Le mani sulla vita

Book Cover: Le mani sulla vita
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

LE MANI SULLA VITA

Società San Paolo, Alba 1990

pp. 175

INDICE

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7       Ai lettori

9       Prefazione

Capitolo I

NUOVE FRONTIERE DELLA COSCIENZA

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13      1. Una bioetica anche per la biosfera

17      2. Tornano nell’arca uomini e animali

23      3. La nuova biologia e il ripensamento della morale

27      4. Dopo la donna, il bambino oggetto

31      5. Uomo e donna ridefiniscono i ruoli

35      6. Donna e Chiesa: una buona notizia?

38      7. Nuovi dibattiti sulla pena di morte

42      8. Evangelizzare il diritto: dovere dei cristiani

45      9. Il teologo, attore del dibattito etico

Capitolo II

LA VITA DA TRASMETTERE

51      1 Quando la logica della tecnica corrompe la procreazione

59      2. Regole trasparenti per la procreazione artificiale

62      3. L’Europa protegge l’embrione

66      4. Scelte difficili, dopo la diagnosi prenatale

70      5. Vigilare per non cadere nella tentazione di barbarie

73      6. Eliminare i neonati handicappati?

78      7. Il luogo per nascere, amare, morire

Capitolo III

MALATTIA, SALUTE E SALVEZZA

83      1. Ricerca medica, ma senza calpestare la dignità del malato

87      2. L’ascolto che guarisce

91      3. Non demonizzare la malattia

95      4. Sull’Aids bisogna cambiare linguaggio

98      5. Curare anche quando non si può guarire

102    6. Per l’anziano c’è solo il cronicario?

105    7. Salute e qualità della vita

110    8. Il “testamento di vita”: pro e contro

Capitolo IV

TRA PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ

115    1. Eros e pathos: le due facce della vita

119    2. La cultura secolare riscopre il digiuno

123    3. Il pellegrinaggio: una “psicanalisi” per il popolo?

126    4. È l’ora del confessore laico

129    5. Il transpersonale, ovvero la psicologia dell’altezza

134    6. Soffia Occidente lo spirito dell’Oriente

140    7. La meditazione, esperienza che guarisce

Capitolo V

INCONTRI CON TESTIMONI DELLA PIENEZZA

145    1. André Chouraqui: «Ho lottato con Dio per comprenderne la Parola»

151    2. Françoise Dolto: «C’è un’incredibile fonte di gioia nei Vangeli»

156    3. Stanislav Grof: «È possibile ridestare le energie addormentate dello spirito»

159    4. Claudio Naranjo: «Psicoterapia e sapienza delle religioni sono complementari»

163    5. Miek e Hans Ringrose: «A sessant’anni abbiamo cominciato a capire cosa significa vivere»

167    6. Bernhard Häring: «Voglio usare la voce per annunciare la gioia»

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Ai lettori

Il consueto omaggio destinato a voi lettori risponde anche a una richiesta che in questi anni ci è stata ripetutamente avanzata. Per questo abbiamo raccolto gli interventi e le riflessioni che sul versante etico con Sandro Spinsanti ci hanno proposto in questi ultimi anni alcuni testimoni che hanno incarnato «nella loro vita quel cambiamento di paradigma verso il quale si rivolge la nostra speranza»: André Chouraqui, Françoise Dolto, Stanislav Grof, Claudio Naranjo, Bernhard Häring.

Siamo interrogati da vistose novità nel campo della bioetica, della biologia, della trasmissione della vita. Siamo interpellati dalle domande gravi che pongono al cristiano la psicologia, la psicanalisi, l’eros e il pathos. Ed è più che mai necessario riaffermare il primato dell’etica, utilizzando i cambiamenti come una opportunità per ampliare i confini della nostra coscienza, individuale e comunitaria.

Questo volume, scrive Giannino Piana, presidente dell’Associazione teologi moralisti, intende offrire all’uomo gli strumenti per trovare nella situazione di particolare complessità che vive oggi ― al di fuori di qualsiasi tentazione di evasione o di demonizzazione — «la strada di una “saggezza” umana e divina, capace di restituire sapore all’esistenza quotidiana perché sia pienamente degna di essere vissuta».

Offriamo a voi, cari lettori, questa raccolta di interventi come premio alla vostra fedeltà e alla vostra fiducia, certi che saprete apprezzare la ricchezza delle suggestioni in essi presenti, al pari della profonda spiritualità che li ispirano.

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PREFAZIONE

Ciò che anzitutto sorprende accostando le pagine di questo volume è la profonda unità di ispirazione e di metodo che le contraddistingue.

La varietà dei temi trattati, spesso occasionati da esigenze di attualità e persino di “cronaca” (nel pieno rispetto dei canoni del giornalismo), trova infatti il suo centro di convergenza nell’istanza di fondo che costituisce la preoccupazione dominante dell’autore: quella di favorire la crescita della coscienza personale, di stimolare cioè un processo di vera umanizzazione.

È dunque l’istanza etica, intesa nel suo significato più nobile, a rappresentare il “filo rosso” che congiunge trasversalmente le tessere di un mosaico, nel quale si intrecciano dibattiti teorici e concreti riferimenti a vissuti particolari, analisi culturali e ascolto di esperienze e testimonianze personali.

Ma è bene subito precisare, per evitare possibili fraintendimenti, che l’etica alla quale Spinsanti fa riferimento non si risolve in un’asettica elaborazione di semplici “regole del gioco”. Essa fa invece costantemente appello ad una precisa visione dell’uomo e del mondo, che se ha da un lato il suo più radicale fondamento «nell'humus della rivelazione cristiana, è supportata dall’altro anche dagli esiti fecondi dell’attuale ricerca antropologica e religiosa. Sta forse proprio qui l’originalità dell’approccio “metaetico” dell’autore: nell’avere cioè individuato ― al di fuori di ogni tentazione sincretistica ― un terreno di incontro e di scambio tra le grandi indicazioni evangeliche e gli orientamenti derivanti dall’analisi psicologica — condotta in particolare con il metodo transpersonale ― e dallo sviluppo di un serio ecumenismo tra le religioni, finalizzato al ricupero di una nuova “sapienza”.

Questa scelta di fondo, di ordine epistemologico, consente di cogliere immediatamente il nesso che lega tra loro, anche sul piano del contenuto, i capitoli in cui si articola la riflessione, che ha come oggetto prevalente

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le difficili (talora drammatiche) questioni poste dal continuo progresso della scienza e della tecnica, specialmente in campo biomedico. L’accostamento ad esse nel tentativo, pur necessario, di individuare norme concrete di comportamento, è sorretto dall’impegno prioritario di mettere a fuoco un paradigma di interpretazione della realtà, che, superando le tradizionali letture positivistiche o rigidamente razionalistiche, si apra all’assunzione di una modalità esperienziale e mistica.

I riflessi di questo paradigma appaiono evidenti tanto sul terreno dei rapporti tra uomo e mondo infraumano quanto sul terreno dell’analisi di alcune complesse problematiche della vita dell’uomo. La concezione unitaria del reale, che riconosce l’interconnessione delle parti e la loro relazione trascendente con il tutto, consente infatti di ripensare la natura come elemento costitutivo della soggettività umana, mentre spinge, nello stesso tempo, l’uomo a considerare l’unità profonda del proprio essere — corpo e spirito ― come criterio valutativo di ogni processo manipolativo. Malattia e salute vengono, di conseguenza, concepite come esperienze che ineriscono alla globalità della persona, che rinviano, in altri termini, all’uomo intero e alla rete di relazioni che egli intrattiene con gli altri e con l’ambiente.

In questo quadro vanno collocate le preziose indicazioni che concernono il senso e i limiti delle diverse forme di intervento sulla vita umana, sia nella sua fase di insorgenza — si pensi alla possibilità di modificare i meccanismi naturali della fecondità ― che nella sua fase terminale. Il potere che l’uomo è venuto mano mano acquisendo nei confronti di se stesso e del mondo è infatti carico di pesanti ambiguità: può concorrere a dilatare gli spazi della libertà e dell’umanizzazione, ma può anche dar luogo — e i segni di questo risvolto negativo sono già ampiamente presenti ― al pericolo di nuove schiavitù e di nuove alienazioni.

La corretta regolazione del comportamento non dipende tuttavia soltanto dall’individuazione di criteri etici aggiornati, ma dalla creazione delle condizioni perché le decisioni vengano assunte nell’ambito di contesti autenticamente umani. È questa la ragione che spinge Spinsanti a privilegiare la famiglia ― altro polo centrale dei suoi interessi di studioso — come spazio a partire dal quale vanno affrontati e risolti i più difficili dilemmi morali. Essa è il luogo per nascere, per amare e per morire; è il luogo in cui trova regolazione spontanea la tensione tra natura e desiderio; è, infine, il luogo in cui differenza e uguaglianza si compongono nell’orizzonte di una reciprocità, fondata sulla solidarietà e sul dono.

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Si rischierebbe, d’altra parte, di non cogliere tutta la ricchezza di suggestioni che il volume presenta se si dimenticassero gli accenti di profonda spiritualità — mai di astratto spiritualismo — che ne ispirano le pagine. L’etica raggiunge la sua piena verità solo laddove si apre ad una realtà che la trascende; dove si fa consapevole del proprio limite e della necessità di confrontarsi e di essere integrata in una pratica di vita che consenta all’uomo di uscire dalla tentazione del narcisismo per imparare ad accettarsi per quello che è, ricuperando un rapporto realistico anche con il mistero della sofferenza e ritrovando i ritmi della natura e della storia. Il digiuno e il pellegrinaggio, la meditazione interiore e l’appello ad una guida spirituale sono altrettante modalità di un processo teso a restituire all’uomo la consapevolezza della propria unità e insieme a consentirgli l’accesso esperienziale al proprio centro vitale in cui si dischiude la percezione della trascendenza. Le stesse testimonianze di uomini e donne che hanno incarnato nella loro vita ― in ambiti e forme culturali diverse — questa ricerca assume valore di modello cui ispirarsi per acquisire questa capacità.

Il libro curato da Spinsanti è perciò, in definitiva, un libro di spiritualità, nel senso più ampio e più genuino del termine. Un libro che — pur nella varietà dei registri — è proiettato verso un obiettivo unitario: fornire all’uomo, che vive oggi in una situazione di particolare complessità, gli strumenti per trovare in essa — al di fuori di qualsiasi tentazione di evasione o di demonizzazione ― la strada di una “saggezza” umana e divina, capace di restituire sapore all’esistenza quotidiana perché sia pienamente degna di essere vissuta.

Giannino Piana

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Capitolo I

NUOVE FRONTIERE DELLA COSCIENZA

Non abbiamo che da guardarci attorno: ovunque vistose novità ci interpellano. Siamo anche arrivati a mettere le mani nel delicato congegno genetico che assicura la riproduzione della vita. La nuova biologia e la genetica, la rottura di equilibri ecologici e un nuovo modo di considerare gli animali: è il nostro stesso habitat che cambia. Si modifica l’identità sessuale: uomo e donna cambiano i loro rapporti nella società e nella chiesa, assumendo ruoli diversi. Per qualcuno tutti questi cambiamenti, e in particolare la loro rapidità, sono fonte di sgomento. L’ideologia del progresso, come marcia trionfale dell’umanità di conquista in conquista, trainata dalla locomotiva della scienza, non ha più corso. Assumeremo, dunque, un atteggiamento di negativismo a priori di fronte alle novità? C’è un’alternativa più costruttiva: utilizzare i cambiamenti — biologici, psicologici e sociali — come un’opportunità per ampliare i confini della nostra coscienza, individuale e comunitaria. La coscienza non cresce per accumulazione quantitativa, ma per salti qualitativi. Ciò che ci provoca con la sua novità può anche diventare, dopo essere passato al vaglio della critica, uno stimolo per la crescita. Nelle zone di frontiera, dove prende forma la nuova coscienza dell’umanità, si delinea anche un diverso stile di presenza dei cristiani.

1. Una bioetica anche per la biosfera

Piante e animali sono entrati nella nostra coscienza. È un avvenimento di grande importanza per la crescita spirituale dell’umanità, uno di quei gradini che segnano un salto di qualità. Parliamo della presenza della natura alla coscienza nel duplice significato della parola: come qualcosa di cui si prende coscienza, cioè di cui ci si accorge, e come una realtà che crea

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un obbligo morale, cioè verso cui ci si sente obbligati. Non vogliamo dire con questo che l’umanità solo oggi si renda conto di essere circondata dalla natura, vivente e non vivente, di essere essa stessa una parte della natura: questa coscienza è antica quanto l’umanità stessa. Questa natura tuttavia era, per definizione, l“oggetto” che si contrapponeva al soggetto umano. Luogo da cui attingere le risorse necessarie per la sopravvivenza e per alcuni occasione di contemplazione, di ispirazione poetica, di elevazioni religiose; ma non una fonte di interpellazione etica. Nella tradizione dell’Occidente la natura non si rivolgeva alla coscienza morale dell’uomo.

L’elaborazione di una dottrina dei doveri è avvenuta sempre intorno all’uomo come persona. È istruttivo considerare il posto che spetta agli animali e alle piante nei sistemi etici tradizionali. Questi non parlano di un obbligo morale dell’uomo nei loro confronti; se un obbligo esiste, esso va ricondotto ai doveri che l’uomo ha verso se stesso (per esempio: non deve torturare gli animali, per non cedere alla crudeltà; anche la distruzione immotivata della natura può essere deprecabile dal punto di vista del controllo che l’uomo deve avere sulle passioni); ma dagli esseri naturali, che non siano altri uomini, non proviene alcuna interpellazione. Il «dialogo con la natura» _ a meno che non sia concepito come un momento di poesia o una figura retorica ― è lasciato come esperienza alle religioni astoriche, che non si sono ancora sottratte al fascinosum et tremendum del sacro percepito negli avvenimenti naturali.

