si è registrata solo nei dieci paesi che già avevano un livello alto di utilizzo di morfina. Quelli che ne facevano un basso uso, invece, hanno ulteriormente diminuito il consumo di farmaci antalgici efficaci. L’Italia è tra questi. Anzi, a nostra vergogna dobbiamo riconoscere che l’Italia occupa uno degli ultimi posti nel consumo terapeutico di oppioidi. Ciò vuol dire che migliaia di persone finiscono la vita con dolori gratuiti, che la medicina sarebbe in grado di evitare. La lettera indirizzata al ministro della Sanità intendeva portare al centro dell’attenzione un problema reale di «malasanità», molto più grave di quelli sui quali è solita scandalizzarsi la stampa.

La denuncia contenuta nella lettera non è completa: manca la dimensione sociale dello scandalo costituito dal dolore non necessario. Questa emerge da un’altra considerazione: i pochi centri di terapia del dolore che esistono in Italia non sono distribuiti in modo uniforme. Si registra una grande rarefazione di risposte istituzionali al problema del dolore nell’Italia centrale, e praticamente il vuoto in quella meridionale. Se possiamo ipotizzare che la malattia cada sulle persone alla cieca, facendo torto a chi colpisce ma senza ingiustizie, dobbiamo invece riconoscere che il dolore è molto selettivo: predilige coloro che abitano nel Centro-Sud del paese, e tra questi i poveri, che non possono far ricorso ai servizi offerti ― a pagamento ― dalla sanità privata.

Perché la lotta al dolore è gravata da tante scandalose omissioni? Abbiamo la sensazione che qualcosa non sia andata per il verso giusto nella evoluzione della medicina, se oggi alla capacità tecnica di tenere sotto controllo il dolore non corrisponde un impegno fattivo e una realtà rilevante di persone liberate dal dolore non necessario. Alcune risposte all’interrogativo non dobbiamo andare a cercarle molto lontano. Basti pensare quanto pesano sui comportamenti prescrittivi l’inerzia burocratica e la miopia amministrativa.

Al fine di evitare abusi, le normative italiane hanno costruito intorno alla prescrizione di farmaci oppioidi un percorso a ostacoli tra i più complessi. La legge 685 del 1975 e il decreto presidenziale 309 del 1990 ― nel quale vengono accomunate

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le norme per l’impiego dei farmaci antalgici e l’azione repressiva nei confronti del mercato illegale delle sostanze d’abuso! ― prevedevano che per prescrivere tali farmaci i medici dovessero possedere un ricettario ministeriale, da ritirare e controfirmare presso le sedi degli Ordini dei medici; la prescrizione in triplice copia (ognuna delle quali scritta a mano!); che le ricette fossero conservate per almeno due anni; che la prescrizione fosse limitata al fabbisogno di otto giorni (una norma che ha creato la perla di stupidità burocratica per cui medici e farmacisti sono stati multati perché hanno rispettivamente prescritto e venduto una confezione di tre cerotti antalgici a lento rilascio, ognuno con azione prevista per tre giorni, quindi uno in più di quanto prescritto dalla legge!); che la prescrizione fosse redatta a tutte lettere con estesa indicazione delle dosi e della via di sommini-strazione, la dichiarazione di responsabilità in caso di dosaggio giornaliero superiore alla quantità prevista dalla farmacopea; sanzioni rilevanti erano previste per i professionisti, medici e farmacisti, in caso di errori, anche meramente formali, nella prescrizione, registrazione, dispensazione, conser-vazione e smaltimento del farmaco.

A fronte di questa selva di norme, che implicitamente inducono a considerare la prescrizione di un farmaco antalgico analoga all’erogazione del metadone per i tossicodipendenti, si aprono vie di fuga facilmente percorribili. Se il medico non dispone del ricettario, si può ritenere dispensato dal prescrivere questi farmaci. E dal momento che molti medici sono restii a farvi ricorso ― in parte per le complicazioni burocratiche, in parte perché non hanno ricevuto la formazione necessaria in ambito di cure antalgiche ― questa diventa per molti malati la barriera principale che impedisce loro l’accesso alla morfina e altri farmaci oppiacei. Tra le richieste concrete contenute nella lettera al ministro della Sanità ― già fin dal 1998! ― c’è quella che riguarda il possesso del ricettario ministeriale reso obbligatorio per tutti i medici di medicina generale convenzionati.

