Per un rinnovamento dell’etica cristiana della malattia

Sandro Spinsanti

Per un rinnovamento dell’etica cristiana della malattia

in Medicina e Morale

fasc. 1/1975, pp 8-19

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PER UN RINNOVAMENTO DELL’ETICA CRISTIANA DELLA MALATTIA

La voce di coloro che «non si rassegnano»

Il discorso sull’atteggiamento cristiano di fronte alla malattia è farcito di luoghi comuni. Si dà per scontato che l’atteggiamento veramente degno del cristiano sia quello della pazienza, rassegnazione, accettazione; eventualmente anche l’offerta spirituale, l’oblazione come vittima riparatrice, la partecipazione alla sofferenza redentrice. Il fiume di parole spese sul cristiano malato e sofferente non ha avuto di solito l’avvallo esplicito della teologia e della morale. Sembra piuttosto che queste discipline abbiano quasi ceduto questo terreno in appalto alla pietà. E la pietà, specialmente quando fiorisce su un humus tendente alla morbosità, pecca sovente di intemperanza. È tempo che tutto il discorso che si fa sul cristiano e la malattia sia imbrigliato robustamente dalla teologia; la morale deve prendere possesso di ciò che ha demandato alle pie esortazioni ascetiche.

Prima di tracciare le linee portanti di un progetto di etica cristiana della malattia sarà utile ascoltare alcune voci che cantano fuori del coro. Ci aiuteranno a sottrarci al fascino dei clichés e ci indicheranno i punti dolenti del linguaggio abituale. Vorrei cominciare col citare una voce che sorge fuori dell’ambito cristiano, quella di un filosofo marxista che si è occupato molto seriamente del cristianesimo. E. Bloch 1 ha attizzato nuovamente il fuoco sotto il crogiuolo in cui Marx ha messo il cristianesimo quando ha accusato l’ideologia religiosa di svolgere la funzione di «oppio dei popoli». Egli crede di poter affermare che il cristianesimo ha imprigionato la dinamica rivoluzionaria del messaggio di Gesù.

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Troppo presto al «leone di Giuda» fu sostituito «l’agnello». Così prese forma la «mentalità cristiana», centrata sulla «pazienza della croce»: «in tal modo l’elemento sovversivo della Bibbia fu l’ultima volta interrotto in forza del mito dell’agnello sacrificato. In tal modo fu sanzionata la pazienza della croce tanto degna di essere raccomandata agli oppressi e tanto piacevole per gli oppressi, che corrisponde nel suo insieme all’incondizionata obbedienza dinanzi all’autorità, come se essa in sé e per sé provenisse da Dio. Sì, anche ogni teologia della speranza che desidera porsi al culmine di ciò che trasforma e di ciò che è nuovo, ricade di nuovo nella conformità, quando essa con conveniente passività spezza la punta alla speranza di Gesù prima e fino alla croce. E tutto ciò si lega con quei brani di Paolo che trattano della croce, e che appartengono all’apologetica e non al quod ego della ribellione e ancor meno alla dialettica; «dolore, dolore, croce, croce spettano al cristiano», dice partendo da questo assunto il più tardo Lutero (e parla ai contadini martoriati, non ai signori)».

Resistiamo all’impulso di neutralizzare subito la denuncia contenuta nelle parole di Bloch adducendo il fatto che essa proviene da un ateo e da un marxista. Il cristianesimo non deve sottrarsi ad un confronto serio con l’accusa di poter trasformarsi in una ideologia che contribuisce a tenere i poveri e gli afflitti nella loro situazione, in cambio di una promessa alienante. Del resto, la critica proveniente dal materialismo storico non è l’unica voce che si oppone a ciò che si è soliti chiamare discorso «cristiano» sulla sofferenza. Anche una certa «spiritualità dell’azione» fiorita in seno al cristianesimo stesso ha contribuito a mostrare i limiti e le ambiguità dell’atteggiamento di rassegnazione. Lo spirito moderno ha ormai definitivamente acquisito quanto sia serio l’obbligo di sottomettere la terra, combattendo contro tutto ciò che diminuisce l’uomo. Come profeta di questo nuovo atteggiamento Teilhard de Chardin ha conquistato un uditorio di ampiezza mondiale. Nel suo libro «L’ambiente divino» — dedicato a «coloro che amano il mondo» — ha inteso tracciare

