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Sandro Spinsanti
LA MALATTIA SOTTO IL SEGNO DELL'AMBIGUITÀ
in S. Spinsanti - M.C. Koch Candela - G. Piana - G. Colombero - G. Di Mola - N. Cellini - A. Leori - G. D’Avanzo - P. Ricca - A. Burrone
La malattia follia e saggezza del corpo
Cittadella Editrice, Assisi 1988
pp. 7-20
Operatori della salute a confronto
Il binomio «follia» e «saggezza», prima di essere applicato alla malattia, può essere riferito all’incontro di studio che ha prodotto le riflessioni che confluiscono nel volume presente. L’incontro si è tenuto alla «Pro Civitate Christiana» di Assisi, per iniziativa dell'editrice Cittadella. Faceva seguito a due altri analoghi, dedicati rispettivamente al senso di colpa e alle separazioni nella vita 1. Caratteristica comune di questi incontri è quella di essere rivolti a «operatori della salute», nel senso più ampio del termine: psicoterapeuti, sanitari, operatori di pastorale. Nell'invitare a convenire per uno scambio su un tema prescelto operatori che rappresentano professionalità così diverse è implicita una sfida, di carattere così estremo che rischia di meritarsi la qualifica di «follia».
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È, dunque, un’impresa folle mettere insieme operatori della salute ― fisica, psichica e spirituale ― quando sembra inesistente qualsiasi ponte tra le diverse categorie professionali? Queste professioni hanno alle spalle una lunga storia di estraneità e di ostilità, talvolta neppure mascherata. Non è raro che medici, sacerdoti e psicologi considerino gli interventi degli altri operatori non come sinergici al proprio, bensì come antagonisti. La ruggine tra le diverse professioni della salute ha una giustificazione storico-culturale, in quanto queste professioni si sono costituite grazie alla successiva divaricazione e specializzazione della funzione terapeutica, originariamente omogenea e indifferenziata. Nelle società più arcaiche l’attività della guarigione viene esercitata da una sola persona: è l’uomo del sacro che opera la guarigione fisica, psichica ed emotiva, che assicura i legami sociali e simbolici che integrano il malato con il gruppo sociale, e che allo stesso tempo guida verso il trascendente. Quando la medicina si è strutturata come scienza ― per l’Occidente già fin dal tempo dei Greci ― è avvenuta una prima fondamentale disgregazione della funzione terapeutica unitaria: per successive modificazioni, il medico è diventato sempre più un’altra cosa rispetto al sacerdote. Con il prevalere della secolarizzazione, il ministro del sacro ha sempre maggiori difficoltà a giustificare la sua funzione e la sua stessa presenza in quei santuari dell'arte terapeutica che sono le moderne istituzioni sanitarie.
Un’ulteriore divaricazione ha portato alla formazione della professionalità dello psicologo,
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nella quale sono confluite alcune competenze mediche (come il trattamento delle cosiddette «malattie psicosomatiche») ed altre competenze mutuate dall’ambito tradizionale della pastorale (come il trattamento della colpevolezza in senso psicologico, l’orientamento ai valori, la ricerca del senso come guida nella vita nelle psicoterapie esistenziali).
Tra i professionisti che rappresentano modi così diversi di rapportarsi ai sintomi del malessere esistono, oltre ai possibili atteggiamenti di diffidenza per concezioni antropologiche inconciliabili, anche incomprensioni molto più circoscritte, come quelle legate ai linguaggi specialistici. Ognuno di questi approcci dell’uomo malato ha elaborato un sapere che resta per larga parte inaccessibile ai non iniziati. Quasi l’emblema stesso della barriera è il linguaggio medico, che fino all’epoca moderna si avvolgeva deliberatamente nella cortina impenetrabile del latino. Non meno nebuloso è oggi il linguaggio della medicina scientifica per tutti i non addetti ai lavori.
E in particolare per il malato stesso: i medici possono tranquillamente scambiarsi informazioni sul suo conto alla sua stessa presenza, senza che il malato sia in grado di entrare minimamente nel processo comunicativo. Ma anche il linguaggio degli psicologi è per lo più precluso a chi non abbia la loro specifica formazione professionale. Basti pensare allo «psicanalese», quale gergo specialistico... I teologi, a loro volta, hanno cessato anch’essi di parlare latino. Ciò non impedisce, tuttavia, che anche la loro disciplina abbia un rigore formale che si esprime in un linguaggio specializzato,
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che suona estraneo non solo ai cultori del sapere scientifico, ma anche a molti umanisti.