In parte le norme limitative per la prescrizione dei farmaci antalgici sono state superate dalle disposizioni contenute

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nella recente legge che regola l’utilizzazione dei farmaci analgesici oppiacei per la terapia del dolore (la legge è stata approvata nel gennaio 2001 ed è entrata in vigore il 6 marzo 2001). La nuova legge mira a semplificare i procedimenti che riguardano la consegna, il trasporto e la prescrizione dei trattamenti terapeutici finalizzati al controllo del dolore. Alcune modifiche dei comportamenti sanitari sono vistose: mentre prima le prescrizioni dei farmaci non potevano superare gli otto giorni, ora possono superare i trenta; i medici non potevano approvvigionarsi di stupefacenti attraverso l’autoricettazione, mentre con la nuova legge possono farlo e detenere le quantità necessarie; gli infermieri non potevano trasportare i farmaci oppiacei al domicilio dei pazienti, oggi invece gli infermieri impegnati nei servizi di assistenza domiciliare sono autorizzati a farlo. Per quanti siano i meriti delle nuove disposizioni, la legge ha tuttavia solo uno stretto carattere di regolamentazione, a deroga della normativa precedente 3. Per modificare i comportamenti sarà necessario un intervento più in profondità, sulla cultura sottostante e sulla stessa etica medica.

Le ragioni culturali

Oltre alle carenze di tipo organizzativo, che ci possono spiegare perché il trattamento del dolore viene trascurato, altre indicazioni possono essere rintracciate nell’ambito della cultura, là dove i nudi fatti sono connotati come valori e si elaborano i comportamenti. Ebbene, la cultura è capace di dare maggiore o minore rilievo al dolore, talvolta di renderlo addirittura invisibile. E se il dolore sfugge al nostro sguardo, si sottrarrà anche a ogni tentativo di combatterlo.

L’aspetto più paradossale è che il dolore, di per sé, tende a farsi vedere e a farsi sentire: chi ha dolore urla, in modo vistoso dichiara la sua presenza di essere sofferente e attira l’attenzione su di sé e sul proprio dolore. Eppure noi abbiamo

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l’incredibile capacità di riuscire a non vedere anche la realtà più evidente. In altre parole, noi vediamo solo la realtà che siamo disposti a vedere, mentre anche ciò che è visibile e palese, non lo vediamo semplicemente perché non lo vogliamo vedere. Non mancano esempi storici che documentano la singolare selettività delle nostre capacità percettive. Per secoli la sofferenza, la degradazione, il dolore fisico degli schiavi negri erano sotto gli occhi degli schiavisti, eppure essi non li vedevano. Nel secolo scorso, all’epoca della espansione industriale, la condizione miserabile dei bambini che lavoravano nelle fabbriche era sotto gli occhi di tutti, ma solo gli occhi di qualche artista, come Dickens, di qualche filantropo, o di qualche teorico della rivoluzione sociale hanno saputo vederla.

Per rimanere nell’ambito ristretto del dolore fisico, non può non impressionarci la testimonianza di un neonatologo circa la persistente cecità al dolore dei neonati e dei bambini più piccoli da parte dei medici stessi:

Si è negato a lungo ― con tutta una serie di dimostrazioni di tipo scientifico e di sperimentazioni di vario genere ― che il neonato potesse sentire dolore. Fino a vent’anni fa si decideva che si trattava di dolore sottocorticale, che la coscienza del dolore non c’era, che i neonati non se lo ricordavano, che veniva percepito ma non localizzato, non elaborato, che vi erano in circolo le endorfine che impedivano di sentire il dolore; insomma, la pratica era che gli interventi chirurgici sul neonato, in particolare sul neonato prematuro, venivano fatti senza anestesia. Nei centri più avanzati gli si dava un bicchierino di cognac, come nel caso della chiusura chirurgica del dotto arterioso di Botallo, che richiede un intervento sul torace e quindi su una zona molto sensibile 4.

