Comprendere la malattia

Sandro Spinsanti

COMPRENDERE LA MALATTIA: L'APPORTO DELLE SCIENZE UMANE

in Salute, malattia, morte. India ed Europa a confronto

Atti dell'International Workshop: Health and Illness: a compari-son of concept in India and Europe

organizzato dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti

IPL, Milano, 1991

pp. 199-209

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Premessa

L’incontro tra cultori di scienze bio-mediche e scienze umane provenienti dal continente europeo e dal sub-continente indiano offre un’occasione privilegiata di confronto delle rispettive realtà sanitarie. Non è tuttavia in questo ambito che si colloca la mia riflessione. Essa intende evidenziare piuttosto il vissuto soggettivo della malattia. In maniera più specifica, la mia relazione si occupa dell’atteggiamento interiore nei confronti della malattia promosso dalla medicina scientifica (quella che si insegna nelle università del mondo occidentale e si pratica, con diverse modalità organizzative, nei sistemi sanitari nazionali). È chiaro che «ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne conosca questa medicina»... Per trovare altri modi di vivere la malattia, tanto come paziente quanto come terapeuta, non è neppure necessario spostarsi nelle campagne: i maghi passeggiano tra i grattacieli.

Ciononostante mi sembra giustificato isolare il modo di vivere la malattia che si organizza intorno alla medicina scientifica. Il credito sociale che l’accompagna, infatti, le conferisce una forza maggiore sul nostro immaginario. Altri modi di percepire la malattia vengono inevitabilmente connotati di marginalità e vissuti clandestinamente. La medicina scientifica, in ogni caso, è quella che con la maggiore probabilità statistica incontriamo sulla nostra strada.

Una seconda precisazione preliminare riguarda la portata comparativa di questa riflessione. Non stabilirò un confronto diretto con il concetto di malattia sottostante ai sistemi medici

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indiani e da questi veicolato: il discorso verterà unicamente sulla malattia «all’occidentale». Implicitamente, tuttavia, il modo orientale di comprendere la malattia è presente alla mia riflessione, sotto forma di «fantasma». Intendo con ciò un’immagine idealizzata, non necessariamente coincidente con la realtà culturale effettiva. Il posto di un tale fantasma nell’economia del discorso è quello di un implicito referente positivo, che aiuta a mettere a fuoco le inadeguatezze del modo di affrontare la malattia che ci è abituale.

1. La seduzione di un sapere certo

Mentre il concetto di salute ci si presenta come indeterminato ed elusivo, la malattia è caratterizzata dalla certezza. La scienza medica, in quanto crea concettualmente le malattie, diventa socialmente una grande fabbrica di certezze. Ne possiamo avere un riscontro soggettivo ogni volta che mettiamo in movimento la macchina diagnostica: andiamo dal medico portando un sintomo di malessere, e ne riceviamo una diagnosi. La medicina decodifica il sintomo, facendolo rientrare in un quadro diagnostico determinato. Può darsi che la diagnosi non possa essere stabilita per insufficienza dell’apparato strumentale o per carenze conoscitive del terapeuta: resta tuttavia la convinzione che esista una malattia come realtà oggettiva, tale da poter essere colta da un sapere appropriato. Lo stesso schema sottende anche la diagnosi di «sindrome psicosomatica», che viene formulata quando, in assenza di un riscontro di patologia somatica, perdura la condizione sintomatica soggettiva.

Questo sapere certo è ancora più evidente nel caso in cui non esista la spia costituita dal sintomo di malessere: soggettivamente posso non sapere di essere portatore di malattia, ma il medico, utilizzando i mezzi diagnostici appropriati, può scoprire una malattia che non si è ancora rivelata. Su questa base funziona la medicina preventiva, che permette di scoprire la presenza di un carcinoma mammario o la positività

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al virus dell’AIDS. Procedendo più lontano in questa stessa direzione, incontriamo la diagnosi genetica, la quale può addirittura indicare la presenza di una malattia che si svilupperà soltanto molti anni dopo (come il morbo di Hungtinton, che spesso si manifesta solo dopo i quaranta anni).