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le linee fondamentali della spiritualità dei cristiani che vivono, come Teilhard stesso è vissuto, «votati alle forze positive del mondo». Prende posizione su ciò che viene abitualmente designato come «accettazione cristiana», nozione soggetta a terribili equivoci, che costano molto caro al cristianesimo: «Una falsa interpretazione della rassegnazione cristiana è, insieme a una falsa idea del distacco cristiano, la principale fonte delle antipatie che fanno così lealmente odiare il Vangelo da parte di un gran numero di Gentili»; «La rassegnazione cristiana è sinceramente considerata e biasimata da molte persone oneste come uno degli elementi dell’«oppio religioso» che provocano il sopore più pericoloso. Dopo il disgusto della terra, non c’è atteggiamento che si rimprovera con più rancore al Vangelo di aver diffuso, che la passività davanti al Male, una passività che può arrivare fino a coltivare perversamente la diminuzione e la sofferenza» 2.

Teilhard pensa che una spiritualità autenticamente cristiana non può non integrare anche gli insuccessi dell’uomo, le sue «passività di diminuzione», e che quindi comprende anche la rassegnazione. Ma la rassegnazione cristiana non è l’acquiescenza passiva di cui parla una certa ascetica, e soprattutto non va disgiunta dalla lotta contro le diminuzioni. Il cristiano per praticare integralmente la perfezione del suo cristianesimo non deve disertare di fronte al dovere della resistenza al male. Al contrario, «in un primo tempo, deve lottare sinceramente e con tutte le forze, in unione con la potenza creatrice del mondo, perché ogni male retroceda, perché niente diminuisca, né in lui, né attorno a lui (...). Finché la resistenza resta possibile, egli si irrigidirà dunque, lui, figlio del Cielo, quanto i più terrestri dei figli del Mondo, contro tutto ciò che merita d’essere scartato o distrutto»; «Al primo approssimarsi delle diminuzioni, noi non sapremo trovare Dio altrimenti che detestando ciò che precipita su di noi, facendo il nostro possibile per schivarlo. Più respingiamo la sofferenza, in quel momento, con tutto il nostro cuore e con tutte

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le nostre braccia, più noi aderiamo, allora, al cuore e all’azione di Dio» 3.

Per Teilhard questo primo momento della lotta a oltranza contro il male deve essere integrato da un secondo momento di genuina accettazione. L’atteggiamento cristiano completo è composto così di due tempi: il primo di lotta contro il male, il secondo di sconfitta e della sua trasfigurazione. Si introduce in tal modo la distinzione tra un dolore da combattere e un dolore da subire. Si invita a combattere la malattia e le altre forme di dolore finché se ne ha i mezzi, e ad accettarla, come una specie di prova o di bene misterioso, quando non si può vincere. Per quanto questa soluzione possa essere difettosa, essa ha il merito di aver sottolineato che la lotta attiva contro ogni forma di male è parte integrante di una spiritualità autenticamente cristiana.

La malattia, con i rivolgimenti psichici e le fratture esistenziali che provoca, è stata tradizionalmente il pascolo degli apologeti. Fiutando una disponibilità particolare del malato, gli sono piombati accanto per parlargli della sua miseria e della sua colpa, per proporgli la conversione a Dio e l’inserimento nella Chiesa. Ormai i cristiani stessi sono a disagio di fronte a questa tattica, che sentono come unfair. Chi ha dato voce più chiaramente al rifiuto di un Dio-tappabuchi è stato il teologo evangelico D. Bonhoeffer. Scriveva in una delle sue ultime lettere dal carcere: «L’estromissione di Dio dal mondo, dalla sfera pubblica della vita umana, ha portato al tentativo di riservargli ancora, se non altro, la sfera del «personale», «intimo», «privato». E siccome ogni uomo, da qualche parte, ha sempre una sfera del privato, lo si ritiene in quel punto più facilmente vulnerabile... Come l’opinione del volgo riesce a esorcizzare una personalità altolocata solo raffigurandosela «nella vasca da bagno», così succede qui. È una specie di soddisfazione maligna sapere che ognuno ha le sue debolezze e le sue nudità... Diffidenza e astio, come atteggiamento fondamentale verso gli uomini, sono la rivolta dei mediocri. Dal punto di vista teologico l’errore è doppio: primo, si