L’uomo si è collocato con prepotenza al centro del creato, considerando rilevante per l’etica solo ciò che si eleva all’altezza del suo sguardo. È stata già una difficile impresa innalzare a soggetto etico, che interpella e obbliga in un rapporto interpersonale, alcune categorie di persone appartenenti alla specie umana (gli schiavi, per lunghissimo tempo e in numerose culture; gli indios incontrati dai conquistadores in America; le donne, le quali nel Medioevo si sono viste contestare da alcuni teologi perfino l’anima...); per la natura non umana la possibilità di entrare in un rapporto con l’uomo che non fosse di utilizzazione strumentale sembrava esclusa a priori. L’uomo si considerava «signore e padrone della natura» (Cartesio); la regola fondamentale dell’etica razionalista stabilita da Kant (trattare

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l’“altro” come fine, non come mezzo) si applicava solo all’“altro”, a cui veniva riconosciuto carattere umano, non ai viventi in genere. Come caso emblematico, possiamo riferirci al posto che il filosofo Spinoza attribuisce agli animali nella sua Ethica: «La legge che proibisce di ammazzare gli animali è fondata piuttosto sopra una vana superstizione e una femminea compassione, anziché sulla sana ragione. Il dettame della ragione di ricercare il nostro utile prescrive, bensì, di stringere rapporti di amicizia con gli uomini, ma non coi bruti o con le cose la cui natura è diversa dalla natura umana... E tuttavia io non nego che i bruti sentano, ma nego che per questa ragione non sia lecito provvedere alla nostra utilità o servirci di essi a nostro piacere, e trattarli come meglio ci conviene, giacché essi non si accordano per natura con noi, e i loro affetti sono per natura diversi dagli affetti umani».

Contro quest’etica, che pretende di considerare come irrilevanti gli altri viventi, si erge, come un duro atto d’accusa, l’affermazione di Albert Schweitzer: «Un’etica che si occupa solo degli esseri umani è disumana». Oggi sentiamo il bisogno di far posto alle piante e agli animali. Anche essi si stanno elevando ad altezza del nostro sguardo; forse non è lontano il tempo in cui potremo considerarli come nostri vis à vis, sentirci interpellati e provare di conseguenza un senso di obbligo morale nei loro confronti.

Il mondo della vita non umana sta entrando nella nostra coscienza attraverso due strade. La prima è quella della consapevolezza razionale che ci è fornita dalla mentalità ecologica. Ci rendiamo conto che la vita sul pianeta forma un tutt’uno. Non si può intervenire brutalmente su una parte di essa, senza sconvolgere tutto l’organismo. L’inquinamento da una parte, e la riduzione delle risorse dall’altra, ci ripropongono la necessità di agire responsabilmente, prevedendo anche le ripercussioni negative delle nostre azioni sulla biosfera, comprese quelle che si manifesteranno soltanto a lunga scadenza.

In modo sintetico potremmo dire che la biosfera richiede una bioetica, cioè un agire responsabile che si preoccupi della conservazione della vita.

L’altra via attraverso cui la natura si mette al centro della nostra coscienza è quella che potremmo chiamare “transpersonaie”.

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A differenza del primo atteggiamento, che sostanzialmente è riconducibile entro un orizzonte antropocentrico (salvare la natura equivale, in pratica, a garantire la sopravvivenza dell’umanità), la lunghezza d’onda di tipo transpersonale porta l’uomo al di là del riferimento a se stesso, in quanto centro e fine dell’universo. Reagendo alla visione frammentaria che considera l’uomo separato dalla natura, e la natura stessa separata in parti, l’istanza transpersonale promuove una visione che riconosce l’interconnessione delle parti e un loro rapporto trascendente con il tutto. Anzi, con il Tutto: perché questo è più della somma delle parti e non può essere compreso se non ricorrendo al divino, a cui l’uomo, come ogni altra forma vivente, partecipa.

Questa è la dimensione della vita che si apre al di là della “persona”: sintesi suprema, quest’ultima, del vivente, ma anche maschera; epifania, ma anche parziale eclissi dell’Essere. Vi si accede attraverso la modalità esperienziale che potremmo chiamare mistica. È un segno interessante della nuova cultura che circola nel nostro tempo il fatto che il richiamo a questa considerazione della vita, che è stato sempre vivo nell’ambito delle religioni, oggi provenga da quella corrente della psicologia che si è data per l’appunto la qualifica di “transpersonale”. Ci si è resi conto, infatti, per esprimersi con le parole di Erich Fromm, che il problema umano centrale è «come superare la separatezza, come realizzare l’unione, come trascendere la propria vita individuale e trovare l’unità».

La concezione mistica o transpersonale della vita richiede anche un’etica corrispondente. Ovvero, un adeguamento della parte pulsionale dell’uomo a questa visione della realtà. Per esprimersi col linguaggio dell’antichità cristiana, si tratta di convertirsi, individualmente e comunitariamente, da un comportamento condizionato dal vizio capitale della “gola” a uno ispirato alla virtù della “eucaristia”. La gola, nell’antropologia spirituale dei padri, equivaleva a un’organizzazione della vita umana intorno al consumo. C’è un modo di “consumare” l’universo, e quindi di rapportarsi alla vita, che è lo stato di coscienza dell’uomo spirituale. Questa educazione all’“azione di grazie” è la nuova frontiera dell’umanità, a cui il cristianesimo può apportare un contributo unico.

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2. Tornano nell’arca uomini e animali

Qualche anno fa un filosofo americano ha proposto una formula per sintetizzare i doveri morali che ci sono imposti in quest’epoca di crisi planetaria. L’ha chiamata lifeboat ethics, «etica da scialuppa di salvataggio». Con questa formula intendeva giustificare il suggerimento di ritirare gli sviluppi ai Paesi poveri: siccome non ci si può salvare tutti, che sopravvivano almeno quelli che hanno più chances. La sensibilità morale dei più giudicherà cinica la proposta. Eppure c’è da scommettere che saranno molti a trovare perfettamente ragionevole, e quindi moralmente giustificabile, applicare l’etica da scialuppa di salvataggio agli animali. Il nostro pianeta non ha più risorse per tutti; la nave sta già affondando sotto il peso del genere umano: non possiamo prendere con noi sulla scialuppa di salvataggio anche le altre specie, col rischio del suicidio generale. Anche senza condividere l’opinione che la situazione sia arrivata al punto di una competizione radicale per la sopravvivenza, molti ritengono un lusso inopportuno preoccuparci degli animali, investire denaro ed energie per salvare qualche specie in via di estinzione o per procurare qualche comfort agli animali addomesticati che vivono con noi.

Nonostante ciò, registriamo un’ondata di interesse nei confronti degli animali, che investe anche una sede che non ha mai degnato gli animali di una seria considerazione: il pensiero filosofico ed etico. Non appena la filosofia ha cominciato a occuparsi seriamente degli animali, osserva Mary Midgley in un libro che fa il punto su questo settore del dibattito filosofico contemporaneo (Perché gli animali, Milano 1985), si è trovata a confrontare una moltitudine di problemi vasti e stimolanti: il significato dell’uguaglianza, il ruolo della ragione nella vita dell’uomo, la relazione tra ragione e sentimento, il fondamento del contratto sociale, l’importanza del linguaggio, i concetti di infanzia e di maturità, l’immagine di sé dell’uomo in relazione all’universo fisico. Questioni che il pensiero occidentale ha lasciato in gran parte senza risposta. La ragione della disattenzione della filosofia è presto trovata: la nostra tradizione culturale non ha mai attribuito un valore intrinseco agli animali, ma semmai un valore utilitaristico. Il pensiero religioso ha regolato

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la questione animale ordinando gerarchicamente gli animali sotto l’uomo. Il comando biblico di «dominare sui pesci del mare, gli uccelli del cielo, e tutti gli animali che strisciano sulla terra» (Gen. 1,28) è stato spesso interpretato come diritto a qualsiasi fruizione utilitaria e dominio dispotico. La teorizzazione teologica della natura dell’animale come privo di anima immortale ha fornito il supporto ad ogni possibile arbitrio. La Bibbia conteneva numerosi altri testi che suggerivano un atteggiamento diverso nei confronti degli animali, a cominciare dal racconto “yahvista” della creazione, in cui all’uomo non è prescritto di «assoggettare la terra», bensì di «coltivarla e custodirla» (Gen. 2,15): sulla natura animale e vegetale non ha un dominio assoluto, ma piuttosto un compito di amministratore responsabile. Questa prospettiva è stata per lo più disattesa, fino a un periodo molto recente.

La sorte degli animali non migliorò quando il pensiero occidentale, secolarizzandosi, tolse Dio dal trono per metterci l’uomo. Il pensiero laico e umanista si è costruito, fin dal Rinascimento, sull’esaltazione della ragione. Anche la celebrazione illuministica dell’intelletto come centro dell’esistenza dell’uomo ha contribuito a scavare un fossato ancor più profondo tra l’uomo e gli animali. Se questi sono privi di ragione, e se il valore e la dignità dipendono unicamente dalla ragione, gli animali non contano nulla. L’anima prima, e la ragione poi, impedirono quindi di riconoscere un qualche legame significativo tra l’uomo e le altre specie.

Una conseguenza vistosa di questa concezione fu l’esclusione del rapporto con gli animali dalla sfera della morale. Il modo di comportarsi verso di loro fu considerato irrilevante e le rivendicazioni a favore degli animali come del tutto prive di senso. Cartesio, fondando nel secolo XVII la scienza moderna sul dualismo anima-corpo, peggiorò notevolmente la posizione degli animali. Identificò così totalmente l’anima o coscienza dell’uomo con la ragione, da concludere che gli animali non potevano essere consapevoli, ed erano quindi soltanto degli automi. Gli animali vennero quindi degradati a livello di macchine, solo un po’ più complicate di un orologio... La via era così aperta per l’utilizzazione degli animali per fini scientifici. Anche l’antichità aveva conosciuto la sperimentazione sugli animali per

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scoprire la struttura interna del corpo. Galeno stesso, punto di riferimento obbligato dell’antica medicina, sezionò una quantità di cadaveri. Ma solo la rivoluzione scientifica dell’epoca moderna adottò sistematicamente la sperimentazione animale per la conoscenza scientifica del soggetto umano.

Nella seconda metà del secolo scorso in tutte le nazioni sviluppate la medicina prende programmaticamente la via della sperimentazione. La pratica medica che si ispirava alla ricerca di laboratorio, fatta su animali viventi, divenne il prototipo della professione moderna. La competenza professionale dei medici era stabilita sulla base della ricerca sugli animali. Dai laboratori di fisiologia la ricerca e la sperimentazione si diffusero nelle scienze della patologia, farmacologia, batteriologia, richiedendo un numero crescente di cavie animali. Gli spettacolari progressi medici, soprattutto con l’avvento dell’immunologia, dimostravano non solo la validità intellettuale, ma anche il beneficio pratico dell’approccio sperimentale. Milioni di vite umane venivano salvate, mentre nessuno si prendeva la briga di contare quelle animali che venivano sacrificate. La scienza acquistava un valore assoluto, tanto più difficile da mettere in discussione, in quanto si presentava come l’unica forza capace di sconfiggere la malattia e garantire la salute dell’uomo.

Quando le tradizioni di ricerca medica sperimentale furono importate dalla Francia e dalla Germania in Inghilterra, sorse un movimento di protesta contro la crudeltà esercitata nei confronti degli animali. Si delinea così, sul finire del XIX secolo, una divaricazione tra l’atteggiamento degli scienziati e quello umanitario, che andrà sempre più approfondendosi in seguito. Gli scienziati si barricano dietro la sacralità della scienza e trattano gli oppositori della sperimentazione animale come dei retrogradi oscurantisti, che si oppongono al progresso, e considerano le loro richieste di rispetto degli animali come dei sentimentalismi isterici. Questa posizione è rappresentata con la massima chiarezza da Claude Bernard, il fisiologo francese fondatore della medicina sperimentale. La sua Introduction à l'étude de la médecine expérimentale (1865) viene ancora oggi citata esemplarmente come il trionfo della più lucida e spietata razionalità.

Sull’altro versante della barricata, gli oppositori della sperimentazione

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contrapponevano ai richiami alla ragione e alla scienza argomentazioni dal forte impatto emotivo. A cominciare dal termine stesso “vivisezione”, sotto la cui egida condussero la loro campagna. Il termine, di origine secentesca, ha una forte carica emotiva, ma difetta di precisione. Lascia intendere che gli animali sui quali vengono condotti gli esperimenti siano torturati. Di fatto, invece, il termine “vivisezione” denota sperimentazioni di ogni genere, incluse quelle in cui non si ricorre a un’incisione chirurgica e le cavie vengono anestetizzate per evitare loro il dolore.

Le più violente campagne antivivisezioniste rafforzano l’impatto del termine con qualche foto di effettiva tortura nei confronti di un animale. Si costruisce così un’immagine bieca del ricercatore: viene messo alla gogna come un sadico che si diletta in esperimenti superficiali e inutili, sfogando le sue pulsioni morbose e perseguendo meschine ambizioni di carriera.

L’incomprensione tra fautori e oppositori della sperimentazione animale ha un carattere estremo, che ne fa un caso esemplare di fallimento della comunicazione tra esponenti di posizioni ideologiche ed etiche diverse. A spese, comunque, degli animali.

Bisogna realisticamente riconoscere che l’obiettivo della totale abolizione appare più lontano ora di quando si è articolato per la prima volta, un secolo fa. L’attacco sferrato all’utilità medica e scientifica della medicina sperimentale è fallito. Anzi, l’uso della sperimentazione sugli animali si è esteso ben oltre l’ambito strettamente medico. Attualmente solo una percentuale piuttosto limitata degli esperimenti sugli animali può essere classificata come medica. Milioni di animali sono usati per provare la nocività di cibi, pesticidi, prodotti industriali, armi, cosmetici, coloranti per alimenti... Gli psicologi sperimentali sembrano aver preso il posto dei fisiologi dell’Ottocento nel ricorso a sperimentazioni che utilizzano il dolore: per verificare, ad esempio, teorie sull’apprendimento, sugli effetti della punizione o della deprivazione sensoriale. La causa degli animali è dunque irrimediabilmente compromessa? Continueranno ad essere indefinitivamente sacrificati al mito del “grande progresso illimitato”?

