
- Parlare o tacere?
- La terapia del dolore: orientamenti bioetici
- Il diritto di non soffrire
- L'aspetto culturale del dolore
- Terapia del dolore ed etica della sofferenza
- Il dolore non necessario
- Dolore e sofferenza nel malato di cancro
- Sofferenza
- Terapia del dolore e problematiche etiche
- Dolore e dolorismo
- La terapia del dolore: le leggi, l'etica e la cultura
- La lotta al dolore: un orizzonte possibile?
- Ma è solo il dolore che può uccidere la voglia di vivere
Sandro Spinsanti
L'ASPETTO CULTURALE DEL DOLORE
in Il dolore non necessario
Convegno Regionale ADVAR-SICP Sezione Veneta
Treviso, sabato 13 marzo 1999
pp. 14-26
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Buongiorno e, per molti di noi, ben ritrovati.
Il tema del dolore non è facile e neppure gradevole. Per quanto riguarda la mia trattazione ― la cultura del dolore ― può sembrare una contraddizione, in quanto è proprio della cultura tendere a eliminare dalla vita dell’uomo il dolore non necessario e a diminuire quello necessario. Almeno in teoria, perché in pratica non possiamo ignorare i dati di realtà riportati dal dottor Antonio Orlando, che indicano come nella nostra società il controllo del dolore non sia considerato una priorità. A quelle testimonianze autorevoli molti di noi ― e vorrei dire quasi tutti ― probabilmente potrebbero aggiungere altri vissuti personali. Abbiamo incontrato, nella nostra vita o in quella della nostra famiglia, tanto dolore non necessario, per il quale non è stato fatto quello che era possibile fare.
Perché la lotta al dolore è gravata da tante scandalose omissioni? Eppure c’è una lunga tradizione medica, riassunta in uno slogan tante volte ripetuto: "È umano guarire, è divino sedare il dolore". L’etica medica ha sempre attribuito un alto valore professionale e umanitario a quanto viene intrapreso con finalità antalgica. Qualcuno, maliziosamente, potrebbe anche dire: una medicina che in passato era sostanzialmente inefficace e che in realtà poteva fare poco per guarire le malattie, mirava almeno a sedare il dolore. Lo faceva utilizzando i mezzi poveri che aveva a disposizione, ma soprattutto combatteva il dolore con la presenza, con la vicinanza del terapeuta, con l’empatia.
Noi abbiamo la sensazione che qualcosa non sia andato per il verso giusto nell’evoluzione della medicina, se oggi alla capacità tecnica di tenere sotto controllo il dolore non corrisponde un impegno fattivo e una realtà concreta di persone liberate dal dolore non necessario. La riflessione che intendo proporvi vuol cercare una risposta nell’ambito della cultura del dolore (dove per cultura non intendiamo il numero dei libri letti; la cultura non si identifica con il sapere nozionistico, ma è un sapere e un fare relativo alla gestione ― la meno traumatica e la più felice possibile ― della nostra condizione umana).
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Possiamo assumere come punto di partenza una domanda elementare: vediamo il dolore? Perché, se il dolore sfugge al nostro sguardo, si sottrarrà anche a ogni tentativo di combatterlo. L’aspetto più paradossale è che il dolore tende a farsi vedere e a farsi sentire: chi ha dolore urla, in modo vistoso dichiara la sua presenza di essere sofferente e attira l’attenzione su di sé e sul proprio dolore. Eppure noi abbiamo l’incredibile capacità di riuscire a non vedere anche la realtà più evidente. In altre parole, noi vediamo solo la realtà che siamo disposti a vedere, mentre anche ciò che è visibile e palese non lo vediamo semplicemente perché non lo vogliamo vedere.
Mi limito a rimandare a qualche esempio storico che documenta la singolare selettività delle nostre capacità percettive. Per secoli la sofferenza, la degradazione, il dolore fisico degli schiavi negri era sotto gli occhi degli schiavisti, eppure essi non lo vedevano. Nel secolo scorso, all’epoca dell’espansione industriale, la condizione miserabile dei bambini che lavoravano nelle fabbriche era sotto gli occhi di tutti, ma solo gli occhi di qualche artista, come Dickens, di qualche filantropo, o di qualche teorico della rivoluzione sociale hanno saputo vederla.