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crede di poter chiamare peccatore un uomo, soltanto dopo aver spiato le sue debolezze e le sue volgarità; secondo, si ritiene che l’essenza dell’uomo sia nei suoi secondi piani più intimi e reconditi, definendoli la sua «interiorità»; e proprio in questi tenebrosi nascondigli dell’uomo Dio dovrebbe avere i suoi domini (...). Insomma, io pretendo che Dio non venga ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo, che si prenda molto semplicemente atto della maggiore età del mondo e dell’uomo, che non si «stronchi» l’uomo nella sua mondanità, ma lo si metta a confronto con Dio nelle sue posizioni più forti, che si rinunci a qualsiasi trucco da preti e non si veda nella psicoterapia o nella filosofia dell’esistenza la preparazione alle vie del Signore. La Parola di Dio trova l’indiscrezione di tutta questa gente troppo plebea per potervisi alleare. Essa non si allea con la ribellione della diffidenza, con la rivolta dal basso: essa regna» 4.

L’apologetica, per sfruttare la situazione di malattia, si appoggia su un’antropologia che attribuisce al dolore una funzione centrale nella vita dell’uomo. Possiamo dare a tale antropologia il nome di «dolorismo». Non sorprende il fatto che talvolta il malato stesso si trovi a suo agio in posizioni spirituali di tipo doloristico. Uno dei rischi della malattia è infatti proprio quello di conquistare il giudizio, fino a erigere la sofferenza a valore supremo. La psicologia ci mette in guardia contro la regressione psicologica, che il fatto drammatico della malattia provoca in certe persone. La denuncia di tale pericolo induce a guardarsi da motti altisonanti, come: «la mia gioia è soffrire — soffrire o morire — nel soffrire è la mia felicità...»; a non pronunciare alla leggera parole che sembrano ammirevoli, ma che forse non sono che imprudenti o vuote; a diffidare di una accettazione troppo gioiosa o entusiasta della malattia, che può nascondere un atteggiamento psicologico auto-punitivo. Ci può essere un amore alla sofferenza che rischia di non essere altro che corruzione delle sorgenti della vita o pigrizia di fronte allo

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sforzo necessario per vivere. L’accettazione cristiana della croce non va assolutamente confusa con il disgusto per la vita.

La reazione di chi rimette in discussione la tradizionale spiritualità del malato è diretta soprattutto contro una visione troppo ristretta della vita del cristiano malato. Se nel malato non si considera altro che la sua malattia, lo si imprigiona in essa, si costruisce la sua spiritualità sulla parte negativa del suo essere, e non su quella vivente. È sintomatica in tal senso la presa di posizione di alcuni malati, che esprimono un atteggiamento di fronte alla malattia alternativo a quello doloristico. «Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma di un buon nutrimento comune. Ciò che i malati domandano non è una cappella di infermeria, ma la Chiesa. Abbiamo bisogno semplicemente di una spiritualità ecclesiale. Non domandiamo che si apra per noi una scuola di spiritualità, dove tutto sia visto attraverso un’ottica di malati e in odore di ospedale. Che non ci si parli continuamente "in quanto malati", come se non si volesse sapere altro da noi; prima di essere malati siamo uomini e figli di Dio» 5.

Rinnovando, si va contro l’insegnamento della Chiesa?