Un fatto culturale nuovo, presupposto per una modifica profonda

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dell’atteggiamento nei confronti degli animali, è avvenuto negli ultimi decenni. Gli impulsi decisivi a dare un posto di rilievo agli animali sono venuti proprio dalla scienza, più precisamente quella parte della scienza che, rinunciando a studiarli per scopi utilitaristici, si è dedicata a osservare i comportamenti nell’ambiente naturale (si pensi all’etologia e all’opera di Konrad Lorenz). «Per la prima volta nella storia della civiltà qualcuno interessato agli animali per conoscerli ― e non per nutrirsene, per mettere loro il giogo, cacciarli, imbalsamarli — è stato in grado di ampliare con i mezzi della scienza le nostre conoscenze, e di trasmetterle in parte a un’opinione pubblica curiosa. Gli animali sono in qualche misura entrati nella realtà. Con l’aiuto impensato della televisione, Darwin ce l’ha fatta: gli abitanti delle città hanno cominciato ad accorgersi della biosfera» (Mary Midgley).

Il cambiamento di atteggiamento nei confronti degli animali è vistoso nell’ambito della sensibilità ecclesiale. Le posizioni zoofile hanno tradizionalmente trovato poca risonanza entro la Chiesa cattolica, a differenza degli ambienti protestanti, soprattutto inglesi. Di recente, invece, si sono registrate delle prese di posizione ufficiali molto autorevoli anche nella Chiesa cattolica. In occasione dell’VIII centenario di san Francesco, nel 1982, Giovanni Paolo II ha tenuto ad Assisi un discorso che può essere ritenuto la “magna charta” dell’ecologismo cattolico. «San Francesco», ha detto il Pontefice, «sta dinanzi a noi come esempio di inalterabile mitezza e di sincero amore nei confronti degli esseri irragionevoli che fanno parte del creato... Egli guardava il creato con occhi di chi sa riconoscere in esso l’opera meravigliosa della mano di Dio... Ad un simile atteggiamento siamo chiamati anche noi. Creati a immagine di Dio, dobbiamo renderlo presente in mezzo alle creature “come padroni e custodi intelligenti e nobili” della natura e “non come sfruttatori e distruttori senza alcun riguardo”». Queste ultime parole sono citate dall’enciclica Redemptor hominis, che introduce una vistosa correzione nella concezione teologica che accentua il compito di «assoggettare la terra» (Gen. 1,28), a scapito del comandamento di «coltivarla e custodirla» (Gen. 2,15). Lo stesso Pontefice è tornato sull’argomento qualche giorno più tardi, inviando un messaggio ai partecipanti alla “Giornata nazionale

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dell’ecologia e della zoologia”: «La testimonianza di Francesco induca gli uomini di oggi a non comportarsi da “predatori” dissennati nei confronti della natura, ma ad assumersi la responsabilità di essa, avendo cura che il tutto rimanga sano e integro, tale cioè da offrire un ambiente confortevole anche agli uomini che verranno».

Un gesto di maggiore rilevanza simbolica aveva fatto lo stesso Giovanni Paolo II nel 1979 proclamando, con bolla pontificia, san Francesco d’Assisi «patrono dei cultori dell’ecologia». Forse, inconsapevolmente, il Pontefice esaudiva una richiesta che era stata formulata, con intenzione polemica, dallo storico americano Lynn White. In un saggio pubblicato nel 1967 ― Le radici storiche della nostra crisi ecologica ― White sosteneva la tesi che l’origine del malessere ecologico vada ricercata nell’atteggiamento nei confronti della natura promosso dalla religione ebraico-cristiana: una tesi di comodo, almeno per quanto riguarda l’entroterra biblico che fu molto di moda negli ambienti radicali e della controcultura degli Anni ’60. Da questa ricostruzione storica White ricava un’indicazione utile per la spiritualità cristiana: poiché le radici della crisi ambientale sono in parte di tipo religioso, anche il rimedio deve essere tale.

Per introdurre gli animali nel mondo dell’uomo, riconoscendoli portatori di diritti e non solo oggetti di rapina, è stata necessaria più che una generica iniezione di buoni sentimenti. Sull’orlo di una crisi che può rivelarsi fatale per l’umanità nel suo insieme, le coscienze più riflessive sono state indotte a una revisione profonda del nostro atteggiamento nei confronti della natura.

Il modello razionalista dell’uomo che siamo stati abituati a coltivare presuppone che la maturità emotiva comporti l’indifferenza verso il mondo animale e la natura: come se si diventasse uomini allontanandosi il più possibile dall’animalità (la bestia continua ad essere usata come simbolo oscuro del male, del demoniaco, dell’antiumano...). Rovesciando questo modello, riscopriamo un canale di comunicazione profonda con la natura, la capacità di percepire e di rispondere agli stati interiori di animali di altre specie, il respiro divino di tutto ciò che è creato. Ci troviamo in compagnia di poeti, di scienziati — tipo Konrad Lorenz ― e di bambini. E di santi, come san Francesco.

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A meno che qualcuno non pretenda che queste siano cattive compagnie da evitare...

3. La nuova biologia e il ripensamento della morale

La Società italiana di bioetica ha organizzato a Trento un convegno di studio sul tema: “Impatto ambientale dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie”. Iniziativa quanto mai opportuna. Bisogna infatti favorire l’informazione e la riflessione, soprattutto in un ambito in cui più che giudizi informati sembrano predominare le emozioni. Di ingegneria genetica e affini si parla per lo più con un linguaggio evocativo-mitologio: opera di “apprendisti-stregoni”, bomba biologica, nuovo Eldorado, creazione del super-uomo o dello “scimpanzuomo”. Contemporaneamente al convegno usciva in edicola una pubblicazione di divulgazione scientifica con un numero monografico dedicato all’ingegneria genetica, sotto il titolo “Arrivano i mostri”... Con un linguaggio intimidatorio di questo genere, fatto per creare forti emozioni ― di arresa alla scienza nella speranza o di rifiuto totale di essa nella paura ― non si può condurre alcuna riflessione critica proficua. Mentre con l’appello alla bioetica si creano i presupposti per una seria riflessione sul senso e i limiti dell’intervento umano nella struttura stessa del meccanismo naturale di trasmissione della vita, si va definendo una questione preliminare: la bioetica nasce sotto il segno della continuità o sotto quello della novità? Se ci limitiamo a osservare il tono generale dei discorsi che i progressi più recenti delle scienze biologiche suscitano tra gli esperti e il pubblico, possiamo ricondurre gli atteggiamenti prevalenti nei dibattiti a due modelli di fondo. Per non dare a questa distinzione un carattere scientifico, che non pretende assolutamente, parliamo piuttosto di due tribù, che chiameremo gli “innovisti” e i “continuisti”.

Gli “innovisti” tendono a sottolineare le novità connesse con la nuova biologia, con la decodificazione del codice genetico dei viventi e con la possibilità tecnologica di intervenire in esso. Rispetto ai metodi selettivi tradizionali, evidenziano il ruolo attivo preso dall’uomo: non si tratta più soltanto di incidere marginalmente nell’evoluzione delle specie viventi, ma di diventare

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l’agente della propria evoluzione. Inoltre, quale che sia la novità qualitativa dei cambiamenti, l’accelerazione degli stessi è tale che non trova nessun confronto con quanto è avvenuto nei millenni precedenti. Gli “innovisti” inclinano verso una enfatizzazione delle conseguenze della nuova biologia: tanto positive (gli ottimisti fanno balenare davanti agli occhi le risorse rese possibili dall'ingegnerizzazione della vita: nuove specie vegetali e animali, fine del regime di scarsità di risorse alimentari, nuovi farmaci e modellazione dei discendenti secondo i propri desideri), quanto negative (riassumibili nell’espressione “bomba biologica”, che fa immaginare conseguenze tanto catastrofiche quanto quelle della bomba atomica).

La tribù dei “continuisti” ama, invece, sottolineare la continuità: ciò che sta avvenendo con il contributo dell’ingegneria genetica non è essenzialmente diverso da quanto l’umanità ha conosciuto in passato. Questa visione induce a gettare acqua sul fuoco tanto degli entusiasmi quanto delle preoccupazioni. Rispetto alle promesse mirabolanti, si fa notare che, in un confronto preciso, la realtà dei fatti subisce un forte ridimensionamento (di molte specie vegetali modificate con la biotecnologia ― per fare un esempio — non sappiamo che uso farne: quelle selezionate nel corso del tempo sembrano rispondere ai nostri bisogni meglio di quelle ingegnerizzate). E forse anche le minacce connesse con queste tecnologie non sono così gravi come si era paventato in un primo momento. I pericoli, che avevano fatto convocare nel 1973 la conferenza di Asilomar e avevano fatto proporre una moratoria, non si sono verificati. Del resto ― incalzano ancora alcuni appartenenti alla tribù dei “continuisti” ― se ci manteniamo in una prospettiva storica, non riusciamo a prevedere niente di così tremendo che l’uomo non abbia già fatto senza l’ingegneria genetica... Ricordando gli orrori che l’umanità è stata capace di produrre, possiamo sentirci autorizzati a ritenere che il peggio non stia davanti a noi, ma piuttosto alle nostre spalle.

L’utilità di questa sommaria tipologia si rivela soprattutto se ipotizziamo che esistano corrispondenti atteggiamenti nei confronti dell’etica. Da parte degli “innovisti” viene enfatizzato il bisogno di una nuova etica, adeguata alla situazione inedita che si è venuta a creare. La bioetica ― neologismo di origine

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americana ― viene a gran voce proposta come l’adeguata risposta al fatto che i progressi della biologia, e della genetica in particolare, ci hanno fatto entrare in una «no man’s land», che richiede nuove regole etiche. Queste vengono invocate soprattutto nell’ambito della sperimentazione. La normazione, infatti, dell’attività di ricerca su soggetti umani che, con notevole fatica, si è ottenuta in ambito medico (quella linea che va dal Codice di Norimberga del 1946 alle dichiarazioni dell’Associazione medica mondiale di Helsinki, 1962, e Tokyo, 1975, relative alle ricerche biomediche), non trova applicazione nel campo di ricerche che non hanno per oggetto un paziente, ma utilizzano del materiale genetico, ovvero degli embrioni. In nome della bioetica, sta avvenendo una mobilitazione generale sulla frontiera della nuova biologia, per prevenire che la genetica procuri dei gravi mali all’umanità, così come è avvenuto con la fisica.

Il secondo atteggiamento che abbiamo individuato propende, invece, a minimizzare il bisogno di un’etica specifica, tagliata su misura della nuova biologia. Semmai è l’etica di sempre che è necessaria, per richiamare noi tutti, ai diversi livelli in cui operiamo, ad agire con responsabilità.

Può essere sensato e opportuno farsi attraversare da una vena di sospetto nei confronti dell’interesse con cui, in diversi ambienti, viene promossa la bioetica. Suona poco convincente tanto entusiasmo per questa disciplina, quando abbiamo sempre più la dolorosa consapevolezza dell’immoralità fondamentale dell’esistenza sociale e politica del nostro secolo. Mentre abbiamo ampiamente perso la fiducia in un’etica razionale, e il nome stesso di etica evoca nei più un catalogo di ideali inefficaci e di velleità infelici, assistiamo all’esplosione della nuova bioetica, ampiamente presente nelle pagine dei giornali e nei dibattiti televisivi.

È salutare il sospetto che la bioetica possa svolgere una funzione ideologica, servendo ― come ogni ideologia — a interessi camuffati. L’ideologia offre una spiegazione deformata della realtà, non in quanto dice cose in sé false, ma perché nasconde i rapporti di potere su cui la realtà si fonda. La bioetica sembra assecondare quel movimento che tende a pilotare lo sguardo nel terreno dell’intimo, dei piccoli gruppi, delle relazioni corte o delle questioni ultime (dalle manipolazioni genetiche all’eutanasia),

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lasciando però in ombra ciò che appartiene al terreno politico e sociale. Ciò che sta avvenendo nell’ambito della nuova biologia andrebbe forse più utilmente esplorato mediante interrogativi che nascano dall’etica dell’informazione (Come si parla della tecnologia genetica? Quante false notizie vengono diffuse? Come viene manipolata l’opinione pubblica per ottenere il consenso su progetti faraonici ― come il discusso progetto di decodificare l’intero genoma umano ―, scavalcando il momento del dibattito scientifico?); oppure richiamandosi all’etica economica (In base a quali criteri vengono distribuiti i fondi per la ricerca? Come vengono stabilite le priorità negli investimenti?).

Per dirlo riferendoci al grande codice morale che sta alla base della civiltà occidentale ― il Decalogo ―, mentre la bioetica è portata a valutare i nuovi problemi in base al quinto e al sesto comandamento (“non uccidere”, con riferimento anche alle forme embrionali di vita; “non fornicare”, quale criterio per giudicare le nuove forme di riproduzione con l’aiuto della tecnologia bio-medica), è distratta nei confronti del settimo e dell’ottavo, che proibiscono rispettivamente la menzogna e il furto... Questa distrazione sembra più voluta e pilotata ― ecco il ruolo dell’ideologia! — che occasionale.

Le legittime riserve nei confronti di un uso ideologico e strumentale della bioetica non devono, tuttavia, indurci a trascurare le possibilità insite in un dibattito che sottolinei la novità, piuttosto che la continuità. La bioetica ― intesa, in senso estensivo, come riflessione che nasce dall’impatto che i progressi nelle scienze biologiche e le loro applicazioni tecnologiche hanno nell’ambiente, nella pratica medica e nei comportamenti sociali ― può essere vista come un’occasione per imparare a esercitare la riflessione etica.

È necessario, preliminarmente, non dare per acquisito che noi sappiamo già che cosa significa pensare e agire eticamente. La novità delle biotecnologie può essere valorizzata per evidenziare il superamento di modelli di pensiero tradizionali. «Ogni evento nuovo», ha affermato Benedetto Croce, «ritrova gli uomini ignoranti e li costringe a pensare». La sfida del pensiero non riguarda solo le questioni antropologiche — prima fra tutte quella relativa all’inizio della vita umana ―, ma anche l’etica

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stessa. Non è da oggi che l’umanità si propone le questioni del bene e del male nel comportamento e nelle scelte quotidiane. A tali questioni ha dato risposte molteplici, compresa quella che individualmente riteniamo valida e obbligante (a meno di non essere infelicemente scivolati in uno scetticismo totale). Non si tratta di abbandonare quelle certezze; ma neppure di applicare l’etica a cui aderiamo ai nuovi problemi con procedimento meccanico, sotto l’influsso di quell’automatismo che col tempo affligge ogni sapere, non escluso quello etico. La novità è una provocazione. O piuttosto: un invito a ritrovarci ignoranti e a metterci a pensare di nuovo.

