Dolore e dolorismo

Sandro Spinsanti

Dolore e dolorismo: il cristiano è ostile al corpo?

in Quaderni di cultura

n. 1-2, 1987, pp. 9-21

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DOLORE E DOLORISMO: IL CRISTIANO È OSTILE AL CORPO?

Questo tema incide in profondità, perché l’orizzonte in cui viene posto, i confini tra la vita e la morte, e gli interrogativi che coinvolge circa il dolore e il corpo, fanno intuire che si tratta non di argomenti marginali, ma di un problema che tocca ogni persona come essere umano oltre che come credente. Un argomento così delicato suscita trepidazione, perché provoca una tendenza all’autodifesa. Si preferisce trincerarsi dietro i luoghi comuni come quelli che prolificano sulla sofferenza e questo in particolare nell’ambito cristiano. Il cardinale di Parigi Villot, nel suo letto di ospedale durante l’ultima malattia, ha lasciato detto: «Quante parole diciamo noi preti sulla sofferenza. Io stesso ne ho parlato con fervore. Dite ai preti di non parlarne. Noi non sappiamo quello che esso è». Questa specie di testamento spirituale, che viene da una persona cosi credente e convinta nella sua fede, deve scuoterci di fronte all’abitudine di valanghe di parole sul dolore nell’ambito religioso e in bocca a quanti sono deputati alla consolazione del dolore.

Sistemi di difesa dal dolore

Prendo avvio da una considerazione che ha fatto qualche anno fa Ivan Illich nel libro molto polemico e discusso contro la medicina che egli accusa di espropriare l’uomo della salute del corpo e del dolore. In quel libro Illich dedica un capitolo al dolore facendo questa osservazione: ogni cultura ha elaborato una strategia composita per vincere il dolore, che è uno

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dei problemi fondamentali di ogni essere umano. In questa strategia si possono riconoscere alcuni elementi fondamentali. Il primo è il ricorso a delle sostanze che leniscono il dolore, come sono i farmaci o i medicamenti naturali: radici, piante; o gli alcoolici e euforizzanti. In una parola tutto quello che la natura mette a disposizione per attutire la sensibilità. Un secondo elemento, che tutte le culture hanno elaborato per combattere il dolore, consiste nelle «parie», gr. lógoi, o «miti», gr. mýthoi, cioè un sistema di spiegazione del dolore, che tenta di rispondere agli interrogativi: perché c’è il dolore? da dove deriva? qual è la sua finalità? In breve si tratta della ricerca di senso in relazione ad un sistema di spiegazioni razionali, religiose o mitiche. Per combattere il dolore si cerca di dargli un senso. Un terzo elemento costante in ogni cultura di fronte al dolore è l’elaborazione di un’etica, cioè di un modello di comportamento nel fatto o situazione dolorosa. Si inculcano dei modelli, si dice che cosa dare quando sopravviene il dolore. Infine un quarto elemento consiste nel proporre dei modelli esistenziali. Si tratta di esempi o figure paradigmatiche come il Cristo sofferente o la croce. Anche nel buddismo si propone la figura di Budda come modello di contemplazione per superare il dolore e conseguire il nirvana. Anche l’ideale stoico è un modello esistenziale per superare il dolore.

Dunque tutte le culture combattono il dolore con una strategia che comprende diversi elementi. La cultura attuale tecnologica, industriale avanzata, afferma Illich nell’opera succitata, ha buttato a mare tutto il resto per privilegiare soltanto il primo elemento: la risposta farmacologica al dolore. Esiste una farmocopea che fa impallidire tutto quello che le altre culture hanno inventato. Eppure oggi si è più incapaci ed inadeguati rispetto al passato e ad altre culture di fronte al dolore. C’è infatti una fobia del dolore con un abbassamento della soglia di tolleranza tale che basta il minimo disagio fisico o psichico per andare alla ricerca del farmaco, creando una catena di dipendenza e conseguente assuefazione, per cui sono necessari farmaci sempre più efficaci e spesso distruttivi della personalità. Nella fase terminale della malattia si crea una situazione disumana, dove l’unica risposta al dolore è la somministrazione

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a dosi sempre più gravi di farmaci che ottundono la coscienza e fanno sprofondare nell’incoscienza.

