- Parlare o tacere?
- La terapia del dolore: orientamenti bioetici
- Il diritto di non soffrire
- L'aspetto culturale del dolore
- Terapia del dolore ed etica della sofferenza
- Il dolore non necessario
- Dolore e sofferenza nel malato di cancro
- Sofferenza
- Terapia del dolore e problematiche etiche
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- La terapia del dolore: le leggi, l'etica e la cultura
- La lotta al dolore: un orizzonte possibile?
- Ma è solo il dolore che può uccidere la voglia di vivere
- Per un rinnovamento dell'etica cristiana della malattia
- Sofferenza
- Psicoterapie e pastorale
- I compagni scomodi dell'uomo-massa
- Unzione degli infermi
- Malattia e morte nel popolo delle beatitudini
- Umanizzare la malattia e la morte
- Una medicina etica per un malato moderno
- Antropologia cristiana per un'etica della salute
- Fede e malattia
- L'équipe pastorale nel consultorio matrimoniale
- I malati in mezzo a noi
Sandro Spinsanti
SOFFERENZA
in Dizionario di pastorale giovanile
Editrice Elle DI CI, Torino 1989
pp. 888-895
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1. Condizione giovanile e sofferenza
2. Lettura teologica della sofferenza
2.1. La spiegazione «classica»
2.2. Approfondimenti attuali dell’approccio teologico-etico
2.3. L’approccio biblico
2.3.1.Sofferenza-impurità
2.3.2.Sofferenza-peccato
2.3.3.Sofferenza-soteria
3. Per una pedagogia della sofferenza
3.1. Le situazioni di apprendimento
3.1.1.Il cammino della salute
3.1.2.Le separazioni
3.2. La sofferenza, educazione all’umano
1. Condizione giovanile e sofferenza
Non basta il dolore perché ci sia sofferenza. Il dolore fisico costituisce una sofferenza solo quando è integrato a una cultura. Questa fornisce modelli per interpretarlo (religiosi o filosofici; teorie sulla sua origine, sulla sua finalità e sul suo statuto morale), modalità etiche di affrontarlo (virtù o atteggiamenti da coltivare; simboli, miti e ideali: il Cristo in croce, la liberazione buddista o l’apatia stoica), sussidi per controllarlo (dalla morfina alle tecniche ipnotiche, dallo psicofarmaco alla mano sulla fronte...). Qualsiasi discorso che voglia tener conto della situazione attuale deve partire dal presupposto che la civiltà tecnologica contemporanea è dominata dall’algofobia.
Nella nostra società domina il mito della libertà dalla sofferenza. Al dolore non viene attribuito alcun significato positivo: è semplicemente un assurdo che deve essere eliminato. La soppressione del dolore è diventata un’impresa esclusivamente medica. Filosofia e religione sono state spossessate dalla medicina del loro rapporto privilegiato con la
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sofferenza umana. Lottare contro il dolore è una priorità assoluta, indipendente dalla comprensione di esso: nessuna riflessione sul fenomeno, ma solo ricerca e messa in opera di mezzi per farlo retrocedere. Questo compito, attribuito per definizione al medico, si è esteso progressivamente anche alle forme di sofferenza non legate al dolore fisico. Anche la sofferenza esistenziale — che accompagna come un’ombra tutto il percorso della vita umana — è stata patologizzata e medicalizzata. Il consumo crescente di psicofarmaci, che agiscono sull’umore e modificano gli stati d’animo, illustra drammaticamente l’avanzata del fronte dell’algofobia.
All’interno della nostra società la condizione giovanile si caratterizza per certi tratti peculiari nei confronti della sofferenza. Una duplice azione sembra tener lontani i giovani dalla sofferenza. Da una parte c’è l’esplosione naturale di vitalità libidica, propria degli anni dello sviluppo, rafforzata dal narcisismo spontaneo. Una simile costellazione psicologica fa ritenere al giovane di essere al riparo dalla sofferenza: questa può toccare agli altri, non a lui! (È lo stesso meccanismo che rende così difficile convincere molti giovani di oggi a prendere le misure profilattiche che impediscono di contagiarsi con il virus dell’AIDS: il narcisismo li fa ritenere immuni). Dall’esterno, invece, agisce sul giovane l’immaginario sociale. Questo si serve del mito della giovinezza come condizione di completo benessere, per abbinarlo a prodotti da vendere. Il giovane presentato dalla mitologia della società industriale avanzata non è mai minacciato nella salute corporea, handicappato, insicuro, afflitto; deve solo godere i beni, abbondanti e inesauribili, che lo circondano.