Uno stimolo a utilizzare la novità per un rinnovamento anche dell’etica ci è fornito dalla constatazione della relativa inefficacia di questa disciplina a guidare le scelte. La nostra società esprime una diffusa richiesta di “leadership”, di un’istanza morale che sappia indicare la giusta direzione nelle scelte che ci stanno di fronte. L’etica si dimostra inadeguata a tale compito. Invece di porsi autorevolmente davanti agli scienziati, ai ricercatori e ai politici, per mostrare il cammino, si colloca per lo più alle loro spalle, per criticarli.

La figura più familiare all’opinione pubblica è quella del moralista che, alla notizia dell’ennesima novità bio-tecnologica che sconvolge i nostri parametri di riferimento tradizionali, scuote il “dito didattico” per ammonire che non è lecito (quando addirittura non scivola nella gioia maligna del: «Lo avevo detto io, dove si sarebbe andati a finire...!»). Questo relativo insuccesso dell’etica ad assumere un magistero morale autorevole può essere assunto come occasione per fare una revisione del modo di condurre la riflessione etica, riconoscendoci “ignoranti” e «costringendoci a pensare», secondo l’alta indicazione crociana.

4. Dopo la donna, il bambino oggetto

Il manifesto è apparso solo per pochi giorni sui muri di Milano. Le proteste sono state così vibrate, che il giurì di autodisciplina pubblicitaria ha deciso di far sospendere la campagna, che avrebbe dovuto estendersi alle altre città italiane. L’immagine in discussione rappresentava due bambini dell’età di circa

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cinque anni, in costume da bagno. Il bambino era rappresentato nell’atto di guardare nello slip della femminuccia, la quale sorrideva compiaciuta. La curiosità erotica dei bambini di ieri e di sempre, utilizzata per reclamizzare una linea di capi d’abbigliamento per mamme e bambini.

La pressione pubblicitaria si trova a operare in situazione di saturazione. I consumatori sono già bombardati da messaggi di ogni tipo. Riuscire a catturare l’attenzione del pubblico (“bucare”, si dice nel gergo dei pubblicitari) è un’impresa che diventa di giorno in giorno più difficile. Per arrivare in qualsiasi modo a colpire il potenziale acquirente, vincendo la concorrenza, c’è chi va sul pesante. E anche chi fa giochi scorretti: il manifesto ritirato dalla circolazione è un esempio eclatante. L’uso dei bambini per la pubblicità è già un ricorso che suscita perplessità. Secondo il romanziere americano Henry James, prendere dei bambini come protagonisti di un racconto è «un giro di vite» (con questo stesso titolo James ha fornito una delle narrazioni più inquietanti del complesso rapporto tra il mondo degli adulti e quello dei bambini). Se poi si fa intervenire la sessualità dei bambini, la stretta rischia di diventare insopportabile.

L’episodio in questione ci offre l’occasione di riflettere, con un po’ più di attenzione di quanto si dedichi abitualmente a questo argomento, sul rapporto tra pubblicità e infanzia. L’elemento scandalistico contenuto nel soggetto dell’immagine disapprovata rischia di fuorviare l’attenzione: come se ciò che fa problema sia il ricorso troppo disinvolto alla sessualità infantile, e non piuttosto l’uso dei bambini nella pubblicità, in sé e per sé. Anzi, da questo punto di vista proprio la pubblicità più castigata potrebbe essere la più insidiosa, in quanto nasconde la sua pericolosità.

Non ci si deve fare illusioni: la famiglia è oggi il vero bersaglio dei media, e quindi anche della pubblicità. Questa non si serve solo dei bambini: anche gli anziani sono utilizzati allo scopo di diffondere i consumi. Sempre più spesso ci capita di vedere nonne rassicuranti che invitano a comperare questo o quel prodotto, confortando con i loro consigli le giovani, “inesperte” generazioni. Ma quando la pubblicità vuol bersagliare i consumatori con l’artiglieria pesante, ricorre ai bambini. Non solo per vendere prodotti per l’infanzia, ma anche indurre gli

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adulti stessi a comprare qualcosa per sé. Il successo dei bambini in questo campo si spiega con la particolare atmosfera che essi creano ogni volta che appaiono, in foto o in un filmato. La simpatia che provocano abbassa le difese interiori del consumatore: il bambino è il mediatore nato dell’affettività. Gli psicologi, poi, specialmente quelli più familiarizzati con le dimensioni dell’inconscio, sono in grado di condurci da questo livello più ovvio a quelli soggiacenti. Ci spiegano che l’adulto si identifica con il bambino, facendone il simbolo di un’infanzia che rimpiange e che vorrebbe continuare a vivere.

Nel comportamento di consumo, inoltre, c’è una dimensione di regressione psicologica: comprarci qualcosa ― specialmente se ciò che acquistiamo appartiene all’area del superfluo più che a quella del necessario ― equivale a un dono che facciamo a noi stessi. Ripiombiamo per un istante nella magica infanzia, là dove eravamo principi o principesse, toccate dalla felicità irripetibile dei doni. Altre volte il bambino offre delle possibilità di identificazioni trasgressive. Nella campagna pubblicitaria menzionata all’inizio, per esempio, l’intenzione non è quella di incitare i bambini ai giochi di esplorazione erotica. I bambini sono solo uno strumento per colpire gli adulti, evocando in loro la proibizione di quei giochi nella propria infanzia. Comprare il prodotto così commercializzato equivale inconsciamente all’infrazione di un tabù.

Per questi e altri motivi, i bambini vendono bene. Di fatto assistiamo a una vera rincorsa all’utilizzo del bambino da parte dei pubblicitari. Ma è lecito usare i bambini come oggetti? Siamo così nel cuore degli interrogativi morali che sorgono di fronte a tutta la pubblicità che si serve dei pianeta infanzia, non solo di quella smaccatamente equivoca.

Le riserve di ordine morale rischiano di infrangersi pateticamente di fronte all’enorme business costituito dalla pubblicità. La tutela naturale del bambino dovrebbe essere costituita dai suoi genitori. Questi tuttavia spesso non si rendono conto del pericolo potenziale che costituisce per i loro figli l’essere presi nell’ingranaggio di questa macchina fin dalla più tenera infanzia. Le inchieste fatte in questo campo mostrano che dietro il mini-attore o il modello in erba c’è per lo più lo zampino di una mamma ambiziosa. Per lei vedere il figlio in una foto pubblicitaria

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o in uno spot televisivo è un fatto di promozione sociale, molto più importante del guadagno economico in se stesso.

All’estremo opposto della tutela “naturale” garantita dalla famiglia possiamo collocare quella offerta dalla legge. Questa, però, può intervenire solo nei casi estremi, dove la violazione dei diritti del bambino è flagrante. La mano della legge intende farsi più pesante. È stato elaborato, infatti, un progetto di revisione del Codice penale per quanto riguarda i minori, che introdurrà delle restrizioni in questo campo. Nell’articolo 550 del disegno di legge si vieta, in linea di principio, l’impiego dei minori di 15 anni nella pubblicità; chi ricorre a un minore nei messaggi pubblicitari dovrà chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare, il quale la concederà solo dopo che un’indagine psicologica avrà garantito che il minore non risulti danneggiato nella sua formazione psichica e morale. Anche in questa ipotesi, tuttavia, la protezione offerta dalla legge ha maglie troppo grosse, attraverso le quali i piccoli abusi quotidiani passerebbero senza difficoltà.

Un freno non trascurabile è offerto dall’istituto di autodisciplina pubblicitaria. Abbiamo già accennato al suo intervento, che ha indotto a ritirare dalla circolazione il manifesto. Si tratta, in pratica, di un appello al senso di responsabilità della categoria. Il metro per valutare ciò che è compatibile con la dignità del bambino non è uniforme. La Rai tende ad avere un codice di comportamento più severo di altre agenzie pubblicitarie. Fino al gennaio 1985 era addirittura rigidissimo, in quanto non ammetteva che i minori potessero essere protagonisti attivi dei “commercial”, vale a dire che invitassero con gesti e parole all’acquisto di un prodotto. In quella data ha modificato il proprio regolamento, adattandosi a quello delle TV private.

Rimangono tuttavia in vigore le norme che pongono restrizioni alla pubblicità rivolta a bambini e adolescenti. Sono vietati, per esempio, messaggi che possano fornire legittimazione a condotte pericolose o socialmente devianti, oppure che facciano ritenere ai più giovani che il mancato possesso del prodotto pubblicizzato possa significare inferiorità o mancato assolvimento del proprio compito da parte dei genitori. La differenza fondamentale tra il controllo che esercita la Rai e quello delle televisioni private è che queste ultime sono sottoposte al giurì

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della pubblicità solo successivamente alla messa in onda, mentre la Rai attua un controllo preventivo.

Senza sottovalutare queste forme di autodisciplina, la carta vincente rimane tuttavia la presa di coscienza da parte di tutta la società che il bambino è un soggetto, non una marionetta ad uso del pubblicitario. Il culto del bambino è un’arma a doppio taglio: offre l’appiglio a una quantità di manipolazioni strumentali. Bisogna passare a una seria cultura del bambino. Finché questa non si è imposta, si impone la vigilanza. Quando la pubblicità passa i limiti, autoregolamentazione o no, è necessario protestare o denunciare.

5. Uomo e donna ridefiniscono i ruoli

Nell’ambito della Società italiana di psicologia si è costituita una divisione dedicata a esplorare i rapporti tra psicologia e religione. L’inaugurazione di questo singolare ambito di ricerca è avvenuta con un convegno di studio, svoltosi presso la facoltà di medicina dell’Università Cattolica, a Roma. Tema del convegno: “Femminilità e mascolinità nei suoi rapporti con la religione”. Se qualcuno, a leggere il titolo, ha un sobbalzo, sappia che l’effetto-sorpresa della sgrammaticatura è calcolato.

Il professor Leonardo Ancona, direttore dell’istituto di psichiatria é“psicologia della facoltà e organizzatore del convegno, sorride compiaciuto a chi gli fa osservare che, a rigor di grammatica, il pronome dovrebbe essere singolare, non plurale. A suo avviso, mascolinità e femminilità non vanno intese come due soggetti autonomi, dei quali si possa parlare indipendentemente uno dall’altro e considerare nei “loro” rapporti con la religione. Quel “suoi” è una violenza fatta alla grammatica, ma a fini didattici. Vuol far da indicatore dei problemi relativi al rapporto tra i sessi, anzi alla concezione della stessa identità sessuale. «Oggi», osserva Ancona, «la donna e l’uomo non si pongono più, come una volta, nei termini di un rapporto di potere, dove l’uno strumentalizza l’altro. E nemmeno si pongono come due termini di una coppia di diversità complementari, dove ciascuno apporta il cinquanta per cento di un’unità che ne risulta come un’addizione. Oggi si consolida sempre di più la convinzione che uomo e donna si debbano intendere come due

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soggetti “in reciprocità di dono”, secondo una relazione in cui l’apporto di ciascuno di essi all’altro è al cento per cento».

Qualcosa di nuovo... anzi d’antico: anche il racconto della Genesi, quando vuol esprimere l’intreccio di uguaglianza e differenza che caratterizza l’uomo e la donna come prodotto della creazione originaria, non trova niente di più efficace che una sapiente oscillazione di pronomi. Alla lettera, il versetto di Gen. 1,27 andrebbe così tradotto: «Elohim creò l’uomo a sua immagine,/ a immagine di Elohim lo creò,/ maschio e femmina li creò». La Bibbia lascia indovinare un disegno di rapporto tra i sessi che si libra ben al di sopra di tutte le realizzazioni storiche che se ne sono avute, comprese quelle che hanno avuto luogo all’interno dello stesso popolo dell’Alleanza, in nome di un’obbedienza alla rivelazione. Le acque dei rapporti tra i sessi sono in agitazione: che stia passando su di esse il soffio dello Spirito, come alle origini?

Oggi c’è un interesse diffuso per il problema dell’identità sessuale. Anzi, se vogliamo credere alla tesi che Luce Irigaray sostiene in Etica della differenza sessuale, questo è addirittura il tema del nostro tempo: «La differenza sessuale rappresenta uno dei problemi o il problema che la nostra epoca ha da pensare. Ogni epoca — secondo Heidegger — ha una cosa da pensare. Una soltanto. La differenza sessuale, probabilmente, è quella del nostro tempo».

Almeno nell’ambito della civiltà dell’Occidente, uomini e donne sono confrontati con il compito storico di definire di nuovo i loro rapporti reciproci. È difficile dire se i cambiamenti in questo ambito abbiano l’inconsistenza mutevole delle mode o siano delle vere e proprie svolte culturali. Quello che è certo, è che sono diventati molto veloci. Il modello patriarcale ― tutto il potere e la rilevanza pubblica al maschio; subordinazione della donna, entro i ruoli obbligati di madre per la riproduzione, o di vergine per la significazione trascendente ― è andato rapidamente sfaldandosi.

Il femminismo ha aperto ampie brecce, in nome dell’emancipazione della donna, in territori che sembravano definitivamente preclusi ad essa. Ma i modelli stessi di femminismo sono andati rapidamente avvicendandosi, tanto che oggi si parla di “terza fase” del movimento. La prima si è svolta sotto il concetto

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dell’uguaglianza, avendo come obiettivo la “liberazione” della donna. I temi prediletti di quelle lotte ci sono, a lungo andare, diventati familiari: la diffusa discriminazione contro le donne, le ingiustizie quotidiane e gli insulti occasionali, lo sfruttamento in una società dominata dagli uomini.

C’era una forte carica di rottura in quel femminismo. Le donne, che erano state condizionate ad accettare stereotipi patriarcali su se stesse, a considerare il loro corpo, il loro intelletto, le loro emozioni, la loro intera femminilità attraverso gli occhi degli uomini, dovevano cominciare a gettare uno sguardo nuovo su se stesse. È la percezione stessa della natura femminile, infatti, che è stata condizionata da stereotipi maschili. Per questo la prima fase del femminismo si è svolta spesso con un programma di contrapposizione al mondo degli uomini e di cultura femminile separatista.