La difficoltà d’intesa tra le diverse province dell’impero terapeutico non è solo linguistico-formale. Settorializzando l’impresa rivolta a guarire, gli operatori hanno acquisito uno sguardo deformato, che vede soltanto una parte della realtà e ne elude altre. Lo abbiamo già potuto verificare concretamente nelle tematiche che hanno costituito gli incontri precedenti. Il senso di colpa, in primo luogo. Il linguaggio e la sensibilità popolare contrappone semplicisticamente, ma con molta efficacia, due diversi atteggiamenti, quando presume che il senso della professionalità sacerdotale sia quello di far venire i sensi di colpa, mentre lo psicologo mirerebbe a toglierli... Anche l’argomento delle separazioni nella vita ha visto gli operatori convenuti confrontarsi con uno schematismo semplicistico: come se, da una parte, la professionalità del teologo e quella dell’operatore sociale fossero schierate unilateralmente sul fronte della conservazione dei legami (non rompere, a nessun costo, le famiglie costituite...), mentre la professionalità dello psicoterapeuta tenderebbe a favorire i movimenti verso l’autonomia, interpretati univocamente come processi di autorealizzazione.
Considerata l’estraneità di questi mondi linguistici e operativi, si ripropone con maggior urgenza la domanda: è dunque una «follia» proporre un incontro tra professionisti che si ispirano a concezioni così diverse della salute e adottano metodologie di lavoro così irriducibili?
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O questo rischioso incontro è, invece, la cosa più saggia che ci impone la situazione attuale? Si tratta infatti di reagire a dei clichés che sono altrettanto limitanti per coloro che ricevono le prestazioni offerte dalle diverse relazioni di aiuto, quanto sono castranti per i professionisti stessi.
L’impegno assomiglia a una scommessa: quella che punta su una ricomposizione della figura del terapeuta, frammentata in un mosaico di figure professionali. Il progetto non può essere certamente quello di ricostruire l’unità originaria, sotto forma di un operatore indifferenziato e polivalente. L'incontro tra i diversi professionisti della salute è finalizzato a far loro acquisire, oltre all’identità irrinunciabile che caratterizza in ogni professione l’approccio all'uomo malato, un nuovo atteggiamento reciproco, quasi un nuovo «ethos».
Tra gli elementi costitutivi di tale atteggiamento indichiamo anzitutto una lealtà adulta tra gli operatori, fondata sulla rinuncia a ogni progetto imperialistico della propria disciplina e sul desiderio di integrazione. Da questo punto di vista, gli incontri tra operatori della salute che si svolgono alla Cittadella sono già più che una velleità o una semplice promessa: come sanno le persone che li hanno frequentati, circola in essi un’aria diversa rispetto a quella dei congressi che, ognuno nell’ambito della propria professione, siamo soliti frequentare.
La dinamica fondamentale di questo incontro è quella dell’ascolto reciproco. E dell’ascolto, tutti insieme, di una realtà «altra» rispetto
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a quella che riesce a catturare la rete costituita dal «sapere» e dal «saper fare» forniti dalla rispettiva professione. Questa situazione d’ascolto è terapeutica per l’operatore della salute. Anch’egli ha bisogno, infatti, di essere guarito, benché in senso diverso rispetto a colui a cui rivolge la sua opera. In quanto operatori che si collocano entro un orizzonte metodologicamente e praticamente demarcato dalla totalità dei bisogni dell’essere umano e sofferente, ognuno è affetto da un’ottica parziale. La professionalità, insieme alla competenza, conferisce al tempo stesso lo stigma della «deformazione professionale». L’ascolto, il confronto e l’integrazione svolgono un'azione risanante nei confronti delle deformazioni che si acquisiscono con la professione.
La parola al corpo
Il titolo dell’incontro stabilisce un riferimento della malattia a una griglia d’interpretazione dualistica, senza mediazioni e senza nuances. «Follia» e «saggezza» sono due termini di enorme pregnanza semantica. Più che come criteri di tassonomia clinica, nel linguaggio comune sono usati come simboli di quel processo di autorealizzazione, mediante il quale l’essere umano diventa ciò che è destinato ad essere per natura, oppure fallisce la messa in atto del suo essere. La «follia» equivale a mancare il bersaglio, mentre la «saggezza» lo centra; l’una e l’altra fungono come metafore di una fondamentale affermazione
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filosofica sulla natura dell’uomo.