L’azione congiunta del meccanismo interiore e dell'immaginario sociale non costituisce, in realtà, uno scudo protettivo dalla sofferenza; bensì una congiura ai danni del giovane. La presunta invulnerabilità si tramuta in una maggiore fragilità. Quando eventi particolari e inevitabili lo mettono in contatto con la sofferenza, ciò acquista le dimensioni di un cataclisma interiore. Il frequente ricorso a stupefacenti o a droghe che alterano momentaneamente lo stato della coscienza dipende spesso dalla volontà di evitare il contatto con la sofferenza, che il giovane non è preparato ad affrontare.
Un altro pesante prezzo che si paga all’algofobia generale, rafforzata per ciò che concerne la condizione giovanile, è la riduzione della capacità di amore. Il trattamento repressivo della sofferenza rende apatici al dolore altrui. Dal momento che la capacità di soffrire e quella di amare vanno insieme, chi non sa affrontare la sofferenza non sa neppure amare. Su questa tela di fondo generale costituita dalla condizione giovanile nella società contemporanea, consideriamo l’azione pastorale come finalizzata a un duplice obiettivo: aiutare il giovane a leggere un significato nella sofferenza e accompagnarlo pedagogicamente ad assumere nei suoi confronti un atteggiamento che favorisca la crescita etica e spirituale.
2. Lettura teologica della sofferenza
La sofferenza provoca scandalo. Qualsiasi sofferenza: non solo quelle estreme ed eccezionali (le ecatombi della guerra, la tortura nei regimi dittatoriali o i bambini che muoiono di fame nei paesi sottosviluppati), ma anche quelle che subisce il Giobbe «uomo normale», nella persona di colui che si sente prigioniero di relazioni familiari infelici, del giovane che non trova lavoro o di chi è minacciato nella salute.
Il dolore viene sentito come un’intrusione indebita nel proprio progetto di vita e suscita una protesta. In colui che non è murato nel proprio egocentrismo, tutte le varie forme di partecipazione al dolore altrui scatenano lo stesso scandalo. La facoltà umana di provare in se stesso il dolore degli altri è l’empatia. Questa può avere una dimensione così ampia da includere non solo gli esseri umani, ma anche gli animali. La sofferenza — per definizione «innocente» — di un animale può essere per un animo sensibile la via di accesso alle questioni fondamentali legate alla presenza del male nel mondo. Non di rado lo è, proprio tra i giovani, forse poco esperti di dolore personale, ma dotati di capacità empatiche più universali.
Per qualunque via si affacci alla coscienza, lo scandalo della sofferenza mette in movimento due tipi di questioni: quella metafisica (qual è la causa della sofferenza? In che rapporto stanno dolore e colpa?) e quella etica (quale atteggiamento bisogna assumere di fronte alla sofferenza?). Buona parte del pensiero
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filosofico e religioso, tanto in Oriente quanto in Occidente, costituisce una risposta a tali domande fondamentali.
Le risposte teologiche sistematiche rischiano di essere deludenti quanto le diverse teodicee: le une e le altre non sono in grado di risolvere l’enigma della sofferenza, così come si pone a livello esistenziale. Allo scandalo che la sofferenza suscita di per sé, può aggiungersi quello costituito da risposte che si presentano con la pretesa della certezza, mentre invece trasmettono, come tutte le ideologie, solo un sapere insoddisfacente, destinato più a togliere di mezzo le domande, che a fornire risposte utilizzabili nella vita. Per coloro che si affacciano a questi problemi nell’ambito della civiltà occidentale, la risposta che ha più probabilità di provocare scandalo è la spiegazione «classica» del senso della sofferenza, quella cioè sistematizzata nella teologia di sant’Agostino e di san Tommaso d’Aquino.