La seconda ondata del femminismo, tipica della fine degli Anni Settanta e del nostro decennio, ha sviluppato un certo atteggiamento critico nei confronti dell’ideologia dell’uguaglianza, recuperando il valore delle differenze. Non è senza significato che le ricerche più recenti di anatomia e fisiologia sembrano aver rilevato con certezza differenze anatomiche nella struttura stessa del cervello degli uomini e delle donne. Ciò potrebbe dar ragione della differenza nelle abilità mentali dei due sessi. Ma soprattutto il recupero della differenza ha avuto per oggetto il valore degli affetti, della famiglia, della maternità, dopo che il femminismo più battagliero della prima fase aveva espresso la tendenza a vedere in essi solo degli intralci all’emancipazione femminile. Betty Friedan, che con La mistica della femminilità aveva lanciato un attacco alle visioni alienanti della donna prodotte dalla cultura patriarcale, nel suo libro più recente, La seconda fase, ha riassunto il programma del nuovo femminismo nella frase: «La nuova frontiera dell’uguaglianza è la maternità».

La terza fase, che sembra annunciarsi ora, tende a sviluppare un atteggiamento diverso degli uomini e delle donne nei confronti della condizione umana e del suo posto nella natura. Lo potremmo sintetizzare nel motto: insieme, per una nuova umanità. Lo slogan rischia di suonare dolciastro. Il sapore amaro è dato dalla consapevolezza, acquisita a nostre spese, che il sapere

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e il potere sviluppati dagli uomini hanno portato l’umanità a un vicolo cieco, e che lo stesso farebbe una cultura delle donne che fosse solo contrapposizione a quella maschile. Il programma della “qualità della vita” ― vale a dire la strutturazione di una terra vivibile ― richiede un cambiamento di paradigma nel modo di vedere i problemi e di affrontarli: uomini e donne insieme devono prendere insieme un’altra strada, «verso una nuova saggezza» (per esprimerci con Fritjof Capra, uno dei padri di quella nuova visione del mondo conosciuta come New Age o “movimento transpersonale”).

Questo cambiamento in atto ha una notevole rilevanza per gli psicologi che si occupano di religione. Il modo in cui si configurano le relazioni uomo-donna determina, infatti, il modo in cui gli uomini si immaginano la divinità. Nel convegno sopracitato della divisione “Psicologia e religione” questo aspetto è stato illustrato da Thierry de Saussure, psicanalista svizzero che ha ricevuto anche un’accurata formazione nella teologia riformata. Egli ha messo in evidenza come i vissuti e le immagini religiose abbiano un necessario riferimento ai modelli di rappresentazione del maschile e del femminile: alle immagini di padri, madri, fratellanza, così come si sono strutturate nel corso della storia individuale e collettiva.

Quel che sale al cuore dell’uomo in fatto di divinità si forma a partire a imagines materne e paterne. Ciò vale non solo nei confronti della religione naturale, ma anche di quelle rivelate. Anche il cristianesimo, pur ponendosi in rapporto a una Parola di Dio che si situa al di fuori della storia, non può non dire quella Parola che mediante le immagini formatesi in un determinato contesto sociale; e quindi con il peso delle rappresentazioni che ogni epoca si fa di ciò che è maschile e ciò che è femminile. Le differenze culturali possono segnare dei confini molto marcati tra le diverse confessioni cristiane.

La psicanalisi, una volta che abbandoni la pretesa di ridurre la religione a ciò che può analizzare con i suoi strumenti, è capace di porre alcune domande alla teologia. Tra queste spicca quella relativa al peso che hanno le immagini del maschile e del femminile nel preformare la rappresentazione che ci facciamo di Dio.

Il travaglio della nostra cultura nella rielaborazione del problema

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dell’identità sessuale tocca tutti coloro che hanno dei compiti educativi: genitori, insegnanti, pastori, consulenti matrimoniali. Bisogna imparare un modo nuovo di dare valore alla vita: è il compito della nostra civiltà, nel momento in cui è in gioco la sua stessa sopravvivenza. Ciò può essere fatto solo insieme, dagli uomini e dalle donne, all’insegna della reciprocità. La reciprocità è un orizzonte che dà senso sia all’uguaglianza (non intesa riduttivamente come omologazione ai modelli maschili) sia alla differenza (nel rispetto di ciò che è specifico). Né fuga nell’utopia, né romantico ritorno alle origini.

La reciprocità è, essenzialmente, l’esplicitazione della “buona notizia” (evangelo), implicita nella creazione dell’uomo come maschio e come femmina.

6. Donna e Chiesa: una buona notizia?

Stabilendo un bilancio degli sviluppi più recenti della realtà culturale italiana, una celebre giornalista ha fatto una valutazione negativa per quanto riguarda la condizione femminile. Le donne, tornate ad essere semplici “corpi”, sia quando le si ammira che quando le si violenta, debbono registrare un vistoso regresso rispetto a posizioni che sembravano acquisite negli anni di progressismo femminista. A colmare la misura è venuta la notizia, ben documentata dalla televisione inglese, della diffusione dell’aborto selettivo in Inghilterra.

Quando la diagnostica prenatale rivela che il feto è di sesso femminile, molte donne, specialmente tra le classi disagiate dei gruppi culturali asiatici trapiantati in Gran Bretagna, preferiscono interrompere la gravidanza. Nella decisione intervengono sia considerazioni di ordine pratico (difficoltà per le donne di affermarsi nel mercato del lavoro), sia arcaiche valutazioni negative circa il valore del sesso femminile. Prezzo dell’intervento abortivo: mille sterline. Sembra quasi presuntuoso richiedere il rispetto e il riconoscimento della dignità della condizione femminile, quando esistono ancora situazioni in cui alla donna non viene neppure attribuito il diritto all’esistenza.

Come vanno le cose nella Chiesa? In margine al Sinodo dei vescovi dedicato ai laici nella Chiesa si è sviluppata una vivace polemica. La riaffermata esclusione delle donne dal ministero

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non è che una parte, e neppure la più importante, del problema del ruolo che spetta alle donne nella comunità cristiana. L’allontanamento fisico dalla vicinanza dell’altare rappresenta qualcosa di più dell’espressione di una logica di “separazione” inerente al carattere “sacro” dell’attività liturgica: l’esclusione dall’ordinazione sacerdotale fa parte di una visione teologica dell’ordine della natura, in cui la “differenza” femminile si iscrive nell’ordine stesso della creazione, come espressione del volere divino.

Molte donne si sentono «mal amate» dalla Chiesa. E nutrono un tenace risentimento nei confronti di una tradizione antifemminista, tenuta viva da un atteggiamento misogino, che attribuiscono alla mentalità clericale. Nella pubblicistica più battagliera del femminismo non è difficile trovare, tra i florilegi della più viscerale ostilità nei confronti della donna, qualche frase tratta dagli scritti dei padri della Chiesa o di grandi teologi. Il fatto è innegabile, anche se la sua interpretazione non è così semplice. Lo ha dimostrato non molto tempo fa Jean Leclercq, con un libro dedicato a La donna e le donne in san Bernardo.

Va detto che Leclercq è uno storico di fama mondiale, che conosce come pochi l’opera di san Bernardo, avendo curato l’edizione critica delle sue opere e pubblicato una quantità sterminata di studi sul suo pensiero e sulla sua epoca, quel dinamico secolo XII che, oltre alla riforma della vita monastica, ha conosciuto quella riforma nei costumi nota come «amore cortese». E va detto anche che san Bernardo è una bestia nera del femminismo, considerato come tipico rappresentante della mentalità medievale e claustrale, ostile alla donna. Affrontando nel suo saggio il tema della misoginia attribuita al santo, l’illustre storico riesce a documentare come il riformatore dei cistercensi ne fosse immune. Non che la misoginia non esistesse all’epoca. Parlare male della donna — come essere inferiore all’uomo, pieno di difetti, strumento di Satana, trattandola infine come “sacco di escrementi” ― era una tradizione letteraria consolidata, che aveva le sue radici nell’antichità classica (san Gerolamo aveva ripreso i temi antifemministi degli scrittori pagani e li aveva orchestrati).

San Bernardo ha omesso i temi antifemministi comuni al suo tempo. Non umilia le donne; non si accanisce contro di loro

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come facevano letterati e teologi del suo tempo. Il motivo della sua considerazione della donna è, secondo Leclercq, di natura teologica: Bernardo ha considerato il ruolo della donna nello sviluppo del dialogo d’amore tra Dio e le creature. La Bibbia non l’ha letta, da moralista, in cerca di donne come esempi negativi da evitare, ma l’ha ascoltata, da contemplativo, nella liturgia. La sua attenzione è stata catturata piuttosto dalle donne che hanno compiuto grandi gesta nella storia della salvezza. Ciò gli è servito da antidoto contro la misoginia del suo tempo.

Qualcosa di analogo troviamo nel grande antagonista di san Bernardo: Abelardo. Di questi è nota la tragica storia con Eloisa, che l’ha condotto a una conoscenza del femminile non solo teorica e speculativa. Nell’ottava lettera del suo carteggio con Eloisa troviamo delle considerazioni che ci stupiscono per la loro originalità e modernità. Confrontando il comportamento degli uomini e quello delle donne come sono riportati dai Vangeli, Abelardo osserva che le donne «sono spontaneamente tenere verso Gesù». Gli uomini, pur amando il Cristo, sono deboli, «non sanno far nulla per lui in pericolo», «non hanno altro che le labbra». La donna, no: «non con le parole, ma coi fatti dimostra il suo amore». Le donne hanno a che fare con le cose, gli uomini padroneggiano solo i discorsi; le donne «operano sulla verità stessa», gli uomini «sui segni o simboli della verità». In qualche modo misterioso e rapido (la loro “spontanea tenerezza”?) le donne arrivano invece alle cose e alla verità: operano sul mondo della realtà.

Portando all’estremo le intuizioni di Abelardo, possiamo affermare che le donne sono interpreti del Vangelo in modo diverso dagli uomini. La tradizione cristiana ha veicolato nel tempo, oltre ai frutti amari del sessismo maschile, anche delle possibilità inespresse, legate al modo femminile di vivere la salvezza cristiana, che potrebbero oggi diventare realtà.

È quanto sostiene la teologa tedesca Christa Mulack, in un libro appena uscito. Il libro è polemico fin dal titolo, che, tradotto letteralmente, in italiano suona: Gesù, colui che ha ricevuto l’unzione dalle donne. La sua carica eversiva non si limita a criticare la distribuzione dei ruoli sfavorevoli alla donna (il fatto che Gesù fosse uomo nella tradizione cristiana è stato abusato

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per sostenere il potere maschile e per difendere i privilegi degli uomini); si dirige piuttosto su un obiettivo molto più delicato: presentare la femminilità come il fondamento dell’etica cristiana.

Nella rilettura del Vangelo fatta dalla Mulack, Gesù, libero dal disprezzo per le donne, nell’incontro con loro avrebbe sviluppato gli elementi germinali di un modo di pensare la vita morale antitetico a quello del modello patriarcale. Di tale natura, per esempio, è l’invito al servizio (comportamento attribuito tipicamente al modello femminile), contrapposto alla pretesa di utilizzare il potere. Ciò che le donne in tutte le culture praticano con naturalezza e senza clamore — e anche senza ottenere per questo un particolare riconoscimento ―, in bocca a Gesù è diventato parte essenziale dell’annuncio cristiano. Pensiamo all’atteggiamento espresso nel Vangelo dalle beatitudini, al rapporto con la colpa e a quello con la legge. Di questa “etica al femminile” Gesù risorto domanda alle donne di essere annunciatrici: «Andate, e dite ai miei fratelli...».

Forse in questa ritrascrizione del Vangelo al femminile, in cui Gesù dalle donne impara ad essere Messia e alle donne affida il suo messaggio, ci sono diversi elementi vulnerabili, dal punto di vista storico ed esegetico. Ma come essere troppo critici rispetto a questa “buona notizia”, quando il femminile subisce ancora oggi nella nostra società tanto disprezzo e discriminazione?

7. Nuovi dibattiti sulla pena di morte

Dalla fredda Russia un caldo messaggio di umanità. A portarlo è un film fuori dell’ordinario, Giudizio supremo. Si tratta di un documentario di un condannato a morte. Il regista Frank Ghertz ha avuto il permesso di seguire gli ultimi 500 giorni di vita di Valerij Dolgov, un giovane di 27 anni giustiziato il 28 ottobre 1987 per omicidio nel corso di una rapina. Ha intervistato il condannato, facendosi raccontare la sua storia; ha ripreso fedelmente il disfacimento della personalità del giovane, man mano che si avvicinava all’esecuzione. E come se Valerij fosse ucciso due volte e il patibolo non facesse altro che sanzionare una morte già avvenuta nel lento stillicidio dei giorni che

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lo portavano al capestro e nei sinistri rituali di preparazione all’opera del boia. La conclusione personale del regista ― e in qualche modo anche la “tesi” che la sua opera vuole illustrare ― è di condanna inappellabile per la pena di morte: la ritiene «insensata in ogni società civile; in un Paese che si dichiara socialista diventa addirittura un’indegnità». Intanto in Russia la gente fa lunghe file per vedere il film.

Contrasti di opinione e scontri ideologici anche nei Paesi dell’Europa occidentale in tema di pena di morte. In Inghilterra è stato bocciato in Parlamento un emendamento del partito conservatore che proponeva di reintrodurre la pena di morte, abolita nel 1965. La maggioranza è stata piuttosto risicata, mentre il margine a favore degli oppositori alla revisione della legge di abolizione continua a scendere. Il primo ministro Margaret Thatcher è appassionatamente impegnata a favore della pena capitale, sostenuta in ciò da larga parte dell’opinione pubblica.

I sondaggi di opinione indicano maggioranze tra il 65 e l’85% dei sudditi britannici a favore della restaurazione della pena di morte. Fin troppo nota è la permanenza della pena capitale in molti Stati americani, con la possibilità di mettere a morte anche minorenni. La sentenza contro Paula Cooper ha avuto ripercussioni nel mondo intero.

Qual è la posizione dei cristiani rispetto a questo tema così cruciale dell’etica della vita? L’esame del magistero ufficiale della Chiesa ci mostra che non è mai stata messa in discussione la legittimità della pena di morte inferta dall’autorità pubblica. Benché la dottrina non possa beneficiare di una positiva validazione fondata sull’autorità della Bibbia (i testi dell’Antico Testamento, che prevedono la pena di morte per alcuni tipi di reato, dipendono in queste normative del comportamento sociale dalla cultura del tempo; nel Nuovo Testamento, poi, non abbiamo nessun riferimento specifico alla pena di morte come elemento della morale cristiana), la tradizione cristiana ha accettato il principio della pena di morte, nel caso in cui sia considerata necessaria per il bene comune. L’argomento del “bene comune” è presente già nelle summe teologiche medievali ed è difeso da san Tommaso d’Aquino.