Da cosa deriva questa facoltà straordinaria di non vedere cose tanto evidenti? Una risposta molto acuta alla domanda l’ha data Edgard Allan Poe, nella novella intitolata "La lettera rubata", che ci induce a concludere che il luogo migliore per nascondere qualcosa che non vogliamo far trovare è di metterlo sotto gli occhi di tutti. Nella novella si tratta di una lettera che è stata rubata a un personaggio molto importante della Parigi del secolo scorso. Si sa con certezza chi l’ha rubata e perché l’ha fatto; si sa che questo qualcuno ha bisogno di tenere, come mezzo di ricatto, la lettera sempre a portata di mano e che quindi non può averla nascosta in luoghi inaccessibili. C’è un commissario di polizia che scatena tutti i suoi agenti per trovare la lettera: fa setacciare la casa del sospettato e lo fa anche aggredire fisicamente per strada per avere la possibilità di perquisirlo, accertandosi che non nasconda la lettera sulla sua persona.
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Tutti i tentativi di ritrovare la lettera da parte dei poliziotti scrupolosissimi vanno a vuoto; ci riesce invece l’astuto Dupin, cambiando strategia. Come spiega allo stupefatto ispettore, è partito da un presupposto contrario al buon senso: che, per nascondere una cosa, il modo appropriato è metterla sotto gli occhi, là dove nessuno si sognerebbe di andarla a cercare. Illustra la sua strategia con l’esempio del gioco che si fa su una carta geografica:
"Uno dei giocatori chiede all’altro di trovare una certa parola: il nome di una città, di un fiume, di uno stato o di un regno... una qualsiasi parola, in breve, sulla confusa e variegata superficie della mappa. Un novellino generalmente tenta di mettere in difficoltà gli avversari proponendo loro i nomi scritti a lettere più minute, ma l’esperto sceglie le parole che più si estendono a grandi lettere da una parte all’altra della mappa. Queste, come le insegne e i cartelloni pubblicitari scritti a lettere eccessivamente grandi, sfuggono all’osservazione per colpa della loro esagerata visibilità. In casi simili, la disattenzione fisica è del tutto simile alla disattenzione morale per via della quale l’intelletto non si accorge di quelle considerazioni che sono troppo insistenti e tangibilmente chiare".
Le sofferenze ― sia fisiche che morali ― degli altri rischiano di sottrarsi alla nostra attenzione proprio perché sono così macroscopiche, apertamente sotto gli occhi di tutti. In casi simili, la disattenzione fisica è del tutto simile alla disattenzione morale, per colpa della quale l’intelletto non si accorge di quelle considerazioni che sono troppo insistenti e tangibilmente chiare (la scelta morale è una questione di "visione", prima e più ancora che di decisione: l’attenzione è perciò fondamentale).
Quando diciamo che il dolore viene reso invisibile dall’insensibilità morale, non intendiamo solo il grossolano atteggiamento degli schiavisti o dei capitalisti proprietari delle fabbriche del XIX secolo. Anche concezioni morali di alto profilo possono costituire un filtro che impedisce di vedere il dolore. Dobbiamo riconoscere che esiste anche un’etica medica che non aiuta a vedere il
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dolore, anzi nasconde il dolore che abbiamo sotto gli occhi.