Per quanto diverse tra loro, queste esperienze di rapporto terapeutico tendono a rafforzare la convinzione di base: il medico, grazie alla sua scienza, sa che cosa è la malattia. Questo sapere, proprio del medico, non è condividibile con il malato, se non in minima parte. Ciò è tanto più vero nella medicina scientifica contemporanea. Il gap tra le conoscenze specialistiche del sanitario e ciò che è accessibile all’uomo comune, anche se dotato di buona cultura, non è praticamente colmabile.

È con questa argomentazione, del resto, che molti medici tendono a considerare come irrealistica, la pretesa, fatta in nome dell’etica di un «consenso informato» a interventi diagnostici, terapeutici o di ricerca. Alla certezza del sapere medico, fa riscontro la sicurezza del malato. Egli è indotto così ad affidarsi al medico, il quale conosce la sua malattia. La medicina, creando l’impressione che quello che essa conosce della malattia sia la malattia, e che quindi non ci sia altro da cercare, rafforza il senso di sicurezza del malato che si appoggia alle certezze del sapere medico.

Proprio questa certezza, tuttavia, suscita perplessità. La «cultura del sospetto», cresciuta con la consapevolezza dell'Occidente, ci ha insegnato a diffidare soprattutto delle certezze. Esse crescono, infatti, in modo particolare all’ombra di quel sapere tendenzioso che è l’ideologia. È proprio della conoscenza ideologica, oltre al suo carattere aprioristico e al nascondimento dei rapporti di potere che essa favorisce, anche il comunicare una falsa sicurezza. Il sospetto che sorge è che il sapere certo sulla malattia sviluppato dalla medicina scientifica svolga una funzione ideologica: serve a mantenere immutata la realtà, invece che a cambiarla; maschera i rapporti di potere (in questo caso, l’impotenza che il paziente induce in se stesso, consegnandosi all’apparato sanitario, a cui

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attribuisce tutto il sapere e il potere); conferisce una falsa sicurezza.

Se è vero che nessuna operazione di creazione di sapere ideologico è così perfetta da non lasciare qualche traccia della realtà che maschera, ci sentiamo autorizzati a cercare dei segni. Può farci strada un paradosso così formulato dallo scrittore Wolfdietrich Schnurre: «Il sapere del malato è superiore a quello del medico. Altrimenti come potrebbe questi ogni giorno domandare: “Come va?”» 1.

È chiaro che la domanda non eccede di solito il livello della pura formalità. Nel migliore dei casi suppone la richiesta reale dei sintomi soggettivi di malessere o delle sensazioni di benessere. È una forzatura semantica che adottiamo consapevolmente, caricando la domanda di un significato che sembra alieno alla sua candida ingenuità. Attribuiamo alla domanda «Come va?» il valore di un indizio che ci rimanda a un sapere nascosto del malato stesso; un sapere che sfugge al medico; anzi, un sapere che nel suo genere è di un altro ordine rispetto a quello del medico, lo comprende e lo trascende. L’opera del medico, compreso il suo sapere specialistico, non ha altra funzione che quella di attivare questo sapere che è proprio del malato.

Come mai questa prospettiva ci è tanto estranea da sembrare una gratuita provocazione? Che cosa è avvenuto nel nostro modo di praticare la medicina, che ha portato a un esproprio totale del nostro sapere sulla malattia?

2. La rimozione del soggetto

Secondo il modello che prevale nella medicina corrente, il malato non ha un rapporto personale, né con la propria malattia, né con la riacquisizione della salute. Se cade malato, è perché diventa «vittima» di un capriccio della natura, di un germe patogeno o di un virus, oppure di un programma genetico

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sbagliato... Anche la guarigione, in questa prospettiva, è qualcosa che avviene al di fuori della persona del malato. Essa va attribuita al medico che ha fatto la diagnosi giusta, o ha prescritto l’antibiotico appropriato, o al chirurgo che ha eseguito l’intervento necessario. Il solo contributo del malato è di attenersi alle prescrizioni del medico e di non intralciare la sua opera. L’azione del medico è tutta rivolta all’eliminazione del disturbo. La malattia? Un inutile incidente!

Anche il linguaggio che il malato usa per designare la malattia illustra questo processo di allontanamento del fatto morboso dalla sfera personale. Nelle lingue che hanno anche il neutro, il pronome di questo genere viene usato per distanziarsi dal fenomeno. Ma anche le altre lingue conoscono dei modi in cui il parlante sottolinea l’estraneità della malattia da se stesso. Il linguaggio riconduce la malattia a un soggetto agente che si introduce nel corpo umano, inteso come luogo di un succedere che riduce l’uomo al ruolo di «patiens». L’uomo e la sua malattia rimangono, insomma, due realtà separate.