Il pensiero cristiano ha fatto lungamente resistenza al movimento di opinione illuministico che ha portato, nell’epoca contemporanea,

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a sopprimere la tortura e a limitare l’applicazione della pena di morte. Lo prova, tra l’altro, la condanna all’indice dei libri proibiti dell’opera con cui Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1776) proponeva l’abolizione della pena di morte. Là dove Beccaria confutava la pretesa di considerare la pena di morte un “diritto”, cioè qualcosa relativo alla legge, la Chiesa vedeva una minaccia al potere dello Stato.

A livello di magistero ufficiale, nessuna diretta revisione di tale insegnamento è avvenuta negli ultimi tempi. Allusioni ad esso si ritrovano, in obliquo, nei documenti pontifici che condannano l’aborto. Specificando che la sua malizia dipende dal fatto che con l’aborto viene ucciso “un innocente”, lasciano intendere che la proibizione di uccidere un essere umano non si applica nel caso di un colpevole.

La teologia morale cattolica ha fatto per lo più eco alle posizioni della dottrina ufficiale. I moralisti accettano, in astratto, il principio della liceità della pena di morte; in concreto, considerano di buon grado il fatto che la pena capitale sia praticamente scomparsa in quasi tutte le legislazioni, come un addolcimento dei costumi sotto il segno dell’umanitarismo.

Solo alcuni teologi, anche se non tra i minori, hanno auspicato che la dottrina ufficiale della Chiesa si evolva, fino a prendere esplicitamente posizione contro la pena di morte. A loro avviso, alla pena capitale non può essere riconosciuto né un valore esemplare, né retributivo (nel senso di un ripristino dell’ordine violato), né difensivo per l’ordine sociale, né tanto meno correttivo o “medicinale” nei confronti del reo. Ma soprattutto l'avversano perché considerano la pena di morte contraria allo spirito dell’insegnamento di Gesù. Nello spirito del Regno di Dio l’ordine violato non si restaura facendo cadere il rigore del giudizio sul reo, ma piuttosto moltiplicando il bene.

L’atteggiamento di Gesù nei confronti dell’adultera (cfr. Giov. 8,1-11), condannata a morte per lapidazione dalla legge, ma salvata dal Messia, affinché impari a vivere secondo l’amore, è la fonte del “diritto evangelico” per le creature del Regno. Annunciando questa possibilità, la Chiesa si distanzia dalla logica degli ordinamenti giuridici con cui viene regolata la convivenza civile. La sua prospettiva è quella della profezia, in dipendenza da quella vita nuova di cui Gesù è il profeta. Alle voci

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isolate di alcuni teologi morali, che propongono una revisione della dottrina cristiana sulla pena di morte, si è unita di recente quella di uno studioso che ha affrontato alle radici tutta la questione del rapporto tra cristianesimo e pena. Si tratta del gesuita tedesco Eugen Wiesnet, docente di teologia pastorale presso l’Università di Innsbruck, molto impegnato nella cura pastorale dei militari e dei carcerati. Purtroppo dobbiamo parlare di lui al passato: padre Wiesnet è morto per un tumore, non ancora quarantaduenne, nel 1983.

Tra le sue opere una — Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita ― ha attratto l’attenzione del curatore di una collana di diritto dedicata alla criminologia, politica criminale e diritto penale. Il responsabile della collana, che esce presso l’editore Giuffrè, ha voluto proporla, traducendola, come la prima opera di un’ideale biblioteca del penalista: l’ha posta, perciò, in testa alla collana stessa.

L’originalità dell’opera di E. Wiesnet consiste nell’opporsi, in nome della tradizione giudaico-cristiana rettamente intesa, all’ideologia con cui nelle società moderne si giustifica la comminazione della pena. Da millenni gli uomini si puniscono; e da millenni si domandano perché lo facciano. Ora, la giustificazione prevalente nel pensiero post-illuminista è quella nota come idea retributiva. La teorizzazione più radicale l’ha offerta Kant.

Secondo il filosofo della ragione, il significato della pena che la società fa cadere sui criminali è soltanto la retribuzione: la pena giudiziaria non può essere inflitta come mezzo per ottenere un bene, al delinquente stesso o alla società, ma solo perché egli ha commesso un delitto. La legge penale ha il valore di un imperativo categorico. Nella Metafisica dei costumi Kant giunge fino a un’affermazione paradossale, che sembra una sfida al buon senso: «Perfino quando la società civile si sciogliesse con il consenso di tutti i suoi membri, l’ultimo assassino che si trovasse in carcere dovrebbe prima essere giustiziato, affinché ciascuno subisca quel che meritano le sue azioni».

Il pensiero e l’azione di molti cittadini, tra i quali anche tanti cristiani, sono ancor oggi influenzati dall’idea retributiva: lo si vede chiaramente nei dibattiti sulla pena di morte e, più in generale, sul comportamento che la società deve tenere con i

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criminali. Riguardo al modo di intendere la pena, è come se i cristiani avessero rinunciato al loro compito di essere il lievito della pasta: tradendo, in ciò, l’eredità biblica. A questo viaggio di riscoperta della nozione rivelata di giustizia ci invita E. Wiesnet, accompagnandoci per l’Antico e il Nuovo Testamento. Un viaggio destinato a scuoterci dalla buona coscienza, con cui abbiamo devitalizzato uno dei più importanti messaggi della rivelazione biblica.

8. Evangelizzare il diritto: dovere dei cristiani

Attorno alla pena di morte aleggia un profondo malessere. Numerose persone, con motivazioni diverse ma con uguale passione, si trovano allineate su un fronte di opposizione alla pena capitale. Generalmente non mettono in discussione il principio stesso della pena ― cioè che il criminale vada punito —, bensì la modalità: si tolga pure la libertà a chi ha commesso un delitto, lo si condanni magari alla detenzione a vita, ma non lo si privi del bene fondamentale dell’esistenza.

Nella precedente riflessione abbiamo visto le buone ragioni per sollecitare con uno scrollone la teologia morale cristiana dalla sua inerzia in questo ambito. Al di fuori di pochi grandi teologi (valga per tutti la presa di posizione di K. Barth, che ritiene la pena di morte inconciliabile con il pensiero cristiano), in genere la morale cristiana si è allineata con le tesi dominanti del diritto e ha ben volentieri delegato lo Stato a legiferare in merito. In questa rivisitazione del problema della pena di morte ci siamo lasciati guidare da Eugen Wiesnet, uno studioso tedesco, gesuita, prematuramente scomparso.

Nell’opera che ci ha lasciato, quasi una specie di testamento spirituale (Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita), Wiesnet sviluppa una tesi radicale, che non riguarda solo la pena di morte. A suo avviso, il cristianesimo ha tradito il messaggio specifico ricevuto dalla rivelazione storica a cui si riferisce, omettendo di applicare il contenuto della rivelazione alla questione della pena giudiziaria in genere. La teologia, afflitta dalla sintomatologia del “servo inutile”, non ha saputo instaurare una dialettica con il diritto. Anzi, in periodo di cristianità con la propria autorità ha offerto un avallo alla prassi penalistica,

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favorendo l’identificazione tra la volontà divina e la giustizia penale. Gli uomini hanno così punito in nome di Dio e preteso che le pene inflitte corrispondessero alla sua volontà. In Lutero troviamo espressioni così estreme di tale identificazione, che non possiamo ripeterle senza un senso di malessere («Non è l’uomo», afferma il riformatore, «ma Dio che impicca, arrota, decapita, strangola e afferra: sono tutte sue opere e suoi giudizi»). Ma anche la teologia cattolica non è stata meno connivente con la concezione secolare della giustizia e della comminazione della pena. Tutt’al più si è potuto ascoltare da parte dei cristiani un appello alla “misericordia” o al perdono, come un correttivo della giustizia, o una rinuncia a punire.

Nel recente dibattito circa la sorte dei terroristi imprigionati ― prima che la questione venisse subitamente congelata dalla nuova fiammata di atti violenti dei terroristi ancora in libertà —, la posizione di coloro che propugnavano una rinuncia all’esecuzione della pena è stata per lo più qualificata come “perdonismo” e riferita a un presunto atteggiamento attribuito ai cristiani, che per liberarsi dal loro malessere nei confronti della giustizia evadono nel perdono. Il malessere di molti cristiani nei confronti dell’etica della pena, come viene correntemente praticata, è reale. Non però per il motivo che la sentono in contrasto con il comandamento evangelico del perdono. Bisogna dire, piuttosto, che non risponde a quanto la rivelazione giudaico-cristiana ci ha insegnato sulla pena stessa.

Come correttivo troviamo forme di presenza dei cristiani nel mondo della prassi penalistica in nome della diaconia della carità: dall’assistenza di condannati a morte, accompagnati fino al patibolo, là dove la pena capitale è in vigore, al ministero nelle carceri esercitato dai cappellani. L’impegno personale di chi presta tale assistenza spirituale ha spesso i tratti della più generosa abnegazione, addirittura dell’eroismo; ciò non impedisce, tuttavia, che il servizio pastorale in carcere sia visto in modo sfavorevole da molti detenuti. Questi lo considerano come una specie di cerotto che copre solamente le ferite, senza curarle.

In tutto l’ambito che riguarda la giustizia penale è come se il cristianesimo fosse rimasto congelato nella sua crescita e non avesse mai sviluppato le sue potenzialità. Deve riprendere dalle

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radici la questione dell’etica penale: invertire la rotta di un lungo cammino fuori strada, riformulare il modo stesso di impostare il problema della giustizia e della pena, trovare il coraggio della creatività. Il momento è favorevole. C’è una diffusa nostalgia di quello spirito che nella Bibbia caratterizza il mondo del diritto. Si sente ancora l’eco dell’aspirazione di Nietzsche, espressa già circa un secolo fa e rimasta inappagata: «Non mi piace la vostra giustizia fredda; e nell’occhio dei vostri giudici riluce sempre per me il boia, con la sua spada gelida. Dite, dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi dunque l’amore, che porta su di sé non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe!».

La giustizia che «ha occhi per vedere» non può essere quella simbolicamente rappresentata con gli occhi bendati e la bilancia in mano. Non è questo tipo di giustizia, orgoglio dei tribunali, che sta di casa nella Bibbia. Per scoprirne il contenuto e la forma dobbiamo metterci sulle tracce di ciò che l’Antico Testamento chiama con il nome di tsedaqah.

Non è per un vezzo da accademici che preferiamo conservare la parola ebraica. Il fatto è che la traduzione di essa ― le versioni della Bibbia nelle lingue dell’antichità lo hanno fatto, ricorrendo al greco dikaiosyne e al latino iustitia ― ci mette subito su una pista falsa. I termini operano un vero e proprio mascheramento concettuale, che ci impedisce di cogliere il messaggio biblico della “giustizia” (che è allo stesso tempo misericordia, perdono e solidarietà), che costituisce uno dei più grandi doni che abbiamo ricevuto da Israele.

La tsedaqah è qualcosa di diverso dall’imparzialità nell’applicazione di una norma giuridica (il giurista romano Ulpiano definiva la giustizia come «costante e immutabile volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto»: fondamento, appunto, della giustizia come divinità bendata). Mentre nel pensiero giuridico dell’Occidente i valori del diritto e dell’amore, per loro natura, si escludono reciprocamente, la tsedaqah biblica rappresenta una fusione originaria di legge e di grazia. Non è comprensibile se non in rapporto con l’immagine centrale della rivelazione veterotestamentaria di Dio come liberatore e con la dottrina della riconciliazione.

La riconciliazione è il filo rosso che percorre unitariamente

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tutta la Bibbia, sia l’Antico che il Nuovo Testamento. La concezione retributiva attribuita a Israele (è diffusa l’idea che la legge del taglione ― «occhio per occhio dente per dente» ― racchiuderebbe addirittura il principio fondamentale del pensiero giuridico veterotestamentario) è in realtà un corpo estraneo alla visione di una giustizia risanatrice, fondata sull’esperienza fondamentale del legame di Dio con l’uomo nell’alleanza. È la fedeltà di Dio alla comunione il centro della tsedaqah.

La giustizia biblica non è, perciò, un fattore che legittima la proscrizione del reo, bensì mira alla sua reintegrazione personale, sociale e religiosa. L’Antico Testamento ha indubbiamente il problema della discrepanza tra il principio del taglione e la tsedaqah, in quanto tendenze diverse e inconciliabili, presenti l’una a fianco dell’altra. La situazione è però, a ben vedere, simile a quella odierna: abbiamo un diritto penale, del tutto estraneo a qualsiasi influsso del cristianesimo, che convive con un ideale di giustizia che si ispira all’idea biblica di riconciliazione.

Quest’ultima, sciolta dagli equivoci della misericordia, può innovare completamente la prassi del punire, promuovendo una nuova mentalità penale. Dopo un promettente inizio nei primi secoli del cristianesimo, ad opera soprattutto di sant’Agostino, i cristiani hanno rinunciato a evangelizzare il diritto. La situazione attuale dell’esecuzione penale, impotente a sradicare il male, anzi essa stessa fattore di maggiore corruzione, è un appello a un cambiamento. È convinzione di Eugen Wiesnet che l’evoluzione moderna e umana del pensiero penalistico sia affidata oggi anche a una “metànoia” cristiana, cioè a un mutamento nei comportamenti e nelle coscienze che è tuttora da compiersi.

La comunità, che oggi concepisce il suo compito, in forza di una concezione razionale del diritto, come una retribuzione al reo per il male commesso, avrà davanti agli occhi un altro obiettivo: nello spirito della riconciliazione comunità e reo dovranno risarcirsi reciprocamente.

9. Il teologo, attore del dibattito etico

Come sta l’etica in Francia? Nel gran pentolone del bicentenario della Rivoluzione non poteva mancare un confronto sull’etica. A inaugurarlo è stato, all’inizio del mese di gennaio

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1989, l’Institut Catholique di Parigi con un colloquio organizzato dalla sezione filosofica dell’istituzione universitaria sul tema “L’etica nel dibattito pubblico”.

Il dibattito era centrato sull’attualità; la rivoluzione si intravede lontana, sullo sfondo. La presenza della rivoluzione si identifica con l’esigenza, tipicamente moderna, di far ricorso alla ragione per ottenere un consenso in una società caratterizzata dal pluralismo dei valori.

