
- Parlare o tacere?
- La terapia del dolore: orientamenti bioetici
- Il diritto di non soffrire
- L'aspetto culturale del dolore
- Terapia del dolore ed etica della sofferenza
- Il dolore non necessario
- Dolore e sofferenza nel malato di cancro
- Sofferenza
- Terapia del dolore e problematiche etiche
- Dolore e dolorismo
- La terapia del dolore: le leggi, l'etica e la cultura
- La lotta al dolore: un orizzonte possibile?
- Ma è solo il dolore che può uccidere la voglia di vivere
Sandro Spinsanti
MA È SOLO IL DOLORE CHE PUÒ UCCIDERE LA VOGLIA DI VIVERE
in Terzafase
anno III, n. 5, maggio 1985, pp. 62-63
62
Il “suicidio assistito” di cui parla Turone non è certo condivisibile. È tempo però di aprire un dibattito perché il cristianesimo non stimola il “dolorismo”, inteso come promozione morbosa della sofferenza. Lo scandalo è che tanti malati vengono lasciati ancora morire tra dolori strazianti.
Se la proposta di legge di introdurre una nuova normativa circa la vita terminale avesse offerto l’occasione a prese di posizione serie e meditate come quella di Sergio Turone, non la si potrebbe dichiarare del tutto inopportuna. Purtroppo è diventata piuttosto occasione per scontri ideologici, ovvero per contrapposizioni di ordine dottrinale, in cui le componenti personali del problema rimangono inesorabilmente mortificate. Il dialogo-intervista immaginato da Turone è più di un artificio letterario: è l’indicazione di una dimensione possibile del dibattito.
Un’indicazione valida per chiunque voglia accoglierla: fare del superficiale consenso o dissenso con la proposta legislativa l’occasione per un confronto in profondità con sé stessi, con le emozioni che si nascondono dietro le opinioni. Spostato il discorso a questo livello, ogni argomentare che cerchi di convincere l’«avversario» diventa inappropriato. Ciò che si rende possibile è invece un confronto che ha la sua fondamentale ragion d’essere nel fatto di rompere i tabù che la cultura contemporanea ha fatto cadere sulla morte e il morire.
Un altro merito che va riconosciuto all’intervento di Turone è quello di aver portato l’attenzione sulla confusione delle parole e dei loro significati che regna in questo ambito. Egli parla di «equivoco linguistico», riferendosi al fatto che etimologicamente l’eutanasia significherebbe dolce morte o buona morte, e rispecchierebbe una concezione della morte propria del mondo antico, e non più del nostro.
L’equivoco, a mio avviso, si spinge ben oltre. La parola è utilizzata per denotare situazioni diverse. È una di quelle «parole attaccapanni» alle quali ciascuno attribuisce un particolare significato. I dibattiti sull’eutanasia sono spesso viziati da sottili o grossolani fraintendimenti: gli interlocutori parlano appassionatamente... di cose diverse! I vescovi francesi, in un loro commento sui problemi della morte e del morire dal punto di vista dell’etica, hanno richiamato l’attenzione sull’ambiguità della parola e sulla necessità di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine di eutanasia.
Il documento indica almeno sei ambiti diversi: l'«addolcimento» degli ultimi momenti di vita del malato (secondo il significato etimologico della parola); la lotta contro la sofferenza (che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere coscienza al malato); il prolungamento della vita ad ogni costo, correlato con il problema dell’estensione terapeutica (è il «lasciar morire», che alcuni preferiscono chiamare eutanasia passiva); la soppressione dei tarati per ragioni eugeniche, come è stata praticata, per esempio, durante il Terzo Reich; la constatazione della morte, malgrado le apparenze della vita; e infine il mettere deliberatamente fine alla vita di una persona, su richiesta esplicita o presunta di quest’ultima.
Tutta questa molteplicità di significati è francamente troppo per una sola parola, che viene tirata da un parte e dall’altra per coprire situazioni tanto diverse. Forse sarebbe opportuna una convenzione linguistica che restringesse l’uso del termine eutanasia solo all’ultima delle situazioni indicate (ma anche in questo caso andrebbe almeno distinto il caso dell’uccisione «per pietà» di una persona non capace di intendere e di volere da parte di un congiunto o di un medico, dal «suicidio assistito», che ipotizza Turone). O forse bisognerebbe proprio mettere la parola in quarantena, nella speranza che il silenzio provochi una purificazione semantica...
Quand’anche avessimo fugato i problemi linguistici, non avremmo risolto tutte le ambiguità dell’eutanasia. Comincerebbe allora, piuttosto, il vero problema, che è quello ermeneutico, ovvero l’interpretazione della domanda. Anche dietro la domanda esplicita, infatti, ci può essere un’altra richiesta. Lo afferma Cecily Saunders, la fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra e una delle maggiori autorità in merito alla cura dei malati in fase terminale. A suo avviso, la domanda «fatemi morire» contiene implicitamente un altro tipo di richiesta, che va decodificato come «occupatevi di me e alleviate il mio dolore». Tant’è vero che quando questo aiuto viene dato in maniera efficace, la domanda di eutanasia non è più avanzata.