Lo schema dualista allude anche alle due costellazioni che reggono, dal punto di vista antropologico, le rappresentazioni della malattia e della salute nella cultura dell'Occidente: la malattia è rappresentata o come un elemento di disordine ― il «nemico» ― che bisogna eliminare, oppure come un’esperienza umanamente significativa che va valorizzata.
La duplice costellazione si è coagulata intorno a due saperi sull’uomo: quello natural-scientifico, sul quale si appoggia la medicina, e il sapere delle scienze umane, che ispira prassi come quelle psicoterapeutiche di intervento sociale e pastorale.
Correlando la malattia con la follia e la saggezza del corpo, non si è voluto solo alludere ai due universi di sapere: si è inteso, più ampiamente, stabilire un riferimento al corpo come «parlante». Il «pathos» dell’uomo, sullo sfondo di questo campo enigmatico, acquista il valore di un messaggio da decifrare. Rispetto a questa prospettiva, le professioni sanitarie hanno diversa sensibilità e ricettività.
La risoluzione della malattia in linguaggio è stata operata felicemente dalla psicanalisi nell’ambito dei sintomi patologici di natura psichica ed emotiva, mentre non è avvenuta per le malattie di carattere somatico. La cultura psicanalitica ― salvo rare eccezioni 2 ― le ha trascurate, mentre quella medica le ha rese mute, togliendo loro la possibilità stessa di far udire la voce.
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Questo «silenzio» del corpo si rivela tuttavia, a un più attento esame, come un’attribuzione implicita di «follia» all’evento morboso. La medicina scientifica, tutta tesa all’abolizione del sintomo, tradisce una unilateralità che la rende la maggiore responsabile dell’impoverimento in senso antropologico che affligge la concezione della malattia, dominante nella cultura dell’Occidente.
L’ambito in cui ci si è tradizionalmente interrogati sul senso della malattia è quello religioso: in che rapporto sta la malattia con la volontà di Dio? Tale interrogativo, che sembrava destinato ad andare a ingrossare i relitti di un modo di pensare arcaico, è riemerso di recente in relazione all’AIDS. Questa malattia è una punizione con cui Dio colpisce un comportamento contrario alla sua volontà?
La malattia come castigo: espressioni di questo genere non dipendono solo dalle intemperanze verbali di qualche predicatore, da mettere sul conto della retorica ecclesiastica. Esse hanno, se non altro, il merito di riproporre questioni vecchie come l’umanità negli stessi termini in cui si sono tradizionalmente presentate alla coscienza. Il loro riaffiorare è una dimostrazione che il progresso etico-spirituale dell’umanità non procede in modo lineare, come quello tecnologico. Nell’epoca dei trattori non avrebbe senso arare i campi con l’aratro trainato dai buoi o mietere il grano con la falce; e la calcolatrice elettronica ha rapidamente fatto diventare antiquati tutti gli altri mezzi inventati in passato per fare i calcoli. Non è così, invece, per quanto riguarda le questioni fondamentali dell’uomo.
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Queste non possono mai essere accantonate come arcaiche. Anzi, le formulazioni originarie ― che magari hanno adottato il linguaggio del mito e sono più cariche di valore simbolico ― sono più pregnanti. In qualche modo sono da considerare come «insuperabili»: costituiscono un punto di riferimento obbligato, come un elemento del panorama che in montagna riappare, modificato ma sempre lo stesso, a ogni svolta della strada che sale. A tali questioni antropologiche fondamentali appartiene quella del senso della malattia, veicolata dall’archetipo della malattia come punizione di una colpa.