L’interesse a promuovere sempre migliori interventi terapeutici non è andato di pari passo in medicina con un uguale impegno a controllare il dolore. Non da oggi. Una osservazione pungente di Michael Crichton relativa al ritardo con cui i prodotti anestetizzanti sono stati introdotti in chirurgia può essere estesa ad altre stagioni della medicina. Dopo aver descritto quanto fossero cruenti e dolorosi gli interventi chirurgici prima che, verso la metà del XIX secolo, si facesse ricorso all’anestesia, Crichton annota:

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Sarebbe ragionevole aspettarsi che questo deplorevole stato di cose spingesse i chirurghi a cercare modi per alleviare il dolore e a prendere in considerazione qualsiasi nuovo farmaco in grado di dare questo risultato. Ma di fatto questo non avvenne: gli analgesici erano noti già da quarant'anni prima che si pensasse di usarli nella chirurgia. Se, come sostiene Poincaré, la scoperta predilige le menti preparate, i medici devono essere considerati stranamente impreparati 5.

Le sofferenze ― sia fisiche che morali ― degli altri rischiano di sottrarsi alla nostra attenzione benché siano così macroscopiche, apertamente sotto gli occhi di tutti. In casi simili, la disattenzione fisica è del tutto simile alla disattenzione morale, per colpa della quale l’intelletto non si accorge di quelle considerazioni che sono troppo insistenti e tangibilmente chiare (la scelta morale è una questione di «visione», prima e più ancora di decisione; l’attenzione è perciò fondamentale).

Nell’insieme la civiltà di cui siamo figli, pur promuovendo la lotta al dolore, ci ha resi meno capaci di far fronte alla sofferenza: è l’accusa contenuta nel celebre saggio Nemesi medica di Ivan Illich 6. La tesi di fondo è che la medicina moderna, con la medicalizzazione delle cure, si risolve in una espropriazione della salute. Illich ha chiamato «iatrogenesi culturale» l’aspetto più insidioso del fenomeno, che ha origine quando l’impresa medica distrugge nella gente la volontà di soffrire la propria condizione reale.

La medicina organizzata professionalmente ― affermava Illich in quel pamphlet che non ha perduto la sua attualità ― è venuta assumendo la funzione di una impresa morale dispotica tutta tesa a propagandare l’espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore e la menomazione inevitabili e spesso irrimediabili, la decadenza e la morte.

Il culmine di questa impresa è individuato nella «soppressione del dolore». Ciò ha portato a una società anestetizzata.

Con questa espressione non si intende mettere sotto accusa quanto la medesima è in grado di fare per impedire di sentire sulla propria pelle la sferza del dolore, ma ciò che viene

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messo in atto per impedire che il dolore si trasformi in una esperienza personale. Ogni cultura dispone di quattro fondamentali risorse per trasformare il dolore: parole, miti (spiegazioni religiose e mitiche del senso e della funzione del dolore), modelli morali («arte di soffrire bene») e farmaci. Con la medicalizzazione del dolore assistiamo alla crescita elefantiaca di quest’ultima risorsa e alla decadenza di tutte le altre. Quando poi ― come abbiamo visto nel caso dell’Italia ― anche la risposta farmacologica è carente, ci troviamo meno equipaggiati delle società che ci hanno preceduto nella gestione del dolore che accompagna le vicende morbose del corpo.

Una medicina veramente umana si costruisce solo sull’assunto base opposto a quello corrente, il quale implicitamente presume che la malattia abbia un carattere di «insensatezza». La prassi corrente sottolinea la richiesta fatta al malato di affidarsi a chi è deputato alla cura del suo male. Le aspettative istituzionalizzate ― vale a dire, ciò che la società abitualmente si aspetta dal malato, e a cui questo deve informarsi se non vuole che il suo comportamento sia considerato come anomalo ― mirano esclusivamente all’abolizione del sintomo, non all’interrogazione appassionata di esso, affinché lasci nelle mani del malato qualche traccia del messaggio esistenziale che ha per lui. L’uomo malato viene così apparentemente decolpevolizzato nei confronti dei mali che l’affliggono, mentre in realtà è deresponsabilizzato.