2.1. La spiegazione «classica»
Secondo tale teologia — o, più esattamente, secondo la versione «vulgata» della medesima — la sofferenza è punizione. Attraverso il male morale del peccato originale, si sono riversati sull'umanità i mali fisici: il dolore, la malattia e la morte (cf Tommaso d’Aquino, De malo, q. 1, a. 4; q. 5, a. 4; S. Th. I/II q. 85, a. 5; Agostino, De libero arbitrio, lib. I, cap. I; De civitate Dei, lib. XVI, cap. 15).
Alla questione dell’ineguale, e spesso ingiusta, distribuzione della sofferenza tra gli uomini, con la conseguenza che i più innocenti soffrono di più, la stessa teologia è solita rispondere che Dio, come medico e pedagogo, usa la sofferenza come medicina per preservare dai peccati futuri, per purificare e accrescere le virtù (Tommaso d’Aquino, De malo, q. 5, a. 4; S. Th II/II, q. 108, a.4). Poiché la sofferenza è una punizione medicinale, l’uomo deve affrontarla con pazienza e umiltà. Il dolore è per il suo bene. Di più: poiché Dio ha voluto operare la nostra redenzione attraverso la passione e la morte di Gesù, la sofferenza è diventata la via della salvezza voluta da Dio. Come Gesù, il cristiano deve portare la sua croce; in tal modo imita Cristo e percorrendo questo «cammino regale» perviene alla gloria eterna (cf Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, lib. capp. 11 e 12).
Qualunque sia il valore intrinseco di questo coerente sistema teologico-etico elaborato per rispondere allo scandalo della sofferenza, esso rischia di essere completamente irrilevante per l’uomo d’oggi. In particolare per il giovane. Lungi dal risolvere l’enigma della sofferenza, può costituire uno scandalo supplementare. L’inadeguatezza della risposta teologica classica non dipende da un difetto intrinseco: è la precomprensione antropologica che oggi è diversa, e fa ritenere ingenua e inattendibile la teologia della sofferenza come punizione e medicina. Di conseguenza, sulla proposta etica dell’accettazione rassegnata della sofferenza cade la condanna svalutante di promuovere un «dolorismo» che confina con la morbosità masochistica.
2.2. Approfondimenti attuali dell’approccio teologico-etico
Un approccio teologico-etico del problema del dolore che voglia coinvolgere l’uomo contemporaneo deve tener presenti le caratteristiche della nostra cultura. All’analisi classica della sofferenza umana questa ha apportato, infatti, un approfondimento e una duplice direzione: quella sociale e quella relativa ai livelli della coscienza. Siamo diventati più consapevoli della dimensione sociale della sofferenza; anzi, la patologia di origine sociale ha preso il primo posto nella discussione sulle forme della sofferenza e sui rimedi da apportarvi. La distribuzione del potere, i meccanismi di sfruttamento e di emarginazione ci appaiono oggi come le forme maggiori della fenomenologia della sofferenza. Sull’altro versante, dobbiamo alla psicologia del profondo una diversa percezione del coinvolgimento personale nella sofferenza stessa. Accanto al dolore che possiamo classificare «normale», in quanto connesso intrinsecamente e necessariamente con l’esistenza umana, emerge un vasto continente di dolore «nevrotico». Sofferenza smisurata, incapacità di gioire e di creare legami di amore, angosce disperate e aggressioni distruttrici, delusione e scontentezza costituiscono l’esistenza del nevrotico, in un processo senza fine che si rinforza lungo il cammino. Di tutta questa sofferenza non necessaria è la persona nevrotica stessa, inconsciamente, responsabile. Il nevrotico è il peggior nemico di se stesso. Anche da questo punto di vista la cultura moderna mira non a una spiegazione
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astorica che favorisca un’accettazione della sofferenza, bensì a un cambiamento della situazione, mettendo in atto ciò che può eliminare il dolore evitabile.
2.3. L’approccio biblico
Il maggior spessore antropologico dell’interrogazione attuale sulla sofferenza è un incentivo a preferire il confronto con l’ampio spettro delle risposte bibliche al problema, piuttosto che un sistema teologico chiuso.