In forza di questa rappresentazione sottesa all’uso linguistico quotidiano della malattia, il rapporto tra il paziente e il medico si struttura come una trasmissione di responsabilità al medico. Chi si scopre un disturbo che intralcia il proprio benessere, si aspetta dal medico che, dopo aver individuato la malattia, attribuendole il giusto nome, la elimini. E il medico rivendica a se stesso la capacità e la volontà di eliminarla.

Il medico-filosofo Viktor von Weizsaecker ha coniato per questo atteggiamento nei confronti della malattia l’espressione Es-Stellung 2, ovvero la «posizione dell’Es»: la malattia è un non-Io, estranea ad esso come il pronome neutro; è qualcosa che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno; è sprovvista di un senso personale ed è comprensibile solo nei termini «scientifici», quando cioè è ricondotta a quei cambiamenti delle strutture cellulari o molecolari che sono esprimibili nei termini delle scienze della natura.

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La teoria e la prassi della medicina adottano esclusivamente la Es-Stellung. La responsabilità di questa situazione va attribuita ai medici? È uno dei luoghi comuni più ripetuti dai critici della medicina contemporanea (come Illich, Szasz ecc.) e dai movimenti che si richiamano alle medicine «dolci» o naturali: il malato deve accedere a un sapere da cui è stato escluso e recuperare un potere di cui è stato spossessato. Adottando l’ottica di tali atteggiamenti contro-culturali, si può parlare di un programma di rivolta del soggetto contro una tendenza attribuita alla medicina ufficiale a volerlo escludere dalla malattia. Ma si tratta di una lettura parziale e fuorviante della realtà.

La resistenza dei medici ad accettare il soggetto — e quindi il significato che la malattia può avere per la persona — è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento della medicina scientifica sul fronte della dimensione antropologica della malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove essa, interrogata appropriatamente, lascia trapelare la propria verità.

Rifacendoci ancora a Viktor von Weizsaecker, troviamo un’indicazione in una sua osservazione: «I malati si aggrappano all’Es per sfuggire all’io ed esercitano una seduzione sul medico affinché percorra con loro questa via che offre minore resistenza. La seduzione è dunque reciproca» 3. L’opposizione a dare un significato alla malattia — al di là di quello di puro segnale di una disfunzione organica — è perciò, semmai, il risultato di una collusione tra il medico e il paziente. Questa opposizione è così forte — osserva ancora lo stesso autore — che è difficile credere che derivi dalle creazioni più superficiali della psiche: «Si ha l’impressione che il malato non solo sperimenti la naturale estraneità della sua malattia all’io, ma ne abbia bisogno». I medici si comportano da medici perché tanti pazienti desiderano rinunciare alla loro responsabilità per la propria salute. Preferiscono, perciò, considerare la malattia

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come un non-senso antropologico, riconducibile alla spiegazione scientifica che ne dà la medicina come scienza della natura.

Questa lettura dei fatti ci obbliga ad abbandonare il comodo cliché diffuso dalla polemica contro la scienza medica contemporanea: quello, cioè, di una medicina «cattiva» che ha spossessato l’innocente paziente di ogni sapere e potere. La «medicalizzazione» della vita ci appare come un’operazione ambigua, non riconducibile allo schema del cattivo oppressore e della buona vittima. È come una conquista che avvenga con la connivenza del conquistato. Ci ricorda piuttosto l’Anschluss dell’Austria da parte dei nazisti tedeschi: l’invaso va incontro all’invasore con le bandiere spiegate...

3. La malattia «de-moralizzata»

La concezione della malattia che sottende la pratica della medicina attuale dell’Occidente è afflitta da un impoverimento di spessore antropologico che si concentra soprattutto nel mutismo della malattia: essa non è più un linguaggio articolato, dietro a cui possiamo indovinare un parlante. Questa riduzione non deve essere considerata come una conseguenza inevitabile della scientificità del sapere medico. Anche rimanendo nell’ambito della tradizione occidentale, siamo in grado di indicare esperienze di una medicina che è al tempo stesso scientifica e antropologica. Tale è stata la medicina greca.