Tale ricorso massiccio all’unica risorsa dei farmaci ha provocato quella situazione che si chiama distanasia, che a sua volta fa invocare da parte di alcuni una eutanasia. Qui non si tratta di dare un giudizio etico sull’eutanasia, ma di valutare il problema che sta dietro: quello di una morte disumana, angosciosa, stordita e senza dignità. E questo avviene mentre si ha a disposizione una quantità di farmaci per combattere il dolore. Esso penetra in tutte le vene e i pori di una persona allo stato terminale travolgendone la capacità naturale di vivere il trapasso in modo sereno e umano.

La cultura attuale non vuole sapere altro che ricorrere a farmaci sempre più potenti ed efficaci. Essa non vuole sapere più di «parole», di «modelli etici» o «esistenziali». Dietro a questo rifiuto delle parole, dei miti, delle dottrine morali e dei comportamenti, c’è un motivo. Nell’ambito della cultura cristiana dietro il rifiuto suddetto c’è una protesta contro quello che è stato trasmesso dalle generazioni precedenti. C’è una protesta contro le spiegazioni che sono state date del dolore, contro i modelli proposti e l’etica corrispondente. Quando il papa Giovanni Paolo II è andato a Lourdes, tra le accoglienze di entusiasmo consuete ha ricevuto una rappresentante di un gruppo di ammalati, la quale ha detto: «Noi persone malate, più che essere aiutate dalle parole cristiane vi troviamo spesso ragione di inasprirci e rivoltarci, quando si dice che Dio prova coloro che ama; noi sappiamo che è falso. Noi ripetiamo volentieri con Giobbe: “Cessa di tormentarmi, di schiacciarmi con i tuoi discorsi”». Questo «cessa di tormentarmi» è rivolto alla chiesa. Forse dietro il rifiuto della cultura moderna dei discorsi consolatori rivolti ai malati c’è quello che la rappresentante dei malati ha detto al papa a Lourdes.

La protesta di Giobbe

La protesta o rifiuto dei discorsi consolatori si rifà al

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Giobbe biblico, illustre predecessore dei ribelli moderni. Anche Giobbe ha protestato contro gli amici che gli parlavano di Dio nella sua situazione di dolore. Quando Giobbe è colpito dalla serie di dolori e disgrazie che gli tolgono ogni ragione di vivere, i tre amici-teologici vengono a consolarlo. Dapprima i tre amici, di fronte all’immensità del dolore di Giobbe, tacciono per sette giorni e sette notti. E un buon inizio. Ma ad un certo punto incominciano a parlare. E con i loro discorsi schiacciano e tormentano il povero Giobbe. Essi cercano di inculcare a Giobbe la verità «teologica» che risponde a questo schema: noi sappiamo che Dio è giusto, ed essendo giusto premia i buoni e castiga i cattivi; ora tu sei castigato, quindi devi essere cattivo. Un tale discorso teologicamente sembra corretto. Giobbe con tutte le forze che gli restano cerca di smontare questa argomentazione teologica. Il dialogo si arena perché i tre amici-teologi per accettare le ragioni di Giobbe devono rinunciare alla propria immagine di Dio. E tutto possono fare, ma non ripudiare la propria teologia. Giobbe a sua volta, se vuole salvare Dio, deve riconoscere la propria colpevolezza. Ed egli è disposto a tutto, ma non a riconoscersi colpevole. Giobbe si sente schiacciato dalla teologia degli amici perché essa cerca di colpevolizzarlo, di fargli prendere su sé la responsabilità del suo male. Solo quando si dichiarerà peccatore arriverà il perdono di Dio e forse anche la guarigione.