2.3.1. Sofferenza-impurità
Nella tradizione ebraico-cristiana troviamo una pluralità di schemi per rispondere in modo teorico e pratico alle sfide della sofferenza. Il più antico, che possiamo collegare con la religiosità di tipo «sacerdotale», è lo schema puro/impuro. Se prendiamo come esemplare la condizione del malato, la risposta è la segregazione dalla comunità, in particolare da quella cultuale (cf Lv 12,2-8) di colui che, in quanto si discosta dalla salute, è portatore di una impurità.
Il modello della sofferenza come un’impurità da evitare è oggi, paradossalmente, più presente nel pensiero laico che in quello religioso. In un processo continuo, infatti, si è progressivamente passati a trattare il dolore come qualcosa da vincere, da evitare, da negare, da disprezzare. La nostra cultura ha elaborato delle tecniche sociali per mascherare il dolore, sottraendolo allo sguardo (istituzioni psichiatriche, cronicari, ospizi, ecc.) e preservando i «puri» — sani, efficienti, integrati ― dal contatto con coloro che, in quanto portatori di sofferenza o di handicap, sono considerati «impuri». Questi devono essere tenuti lontani dalla «liturgia» laica della festa riservata ai «normali» (sani, produttivi, felici).
2.3.2. Sofferenza-peccato
Nei confronti della sofferenza la prospettiva profetica adotta il linguaggio del «debito» (o peccato): la sofferenza è fatta risalire a una trasgressione del patto di fedeltà a Dio; è interpretata come una conseguenza del cammino fuori dell’alleanza (cf Dt, 28,15-22). Chi è colpito nel corpo o nei beni dalla disgrazia è invitato a una conversione del cuore, a un cambiamento della condotta. Da questo modo di considerare la sofferenza, come legata a una colpa personale, si sono sviluppate, tanto nel giudaismo quanto nel cristianesimo, le forme più pesanti di moralismo. Ed è un atteggiamento di fondo che tende a perseverare nel tempo. Se ne sono avute delle espressioni anche di recente, a proposito dei malati di AIDS, accusati da alcuni ecclesiastici di aver ricevuto da Dio la punizione per la loro condotta peccaminosa. Talvolta il ricorso al modello profetico viene fatto spontaneamente da chi si trova nella sofferenza (per esempio: «Che cosa ho fatto, perché Dio mi punisca così?»). La lettura della sofferenza in chiave di responsabilità morale tende a riaffiorare costantemente, come un archetipo ineliminabile.
2.3.3. Sofferenza-«soteria»
Al tempo di Gesù il linguaggio sacerdotale e quello profetico coesistevano. Nelle situazioni concrete in cui è stato chiamato a prendere posizione, Gesù si è differenziato tanto dal legalismo (cf Mc 7,1-16), quanto dalla ricerca di una colpa personale dietro ogni manifestazione patologica (il conflitto con una forma estremizzata della prospettiva profetica riveste, nell’episodio del cieco nato, i toni della polemica teologica: cf Gv 9,1-3). L’atteggiamento di Gesù nei confronti della sofferenza incontrata sul suo cammino ha un carattere omogeneo, che possiamo qualificare come «messianico». Non offre una spiegazione di essa, se non mettendola in relazione con il male, che è contrario alla volontà di salvezza che Dio ha per l’uomo. Il vangelo, che egli annuncia con il ministero della parola e con quello della mano taumaturgica, con l’annuncio del perdono e con i gesti della compassione, è una forza che fa vivere. La soteria si manifesta come una risposta alla sofferenza in tutte le sue dimensioni: toglie la colpa, reintegra l’emarginato nella nuova comunità messianica, restituisce la salute, vince la morte.