Abbiamo ascoltato alcune voci, provenienti dagli ambiti culturali ed esistenziali più diversi. Malgrado la diversità, hanno un elemento comune: da pulpiti diversi predicano la stessa necessità di rivedere quello che si è soliti presentare come l’atteggiamento esemplare del cristiano nella situazione di malattia. Rivelano il bisogno di superare una spiritualità che tende al dolorismo; di interrogarsi criticamente se, incentrando l’atteggiamento etico sulla rassegnazione, si interpreta fedelmente il messaggio di Gesù o piuttosto non lo si violenta deformandolo. È necessario sottoporre al rigore di una riflessione teologica seria il pullulare di parole generose sulla «buona sofferenza», sul suo significato e il suo valore, sulla malattia come fonte di merito e di

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privilegio — parole che generalmente non costano niente a chi le dice.

Prima di procedere all’individuazione dei punti forti di tale etica cristiana della malattia è necessario rispondere a un interrogativo: la revisione dell’atteggiamento tradizionale è teologicamente lecita? Ad alcuni cattolici sembra che l’insegnamento del magistero ordinario sia orientato nel senso del dolorismo e dell’ascetica di accettazione, e che perciò ogni tentativo di innovazione sia pregiudizialmente bloccato. In particolare, gli ambienti che coltivano una spiritualità del malato di tipo doloristico si appoggiano incondizionatamente sull’insegnamento dei romani pontefici. Se prendiamo però in esame i testi in questione ci accorgiamo che si tratta di interventi di due generi diversi: discorsi direttamente rivolti a malati, condotti sul tono dell’esortazione spirituale, e discorsi rivolti ai medici e al personale curante. In quest’ultimo caso si tratta prevalentemente di morale professionale; Pio XII, in particolare, approfitta di questi incontri per rispondere a precise questioni etiche poste dalla specializzazione medica o dalla tecnica. Nei due gruppi di discorsi si nota un diverso atteggiamento di fondo nei confronti della malattia. I primi infatti svolgono ampiamente tutti i temi tradizionali dell’ascesi di accettazione e richiedono al cristiano un atteggiamento per lo più passivo, o quanto meno limitato alla sola attività di offerta; quelli del secondo gruppo invece, pur affrontando gli argomenti naturalmente richiesti dalla particolare assemblea, presuppongono una considerazione positiva del valore della salute e negativa della malattia, e conseguentemente inculcano un atteggiamento di lotta e di superamento dei limiti. Abitualmente queste due concezioni della malattia, con l’atteggiamento spirituale che ne deriva, non hanno comunicazioni tra loro e sono riservate ai rispettivi gruppi di malati o di sani.

Questo fatto non dipende solo dall’occasionalità dei discorsi. È avvertibile anche l’influenza della spiritualità propria dei gruppi ai quali i discorsi sono rivolti.

Finora l’insegnamento pontificio è stato espressione, per lo più, di quel complesso di idee teologiche e di atteggiamenti

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spirituali tradizionalmente diffusi dalla predicazione spicciola e dalla pastorale, cioè di quell’atteggiamento che possiamo chiamare «ascesi di accettazione». Anche il Concilio Vaticano II si è allineato con questa posizione nel «Messaggio ai poveri, agli ammalati e a tutti coloro che soffrono». Ma non possiamo trascurare taluni sporadici interventi di tono diverso, riflesso di un altro modo di considerare e di vivere la malattia 6. Ciò fa supporre che l’evoluzione dell’insegnamento pontificio circa la spiritualità della malattia è lungi dall’essere terminata. Per questo motivo non è lecito prendere il magistero ordinario — e tanto meno un discorso o un’allocuzione isolata rivolta a un gruppo particolare! — come unico parametro per elaborare dottrinalmente quale debba essere l’atteggiamento morale e spirituale del cristiano nella malattia.

La malattia e il comandamento di vivere

Non è possibile qui sviluppare in dettaglio un’etica cristiana della malattia che assuma tutte le istanze di rinnovamento che sono emerse. Ci limitiamo ad indicare quelli che, a nostro avviso, dovrebbero essere i pilastri fondamentali. Il primo è il riferimento alla vita come dono. Il fatto stesso di essere creato apre per l’uomo una condizione ricca di benedizione. La vita è un bene, un privilegio e un valore, perché costituisce la grande occasione di incontrare Dio e di mettersi a servizio dei fratelli. Col dono della vita Dio dà anche il comandamento di vivere. L’esigenza di vita implicata dal comandamento di Dio domanda all’uomo di approvare la vita, di «volerla», perché c’è un’obbedienza a Dio insita nell’esistenza umana come tale. Volere la vita diventa allora la salute, cioè la forza che ci permette di essere uomini nel corpo e nello spirito.