Deve passare del tempo perché tale teologia scompaia dalla tradizione giudaico-cristiana. Ci vorrà il no di Gesù a questo tipo di teologia. Il malato non è peccatore, non un punito o colpito da Dio. I discepoli di Gesù di fronte al cieco nato chiedono: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori per essere nato cieco?» (Gv 9,2). Ci deve essere qualche peccato, perché altrimenti si deve far risalire la responsabilità del male a Dio.

Se c’è un male fisico, un bambino nasce cieco, ci deve essere una causa: lui ha peccato nel seno dei genitori, oppure essi hanno peccato. Chi ha peccato? È esattamente la stessa problematica degli amici di Giobbe. Per salvare Dio si deve cercare una colpa negli uomini per poter dare un senso a dolore. «Né lui ha peccato, né i suoi genitori» (Gv 9,3). Gesù invita a cercare la risposta in un altra direzione: non da dove viene il

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dolore-male, ma che finalità esso ha. «Esso così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3). Le opere di Dio si manifestano nella guarigione del cieco. Gesù dichiara fuori posto la questione sul «perché», non l’accetta, ma indica la prospettiva della finalità: «affinché». Questo è un punto fermo della fede cristiana, anche se nella chiesa o tradizione comune ha continuato ad allignare la colpevolizzazione del malato che si esprime nella domanda: che cosa ho fatto a Dio per essere punito? Nella parola di Gesù è risolto il dilemma posta dagli amici di Giobbe.

Ambivalenza del dolore

In che senso la chiesa schiaccia e tormenta con i discorsi i malati? Non nel senso che oggi si riproponga la teologia degli amici di Giobbe. Le parole rivolte al malato schiacciano e tormentano in un altro modo, per mezzo della dottrina che è stata elaborata sulla sofferenza, in cui si pone l’accento in modo unilaterale sulla sopportazione, sull’amore della sofferenza. Al cristiano malato si chiede che accetti o sopporti la sofferenza o che offra il dolore per la salvezza del mondo; che collabori con il suo dolore alla redenzione di Cristo. Queste sono le parole dette o presupposte quando si parla di «sopportazione cristiana» del dolore o della sofferenza. Ebbene questo è sentito come tormentoso e opprimente. Esso è vissuto come un senso di colpa molto più sottile di quello di Giobbe o del cieco nato. Le persone non sono colpevolizzate in modo diretto e brutale: «È colpa tua, hai quello che ti meriti!». C’è un senso di colpa già diffuso e subdolo. Si fa sentire in certo modo che non sei un buon cristiano perché non ami la sofferenza. In altre parole si fa capire che se «fossi un buon cristiano sarei ilare nella sofferenza, andrei a cercare la sofferenza, sarei un volontario della sofferenza». Queste parole «cristiane» fanno parte del repertorio del linguaggio delle persone adibite all’annuncio cristiano spesso senza riflettere.

Ma questo repertorio di consolazione dei malati o sofferenti

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ha una funzione protettiva per quelle persone che lo usano. E duro stare «sette giorni e sette notti» in silenzio accanto a chi soffre. È più facile interporre tra il sofferente e il testimone in crisi un muro di parole, soprattutto se fatto di parole consolatorie già collaudate e consacrate dalla tradizione. Le parole stereotipe sul dolore che purifica, che redime gli altri, è come una griglia per non guardarlo in faccia in silenzio. È difficile affrontare un malato senza avere già le risposte ai suoi interrogativi che mettono in crisi la propria sicurezza. È duro riconoscere che non si sa perché si soffre e che a cosa serve il dolore.