Che cosa, in concreto, implichi l’assunzione del modello messianico nei confronti dei sofferenti emerge dai tratti a noi noti della comunità cristiana delle origini. I malati, le vedove, i poveri, coloro che sono in lacrime, vengono considerati membri a cui spetta una considerazione particolare; attorno ad essi si mobilita ia comunità dei credenti, che ha ricevuto la soteria. Gli occhi del credente vedono la vera realtà, quale è davanti a Dio, di colui che soffre. E pure là dove la visione degli occhi, anche se illuminati dalla fede, fa
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difetto, le mani hanno accesso diretto alla realtà della salvezza. Secondo la formulazione di Mt 25,37-40, in colui che soffre c’è Gesù stesso («Signore, quanto ti abbiamo visto malato o prigioniero, e ti abbiamo visitato?... In verità ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me»). La mano del credente, posta nella sequela messianica, si apre a condividere, secondo le esigenze radicali della comunità fraterna (cf At 2,44-47) e a «sostenere i deboli e gli infermi» (cf 1 Ts 5,14).
Se l’educatore vuole favorire un’interrogazione teologica della sofferenza, si preoccuperà meno di fornire le rigide risposte provenienti da un sistema dottrinale, quanto di promuovere un cammino che dalle reazioni istintive della emarginazione e della colpevolizzazione conduca a un’azione coerente con quella messianica. Invece di coltivare l’illusione di una razionalizzazione della sofferenza, egli mostrerà di non temere il fallimento della ragione teoretica nella spiegazione del male. Ciò permetterà di correggere l’immagine ingenua e illusoria del «buon Dio», lasciando che Dio sia Dio. «La fede guarda in un’altra direzione: l’origine del male non è il suo problema; il suo problema è la fine del male» (P. Ricoeur).
30. Per una pedagogia della sofferenza
3.1. Le situazioni di apprendimento
Alcune situazioni costituiscono le tappe obbligate dell’incontro personale con la sofferenza. L’attenzione ad esse fornisce all’educatore un accesso diretto ai problemi del giovane e gli permette di aiutarlo a elaborare in modo costruttivo per la sua crescita emotiva e spirituale le sfide che la sofferenza gli propone.
3.1.1. Il cammino della salute
Il primo percorso è quello costituito dal cammino della salute. Anche se statisticamente è poco probabile che il giovane abbia problemi maggiore di salute, almeno con la stessa frequenza con cui si presentano nell’età adulta e soprattutto nella vecchiaia, nessuno è completamente protetto dal rischio di incontrare il dolore fisico della malattia, anche in età giovanile. Oltre ai rischi endogeni, i pericoli connessi con certe modalità di vita — sport, motorizzazione, ecc. — si incaricano di aumentare la percentuale di probabilità che il giovane faccia la conoscenza personale dell’handicap, temporaneo o permanente. Qualsiasi minaccia alla salute sarà vissuta in prima istanza come una violenza indebita. Particolarmente quando il male fisico colpisce un giovane, l’atteggiamento di rifiuto della malattia, che è caratteristico della nostra cultura medicalizzata, si tende fino all’estremo. Prende forma una concezione della malattia che la riduce a una «res» che aggredisce l’organismo dall’esterno, sprovvista di significato personale e comprensibile solo nei termini «scientifici», quando cioè è ricondotta a quei cambiamenti che intervengono nelle strutture cellulari dell’organismo e sono esprimibili nel linguaggio delle scienze della natica.
Questo modo di rappresentarsi la malattia è funzionale a un approccio pragmatico e favorisce la lotta a oltranza contro di essa. Tende però a rendere impossibile un approccio «sapienziale», in cui la sofferenza legata al percorso accidentato della salute ― sempre esposta a minacce, crisi, ricupero, ulteriori disequilibri, nuovi adattamenti, fino alla definitiva perdita — diventa una parte essenziale della biografia della persona. Solo quando le minacce della salute, da accidentalità indebita e del tutto marginale alla persona, diventano una «crisi» biografica possono essere percepite come un’occasione offerta all’individuo di diventare se stesso.
Il compito di ricondurre la sofferenza legata alla patologia della salute nella sfera della persona è difficile, in quanto si trova a cozzare contro un’impresa terapeutica, gestita dalla medicina, tutta tesa a rimuovere la sofferenza come un’assurdità insensata, estranea al soggetto. Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso della sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il genere neutro questo pronome viene usato per distanziarsi dal fenomeno: il male fisico è «es» in tedesco, «it» in inglese... Ma anche le altre lingue conoscono dei modi che permettono al parlante di sottolineare l’estraneità della malattia da se stesso. Il linguaggio riduce la malattia a un soggetto agente che intrude nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che
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confina l’uomo al ruolo di «patiens». L’uomo e la sua malattia rimangono, insomma, due realtà separate e non comunicanti.