In questa prospettiva la malattia ci appare come qualcosa che viene a contraddire, diminuire, intralciare o paralizzare il

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voler vivere. Essa provoca l’indebolimento o il bloccaggio della forza di essere uomo. Per obbedire al comandamento di Dio bisogna che l’uomo voglia fare tutto ciò che è necessario per assicurare la continuità della propria vita psichica e fisica, contrastando ciò che rischia di paralizzarla. Tale atteggiamento si può riassumere in quella che K. Barth chiama la «regola fonda- mentale dell’etica della malattia»: «Esigere che il paziente si riferisca continuamente, come tutti quelli che lo accostano, non alla sua malattia, ma alla sua salute e alla sua volontà di ritrovarla» 7.

Sul piano pratico, il malato non dovrà essere incoraggiato ad esagerare la sua impotenza o a coltivare l’inattività come dovere di stato. Si eviterà di dire perciò che «ai malati non si domanda di agire, ma di accettare», che tutto ciò che è richiesto loro è di «offrire la propria sofferenza». «Salvare dall’annientamento o dalla diminuzione ciò che è salvabile delle nostre capacità, creare delle supplenze, perseguire adattamenti nuovi, in una parola requisire in noi tutto ciò che ci conserva in azione, in qualsiasi maniera, dovrebbe essere una delle nostre preoccupazioni dominanti» 8: così esprime una «grande malata», a nome di altri malati, la costanza necessaria al cristiano che vuol obbedire al comandamento di vivere.

L’utilizzazione delle proprie energie, finalizzate a uno scopo costruttivo, si chiama lavoro. Perciò il malato — in particolar modo l’affetto da handicap — dovrebbe lavorare. Lavorare e non «ammazzare il tempo»! Anche nel caso che un malato non possa più continuare la sua attività abituale, non diventa con ciò buono a niente. Rimane in ogni caso la possibilità di un irraggiamento spirituale, proporzionatamente all’opera di «spiritualizzazione» che ogni essere umano deve perseguire. La frequentazione di qualcuno che continua con tenacia, nonostante le limitazioni della malattia, a cercare la vita per farne dono agli altri, attira lo sguardo verso il vero tesoro dell’umanità, cioè verso

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l’insieme dei valori morali e spirituali di vita e di energia, accanto ai quali non si può passare senza sentirsi vitalizzati.

La malattia nel mistero pasquale

Il secolo punto di riferimento di un’etica cristiana della malattia è il mistero pasquale del Cristo, sul quale ogni cristiano è chiamato a modellare la sua vita. Ogni progetto vitale deve passare attraverso le due tappe dialettiche della croce e della risurrezione.

Tutti coloro che vivono «in Cristo» e sono stati assimilati a lui mediante la fede e il battesimo sono chiamati a partecipare alla croce del Signore. Ma per parteciparvi realmente non basta semplicemente soffrire: bisogna rovesciare il significato della sofferenza, facendola diventare espressione di carità pasquale. Il cristiano che vuol vivere secondo il dinamismo della nuova alleanza inaugurata dalla vicenda pasquale del Cristo trova nello stato di malattia dei condizionamenti particolari. La malattia porta infatti dei sovvertimenti profondi in tutta la vita dell’uomo. Dal punto di vista psicologico, si nota una tendenza alla regressione. Anche la vita morale è intaccata dalla malattia. È un luogo comune ripetere che il malato diventa egoista; bisogna piuttosto riconoscere che la malattia svela ed esaspera tutte le forme di egoismo già in atto nella vita da sano. Certamente la vita morale è condizionata dalla malattia. La sofferenza fisica infatti tende di per sé a concentrare tutta l’attenzione e tutta l’energia del malato verso il polo più esterno della persona. Essa sovverte quell’equilibrio psico-fisico che è presupposto indispensabile di ogni vita umana. Neppure la vita religiosa sfugge ai condizionamenti della malattia. Questa è per lo più l’occasione di un’esplosione del senso elementare del sacro, che si manifesta sotto forma di presentimento di forze che ci superano e ci sottraggono il dominio della nostra vita; e non è raro il caso che la religiosità si degradi ulteriormente in credulità e magia. In breve possiamo

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dire che non è mai il corpo da solo ad essere ammalato; è tutto l’uomo, che soffre di un disordine, ad essere ammalato.