L’evangelo e la corporeità

D’altra parte le parole di consolazione derivano più da una tradizione devota che dalla fede evangelica. Infatti nel vangelo quelle parole non si trovano. Il vangelo non parla mai di rassegnarsi o accettare o amare la sofferenza. Gesù nella sua prassi storica sta dalla parte dell’uomo che soffre per liberarlo o guarirlo. Gesù si accosta ai malati non per far guadagnare il paradiso con le sofferenze, ma per riportarli all’esistenza terrena normale, dove possono incontrare Dio. Per cogliere questa dimensione del vangelo si deve operare un capovolgimento mentale, perché si è abituati a leggerlo con occhi «devoti». In un libro di un rabbino che si è accostato alla religione cristiana per curiosità ed ha letto il vangelo si dichiara: «Sono rimasto stupito nella lettura del vangelo, perché non ho trovato nulla di quella atmosfera devota che è propria dei cristiani. Mi sono accorto che nel vangelo si parla essenzialmente di due cose: mangiare e guarire». A parte la dose di provocazione in questa dichiarazione, si deve accettarla come un invito a guardare in modo nuovo al vangelo, dove sono affrontati i problemi sostanziali del corpo.

Il vangelo è pieno di episodi in cui al centro è il «mangiare», da Cana all’ultima cena, dai pasti sui prati, ai pranzi in casa dei pubblicani e dei farisei. Altrettanto si dica del «guarire».

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Non si possono togliere gli eventi di guarigione dal vangelo, perché esso si ridurrebbe a una dimensione così povera da rendere impossibile la comprensione di Gesù nella sua realtà storica. Quanto coinvolgimento e preoccupazione per il corpo, la salute, per il benessere si notano nel vangelo. Invece quante poche le parole devote e consolatorie. Sono pressoché assenti le esortazioni moralistiche a sopportare il male. Gesù invece dice: «Alzati cammina! Sii guarito dal tuo male! Va’ in pace; mangiate, bevete!».

Uno dei motivi reconditi del rifiuto delle parole cristiane e forse dei comportamenti cristiani di fronte al dolore sta forse proprio in una protesta contro il dolorismo di stampo cristiano o contro il devozionalismo delle parole facili o dei comportamenti imposti. Il cristianesimo è ostile o no al corpo? Ecco la domanda iniziale, ripresa dopo il percorso sul linguaggio sul dolore e la sofferenza. Dietro le parole consolatorie o doloristiche c’è un atteggiamento ostile o no al corpo? In molte religioni c’è una ostilità verso il corpo. Il cristianesimo è connivente con l’ostilità religiosa verso il corpo?

È difficile o quasi impossibile dare una risposta univoca a questa domanda per una semplice ragione. Il cristianesimo è una realtà così complessa e differenziata che si è sviluppata per duemila anni in forme poliedriche per cui si possono trovare argomenti sia per una tesi che per l’altra. Si possono trovare argomenti per dire che il cristianesimo è ostile al corpo. Basti pensare a quanta letteratura ascetica ha privilegiato l’anima, e si è dilettata nella umiliazione del corpo, trattato come una cosa orrenda e schifosa. Quanto orrore per la vita terrena è stato indotto con le prediche quaresimali sul corpo. Basti pensare alle prediche davanti alle bare aperte per fare vedere che cosa immonda o corruttibile fosse il corpo umano. Quante esaltazioni di ciò che umilia il corpo, comprese le malattie. Quante pratiche punitive del corpo nella vita religiosa ascetica. Quanta fobia per il corpo e in particolare per la sessualità, una delle espressioni principali del corpo. Si può trovare al riguardo una documentazione a non finire sul cristianesimo vissuto.