L’obiettivo educativo che deve prefiggersi la pastorale nelle situazioni di sofferenza legate al cammino della salute è quello di favorire una graduale riappropriazione della malattia da parte del soggetto. Ciò avviene quando la malattia cessa di essere qualcosa che si ha, per diventare qualcosa che si è. A questo punto la personale e attiva partecipazione alla malattia (esistenzialmente: «Io sono la mia malattia», in essa si realizza la mia modalità di essere al mondo) diventa una questione spirituale di prim’ordine. Solo a questa condizione la malattia e la sua evoluzione possono costituire avvenimenti «presso i quali si illumina la questione del senso della vita» (A. Mitscherlich).
L’intervento educativo consiste nel favorire la ricerca di una risposta personale. Lo scoglio è costituito dalle risposte preconfezionate, che spesso si sovrappongono alla domanda e ne impediscono la graduale formulazione. Il provvidenzialismo («Dio li manda questo male per il tuo bene») e il dolorismo (il dolore come «privilegio», come segno di eccellenza spirituale, e varie altre espressioni di mistica della sofferenza) sono i più frequenti tra tali pericoli.
3.1.2. Le separazioni
Una seconda situazione di incontro obbligato con la sofferenza sono le separazioni che scandiscono l’evolversi della vita. Possiamo rappresentarci il decorso di un’esistenza come una sequenza di separazioni: dalla separazione dal corpo materno, alla nascita, fino a quella definitiva del proprio corpo, che si realizza con la morte. Tra questi due eventi estremi dobbiamo necessariamente incontrare altre separazioni: quella dei genitori e di questi dai propri figli, nel normale processo di crescita che si conclude con l’autonomia e l’indipendenza; le separazioni dal coniuge, sempre più frequenti in una società che favorisce la mobilità piuttosto che la stabilità dei legami, la spontaneità dei sentimenti piuttosto la responsabilità dei vincoli; la separazione da coloro che ci precedono nella morte. L’esistenza di ogni persona è scandita da una sequenza ininterrotta di separazioni: volute o imposte, fisiologiche o traumatiche, tragiche o salutari. Sempre, tuttavia, tali separazioni sono accompagnate da sofferenza.
Il dolore morale per la perdita dell’oggetto amato è una variabile personale: non tutti lo sentono nelle stesse situazioni e con la stessa intensità. Per alcuni la sofferenza massima è connessa con la morte, per il suo carattere di evento definitivo; per altri con le separazioni da relazioni amorose, nelle quali va distrutta l’identificazione conseguita mediante il rapporto d’amore. Staccarsi da qualcuno o qualcosa fa male: se ciò vale per tutti, la reazione individuale al dolore della separazione, e soprattutto il modo in cui tale sofferenza viene integrata nella propria vita, è diverso da persona a persona.
Oltre alle separazioni occasionali, che possono sopravvenire in ogni età, la giovinezza conosce separazioni che le sono tipiche: il progressivo distacco dal legame di dipendenza dai genitori (con tutta la sua ambivalenza: la dipendenza, infatti, coarta la libertà, ma è anche fonte di sicurezza); l’abbandono dell’infanzia, con la sua dimensione ludica e l’assenza di responsabilità; le separazioni connesse con l’educazione sentimentale. Queste ultime sono tanto più dolorose, in quanto le prime esperienze di innamoramento creano intense sensazioni di fusione simbiotica, che fanno sentire la fine di un amore giovanile come una cacciata dal paradiso terrestre.
La persona colpita dal doloroso processo della separazione, in qualsiasi forma, spesso sollecita un aiuto, facilmente interpretato come una più o meno esplicita richiesta di consolazione. Il rischio che incombe sulla prassi pastorale in queste situazioni è di degradarsi ad agenzia che dispensa le «consolazioni della religione». Il compito di una relazione d’aiuto di tipo pastorale è piuttosto quello di favorire una elaborazione positiva, in senso psicologico e spirituale, della sofferenza provocata dal distacco. L’angoscia da separazione può portare ad aggrapparsi disperatamente all’oggetto amato. Soprattutto in una società che non sa più fornire le categorie concettuali e i modelli comportamentali per elaborare il lutto, in tutte le sue dimensioni, l’incapacità di separarsi produce sempre più frequentemente esiti patologici.