C’è una pagina letteraria famosa, tratta dal romanzo "I Buddenbrook" di Thomas Mann, che ci permette di dare concretezza all’affermazione che anche l’etica può contribuire a mascherare il dolore. Protagonista della scena è una vecchia signora, la madre del console Buddenbrook, che sta morendo. L’agonia è descritta in maniera molto realistica e coinvolgente: da ore l’agonizzante sta rantolando; reiteratamente supplica il medico di darle ― "per pietà" ― qualcosa per dormire. Ma ― commenta Thomas Mann ― i dottori erano tutt’altro che disposti ad accogliere la richiesta: essi conoscevano il loro "dovere", che era quello di prolungare il più possibile quella vita, conservandola all’affetto dei suoi cari, e non di dare un lenimento al dolore, che poteva provocare un’abbreviazione della vita medesima. Quel "dovere" i dottori lo conoscevano perché ricordavano vagamente di averne sentito parlare all’università: qualcosa che aveva a che fare con l’etica medica e sosteneva che il dovere del curante è di prolungare il più possibile la vita, non di fare qualcosa che potrebbe abbreviarla. Questo tipo di sensibilità morale fa sì che la madre del console Buddenbrook muoia al termine di un’agonia terribile, per la quale i medici hanno ritenuto loro dovere non fare niente, considerando il dolore della morente come un dolore necessario.
La nostra sensibilità morale si ribella. Eppure dobbiamo riconoscere che la tendenza che Thomas Mann rileva nella medicina del secolo scorso (ispirata a un’etica che imponeva al medico l’obbligo di far vivere l’ammalato il più a lungo possibile, senza individuare anche nel lenimento del dolore un obbligo etico prioritario) non è estranea alla medicina del nostro tempo. Anzi, ai nostri giorni tende a diventare estrema.
L’interrogativo etico (qual è il dovere del medico di fronte a un malato che gli chiede un calmante che può abbreviargli la vita?) poggia su una questione culturale e antropologica relativa ai fini della medicina. Se identifichiamo come obiettivo della medicina esclusivamente la guarigione, entriamo molto facilmente nel vicolo cieco che coinvolge la medicina medesima: si sente mobilitata
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a fare tutto il possibile per guarire, ma non fa niente ― o quanto meno non agisce con un impegno analogo ― per sedare il dolore.
Non vorrei che questa osservazione fosse interpretata come un atto di accusa contro i medici per aver deformato la concezione della medicina: mentre in passato era sufficientemente bilanciata fra il dovere di guarire e il dovere di lenire il dolore, oggi è invece tutta polarizzata sul dovere unico di guarire, di prolungare la vita, di tentare tutto il possibile per aggiungere qualche giorno o qualche ora all’esistenza del morente. Questo atteggiamento dei medici è un problema culturale, in quanto sta a significare che tale offerta deriva da una specifica domanda.
La richiesta alla medicina di fare sempre di più per guarire, per prolungare la vita e, in ultima analisi, per assicurare l’immortalità, proviene dagli uomini e dalle donne del nostro tempo. Noi non accettiamo più di morire; abbiamo rimosso la cultura della morte intesa come un momento della nostra vita, caricando la medicina delle nostre attese di immortalità. Chiediamo oggi alla medicina quello che una volta si chiedeva alla religione, quasi che la medicina sia diventata la nostra "religione laica", e i medici e la scienza il sacerdozio di questa religione.
Perché dobbiamo rassegnarci alla morte, dal momento che non solo possiamo prolungare la vita, ma forse siamo in grado anche di raggiungere l’inversione del meccanismo di degrado che ci porta alla morte, e quindi possiamo diventare immortali? C’è una collusione profonda tra una medicina che si sente potente ― anzi onnipotente ― e una cultura che si sente immortale o che aspira all’immortalità.
Di questo incontro fatale fra una domanda e un’offerta speculari fa le spese soprattutto chi ha bisogno di una medicina diversa, quella che chiamiamo "palliativa". Si tratta di una medicina che non tiene conto solo delle malattie e si accorge anche delle sofferenze, che sa cambiare marcia ed è in grado di capire, a un certo punto, che la priorità non è più la lotta a oltranza alla patologia in atto, né il dare scacco alla morte, ma diventa l’accompagnare, favorendo il processo naturale della fine della vita nella
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maniera più indolore possibile.
L’attenzione da parte della medicina verso le priorità stabilite dalla palliazione è molto rara. Alcuni anni fa è stato tradotto in italiano un libro che ha avuto un certo successo (benché esibisse nel titolo la parola "morte", che gli editori italiani cercano di evitare, perché pensano che sia controproducente per le vendite). Il libro, scritto da un chirurgo americano che è anche storico della medicina, Erwin Nuland, si intitolava: "Come moriamo" (Mondadori, 1993).