La conquista del senso nascosto nel pathos partecipa del carattere notturno e misterioso della lotta di Giacobbe con l’angelo (cfr. Genesi 33, 23-33). La benedizione che rimane nelle mani del lottatore può avere un carattere doloroso, che lo costringerà a zoppicare per tutta la vita. Nel quadro dell’antropologia teologico-biblica, là dove la guarigione è iscritta dentro l’opera della salvezza, l’emergere del senso della sofferenza ci appare come un momento costitutivo del processo della soteria (una realtà più vasta della guarigione in senso clinico, in quanto partecipa del carattere trascendente della salvezza). L’acquisizione di senso ottiene che dalla passività distruttiva di ciò che l’uomo subisce nel corpo scaturisca una possibilità di crescita.

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Il senso non può essere donato a nessuno: va trovato all’interno dell’esperienza, grazie a un vero e proprio «lavoro semantico». La creazione del senso della propria patologia è come una porta che si apre solo dal di dentro: nulla si ottiene forzandola dall’esterno. Ma la ricerca può essere facilitata o impedita. Chi si vuol porre in relazione di aiuto ― come professionista sanitario o come essere umano solidale ― ha bisogno più di esprit de finesse che di esprit de géométrie. Dovrà ricorrere ― in un dosaggio ogni volta da inventare ― all’azione e all’omissione (nel senso di rinuncia a operare con ostinazione), alla parola e al silenzio, alla presenza e alla distanza.

Le responsabilità dell’etica medica

Quando diciamo che il dolore, per quanto manifesto, viene reso invisibile dall’insensibilità morale non intendiamo solo il grossolano atteggiamento degli schiavisti o dei capitalisti proprietari delle fabbriche del XIX secolo nei confronti della sofferenza che li circondava; e neppure la tranquilla disinvoltura con cui i chirurghi procedevano a operazioni sui neonati senza anestesia. Anche delle concezioni morali di alto profilo possono costituire un filtro che impedisce di vedere il dolore. Dobbiamo riconoscere inoltre l’esistenza di una etica medica che non aiuta a vedere il dolore, anzi nasconde il dolore che abbiamo sotto gli occhi.

C’è una pagina famosa, tratta dal romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann, che ci permette di dare concretezza all’affermazione che anche l’etica può contribuire a mascherare il dolore. In una scena culminante l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook giace sul letto di morte. L’agonia si protrae dolorosamente. La morente, in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire. Supplica: «Qualcosa per dormire... Dottori per pietà! Qualcosa per dormire!» Ma i medici sanno che l’azione di un sedativo abbrevierebbe la vita; per cui respingono la richiesta, rifacendosi a vaghi motivi etici che non sanno articolare, ma che nondimeno sentono come vincolanti. Annota Thomas Mann:

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Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene 7.

Questo tipo di sensibilità morale fa sì che la madre del console Buddenbrook muoia al termine di un’agonia terribile, per la quale i medici hanno ritenuto loro dovere non fare niente, per quanto la morente abbia cercato di indurli a lenire il dolore appellandosi alla loro compassione («Per pietà»!) Consideravano infatti il dolore della morente come un dolore necessario. La nostra sensibilità morale si ribella. Eppure dobbiamo riconoscere che la tendenza che Thomas Mann rileva nella medicina del secolo scorso (ispirata a una etica che imponeva al medico l’obbligo di far vivere l’ammalato il più a lungo possibile, senza individuare anche nel lenimento del dolore un obbligo etico prioritario) non è estranea alla medicina del nostro tempo. Anzi, ai nostri giorni tende a diventare estrema.