Questa medicina non ha dichiarato semplicemente come insensato l’interrogativo relativo al perché della malattia. Si è distanziata dai tentativi di natura teologica di spiegare il senso della malattia in riferimento a una volontà divina, in particolare mediante l’archetipo della malattia come punizione di una colpa. Possiamo, anzi, affermare che la medicina scientifica dell’Occidente inizia con una decisa presa di posizione circa l’orizzonte entro il quale va iscritta la malattia: il male non va riferito a Dio, ma alla natura.

È emblematica a questo proposito l’affermazione di Ippocrate,

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padre-fondatore della nostra medicina scientifica, riguardo all’epilessia, conosciuta nel mondo antico sotto il nome di «morbo sacro». Il nome era già programmatico: il malato di epilessia, soggetto ad attacchi improvvisi e incontrollabili che lo portavano «fuori di sé», era ritenuto in particolare contatto con la divinità. Ippocrate ha insegnato ai suoi discepoli che nessuna malattia, neppure il «morbo sacro», doveva essere ritenuta causata dagli dèi: la causa andava invece ricercata nel corpo. Nasceva così la medicina «fisiologica», un modo di considerare la malattia che nessuna medicina che pretenda il carattere della razionalità potrà mai rinnegare.

Cercare le cause della malattia entro l’orizzonte della natura non equivaleva però per i Greci a una scelta di positivismo materialista. Alla natura dell’uomo, proprio perché «umana», vanno attribuite altre dimensioni, oltre quella organica: è psichica, sociale, spirituale, nonché etica, con riferimento quindi a una certa misura di responsabilità nella strutturazione del proprio destino. Entro l’ambito della medicina fisiologica greca, la malattia non va considerata solo col registro della passività — ciò che l’uomo subisce dalla natura ― ma anche con quello dell’attività: della sua malattia l’uomo è artefice.

La stessa medicina «laica», che faceva rifiutare a Ippocrate di attribuire una malattia agli dèi, rivendicava però al soggetto la responsabilità per il proprio male. Pitagora, cinque secoli prima di Cristo, seguendo l’opinione di Giamblico, uno dei più grandi medici dell’antichità, affermava: «Gli dèi non sono colpevoli delle nostre sofferenze; tutte le malattie e i dolori del corpo sono il prodotto delle dissolutezze».

Le «dissolutezze» sotto accusa non vanno intese restrittivamente, come trasgressioni di regole morali. I medici dell’antichità, pur rivendicando alla malattia un carattere morale, non erano moralisti. In quanto convinti assertori della dieta, consideravano le trasgressioni alimentari come minacce per il benessere e la salute ben più importanti delle trasgressioni che attirano l’attenzione di un moralista. Se non si vive

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secondo le esigenze della natura con quello che si mangia e si beve, con il giusto ritmo di lavoro e riposo, rispettando l'habitat (che comprende il potere risanante delle acque, dell’aria, del clima), avendo in tutte le cose la moderazione che fa evitare gli eccessi, rifuggendo dalle passioni che turbano l’equilibrio emotivo, si incorre in quelle «dissolutezze» che sono all’origine delle nostre malattie.

All’antica domanda — «Perché ci ammaliamo?» — la medicina antropologica risponde chiamando in causa non la divinità, ma l’uomo. Da questo punto di vista ci appare assolutamente inadeguata la medicina scientifica odierna, che implica una concezione dell’uomo piatta, dalla quale è stato evacuato tutto lo specifico umano. Questo può essere chiamata, a buon diritto, una medicina «de-moralizzata».

Non vogliamo con ciò dichiarare irrilevante il procedimento metodologico e pratico che consiste nel cercare la causa della malattia nei disordini funzionali e strutturali dell’organismo. La ricerca di microbi e di virus responsabili dei processi patologici è indispensabile, allo stato delle conoscenze attuali, perché la medicina possa rivendicare il titolo di razionale. Ma ciò non è tutto: è solo una parte di quella totalità integrata che costituisce il «soggetto». È forse il caso di dire che lo studio dell’albero rischia di farci dimenticare la foresta!