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Ma chi vuole può trovare altrettanti argomenti sull’altro versante: quello della accettazione e cura del corpo. Fin dalle sue origini il cristianesimo è «corposo». Basti pensare all’annuncio evangelico che riserva un posto di primo piano al corpo umano. La fede cristiana dei primi discepoli non è un atto della mente, ma dei «piedi». I discepoli di Gesù sono quelli che gli vanno dietro, lo seguono: lasciare tutto e mettersi al suo seguito, camminare con lui. La speranza cristiana non è una vaga virtù dell’anima, ma qualche cosa di concreto. Vuol dire lasciare la barca con le reti e andare dietro al Rabbi di Nazareth che non si sa che cosa promette, salvo che non ha nemmeno un posto dove riparare. L’amore non è un vago sentimento, ma consiste nel lavarsi i piedi gli uni agli altri come Gesù ha fatto ai suoi discepoli. La chiesa o comunità dei credenti si manifesta nei gesti concreti: aprire le porte di casa, ricevere a tavola, dare ospitalità. Anche nelle elaborazioni dottrinali successive la fede cristiana mantiene la sua corposità. Il primo nemico del cristianesimo è stato il dualismo. Lo sforzo della prima chiesa è stato quello di tenere unite la creazione e la redenzione, la fede nel Dio che crea e nel Dio che salva. Il mondo è accolto come buono, perché il peccato non ha guastato la creazione. La stessa «corposità» si riscontra nella pratica del cristianesimo. La fede si celebra nei sacramenti, che sono il linguaggio del corpo: lavare, mangiare, ungere, amarsi anche sessualmente. Questo è l’elemento materiale e corporeo dei sacramenti. E ancora quale rispetto per il corpo morto. È il cristianesimo che ha portato un rispetto tale per il corpo dei santi morti, fino a venerarne i resti, le «reliquie», pezzi di corpo. Dal punto di vista dottrinale ha un bel coraggio a conservare in un mondo intellettualistico la dottrina così scandalosa della risurrezione dei corpi. Paolo davanti al consiglio dell’Areòpago ha costatata la refrattarietà della cultura antropologica ellenistica (At 17,31-32). Era più affascinante la teoria così razionale della immortalità dell’anima che consentì a Socrate di affrontare serenamente la morte. Eppure la fede cristiana ha continuato ad affermare non l’immortalità dell’anima, ma la risurrezione dei corpi.

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Riappropriarsi del corpo

Il cristianesimo è ostile o favorevole al corpo? Si può scegliere. Non interessa dirimere questo dilemma. Quello che conta è capire ciò che si deve fare come cristiani di fronte al dolore e alla sofferenza. Oggi si assiste ad un fenomeno emergente macroscopico. Si tratta di una riscoperta del corpo. Esso è uno dei cardini, un punto di riferimento per elaborare i valori della cultura attuale. Sembra che per la prima volta si riscopra il corpo. C’è la tendenza a celebrare il culto del corpo. Forse questo è l’unico vero culto ecumenico esistente al di là delle ideologie. Tutti sono pronti a venerare sua maestà il «corpo». È un fenomeno molto ambiguo. C’è una forma di culto neopagano del corpo, non in senso dispregiativo, ma nel senso del paganesimo deteriore. Si avverte quasi un’infatuazione come di chi ritorna alle esperienze ingenue dell’estetismo corporeo. È un fenomeno ambiguo perché il culto del corpo nasconde una ostilità strisciante. Mentre si fa ostentazione del corpo nudo, trionfante e smagliante, si maschera una svalutazione sottile del corpo stesso concreto e reale. Non si accetta il corpo così com’è. Il corpo celebrato nella pubblicità è sempre un corpo confezionato, non quello reale; si presenta sempre il corpo giovane, bello, sexy, pulito, deodorato. Il corpo è accettabile solo dopo che è passato attraverso una profonda pulizia, è stato riplasmato dalle varie arti e pratiche ginniche o sportive. La persona è di fatto espropriata del «suo» corpo. Perché il culto apparente del corpo nasconde una ostilità profonda verso il corpo come dono di Dio. La società e cultura attuali mentre presentano il corpo, educano nello stesso tempo a consumare quei prodotti che possono modificarlo perché sia presentabile agli altri e a se stessi.