L’interrogativo etico (qual è il dovere del medico di fronte a un malato che gli chiede un calmante che può abbreviargli la vita?) poggia su una questione culturale e antropologica relativa ai fini della medicina. Se identifichiamo come obiettivo della medicina esclusivamente la guarigione, entriamo molto facilmente nel vicolo cieco che coinvolge la medicina medesima: si sente mobilitata a fare tutto il possibile per guarire, ma non fa niente ― o quanto meno non agisce con un impegno analogo ― per sedare il dolore.

Questa osservazione non dev’essere interpretata come un atto di accusa contro i medici per aver deformato la concezione della medicina: mentre in passato era sufficientemente bilanciata fra il dovere di guarire e il dovere di lenire il dolore, oggi è invece tutta polarizzata sul dovere unico di guarire, di prolungare la vita, di tentare tutto il possibile per aggiungere qualche giorno o qualche ora all’esistenza del morente. Questo atteggiamento dei medici è un problema culturale, in

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quanto sta a significare che tale offerta deriva da una specifica domanda.

La richiesta alla medicina di fare sempre di più per guarire, per prolungare la vita e, in ultima analisi, per assicurare l’immortalità, proviene dagli uomini e dalle donne del nostro tempo. Noi non accettiamo più di morire; abbiamo rimosso la cultura della morte intesa come un momento della nostra vita, caricando la medicina delle nostre attese di immortalità. Chiediamo oggi alla medicina quello che una volta si chiedeva alla religione, quasi che la medicina sia diventata la nostra «religione laica», e i medici e la scienza il sacerdozio di questa religione.

Perché dobbiamo rassegnarci alla morte, dal momento che non solo possiamo prolungare la vita, ma forse siamo in grado anche di raggiungere l’inversione del meccanismo di degrado che ci porta alla morte, e quindi possiamo diventare immortali? C’è una collusione profonda tra una medicina che si sente potente ― anzi onnipotente ― e una cultura che si sente immortale o che aspira all’immortalità. In questo incontro fatale fra una domanda e una offerta speculari ne fa le spese soprattutto chi ha bisogno di una medicina diversa, quella che chiamiamo «palliativa». Si tratta di una medicina che non tiene conto solo delle malattie e si accorge anche delle sofferenze; che sa cambiare marcia ed è in grado di capire, a un certo punto, che la priorità non è più la lotta a oltranza contro la patologia in atto, né il dare scacco alla morte, ma diventa l’accompagnare, favorendo il processo naturale della fine della vita nella maniera più indolore possibile.

Il nursing del dolore

Grazie ai progressi della medicina, molte più persone vivono con la malattia, invece di soccombere a essa. Nella situazione di cronicità gli interventi di assistenza, di competenza infermieristica, prevalgono su quelli curativi, di competenza medica. L’alleviamento del dolore e dei sintomi è parte integrante dell’assistenza. Tanto più che l’infermiere ha una maggiore

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vicinanza e quotidianità di rapporto con il malato: la sua è una posizione privilegiata per rilevare il dolore e per valutare l’efficacia delle misure antalgiche intraprese. Ne conseguono un particolare potere e una responsabilità dell’infermiere rispetto alla terapia del dolore. In tale posizione di potere l’infermiere influenza in modo determinante il decorso della terapia antalgica: se i sintomi di dolore del malato vengono rilevati, presi più o meno seriamente in considerazione e alleviati.

Il ruolo dell’infermiere nella terapia del dolore è tanto più importante in quanto nel contesto clinico l’alleviamento dei sintomi è lasciato alla sua discrezione. A differenza di quanto avviene, per esempio, per la somministrazione di un antibiotico ― la prescrizione è fatta dal medico, viene scritta in cartella e se ne fa relazione al cambio di turno ― non sono in vigore metodi sistematici che responsabilizzano l’infermiere al compito di alleviare i sintomi. Le prescrizioni scritte sono limitate per lo più agli analgesici e non sempre vengono annotati i loro effetti; raramente viene fatto un rapporto sistematico, tra un turno e l’altro, circa il controllo dei sintomi dolorosi del paziente. Dal momento che il dolore di solito non costituisce una minaccia per la vita, ha una bassa priorità nell’assistenza.