Lo spessore antropologico della malattia
Il problema del rapporto tra la malattia e l'azione di Dio non si è posto solo nel contesto del mondo religioso giudaico-cristiano. Anche nella cultura greca è stato affrontato; costituisce, anzi, una tappa fondamentale del pensiero antropologico, per gli influssi che ha avuto sulla prassi della medicina in Occidente. Possiamo affermare che la medicina scientifica inizia con una decisa presa di posizione circa l’orizzonte entro il quale va iscritta la malattia: il male non va riferito a Dio, ma alla natura. È emblematica a questo proposito l’affermazione di Ippocrate, padre-fondatore della medicina scientifica, riguardo all’epilessia, conosciuta sotto il nome di «morbo sacro». Il nome era già programmatico: il malato di epilessia, soggetto ad attacchi
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improvvisi e incontrollabili che lo portavano «fuori di sé», era ritenuto in particolare contatto con la divinità. Ippocrate ha insegnato ai suoi discepoli che nessuna malattia, neppure il «morbo sacro», doveva essere ritenuta causata dagli dèi: la causa andava invece ricercata nel corpo. Nasceva così la medicina «fisiologica», un modo di considerare la malattia che nessuna medicina che pretenda di avere il carattere della razionalità potrà mai rinnegare (la concezione antropologica dei quattro «umori» e del loro equilibrio va invece considerata come una costruzione storicamente condizionata, che oggi nessuno più riproporrebbe in senso letterale).
Cercare le cause della malattia entro l’orizzonte della natura non equivaleva però per i Greci a una scelta materialista. Alla natura dell’uomo, proprio perché «umana», va attribuita una dimensione psichica e spirituale, con notevoli conseguenze di natura etica. La malattia non va considerata solo col registro della passività ― ciò che l’uomo subisce dalla natura ―, ma anche con quello dell’attività: della sua malattia l’uomo è artefice, e quindi responsabile dal punto di vista morale.
La stessa medicina «laica», che faceva rifiutare a Ippocrate di attribuire una malattia agli dèi, rivendicava però al soggetto la responsabilità per il proprio male. Pitagora, cinque secoli prima di Cristo, seguendo l’opinione di uno dei più grandi medici dell’antichità, Giamblico, affermava: «Gli dèi non sono colpevoli delle nostre sofferenze; tutte le malattie e i dolori del corpo sono il prodotto delle dissolutezze».
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Le «dissolutezze» sotto accusa non vanno intese restrittivamente come trasgressioni dell’ordine sessuale. Per i medici dell’antichità, convinti assertori della dieta, le trasgressioni alimentari erano minacce ben più importanti per il benessere e la salute. Se non si vive secondo le esigenze della natura con quello che si mangia e si beve, con il giusto ritmo di lavoro e riposo, rispettando l’habitat (che comprende il potere risanante delle acque, dell’aria, del clima), avendo in tutte le cose la moderazione che fa evitare gli eccessi, rifuggendo dalle passioni che turbano l’equilibrio emotivo, si incorre in quelle «dissolutezze» che sono all'origine delle nostre malattie.
Questa «medicina antropologica» suona estremamente moderna al nostro orecchio. Ci richiama quegli orientamenti nella medicina di oggi che nascono dalla preoccupazione di promuovere un modo di vivere sano, che impedisca il sorgere delle malattie. Ciò presuppone il riconoscimento che il nostro modo di vivere è causa delle malattie. All’antica domanda ― «Perché ci ammaliamo?» ― la medicina antropologica risponde chiamando in causa non la divinità, ma l’uomo. Da questo punto di vista, antiquata è piuttosto la risposta della medicina «scientifica», che ricorre a un’antropologia piatta, dalla quale è stato evacuato tutto lo specifico umano. Anche dal punto di vista dei risultati, sarà sempre meno efficace di una medicina preventiva, che sappia identificare i comportamenti patogenetici e applicarsi al loro cambiamento.
Non vogliamo con ciò dichiarare irrilevante il procedimento metodologico e pratico che
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consiste nel cercare la causa della malattia nei disordini funzionali e strutturali dell'organismo. La ricerca di microbi e di virus responsabili dei processi patologici è indispensabile, allo stato delle conoscenze attuali, perché la medicina possa rivendicare il titolo di razionale. Ma ciò non è tutto: è solo una parte di quella totalità integrata che costituisce il «soggetto». È forse il caso di dire che lo studio dell'albero rischia di farci dimenticare la foresta!
Oggi la considerazione del soggetto, come artefice strutturante della malattia, è molto più complessa che al tempo di Pitagora. Province sempre più vaste sono state acquisite dalla conoscenza antropologica. La chiave per penetrare nella comprensione dell'uomo è passata dal mito alle scienze umane: la sociologia, la linguistica, l'antropologia culturale, la storia. la psicologia ― tanto per menzionare le più importanti ― ci sanno fornire sull'uomo malato conoscenze imprescindibili er dare alla malattia umana tutto il suo spessore.