Tuttavia anche la sofferenza fisica può far parte della vita morale del cristiano, nella misura in cui entra nel dinamismo dell’amore oblativo e se ne rende espressione. Ma qual è l’atteggiamento che rende possibile questo capovolgimento del significato della sofferenza? Evidentemente la passività e la rassegnazione — quell’accettazione dell’inevitabile che potrebbe anche essere talvolta calo e/o perdita della speranza — non costituiscono l’atteggiamento adatto. Ci vuole un movimento positivo per fare della malattia e delle sue conseguenze un’espressione più profonda della vita morale. Ci vuole un movimento di superamento che si inserisce nella dinamica dell’amore pasquale. Secondo la espressione di un noto moralista, «la sofferenza assume il significato di un limite, come il corpo; cioè essa trae il suo valore dal superamento di se stessa. Se per se stessa tende ad aggravare materialmente, essa è, di contro, mediazione privilegiata verso la spiritualizzazione più intensa dal momento in cui la si considera nel suo vero senso: ostacolo da travaricare verso lo spirito. Allora essa diventa pretesto e occasione di un amore più grande» 9.

La vita spirituale del cristiano, come quella del Cristo stesso, sta sotto il comandamento dell’amore. Regola fondamentale di un comportamento nella malattia conforme a quello di Cristo è di riferirsi al dono di sé al Padre e ai fratelli, da continuare anche nella malattia, nonostante i condizionamenti negativi che questa tende a porre alla vita psichica, morale o spirituale. Si tratta di uno sforzo per non arrestare lo slancio della vita nuova in Cristo, fatto in una condizione che di per sé rende più difficile l’orientamento oblativo della vita. Così è reso possibile alla malattia di diventare «croce», cioè situazione in cui la donazione è provata, purificata, approfondita.

Non possiamo presentarci al cristiano malato con la presunzione di portargli una valida teoria filosofica del dolore o una teologia della malattia, pretendendo di spiegargli il come e il

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perché della sua sofferenza. Sono impressionanti le parole che il Cardinal Veuillot diceva sul suo letto d’ospedale, durante la sua ultima malattia: «Sappiamo fare delle belle frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ne ho pianto». Bisogna che il senso di questo evento dell’esistenza umana sia trovato dal di dentro, vivendo la malattia nella dimensione creaturale e pasquale della propria vita morale: e ciò nessun altro può farlo, se non il malato stesso.

Si può solo stargli accanto nel servizio fraterno e nella testimonianza di una fede e di una speranza che suscitano in noi la fiducia che niente può separarci dall’amore di Dio che ha preso possesso di noi nel Cristo (Rm 8,31-39); niente, neppure la malattia: «siamo ritenuti moribondi e invece, ecco, viviamo!» (2Cor. 6,9).

1 E. Bloch (1971), Ateismo nel cristianesimo, Milano, p 214.

2 P. Teilhard de Chardin (1957), Le milieu divin, Paris, pp 85, 97.

3 Ibidem.

4 D. Bonhoeffer (1969), Resistenza e resa, Milano, pp 258-260.

5 L. Lochet (1950), Au services des malades: l’Union Catholique des malades, La vie spirituelle, 83, pp 55-72.

6 Guzman del Val (1963), El valor apostolico del sufrimiento, Roma.

7 K. Barth (1965), Dogmatique, Genève, p 39.

8 F. Pastorelli (1967), Servitude et grandeur de la maladie, Paris, p 173.

9 G. Gilleman (1959), Il primato della carità in teologia morale, Brescia, p 311.