La funzione della relazione pastorale nel contesto di questo tipo di sofferenze può essere così formulata: insegnare — non in astratto, ma in un rapporto vissuto — l’arte di separarsi, fatta di tempi di avvicinamento e di tempi di allontanamento. Questa funzione pedagogica può essere ricondotta all’acquisizione
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dell’atteggiamento sapienziale proprio dell'Ecclesiaste, secondo il quale c’è un tempo per tutto sotto il cielo: «Un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dall’abbraccio, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via» (Qo 3,5-6).
3.2. La sofferenza, educazione all’umano
Identificate le situazioni di sofferenza che più frequentemente sollecitano l’intervento del pastore e gli obiettivi dell’azione di quest’ultimo, possiamo tracciare un abbozzo dei contenuti specifici della pastorale giovanile in questo ambito. Essa mirerà a finalizzare l’impatto della sofferenza alla crescita etica del giovane, tanto a livello personale che comunitario. I due elementi sono uniti, anche se la priorità assiologica ed esperienziale va al secondo.
La sofferenza, infatti, emerge nella vita interiore del soggetto sotto la figura primaria del distacco dalla comunità. Che sia colpito nella salute fisica, negli affetti o nel significato della propria vita, il sofferente è sempre seduto, come Giobbe, su un mucchio di letame, al di fuori del contatto vitale con la comunità. In questo senso la sofferenza è percepita come opera «diabolica». In senso letterale, infatti, il «dia-bolos» (il «separatore») è in azione quando la sofferenza infrange il senso di appartenenza beata a un «tutto»: a un corpo come strumento docile e armonioso dello spirito, a un altro essere umano, alla vita come insieme dotato di senso divino.
La condizione di isolato propria del sofferente crea un’interpellazione all’altro, in particolare a colui che rappresenta l’istanza religiosa. La forma più frequente è quella di richiesta di una spiegazione causale: «Perché mi capita quello che mi capita?». Anche la protesta contro Dio, condotta fino alla forma estrema della bestemmia, può esprimere questo stesso atteggiamento. La consapevolezza dell’educatore che il cristianesimo non è tanto portatore di razionalizzazioni teologiche, quanto di orizzonti finalistici (non il «perché», ma il «per che cosa» della sofferenza) gli farà evitare i sentieri insidiosi delle presunte spiegazioni del dolore. L’interpellazione che soggiace alla richiesta di un perché è sempre fondamentalmente una domanda di presenza. La comunità deve riaggregarsi attorno a colui che soffre e si sente da essa respinto. La risposta all’opera disgregatrice del «diabolos» è il «symbolon»: il mettere insieme i pezzi separati.
Nei costumi dell’antica Grecia i frammenti di tessere o monete combaciami erano il «simbolo» che permetteva di riconoscere il portatore del frammento come ospite o amico. All’atto del confrontare — «syn-ballo» ― avveniva un riconoscimento dell’identità dell’altro e della reciproca appartenenza. La forza motrice del simbolo è l’amore. Nel ricongiungimento «simbolico» il sofferente trova il fratello e nella comunione la risposta pratica alla sua interpellazione. La risposta può consistere a volte in un concreto aiuto offerto in una situazione di necessità (da un intervento di natura economica fino al gesto supremo del dono di un organo che permette di salvare una vita minacciata). Altre volte il «simbolo» che dischiude la dimensione della fraternità, dando così una risposta alla sofferenza, è di natura solo spirituale. La vera solidarietà, che si esprime nel «com-patire», anche se vissuta nell’impotenza a rimuovere le cause della sofferenza, crea un «volto» nuovo. Il sofferente, scoprendosi parte di un tutto integrato, può fare della prova dolorosa la porta di accesso a un’esperienza di appartenenza, che guarisce la lacerazione più profonda causata dalla sofferenza.