La pluralità dei punti di vista nasce con l'affollamento di tante persone nella città. «Fagli mestieri a vivere con molti», diceva nel XIV secolo il francescano fra Paolino, eccellente specialista della vita cittadina. L’epoca moderna vede la disgregazione di quel tessuto connettivo della società costituito dalla fede cristiana, da tutti condivisa: non soltanto si è in molti, ma manca una base comune per decidere le supreme questioni del bene e del male morale, riferite alla vita sociale. A meno che non la si cerchi nella comune umanità e nella ragione, appunto. L’illuminismo, matrice ideologica della rivoluzione, ha gettato le fondamenta per l’etica razionale, che fornisce anche oggi lo standard nel dibattito pubblico.

Affonda le radici nella rivoluzione anche la rivendicazione dei diritti dell’uomo, che attualmente vengono considerati da molti come il baluardo da erigere per la tutela di coloro che rischiano di essere schiacciati dall’avanzata del progresso biomedico (dall’embrione alla persona in stato vegetativo cronico, passando per l’handicappato e l’anziano).

Se la rivoluzione, pur con tutte le sue contraddizioni, ha fatto da madrina ai diritti della persona, la grande popolarità dell’etica sulla scena pubblica è però un fatto più recente. Tanto recente che possiamo considerarlo un fenomeno rilevante nella società da solo poco più di un decennio. È successo che la legge morale, che Kant voleva «iscritta in fondo al cuore», è sempre meno confinata nella sfera puramente privata: investe lo spazio pubblico ed è oggetto di appassionati dibattiti. Non è più il tempo in cui la “morale” costituiva un oggetto di derisione e di contestazione da parte dei discepoli dei maestri del sospetto. Oggi sospettabile non è tanto chi faccia appello alla morale, quanto piuttosto colui che cerca di evitare le questioni etiche. Questa è almeno la situazione in Francia, che ha assunto incontestabilmente

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la leadership in Europa del dibattito pubblico sull’etica.

Quali sono i nuovi criteri di decisione etica di fronte ai progressi vertiginosi della scienza e della tecnica? Come giungere a dei consensi razionali in materia di etica, pur riconoscendo la legittimità di un pluralismo dei valori? Chi sono i protagonisti del dibattito etico in uno spazio pubblico, sempre più apertamente dominato dalla modalità comunicativa propria dei mezzi di comunicazione di massa? Quali sono i modi di argomentazione disponibili, e come iscriverli nella realtà delle istituzioni?

Questi gli interrogativi principali ai quali il colloquio dell’Institut Catholique ha cercato di dare una risposta. Se la Rivoluzione francese e l’affermazione dei diritti dell’uomo costituiscono lo sfondo remoto su cui va collocata questa messa a punto, il riferimento più immediato va all’esperienza recente del dibattito pubblico in Francia sui grandi temi dell’etica della vita. Nel 1983 il presidente Mitterrand costituiva il Comitato consultivo nazionale di etica per le questioni collegate al progresso tecnologico applicato alla biologia e alla medicina. Era uno squillo di tromba che segnava il ritorno della morale laica: si creava una linea di resistenza, concepita come una reazione dell’umanesimo di fronte alle minacce della barbarie.

«Verso quale terra mal conosciuta, ma dai pericoli immaginabili, rischiano di condurci la procreazione medicalmente assistita, la diagnosi prenatale, l’innesto di cellule cerebrali...? Possiamo per un momento solo prendere in considerazione di poter dire domani, sulle macerie di qualsiasi forma di città umanamente vivibile, “Noi non sapevamo”?». In questi toni drammatici si esprimeva un collettivo di lavoro nato a ridosso del Comitato nazionale di etica per riflettere sulla nozione di “persona umana”. Queste preoccupazioni attraversano oramai trasversalmente i raggruppamenti ideologici. La necessità di dare una risposta unitaria provoca dei ravvicinamenti impensati tra morale religiosa e morale laica.

Fino ad epoca relativamente recente l’atteggiamento delle persone “illuminate” verso la morale religiosa poteva essere riassunto nella boutade ripresa da Georges Brassens: «Non mi comporto peggio che se avessi la fede». Circolava un senso di trionfante superiorità da parte della coscienza laica, che ridicoleggiava

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la pretesa della religione di essere la sola custode della legge morale. Oggi in Francia si vive in un altro clima. La società non si sente minacciata dalle morali a denominazione religiosa; anzi, ritiene di essere talmente solida nel suo pluralismo, da permettere, e perfino da incoraggiare, in una laicità aperta, un confronto libero e rispettoso tra le diverse tradizioni morali rappresentate dalle famiglie spirituali che compongono la società. Così nel Comitato nazionale di etica sono previste delle personalità che esprimono i raggruppamenti filosofici e religiosi principali: cattolicesimo, protestantesimo, ebraismo, islamismo e marxismo. Questi esperti non rappresentano ufficialmente le istituzioni di appartenenza (le quali non potrebbero essere riportate a un denominatore comune; del resto già la stessa equiparazione tra una religione e il marxismo in quanto “famiglie spirituali” non può non apparire come una forzatura), ma danno voce a livello di responsabilità individuale alla tradizione a cui si riferiscono.

Per il cristianesimo è una situazione nuova. Non gode più lo statuto pubblico di religione della società nella sua interezza. Il pensiero cristiano non può più pretendere il monopolio della verità morale definitiva. Deve imparare a proporsi secondo regole di un dibattito etico, le quali si vanno formulando nel corso del dibattito stesso.

Si apre per la morale cristiana un’epoca inedita. Nel colloquio dell’Institut Catholique è stato compito di Xavier Thévenot, salesiano e vicepresidente dell’Associazione dei teologi per lo studio della morale, tracciare i contorni della nuova situazione. Lo ha fatto parlando del teologo moralista come attore del dibattito etico.

Il teologo cattolico è oggetto di molteplici richieste di intervento nel dibattito etico, specialmente da parte dei grandi media. Il teologo ― ha affermato Thévenot — rischia di diventare un attore nel duplice senso della parola: qualcuno che agisce sulla discussione, ma anche qualcuno che sale sulla scena per recitarvi un ruolo. Considerate da questo punto di vista, le prestazioni a cui sono sollecitati i teologi nei media suscitano notevoli perplessità, in quanto rischiano di deformare la percezione dell’apporto specifico della morale cattolica al dibattito pubblico. Non risulta sempre evidente, ad esempio, che il dibattito

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mette in grado il teologo di ricevere molto dai suoi interlocutori. Ascoltandoli profondamente, il moralista cristiano può far entrare in misura maggiore nella sua ricerca la complessità e il movimento del reale, la relatività di certi corpi normativi, la “genealogia” delle convinzioni etiche, una considerazione seria delle incertezze dell’azione, il senso positivo del compromesso, la fragilità del consenso, la necessità di una discussione onesta con tutti i partecipanti del dibattito, cristiani e no.

Oltre a ricevere, il teologo cattolico, può anche fornire un apporto considerevole al dibattito etico pubblico. Una deformazione tipica che si riscontra sovente negli interventi che avvengono abitualmente è il riferimento inflazionato, quasi esclusivo, presso il grande pubblico a uno dei luoghi teologici: quello del magistero romano. Ora, invece, proprio la tradizione che è specifica del teologo lo obbliga a circolare in un sistema complesso di luoghi teologici: la liturgia, la Sacra Scrittura, la tradizione, il magistero, il sensus fidelium, la legge razionale. Ogni luogo è connesso con gli altri e presuppone un insieme di rinvii reciproci.

Per proteggersi dalle due patologie più diffuse in ambito etico ― la sottomissione a una sola autorità e il rifiuto della storia ― bisogna muoversi bene nei luoghi teologici. E proprio restando fedele alla pluralità dei suoi punti di riferimento il teologo cattolico può apportare il miglior contributo all’etica secolare. Questa, emergendo nel dibattito pubblico, mostra una serie di punti deboli preoccupanti. L’inflazione del pensiero empirico-formale rischia che il riferimento alla ragione si degradi in razionalismo. Parallelamente si nota una svalutazione dell’importanza della saggezza del passato, una crisi della ritualità e del bisogno di modelli identificatori, la perdita del legame tra etica ed estetica, nonché del valore del linguaggio simbolico.

«L’etica è un’ottica spirituale», secondo il filosofo Lévinas. Se l’etica dimentica questa dimensione, si disumanizza. La morale cattolica deve sottolineare questa dimensione nel dibattito pubblico. Mentre accoglie dal dibattito stesso gli stimoli che le impediscono di fossilizzarsi a sua volta in un formalismo morale.

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Capitolo II

LA VITA DA TRASMETTERE

La vita non dà mostra di farsi dei pensieri su se stessa. Si propaga con prodigalità e non senza rischi, in un gioco di cui non riusciamo a indovinare le regole. Ciò, almeno, finché parliamo di piante e animali. Lo scenario cambia con l’uomo. La sua riproduzione è soggetta alla ragione, e in misura non minore alle restrizioni e agli orientamenti della morale.

La padronanza tecnica della capacità di trasmettere la vita ― con un brutto neologismo si parla di “procreatica” — pone interrogativi morali inediti. Il rispetto delle procedure “naturali”della riproduzione rischia di diventare un “optional”, quando si può ormai procreare nonostante i limiti biologici e al di fuori del quadro di riferimento della famiglia. L’etica non può talvolta rinunciare alla funzione di sentinella, per impedire che tra le maglie ampie della cultura passino procedure contrarie ai diritti dell’uomo e alle esigenze della stessa dignità umana.

La vita, tuttavia, non dovremo solo difenderla ma anche promuoverla. Con un vigilante senso di responsabilità, certo; ma anche e soprattutto con un senso di festa che sappia neutralizzare i pessimismi più paralizzanti.

1. Quando la logica della tecnica corrompe la procreazione

Lo scandalo ci sarebbe, anche senza quel gran soffiare sul fuoco ad opera dei mass media e la pubblicità clamorosa che talvolta vien fatta ai protagonisti. Uno scandalo giustificato: ciò che sta avvenendo nell’ambito della procreazione non ha antecedenti nella storia dell’umanità. La tecnologia applicata alla medicina sconvolge il nostro modo abituale di pensare la

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maternità-paternità e la figliolanza. Intorno alla procreazione le società hanno posto delle regole morali e delle norme giuridiche, che costituiscono come una griglia che protegge la delicata funzione di trasmettere la vita dagli abusi e dalla licenza. Le cose non sono sempre andate nel migliore dei modi — adulterii, procreazioni illegittime, disconoscimento dei figli sono storie vecchie quanto la memoria dell'umanità ma nell’insieme ci si poteva accontentare. Le barriere che ai nostri giorni vengono infrante non sono più soltanto quelle del diritto e della morale, bensì quelle che sembravano più inamovibili, perché poste dalla biologia stessa.

Per fare un figlio era pur sempre necessario un rapporto sessuale tra un uomo e una donna, per quanto clandestino e irregolare potesse essere. Oggi non è più così. Il legame tra sessualità, corpo e riproduzione si è sciolto. Inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, dono del seme o dell’ovulo, trapianto degli embrioni, locazione nell’utero, inseminazione post mortem: le «vicende dell’amore e del caso», che erano il tradizionale bersaglio delle farse sul matrimonio, impallidiscono di fronte a ciò che i metodi di procreazione artificiale hanno reso possibile.

E pazienza se si trattasse solo di farse o di rebus per i giuristi (di chi è figlio il bambino concepito in provetta con l’ovulo di una donna, impiantato nell’utero di un’altra donna portatrice e partorito da questa, per essere consegnato alla committente?). Talvolta purtroppo le commedie sfociano in drammi. Succede, infatti, che il bambino, concepito da una donna per inseminazione artificiale ricorrendo al seme di un donatore anonimo, col consenso del marito, venga successivamente disconosciuto come proprio figlio da quest’ultimo: il bambino si troverà così a non avere padre. Ancor peggio, il bambino può venirsi a trovare nella situazione di non avere né un genitore maschile, né uno femminile. È successo in alcuni casi in cui il bambino, “commissionato” a una donna locatrice del proprio utero, è nato malformato ed è stato rifiutato tanto dai committenti quanto da colei che lo aveva generato. In casi più benevoli il neonato è stato conteso dalla committente e dalla madre per procura, convertitasi alla maternità durante la gravidanza. Quanto basta, insomma, per convincere della necessità di intervenire

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con misure legislative in un campo così nuovo, soprattutto per tutelare i bambini procreati con i metodi artificiali.

Trovare leggi giuste e sagge è certamente un’urgenza del momento. Ancor più importante appare però l’inizio di una valutazione morale serena delle tecnologie applicate alla riproduzione. Proprio qui incontriamo invece le maggiori difficoltà. Quello che tende a prevalere è un giudizio emotivo agitato da più o meno espliciti fantasmi. Il fantasma dello Splendido mondo nuovo del romanziere Aldous Huxley, tanto per citare il più noto. Già nel 1932 Huxley aveva ipotizzato un mondo costruito su premesse scientifiche. In questo “mondo nuovo” da incubo i bambini sarebbero stati prodotti artificialmente in bottiglia e condizionati biologicamente ai diversi ruoli a cui sarebbero stati adibiti nella società. Il risultato del progresso scientifico nell’utopia negativa di Huxley è un rigido totalitarismo e la completa disumanizzazione. È questo il mondo in cui la diffusione delle pratiche di tecnologia applicata alla riproduzione ci sta introducendo? Dopo la minaccia dei fisici, ecco spuntare quella proveniente dai biologi, accusati di contribuire alla distruzione dell’umanità con le loro manipolazioni del substrato biologico. Bisognerà dunque ammanettare i biologi?

Giustificate o no che siano le preoccupazioni degli umanisti che si interrogano sul futuro, questa angolatura rischia di travisare irrimediabilmente le pratiche di procreazione artificiale. La loro demonizzazione, in nome del fantasma del totalitarismo tecnologico, risulta irritante per coloro che sono coinvolti in queste pratiche. Le quali vogliono essere essenzialmente una risposta all’infertilità. Questa prospettiva getta un’altra luce sull’insieme delle procedure in questione.