Qual è la richiesta del signor Ipsilon, «intervistato» da Turone? Essa si presenta come
63
la richiesta di un medico benevolo, che gli assicuri la sua complicità per porre termine alla propria vita, quando il dolore fisico diventasse intollerabile ed egli stesso non fosse più in grado di mettere in atto il proposito suicida. Senza voler esercitare nessuna violenza interpretativa, ci sembra legittimo individuare dietro la richiesta l’incombere di un fantasma: la paura di diventare vittima dell’ostinazione medica. È entrato nell’uso parlare a tale proposito di «accanimento terapeutico». Forse è opportuno distinguere l’accanimento dall’ostinazione. L’accanimento può essere richiesto e giustificato dalla professione medica: la vittoria sul male domanda talvolta una lotta con tutte le energie dell’intelligenza e della volontà. L’ostinazione terapeutica è invece una deformazione del sano accanimento. Il medico che vi soggiace considera come suo dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando ogni altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica. In questi casi, tenere in vita per qualche giorno o qualche ora in più un paziente terminale diventa per il medico quasi un punto d’onore; e il paziente deve conquistarsi la sua morte, lottando contro l’ostinazione del medico. Il prezzo è quello di una somma inenarrabile di sofferenze supplementari, tanto per il morente quanto per i suoi familiari. Tanto più che questo tipo di medico, tutto teso a prolungare la vita, dà l’impressione di non prendere in seria considerazione il dolore fisico del malato.
Sarebbe mistificatorio attribuire alla dottrina cristiana sul dolore tutta la responsabilità dei ritardi in campo medico e mettere a punto delle terapie del dolore efficaci. Il cristianesimo non favorisce il «dolorismo», inteso come promozione morbosa del dolore. Al cristiano non è moralmente vietato lottare con i mezzi messi a disposizione dalla medicina contro il dolore, anche se l’uso degli analgesici dovesse comportare, come conseguenza secondaria, l’abbreviazione della vita: lo ha stabilito Pio XII, sollecitato dai progressi moderni dell’analgesia a esplicitare gli insegnamenti dell’etica medica cattolica. Sarebbe abusivo invocare la dottrina cristiana sul valore salvifico del dolore per validare la disattenzione di molti medici alla sofferenza del malato.
Specialmente nella fase terminale della malattia il dolore non è più il prezzo da pagare per ottenere la guarigione, bensì il male da combattere e rimuovere con tutti i mezzi. Se a un certo punto il dolore prende il sopravvento in maniera tale che il malato invoca la morte, ciò significa che c’è stata un’omissione o un fallimento della terapia del dolore. È su questa che bisogna concentrare gli sforzi della ricerca e del progresso medico, facendola diventare un ramo privilegiato della medicina umanistica. Lo scandalo è oggi che tanti malati vengono lasciati morire tra dolori strazianti, quando invece sarebbe possibile lenire le loro sofferenze, con le conoscenze mediche adeguate e la volontà di considerare il dolore come un male da rimuovere.
La capacità di tollerare il dolore è una variabile personale: non la si può chiedere a tutti nella stessa maniera. In genere nella nostra cultura tale soglia tende ad abbassarsi: non si vuol sopportare neppure il minimo disagio, né fisico, né morale. Manca soprattutto la motivazione a sopportare il dolore: là dove una motivazione esiste, le capacità individuali vengono molto potenziate. Viene in mente, a questo proposito, l’esempio del nobile stoicismo di Freud. Pur essendo affetto da un doloroso cancro alla mascella, rifiutò per lunghi anni l’uso di analgesici che gli avrebbero attutito il dolore ma offuscato la coscienza. «Preferisco pensare tra i tormenti, piuttosto che non pensare», dichiarava. Ma alla fine sentì giunto il momento di cedere. Chiamò il suo medico curante, per domandargli un forte sedativo: «Adesso non è che tortura — gli disse — e non ha più senso». Ricevuta una dose di morfina sprofondò in un sonno che si concluse poche ore dopo con la morte.
È questo l’accordo tra medico e paziente auspicato da Sergio Turone? Come potrebbe, in tal caso, avere una rilevanza giuridica ed essere sancito da un dispositivo legale? Il dosaggio tra «resistenza» e «resa» è un’opera di saggezza del cuore, e presuppone un intenso dialogo da persona a persona, in cui sia il medico che il malato vivano le scelte come soggetti responsabili. È comprensibile e pienamente giustificata la riluttanza dei medici a prendere in considerazione qualsiasi normativa che si allontani dal principio deontologico di non collaborazione del medico a pratiche che procurino o affrettino la morte.
Questa norma è rivolta a tutelare il rapporto di fiducia che lega il paziente al medico. Il malato deve poter essere sicuro, anche se fosse assalito da fantasie di persecuzione, che l’intervento medico di cui è oggetto — l’iniezione che l’infermiera sta per fargli, le pillole che gli vengono somministrate — non è mai rivolto ad abbreviargli la vita.
Oggi però il rapporto di fiducia tende a spostarsi su un altro piano. Il paziente che si avvicina alla fine della propria vita ha bisogno di sapere che il medico non l’abbandonerà, che gli starà accanto soprattutto per lottare contro il dolore e per assicurargli un trapasso nella dignità. Se ciò gli venisse a mancare, ritiene preferibile affrettare la morte.