Se il titolo fosse pensato come una domanda (Come moriamo?) la risposta di Nuland si potrebbe riassumere nella convinzione ― documentata per trecento e più pagine ― che moriamo male. Riferendosi a certe situazioni vissute personalmente, come la morte del fratello o della zia Rose per cancro, Nuland fa una impietosa autocritica riconoscendo che non ha saputo difendere quei valori che rendono "umana" la morte. Fa parte dell’autocritica ammettere che, quando prevale l’atteggiamento medico, ciò che maggiormente lo interessa è "risolvere l’indovinello", cioè capire da che cosa è originata la patologia e qual è il meccanismo biologico a cui, una volta individuate le cause, può dare scacco. Di fronte a situazioni personali e familiari in cui avrebbe dovuto cambiare marcia e registro, ha fatto invece prevalere la reazione tipica del medico, provocando anche a delle persone care delle "brutte morti", dopo afflizioni derivate da interventi chirurgici e terapeutici non necessari e con una indicibile sofferenza, ben più profonda di un dolore fisico, la sofferenza cioè della solitudine. Se è vero che il segmento finale della vita è spesso afflitto da un dolore fisico sottotrattato, corrisponde ancor più alla verità che quello che deforma maggiormente il processo del morire è la condizione di menzogna e isolamento, che rende impossibile vivere le proprie emozioni.
L’attenzione all’indovinello medico e la predominanza della medicina curativa (le cui ricerche sono tutte rivolte, per esempio, a protocolli diversi di chemioterapia che assicurino qualche mese in più di vita, senza considerare il prezzo da pagare e quale livello
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qualitativo abbia l’ulteriore scampolo di vita ottenuta) hanno fatto sì che la medicina palliativa, che dà la priorità alla cura del dolore in tutte le sue manifestazioni, sia diventata la cenerentola della sanità. La medicina ― quella seria, quella vincente, quella che trova una vasta cassa di risonanza nelle riviste e nei grandi congressi, quella che va in televisione ― non si interessa di cure palliative. Queste sono lasciate a qualche filantropo, al volontariato e alle professioni sanitarie cosiddette complementari (leggi: agli infermieri).
Vorrei esemplificare quest’ultimo accenno riferendomi a un libro recente di Harold Brodkey, scrittore americano che qualcuno riconosce come uno dei più importanti autori del nostro secolo, morto qualche anno fa di AIDS, in un ospedale di New York. Si presenta con un titolo e ancor più con un sottotitolo inquietanti: "Questo buio feroce. Storia della mia morte" (Rizzoli, 1998). Riferendosi in generale agli ospedali, visti dal suo punto di vista di malato in condizione di malattia terminale, Brodkey afferma: "Gli ospedali sono diventati un casino, non ce l’hanno fatta!". Badate, non sta parlando degli ospedali del Burundi o di qualche altra regione del sottosviluppo, ma di un ospedale di New York, e Brodkey non è un nero di Haarlem che va a finire nell’ospedale dei poveri, bensì un ricco borghese che può permettersi le cure di un importante e grande ospedale; quella di Brodkey è quindi l'analisi inquietante della crisi degli ospedali intesi come simbolo della medicina in crisi, la quale a sua volta rimanda alla crisi della nostra società nel suo insieme. Lo scrittore continua: "Il crollo della cospirazione borghese che era la cultura urbana in occidente si manifesta negli ospedali sotto forma di una decadenza totale, visibile e radicale. Tutto è approssimativo e traballante, persino la pulizia e la somministrazione delle cure. Ma forse, a causa dell’ostinata gentilezza d’animo di alcune persone, per una determinazione ad impersonare la bontà o per una sorta di assuefazione alla priorità dell’emergenza, oppure perché salvare qualcuno dalla morte ha un significato che soddisfa la loro anima, o il loro senso del ruolo che occupano nell’universo, quando stai morendo,
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arrivano a occuparsi di te le infermiere e le aiuto infermiere migliori".