Che cosa può fare il cristianesimo in questo contesto? Una crociata rispolverando l’armamentario tradizionale della corruttibilità del corpo, dei suoi pericoli per l’anima? Come essere presenti in modo creativo e critico? Come essere persone riconciliate con il proprio corpo per incontrare in esso dentro la vita di Dio? come celebrare in questo corpo l’alleanza con Dio? La risposta dei cristiani deve essere una risposta

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operativa, perché a livello dottrinale c’è già tutto nel vangelo. Più che di puntualizzazioni morali o di documenti etici c’è necessità di educare i cristiani a stare «bene» nel loro corpo. Questo è il primo contributo critico ad una società che presenta un corpo illusorio ed ne espropria le persone con un culto fasullo.

Come si colloca il dolore in questa prospettiva? Il cristiano è contro il dolore. Ma questa opposizione è congiunta con lo sforzo per essere presenti al proprio corpo in tutti i momenti dalla nascita alla morte, in tutte le vicende, da quelle più terrene a quelle più spirituali. Là si incontrerà certamente

dolore, perché esso è l’ombra che accompagna la vita.

Dibattito

Domande

― «Che cosa pensare del dolore come sintomo del male, e quindi difesa di fronte al male, alla malattia?».

― «Che rapporto esiste tra la sofferenza e il peccato? Ha essa una funzione espiatrice?».

― «Il dolore ha un valore salvifico in una prospettiva cristiana?».

― «Il dolore può avere un valore positivo per la persona umana?».

― «Il dolore fa parte della integrità della vita. Si affronta il dolore nello stesso modo con cui si affronta la vita quotidiana».

― «Il dolore come il piacere sono ambivalenti: dipende dalla risposta data dalla persona per avere un esito positivo o negativo».

Risposte

Le domande sono una conferma dell’affermazione iniziale: parlare del dolore, del corpo vuol dire affrontare dei problemi che toccano personalmente e intimamente. Ho fatto delle

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omissioni o restrizioni nella relazione, che ora ricupero grazie alle domande proposte.

Una parzialità della relazione consiste nell’aver dissociato il dolore dalla malattia. Il «dolore» è troppo generico. Il primo intervento mi fa collegare il dolore con la malattia. Non si dà significato al dolore perché non si dà significato alla malattia. Esiste una forma di censura molto grave che consiste nel non voler vedere un ambito dell’esistenza, precisamente quello della malattia. Essa è un evento che ha un significato. L’ottica della medicina positivista-scientifica considera la malattia come uno spiacevole incidente che va rimosso. È un sintomo che va tolto perché si possa ritornare in salute. I sintomi dolorosi si devono eliminare per essere in salute. La malattia in tale contesto culturale non ha senso.

Questa è una delle distorsioni più gravi che si possano fare. E una delle omissioni che si pagano a caro prezzo. Si è incapaci di capire il nostro corpo quando sta male. Se il dolore-sofferenza è il sintomo di un pericolo o di una minaccia all’integrità fisica, non si riduce solo a questa funzione di allarme. C’è un significato più profondo in cui la malattia non è soltanto qualche cosa che capita, ma qualche cosa che la persona vive. Attraverso la malattia il corpo parla e la persona si esprime e tenta di guarire in senso profondo. Con la malattia la persona dà una risposta alla situazione biografica in cui si trova. Dunque la malattia ha un senso per l’uomo. Non è solo qualche cosa che viene dall’esterno come può sembrare in un linguaggio oggettivante: «il cuore sta male». La malattia non è un incidente meccanico che deve essere curato dall’esperto come la macchina in officina. La tendenza è quella di trattare il malato come «paziente» passivo a cui non si parla.