Oltre che di una vicinanza strategica al malato e al suo dolore, l’infermiere si avvantaggia di un diverso sguardo nei confronti della sofferenza. L’approccio medico è condizionato da una precomprensione fisica del dolore. Lo considera come una sensazione con un rapporto in qualche modo prevedibile con uno stimolo nocivo o con un’attività neurofisiologica anormale. Quando il medico raccoglie il lamento di una persona che ha dolore, si dispone a determinarne la causa. Così come il medico è autorizzato a stabilire se una persona è o no malata, allo stesso modo decide se debba sentire dolore, basandosi sulla sua diagnosi di tipo fisico. È importante che il medico usi questo approccio; ma è una disgrazia per il malato se viene utilizzato solo questo modo di considerare il dolore.

L’infermiere non deve fare una diagnosi fisica. Il suo sguardo è libero quindi per cogliere altri aspetti del dolore, considerandolo

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come una sensazione che ha un determinato significato per il malato. Le caratteristiche personali ― psicologiche e sociali ― sono almeno altrettanto importanti di quelle fisiche per determinare la risposta al dolore. L’infermiere può cosi considerare il dolore nel contesto della persona totale, superando l’idea che ci debba essere un rapporto predicibile tra lo stimolo e la sensazione dolorosa. Senza svalutare l’importanza clinica di ciò che vede e misura il medico, si può tuttavia affermare che solo attraverso l’approccio che può avere l’infermiere il dolore mostra tutto il suo spessore, in quanto dolore umano.

Il punto di vista relazionale presuppone una modifica profonda dell’atteggiamento nei confronti del paziente con dolore: il clinico non si considera legittimato a saperne di più della persona che il dolore lo sta provando (secondo lo schema riassumibile nello slogan doctor knows best, ovvero «il dottore ne sa di più»...); al contrario, si presume che il paziente sappia circa il dolore e il suo sollievo cose che il sanitario non conosce. Forse in nessun altro ambito della relazione di cura, come nel caso del dolore, è appropriato che il rapporto con la persona assistita inizi con l’ascolto («L’infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali»: Codice di deontologia degli infermieri, 4.2).

Due elementi garantiscono l’efficacia del nursing del dolore. Anzitutto il rapporto. Non si può esagerare nel valutare l’importanza di stabilire una buona relazione, attraverso la quale trasmettere al paziente il messaggio che chi l’assiste è dalla sua parte, impegnato con lui nella lotta contro il dolore, in tutte le sue manifestazioni. L’impegno è più facile quando l’infermiere prova una simpatia genuina per il paziente. Negli altri casi, deve soccorrerlo l’etica professionale (se è vero che questa può essere colloquialmente riassunta nella disponibilità a occuparsi con la stessa intensità dei pazienti simpatici come di quelli che suscitano antipatia...).

Un buon nursing del dolore deve, in secondo luogo, adottare l’insegnamento rivolto al paziente come una strategia di controllo efficace. Se il paziente è assunto come partner, gli saranno fornite informazioni accurate circa la probabilità dell’insorgere

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del dolore, la sua intensità e la sua durata. La reticenza o la disonestà dell'équipe curante circa il dolore è vissuta dal malato come un tradimento. È una situazione che si verifica non infrequentemente con riguardo al dolore postoperatorio o a quello legato a procedure invasive, quando il paziente non è adeguatamente preparato mediante la spiegazione di che cosa gli viene fatto e perché. Con il paziente verrà concordato un piano di controllo del dolore e ci si atterrà alle sue decisioni. Il nursing del dolore ha bisogno non tanto di un paziente docile, quanto di una persona di cui si è provveduto a realizzare l'empowerment mediante l’informazione.

BIBLIOGRAFIA

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NOTE

1 Luzzatto 2000, pp. 200 sg.

2 Cfr. Visentin 2000.

3 Cfr. Benci 2001.

4 Orzatesi e De Caro 1998, p. 18.

5 Crichton 1995, p. 97.

6 Illich 1976.

7 Mann 1992, p. 346.