È una fortuna che arrivino (quando arrivano...!). Resta il fatto che assistere i morenti è un’attività lasciata a qualcuno, forse anche con un ruolo di supplenza, un’attività secondaria che qualcuno sceglie per gentilezza d’animo.
Merita ancora una riflessione la ricerca dei motivi per i quali non vediamo il dolore, perché non lo consideriamo degno del nostro impegno prioritario, perché non facciamo tutto quello che è necessario per imbrigliare la sua presenza devastante. Già il dottor Orlando ha portato alla nostra attenzione alcuni indicatori concreti, quelli riguardanti l’uso dei farmaci oppioidi, che mi esimo dal ripetervi: essi stanno a indicare, in maniera diretta e incontrovertibile, quanto si fa in un paese per un efficace controllo del dolore. E allora ci domandiamo: perché in Italia si deve registrare una carenza così rilevante rispetto a quello che potremmo fare?
Una spiegazione è quella avanzata da Ivan Illich in Nemesi medica, circa venti anni fa. Il fatto che un’idea sia vecchia di vent’anni non vuol dire che sia superata; sentiamo il bisogno di riproporla perché nel frattempo non ce ne siamo occupati abbastanza. Ivan Illich suggerisce che l’umanità, attraverso le varie risorse della cultura, in ciò che si riferisce alla lotta al dolore non ha prodotto soltanto una risposta, ma almeno quattro. Il controllo del dolore, infatti, può essere effettuato attraverso un equilibrato sfruttamento di quattro risorse: le droghe, le parole, i miti e comportamenti, i modelli etici.
Droghe, anzitutto: pare addirittura che l’umanità abbia coltivato l’oppio prima del grano. Certamente le culture Andine e quelle Indiane hanno scoperto molto tempo prima del grano o del mais rispettivamente la coca e la marijuana.
Parole, in secondo luogo: qui siamo proprio nell’ambito della cultura, perché le parole ― quelle espressive ("ahi!") quelle comunicative ("cosa ti fa male, cosa senti, cosa provi?"), e le relative risposte, le parole che esprimono la disperazione, il dolore, l’angoscia
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di fronte alla morte e che instaurano una comunicazione verbale ― costituiscono un sistema antalgico formidabile.
Miti: intesi come spiegazione simbolica del perché c’è il dolore. Forse niente ci angoscia tanto o rende così difficile controllare il dolore quanto il fatto che esso non sia necessario e, soprattutto, sia senza significato. Ogni cultura ha prodotto i suoi miti. Noi, nel cristianesimo, ne abbiamo in grande abbondanza. Il ricorso a miti e narrazioni teologiche è riscontrabile anche in altre religioni.
Modelli etici, infine: indicano come agire e comportarsi di fronte al dolore. Anche qui dobbiamo registrare che la varietà di modelli per combattere il dolore ― da quello stoico a quello cristiano della rassegnazione ― è davvero impressionante.
In breve, abbiamo a disposizione un arsenale di possibilità con provenienze religiose, filosofiche, etiche; una lunga tradizione ci ha fornito gli aiuti più disparati per imparare a modellarci e a trovare gli esempi appropriati da copiare per un comportamento ideale in presenza del dolore. Di questo arsenale ― osservava Ivan Illich in Nemesi etica ― noi abbiamo buttato a mare tutto, puntando esclusivamente sull’utilizzazione delle droghe e di farmaci efficaci per contrastare il dolore. Ci siamo limitati, quindi, a usare soltanto la prima possibilità strategica a nostra disposizione, impoverendo così il nostro potenziale di risposte.
Dobbiamo riconoscere che questo atto di accusa è vero solo in parte e in senso generale. Se confrontiamo, infatti, i profili della cultura sanitaria dei vari paesi, ci accorgiamo che non sono tutti uguali. Considerando, ad esempio, un indicatore quale l’uso dei farmaci oppiacei, notiamo che l’Italia non è simile alla Francia, o alla Svizzera, o alla Germania, ma piuttosto alla Grecia e alla Turchia. Neppure la risorsa a cui ricorriamo ― la farmacopea ― viene utilizzata al massimo, sfruttando tutte le sue potenzialità.