In tale impoverimento antropologico diventa impossibile fare un discorso religioso. Quando la malattia è oggettivata, sottratta alla persona è impossibile fare un riferimento serio al rapporto della persona malata con Dio. Gesù, anche quando contesta il rapporto peccato-malattia, non toglie con questo uno spessore anche religioso al malato. La malattia rimane un segno della condizione umana: di peccato, di allontanamento da Dio, e quindi di redenzione e salvezza. Nella croce di Cristo

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ci sono questi due elementi di dolore-morte, di risurrezione-vita. Ma solo se la malattia mantiene la sua dimensione personalistica e antropologica, contro le riduzioni oggettivanti, è possibile viverla anche davanti a Dio. Altrimenti si cade nel linguaggio moralistico e devoto che non fa appello alla persona come capacità ristrutturante.

Nella storia cristiana ci sono stati diversi tentativi di spiegare il dolore e la sofferenza. Uno è quello di parlare della salvezza attraverso il dolore come «espiazione». Un altro è quello di farlo derivare da una causa, dal «peccato» originale o altro. Ognuno di questi tentativi ha una sua validità in quanto serve a dare un senso a questo evento che turba in profondità la persona umana. Non esiste una sola spiegazione anche all’interno degli scritti del Nuovo Testamento per esprimere il processo salvifico. Il modello espiativo è uno tra gli altri. Tutti i modelli hanno una validità storica, anche perché presuppongono che la malattia e il dolore hanno un significato. Personalmente non mi sento impegnato a sottoscrivere un modello unico come per esempio quello che fa appello ad una soteriologia di tipo «giuridico» o «espiativo».

Ma in un mondo in cui si è persa la significatività della malattia e del dolore non ha senso ripetere schemi e modelli interpretativi incomprensibili. A chi va dal medico semplice- mente per farsi liberare da una malattia-fastidio e non si interroga sul significato del suo male, non servono discorsi sul senso del dolore.

Dolore e malattia hanno un significato per la crescita personale? In una concezione medicalizzata malattia e dolore sono solo incidenti di percorso da rimuovere appena possibile per ritornare nella vita sana che è per lo più equivalente di vita alienata: quella in cui si è il meno possibile a contatto con se stessi, impegnati nel lavoro o nelle cose. La malattia e il dolore per l’uomo attuale sono spiacevoli perché rischiano di riportarlo a se stesso. Nella storia dei santi e di altri personaggi una pausa imposta dalla malattia o dal dolore hanno avuto un ruolo nell’approfondimento della vita come nuovo orientamento. In tale ottica malattia e dolore possono essere terapeutici

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in quanto guariscono in profondità dall’alienazione banalizzante.

Anche S. Freud afferma che molte nevrosi non hanno bisogno di essere curate mediante la psicoterapia. Si guariscono spesso, dice Freud, attraverso un grande amore o un grande dolore. I grandi amori colmano i buchi lasciati nel tessuto emotivo dall’infanzia, dalle situazioni traumatiche non risolte. Ma anche i grandi dolori possono avere questo significato e ruolo terapeutico. Molte esistenze orientate spiritualmente possono partire da una rottura della vita banale. Ignazio di Loyola è un esempio di questo nuovo orientamento. L’immobilità o l’handicap, la rottura di una carriera, l’approssimarsi della vecchiaia possono diventare situazioni critiche in cui si inverte la rotta e inizia un cammino in profondità. In questo senso malattia e dolore possono diventare eventi salvifici. Ma questo è possibile solo se malattia e dolore non sono considerati con occhi medicalizzati, dove lo spessore umano e spirituale sono stati completamente aboliti.

Voglio concludere con questo pensiero di Gandhi: quando noi stiamo male, vuol dire che noi abbiamo avvelenato il nostro corpo ed esso ci avverte che abbiamo sbagliato strada. Non è questa una situazione da cancellare con le medicine, ma una situazione da interrogare in profondità: quale veleno abbiamo introdotto nella nostra vita? Se la malattia non pone questo interrogativo, tutte le cose che si possono dire anche in chiave religiosa non sfiorano minimamente l’essere umano malato.