4. La malattia sotto il segno dell’umano

Oggi la considerazione del soggetto, in quanto artefice strutturale della malattia, è molto più complessa che al tempo di Pitagora. Province sempre più vaste sono state acquisite alla conoscenza antropologica. La chiave per penetrare nella comprensione dell’uomo è passata dal mito alle scienze umane: la sociologia, la linguistica, l’antropologia culturale, la storia, la psicologia — solo per menzionare le più importanti ― ci sanno fornire sull’uomo malato conoscenze imprescindibili per dare alla malattia umana tutto il suo spessore.

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A titolo di esempio: non possiamo oggi prescindere dalla scoperta da parte della psicoanalisi della motivazione inconscia, continente sommerso enormemente più ampio, complesso e influente sul comportamento di quella esigua regione che emerge alla coscienza e che possiamo raccogliere nel ristretto abbraccio dell’«Io». Anche quella vastissima zona del «Non-io» (Freud lo ha chiamato «Es», in un senso peraltro diverso da quello che abbiamo raccolto più sopra da V. von Weizsaecker), che però sono «io» come persona, influisce sulla salute e sulla malattia, sulla guarigione e probabilmente sulla morte. E le «dissolutezze» dell’inconscio sono molto più temibili di quelle della nostra psiche conscia! La psicanalisi lo ha dimostrato per quel ristrettissimo settore di malattie che chiamiamo, più o meno propriamente, psichiche (nevrosi e psicosi). Ma c’è motivo di credere che tutte le malattie, anche quelle etichettate come organiche, siano soggette alla stessa influenza della nostra psiche, conscia e inconscia.

Le «dissolutezze» che ci fanno ammalare perdono, se analizzate con le categorie delle scienze dell’uomo, ogni connotazione moralistica, per diventare quello che sono: un’articolazione dell’umano. La sociologia ci aiuta a capire quanto l’essere malato dipende da una organizzazione della vita sociale iatrogenetica. Si pensi, per fare solo un esempio, a quanto la disoccupazione (in quanto figura particolare della distribuzione del lavoro nella società) influisce sull’ammalarsi. E l’antropologia culturale potrebbe istruirci sull’incidenza che sul sorgere di determinate patologie, come le depressioni, ha un comportamento come la soppressione del lutto nella nostra cultura, la quale ha eliminato la morte dal nostro universo simbolico e sociale.

L’etica stessa può cambiare il nostro rapporto con la malattia, purché non le si attribuisca un ruolo di colpevolizzazione, bensì di responsabilizzazione. Ciò vuol dire che possiamo fare qualcosa di meglio con la nostra malattia che eliminarla come un sintomo insensato, caduto come un meteorite nel nostro universo personale, ma fondamentalmente estraneo ad esso. L’azione efficace per combattere il sintomo

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rimane fuori discussione: nessuna collusione con un dolorismo di natura psicopatologica. Ma solo l’azione che sappia combinare il capire all’eliminare risponde alle esigenze antropologiche ed etiche di un atteggiamento umano verso la malattia. Assumendo pienamente lo statuto di un messaggio da decifrare, questa diventa allora il punto di partenza di un cambiamento.

Ma vorremmo noi quella medicina che oggi è teoreticamente possibile, qualora ci decidessimo a fare in modo che il sapere sulla malattia che ci viene dalle scienze naturali si unisca in modo equilibrato e armonioso con quello delle scienze dell’uomo? Ogni civiltà ha la medicina che si merita. La nostra, che violenta quotidianamente l’umano nelle sue dimensioni sociali, psichiche e spirituali, non può pretendere che una medicina tagliata su misura. Come la nostra civiltà non può essere guarita con qualche iniezione di esotismo orientale, ma deve operare una vera metanoia, quella conversione che implica l’abbandono di una strada sbagliata, allo stesso modo deve operare la nostra medicina. Quella medicina senza soggetto — e quindi senza moralità — che manteniamo in piedi quando, come figli della nostra civiltà, pretendiamo di essere guariti dalla malattia senza cambiare i comportamenti di cui le malattie si nutrono, deve cedere il passo a una medicina umanizzata.

NOTE

1 Wolfdietrich Schnurre, Der Schattenfotograf, München 1978, p. 31.

2 Viktor von WeizsaeckerDer kranke Mensch, Stuttgart, 1951, p. 352.

3 Viktor von WeizsaeckerGrundfragen medizinischer Anthropologie, Tubingen 1948, p. 27.