Si sente dire spesso che alla base della nostra resistenza all’utilizzo dei farmaci oppiacei ci sarebbero delle ragioni ideologiche, riconducibili alla nostra cultura cattolica; si afferma che, siccome siamo molto sensibilizzati al dolore e alla necessità di soffrire, in
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Italia non si fa tutto quello che si potrebbe per il controllo del dolore. Questa però è un’argomentazione che andrebbe verificata. Per esempio, se risulta che ci sono culture cattoliche simili alla nostra, ma che danno risposte diverse, allora vuol dire che la variabile non è lo spirito proprio del cattolicesimo. Per essere concreto, voglio ricordare che la Francia ha avviato nell’ottobre ‘98 un piano triennale e ha investito milioni di franchi per iniziare un programma di cure palliative per il controllo del dolore. La Francia ― figlia primogenita della Chiesa, come anticamente era chiamata ― non è meno cattolica dell’Italia; ciò porta a escludere che la variabile da cui dipende la negligenza nei confronti delle cure palliative sia la cultura cattolica.
Sono più attendibili ragioni organizzative. Da una delle citazioni fatte prima dal Antonio Orlando emergeva che forse una ragione può essere individuata nelle complicazioni di tipo burocratico (utilizzazione di uno specifico ricettario, da andare a prendere presso l’ordine dei medici, compilazione della prescrizione in triplice copia, conservazione del ricettario esaurito per tre anni), complicazioni che inducono il medico a tirarsi d’impaccio con uno sbrigativo: "Mi spiace, non ho il ricettario, non posso quindi prescrivere i farmaci antalgici".
Ragioni culturali? Forse anche questo. Fino ad oggi la medicina palliativa, nell’ambito della cultura medica, è stata considerata come la "figlia di un dio minore", perché le cure palliative non hanno avuto l’attenzione e la considerazione che il mondo medico ha avuto per altre attività sanitarie. Tutto questo sicuramente incide. Quanti si occupano di cure palliative hanno l’impressione di essere relegati in una specie di ansa nella quale il fiume della medicina è destinato a scorrere più lento, quasi che le cure palliative non facessero parte integrante della medicina, identificata con una impresa sempre vincente nei confronti della malattia.
La medicina palliativa ― quella che considera lenire il dolore come un obiettivo di buona e grande medicina, in quanto l’analgesia fa parte dell’arte medica, insieme alla sconfitta della malattia e al prolungamento della vita ― non è un’altra medicina: è "la medicina".
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Non esistono infatti due tipi di medicina, ma uno solo. Fin dall’inizio, quando è stata fondata la Società Italiana di Cure Palliative, ci sono state all’interno della società stessa perplessità sul fatto che fosse realmente necessario introdurre il termine "medicina palliativa", quasi che giustificasse l’esistenza di due tipi di medicina in cui quella palliativa era necessariamente destinata ad assumere un ruolo gerarchicamente inferiore e subordinato rispetto a quella curativa.
La stessa introduzione del termine "palliativa" è da considerare infelice, perché nel nostro uso linguistico corrente "palliativo" ha una connotazione negativa ed è considerato come contrapposto a ciò che è efficace. Anche questo vincolo linguistico è qualcosa che ci fa partire in salita, rendendo tutto più complicato. Il nostro obiettivo è di arrivare a far valere l’idea che non esistono due medicine, quella curativa e quella palliativa, quella che si preoccupa di dare scacco alla malattia e un’altra che ha come fine il controllo del dolore e l’accompagnamento del morente. Esiste una e soltanto una medicina, nella quale la priorità di un aspetto o dell’altro dipende dalla nostra capacità di percepire l’evoluzione nel tempo di una concreta situazione clinica.