La «compassione» è la via alla «pazienza». Questa è la seconda dimensione della crescita, intesa come un nuovo modo di sperimentare se stesso e la comunità umana. La sofferenza è,scuola di pazienza; l’opera del pastore è rivolta a facilitare l’acquisizione di questa virtù, in quanto atteggiamento generale verso ciò che coarta la libertà. La prima accezione del termine «pazienza», così come è usato nel linguaggio comune, dice riferimento all’accettazione dei limiti. La sofferenza è legata alla vita nelle sue determinazioni concrete. È un esercizio umile, ma fondamentale, di pazienza accogliere la vita come processo oggettivo, e non solo come proiezione della soggettività. Il desiderio — di piena salute, di intesa interpersonale perfetta, di auto affermazione e successo — deve confrontarsi col reale, pagando un prezzo di sofferenza per questa incarnazione. Con la pazienza si impara il peso dell’oggettività. Una dimensione ulteriore della pazienza emerge se ci lasciamo guidare dalla traccia fornita dall’etimologia. La pazienza contiene
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il «pathos», cioè quella modalità dell’esistenza che dipende non da ciò che facciamo, ma da ciò che subiamo. La cultura tecnologica dell’Occidente tende a valutare esclusivamente l’azione. La determinazione volontaria è entrata abbondantemente anche in fatti esistenziali che prima dipendevano dal caso o dalla Provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento della resa alla morte (rivendicazione di un diritto all’eutanasia).
Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica. La modalità «patica» dell’esistenza ha non solo diritto di cittadinanza negli atteggiamenti etici che costituiscono l’umano autentico, ma è un’esigenza per arrivare là dove l’azione non ci può portare. «Passività di crescita» chiama Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza, che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce l’altro braccio rispetto a quello dell’azione, con cui Dio ci attira a sé.
Una terza concezione della «pazienza» ci introduce nella valorizzazione piena della sofferenza dal punto di vista etico e spirituale. Ancora una volta dobbiamo ricorrere all’etimologia. L’originale greco degli scritti neotestamentari che in latino è stato tradotto con «patientia» esprime la virtù richiesta al cristiano nelle situazioni di coarta- mento della libertà con il termine greco «hypomoné».
Questa non è la «pazienza» nella sua accezione di sopportazione passiva o rassegnata di una realtà che contrasta i desideri o i progetti personali, quanto una virtù attiva che richiede la «costanza», anche nelle avversità. Per il cristiano il modello più eccelso di «hypomoné» è Gesù stesso, rimasto fedele al Padre e all’amore per tutti gli uomini anche nella situazione estrema di una vita strappatagli con la violenza. Il «Christus patiens» è il «costante» per eccellenza.
La virtù della «pazienza» che costituisce l’ideale cristiano nelle situazioni di sofferenza acquista così una connotazione pasquale. È la virtù del Venerdì santo solo in quanto questo si apre sulla Domenica della risurrezione. La virtù della «pazienza» = «costanza» caratterizza l’uomo che, in una situazione di sofferenza, tiene duro grazie alla fiducia con cui aspetta il soccorso da Dio. Il cristiano «paziente» (costante) non è dunque un dimissionario di fronte alle potenze di diminuzione che aggrediscono l’uomo. Egli può e deve resistere al male.
Ma la sua è una lotta nella speranza, cioè nella situazione spirituale di chi, nella fede, si è arreso a Dio e ha accettato che egli dica l’ultima parola sulla storia dell’uomo.
Per il cristiano, dunque, la costanza è la forma tipica della speranza. Lo conferma, nel pensiero san Paolo, lo stretto legame tra costanza e speranza (cf Rm 5,3-5; 8,24-25; 1 Cor 13,7; 2 Cor 1,6-7, ecc.). La pedagogia della sofferenza, in questo ultimo senso, non è altro che la dimensione etica dell’annuncio della fede.
→ identificazione 2.2. - male 1.3. 3-4. - malati - volontariato 4.2.3.
BIBLIOGRAFIA
Beck D., La malattia come autoguarigione, ed. Cittadella, Assisi 1985
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Frankl V., Annotazioni sul significato della sofferenza, in Aa.Vv., La sapienza della croce, oggi, vol. III, ed. LDC, Torino 1976, pp. 36-44
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