Un solo esempio: la scoperta, da parte della psicanalisi, della motivazione inconscia, continente enormemente più ampio, complesso e influente sul comportamento di quella esigua regione che emerge alla coscienza e che possiamo raccogliere nel ristretto abbraccio dell'«Io». Anche quella vastissima zona del «Non-Io» (Freud lo ha chiamato «Es»...), che però sono «io» come persona, influisce sulla salute e sulla malattia, sulla guarigione e probabilmente sulla morte. E le «dissolutezze» dell'inconscio sono molto più temibili di quelle della nostra psiche conscia! La psicanalisi
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lo ha dimostrato per quel ristrettissimo settore di malattie che chiamiamo, più o meno propriamente, psichiche (nevrosi e psicosi).
Ma c'è motivo di credere che tutte le malattie, anche quelle etichettate come organiche, siano soggette alla stessa influenza della nostra psiche conscia e inconscia. E all'influenza delle idee: giuste o sbagliate. E all'influenza delle passioni: costrutti e o distruttive. Nell'orizzonte di una medicina antropologica, insomma, tutte le malattie sono intessute di quel filo aureo della vita di una persona che chiamiamo la sua «moralità».
L'intelligenza del senso
Una medicina veramente umana si costruisce solo sull'assunto-base contrario a quello corrente, il quale implicitamente presume che la malattia abbia un carattere di «in-sensatezza».
La prassi corrente sottolinea la richiesta fatta al malato di affidarsi a che è deputato alla cura del suo male. Le aspettative istituzionalizzate ― vale a dire, ciò che la società abitualmente si aspetta dal malato, e a cui questi deve uniformarsi, se non vuole che il suo comportamento sia considerato come anomalo ― mirano esclusivamente all'abolizione del sintomo, non all'interrogazione appassionata di esso, affinché lasci nelle mani del malato qualche traccia del messaggio esistenziale che ha per lui. L'uomo malato viene così apparentemente decolpevolizzato, mentre in realtà è deresponsabilizzato.
La conquista del senso della malattia partecipa
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del carattere notturno e misterioso della lotta di Giacobbe con l’angelo (cfr. Gen 33,23-33). La benedizione che rimane nelle mani del lottatore può avere un carattere doloroso, che lo costringerà a zoppicare tutta la vita. Nel quadro dall’antropologia teologico-biblica, là dove la guarigione è iscritta dentro l’opera della salvezza, l’emergere del senso della malattia ci appare come un momento costitutivo del processo della «soteria» (una realtà più vasta della guarigione in senso clinico, in quanto partecipa del carattere trascendente della salvezza). L’acquisizione di senso ottiene che dalla passività distruttiva della malattia e della morte scaturisca una possibilità di crescita.
Il senso non può essere donato a nessuno: va trovato all’interno dell’esperienza, grazie a un vero e proprio «lavoro semantico». La creazione del senso della propria malattia è come una porta che si apre solo dal di dentro: nulla vale a forzarla. Ma la ricerca può essere facilitata o impedita. Questo è il beneficio più duraturo che osiamo attenderci da incontri tra operatori della salute di diversa professionalità: che insegnino a chi si dedica agli esseri umani malati a contemperare l’azione e l’omissione (nel senso di rinuncia a operare in conseguenza del proprio bisogno nevrotico di guarire), la parola e il silenzio, la presenza e la distanza. La terapia, in questa ottica, è molto più che una riparazione dei guasti della salute e l’eliminazione dei sintomi. La relazione terapeutica, di conseguenza, sarà sempre e solo un’arte, che abbisogna più d'«esprit de finesse» che d’«esprit de géométrie».
NOTE
1 I lavori degli incontri sono stati raccolti in due volumi: Aa.Vv., In cammino oltre il senso di colpa, Assisi, Cittadella ed., 1984; Aa.Vv. Le separazioni nella vita, Cittadella Ed., Assisi 1986.
2 Esemplare, in questo senso, il volume di Dieter Beck, La malattia come autoguarigione, tr. it. Cittadella Ed., Assisi 1985.