Una buona immagine di tutto ciò è quella che è stata divulgata dalla psicologia della percezione, che ci ha reso sensibili al fatto che noi, in un campo visivo, non vediamo i singoli punti, ma individuiamo le forme e i contorni, respingendo tutto il resto sullo sfondo. La percezione è organizzata come contrasto tra figura e sfondo. Se prendiamo in esame una delle immagini note come "figure ambigue", possiamo vedere in concreto come l’oggetto visivo cambia a secondo del prevalere dell’una o dell’altra configurazione ("Gestalt"). Quando vediamo l’una o l’altra delle immagini, noi non aggiungiamo niente a quello che già c’era nel disegno: il campo visivo rimane lo stesso, mentre predomina una forma che si sostituisce alla precedente (la quale diventa a sua volta sfondo).
Possiamo immaginare la medicina come un campo unico in cui la forma del curare diventa figura e il palliare finisce sullo sfondo
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In questo caso, finché prevale il processo curativo, non ci preoccupiamo eccessivamente del dolore: è decisamente più importante il curare; inoltre, una volta guariti, tendiamo a dimenticare il dolore. Ma se non siamo più in una situazione di malattia che va verso la guarigione, bensì verso la morte, allora cambia il rapporto figura-sfondo, pur rimanendo sempre inalterato il campo: la cosa principale diventa ora palliare, accompagnare, occuparsi di quello che rende dolorosa la situazione. Diventa prioritario occuparsi del dolore in tutta la sua estensione: dal dolore fisico alla sofferenza morale, che comprende la gestione delle relazioni da parte del malato e la capacità di controllare la propria situazione, di capire quello che sta avvenendo.
Quando queste due configurazioni cambiano, mutano tante cose nel tipo di medicina praticata, pur rimanendo fondamentalmente sempre la stessa medicina. Per esempio, cambia il rapporto tra una medicina che privilegia l’alta tecnologia (high tech) e una medicina che dà più importanza al contatto e al rapporto tra curante e ammalato (high touch). Quando predomina la scelta della medicina palliativa i sensi sono importantissimi: la cura passa soprattutto attraverso la vista, l’udito, il rapporto tattile con la persona. Abbiamo molti mezzi per curare: sicuramente i farmaci e il bisturi, ma anche, quando è necessario, la parola e i sensi.
Il dottor Michele Gallucci, uno dei pionieri della medicina palliativa in Italia, ha terminato un suo articolo sul ruolo dei sensi nel tramonto della vita con queste parole: "Ha detto La Rouchefoucauld che non si possono guardare direttamente né il sole né la morte, ma si può tentare di guardare la morte attraverso i sensi del morente. Vi sono almeno due strumenti: la tradizione e il mito. Nella tradizione delle artes moriendi il morente era raffigurato come spettatore della partita tra le forze del bene e del male, la morte era pubblica, il morire era un processo di cambiamento. Ogni volta che inizia una nuova partita, il morente è il giocatore confuso da regole che sembrano dettate da dei capricciosi. Ma il gioco non è a somma zero: il nostro scopo,
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come il suo, non è vincere, ma partecipare e imparare insieme a lui le regole, senza perderci nel fascino del gioco".
In un film dell’ultima stagione, "Patch Adams", film che ha suscitato molte discussioni in America, si parla di un medico che ha intenzione di introdurre anche il gioco clownesco tra i mezzi terapeutici. Quel medico, in occasione di un duro confronto con i suoi insegnanti dell’università che vogliono impedirgli di andare avanti, ritenendo la sua una medicina non buona né seria, pronuncia la seguente frase: "Se curi una malattia puoi vincere o perdere, ma, se curi una persona, vinci sempre". Ecco un altro modo per dire che il gioco con la morte non è a somma zero.
Termino con le parole del dottor Gallucci, nell’articolo citato: "Anche il mito ci aiuta a guardare la morte. Chi accompagna il morente è come Ulisse che parte per un viaggio, con un compagno smarrito, che deve esplorare il lato oscuro della vita. L’accompagnatore lo sostiene con riti di passaggio rassicuranti, ma lo scopo del viaggio è il ritorno. E non deve necessariamente essere un eroe".
Grazie.