Bisogna tentare anzitutto di immaginare la portata di una sofferenza legata all’assenza di un bambino, quando è ardentemente desiderato. Per rimediare a questa tragica incapacità di generare, ci sono uomini e donne disposti a tutto. E questa caratteristica non è solo una caratteristica dei nostri contemporanei. Viene spontaneo in questo contesto ricordare le mogli dei patriarchi biblici. Sara, sterile, ordina ad Abramo di darle un figlio unendosi alla propria schiava Agar: «Vedi, il Signore mi ha impedito di dare alla luce dei figli; va’, ti prego, dalla mia

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serva, forse potrò avere prole da lei» (Gen. 16,1). Dopo due generazioni, la stessa strategia è ripetuta da Rachele. Il dramma intimo della sterilità è per lei ancora più drammatico: «Dammi dei figli», dice a Giacobbe, «altrimenti ne morirò». E anche lei propone al marito: «Ecco la mia serva Bilha: entra da lei, essa partorirà sulle mie ginocchia e io pure avrò figli per mezzo di lei» (Gen. 30,1-3).

La sofferenza spirituale per l’impossibilità di avere un figlio è dunque la stessa, oggi come ieri. Con in più, per gli uomini e le donne del nostro tempo, il rifiuto della frustrazione dei propri desideri e l’abolizione della parola “rassegnazione” dal vocabolario. Per chi vuole un figlio ad ogni costo, non c’è prezzo che lo trattenga. C’è chi paga un prezzo in lunghi ed estenuanti esami medici, peregrinazioni presso gli specialisti del mondo intero, operazioni chirurgiche ripetute. E c’è chi è disposto a pagare un prezzo in denaro.

L’aspetto economico di certe maternità per procura è in sé un elemento secondario, che però suscita grande sensazione e rischia di monopolizzare tutto il discorso. L’opinione pubblica è rimasta molto scossa alla notizia che ci sono uomini che offrono il loro seme per l’inseminazione artificiale dietro compenso; e ancor più che delle donne si lasciano fecondare per conto di una donna sterile e si fanno pagare per portare il bambino fino alla nascita. L’immagine della maternità diventata una merce provoca uno shock: la concezione sacrale della madre, che fa parte del nostro retaggio culturale, viene brutalmente modificata. In un mondo dove tutto si compra e si vende, si vorrebbe che almeno la generazione dei figli rimanesse immune dal denaro. L’assunto implicito è che tutto ciò che dipende da rapporti di denaro sia corrotto, mentre la relazione gratuita fa cadere le obiezioni.

L’atteggiamento del rifiuto del denaro, in particolare per rimunerare la madre sostituta, ha indubbiamente una parte di verità istintiva. È doveroso però ascoltare le controargomentazioni dei fautori della maternità per delega. I quali respingono l’etichetta svalutante di “uteri in affitto” affibbiata alle donne che accettano di portare un bambino per conto di una donna che non può farlo (per mancanza di utero, per esempio). In realtà, non si può parlare né di affitto, né di prestito. Si tratta

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di una donna che si separa per sempre da un bambino che ha portato, con cui ha scambiato delle informazioni biologiche e tessuto dei legami, che è vissuto in lei e ha risposto alle sue sollecitazioni. È una donna che si autorizza ad avere una gravidanza, una gestazione e un parto, senza accettare di essere madre dopo il parto. Questo, e non tanto il denaro che eventualmente entra nella transazione, è il cuore del problema.

Finora la maternità era un tutto composto di alcuni elementi concatenati: produrre un ovulo, essere fecondata, portare il feto per i nove mesi della gestazione e partorirlo, allevare il bambino. Ora è possibile scindere la sequenza che tradizionalmente costituiva il “fare un figlio”. Donne diverse possono intervenire in ciascuna delle fasi; l’aspetto biologico si scinde da quello volitivo-affettivo-spirituale. È questa la vera posta in gioco, che modifica il modo abituale di concepire la maternità.

Su questo tema dovremmo essere chiamati a confrontarci e a decidere se far entrare questa prassi nei nostri costumi, senza lasciarci troppo suggestionare dal ruolo, tutto sommato secondario, che può giocarvi il denaro. Qualora si accettasse la separazione tra l’elemento biologico e quello relazionale nella maternità, non è detto che il denaro avrebbe necessariamente una funzione del tutto negativa. Un rapporto quasi anonimo tra donatoci e riceventi, sanzionato da un compenso economico per un servizio reso o come indennizzo che copra le spese di maternità e le perdite nel lavoro professionale, potrebbe evitare gli inconvenienti di una relazione troppo stretta e invischiante.

Ma prima di dibattere sui vantaggi e svantaggi del far entrare il denaro nella procreazione, dovremmo avere chiare le conseguenze, a breve e a lunga scadenza, del primato dato alla generazione attraverso il cuore e lo spirito. Le maternità sostitutive dietro pagamento non fanno che rendere più esplicito un fenomeno che è già ampiamente presente nella nostra società: la disponibilità di alcune persone a passare sopra alla paternità-maternità biologiche, a favore di quella adottiva, educativa, affettiva. È un atteggiamento al quale viene attribuito un carattere di nobiltà, quando si esprime attraverso l’adozione, oppure di turpitudine, quando ricorre all’acquisto illegale di un bambino da rendere proprio figlio.

La compravendita dei neonati è un fenomeno sommerso, ma

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tutt’altro che raro. Diminuite o rese più difficili giuridicamente le possibilità di adozione, la volontà di avere un figlio a ogni costo non recede neppure di fronte a pratiche condannate dalla legge e dalla sensibilità morale comune. La società, chiamata a decidere se dare o no diritto legale di cittadinanza alle nuove tecnologie riproduttive, si trova confrontata in primo luogo non con l’avidità e il cinismo dei mercanti, ma con il desiderio esasperato di maternità-paternità, disposto ad ignorare i legami che una volta si dicevano della carne e del sangue, e che oggi si chiamano genetici, a favore dei legami del cuore.

Che la generazione spirituale sia possibile lo dimostrano gli innumerevoli casi di adozione felicemente riuscita. E non saranno certo i cristiani a dimenticarlo, che hanno in Gesù e nella “Sacra Famiglia” la più clamorosa trasgressione alla concezione biologica della generazione! Le nuove pratiche ci inducono a riflettere più profondamente sull’adozione che è implicita in ogni processo generativo. Intanto perché un padre e una madre che mettono in comune la metà del proprio patrimonio cromosomico per avere un figlio non ottengono mai un bambino come copia identica di se stessi, ma il risultato di una roulette genetica. Questo bambino, in parte simile e in parte diverso ― a cominciare dal sesso, che è anch’esso parte di questo gioco delle probabilità ―, dovranno poi in qualche modo “adottarlo”, perché diventi figlio proprio. Ma affinché la generazione riesca e sia completa, l’“adozione” è necessaria anche dall’altra parte. Il figlio, che non ha scelto i propri genitori, dovrà “adottarli”: e perché questo avvenga, i genitori dovranno dimostrarsene degni.

Questa dimensione affettiva e spirituale fa parte integrante del processo della trasmissione della vita umana. La separazione dell’aspetto biologico da quello relazionale, resa possibile dalle nuove tecnologie, ci aiuta a ricordarlo. Ma in quanto umanità siamo così evoluti da poter impunemente sganciare la generazione spirituale da quella biologica? Siamo talmente “figli del Regno” da poter considerare nostri padri-madri-fratelli-sorelle coloro che fanno la volontà di Dio, piuttosto che quelli con i quali condividiamo una manciata di cromosomi? La litigiosità meschina tra genitori che, stando alle cronache, si sviluppa intorno a tanti bambini nati con l’aiuto della tecnologia

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ci avverte che questo traguardo spirituale l’umanità non l’ha ancora conseguito.

A intravedere le tappe della crescita aiuta il documento pubblicato dai vescovi francesi nel novembre 1984: Vita e morte su richiesta. Secondo il documento, non si può arrivare a una serena valutazione etica delle nuove tecnologie applicate alla riproduzione se prima non si supera l’ostacolo costituito dalla “logica del sentimento”. Una donna che voglia ad ogni costo un bambino oggi ha i mezzi tecnici per realizzare la sua attesa: perché dovrebbe rinunciarci? «Si accetta sempre meno», afferma il documento, «un principio regolatore del desiderio: non gli si riconosce altra regola che esso stesso. Per liberarci di questa logica del sentimento ci è necessario, con fatica, prendere della distanza per riconoscere ciò che è realmente buono e costruttivo per l’uomo e la comunità umana, al di là del desiderio apparente e, se necessario, contro di esso».

Un altro ostacolo a una valutazione etica equilibrata di questi problemi è costituito, sempre secondo i vescovi francesi, dalla “logica tecnica”. «La scienza e la tecnica, secondo la loro logica propria, tendono a spingersi all’estremo. Se possiamo realizzare un tale esperimento, in nome di che cosa impedirci di farlo? Non è questo un riflesso di paura? L’uomo domina a poco a poco la natura: perché non la propria natura? In realtà c’è un equivoco sul concetto di dominio. E ci vuole una lucidità e un coraggio singolari per superare la tentazione tecnocratica. Per fortuna molti specialisti ne sono diventati consapevoli: vogliono essere dei tecnici e non dei tecnocrati.

La riflessione comune dei biologi, psicologi, medici, filosofi e di tutti gli uomini di buona volontà deve permettere di distinguere meglio tra l’uso e l’abuso. Ma ci vuole una grande circospezione. Spesso, infatti, la qualifica morale (cioè la vera portata umana) d’un comportamento non appare subito chiaramente. Solo esaminando le ripercussioni sugli altri e le conseguenze a lungo termine se ne scopre la fondatezza o, al contrario, gli effetti perversi. È necessaria anche una grande libertà di spirito, perché non ci si libera facilmente dalla duplice logica del sentimento e della tecnica».

In armonia con questa impostazione, il documento esamina la diffusione del fenomeno della «paternità e maternità incondizionate»,

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ponendo degli interrogativi di ordine antropologico e sociale. Nessuna condanna di queste pratiche: i punti interrogativi prendono il posto dei punti esclamativi. I vescovi francesi hanno delle riserve, e non le nascondono, sul fatto che queste pratiche costituiscano un progresso in umanità. Ma preferiscono illuminare il sottofondo umano e morale di quelle situazioni molto delicate, favorendo così una vera maturazione etica, piuttosto che far cadere dall’alto giudizi che rischiano di non sfiorare neppure le persone che sono i veri protagonisti di queste pratiche.

Se la crescita morale domanda tempo, affinché tutti gli aspetti umani di un problema emergano, ci possono essere situazioni in cui non si può rimandare l’azione. L’opinione pubblica di diversi Paesi è sufficientemente allarmata dal diffondersi delle pratiche di riproduzione artificiale perché le autorità pubbliche possano rinunciare a intervenire con i mezzi che sono loro propri. In Francia, ad esempio, ha preso posizione il Comitato etico nazionale per le scienze biologiche e della salute, istituito dal presidente della Repubblica.

Il comitato ha espresso il parere che, applicando la legge attuale, le pratiche delle madri per procura (o donatrici) siano da considerarsi illecite: sia perché i compensi proposti possono essere assimilati al commercio dei bambini, sia perché in questi casi c’è sempre l’incitazione all’abbandono del bambino: due reati che sono puniti dalla legge francese. Il motivo per cui il comitato ritiene illecito questo modo di rispondere all’infecondità è che esso «contiene in potenza l’insicurezza per il bambino, per i genitori che desiderano una nascita, per la donna che mette al mondo un bambino e per le persone che intervengono in queste operazioni».

La più drastica in materia è stata la liberale Svezia. Ha varato una legge che obbliga a schedare e identificare il donatore di sperma per l’inseminazione eterologa, in modo che possa essere rintracciato quando il bambino nato col suo contributo avrà raggiunto il diciottesimo anno d’età. È ovvio che questa misura stronca radicalmente la pratica: chi vorrebbe trovarsi padre di un numero imprecisato di figli, magari da mantenere?

In Italia una circolare del ministro della Sanità ha ristretto la pratica dell’inseminazione artificiale negli ospedali e strutture

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pubbliche ai coniugi e conviventi; viene perciò esclusa l’inseminazione con donatore esterno alla coppia. Una commissione è nel frattempo al lavoro per preparare una legge che tuteli la dignità della persona umana e la salute psico-fisica del nascituro nei confronti di situazioni di paternità e maternità ignota o incerta.

La funzione principale della legge è di sottrarre il bambino al gioco sinistro di appropriazione che può scoppiare tra i genitori e impedire che, per eccesso opposto, resti sprovvisto di una tutela genitoriale. Il compito della riflessione etica che accompagna le nuove pratiche della riproduzione artificiale è invece più ampio: deve ricordare che non è tanto il contenuto materiale dell’atto ciò che conta, quanto piuttosto i valori che la sottendono. Deve anche favorire l’azione responsabile, che è quella in cui, prima di agire, ci si domanda quali beni e quali mali quell’atto procurerà a tutte le persone che vi sono interessate. Questa riflessione etica non l’attendiamo da alcuni specialisti, che pensino al posto degli altri, ma da tutta la comunità civile, coinvolta in una trasformazione culturale di enorme portata.

2. Regole trasparenti per la procreazione artificiale

Una festa di maggio del tutto fuori del comune, quella che si è svolta nel prato che circonda la clinica di Bourn Hall, nel Cambridgeshire, in Inghilterra. C’erano circa seicento bambini di diversa età, con i rispettivi genitori. Venivano da ogni parte del mondo, per fare un pellegrinaggio alle origini. Tutti infatti erano stati concepiti in quella clinica, mediante la tecnica della fecondazione in vitro. Guidava la sfilata Louise Brown, undicenne, nata nel 1978, la prima ad aver beneficiato della tecnica messa a punto da Edwards e Steptoe. Nel corso di questa festa della vita, concepita come omaggio ai pionieri, sono stati lanciati 1.295 palloncini, ognuno con il nome di un bambino che deve la sua esistenza all’attività del laboratorio inglese.

Probabilmente la festa era meno “spontanea” di quello che voleva sembrare. Ad aumentare il sospetto che fosse pilotata contribuisce una coincidenza: proprio in quel periodo si è venuti a conoscenza che l’Organizzazione mondiale della sanità si è pronunciata contro la pratica della fecondazione artificiale in

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provetta. Le ragioni che hanno indotto l’Oms a un giudizio negativo sono puramente economiche. «Con il costo di un neonato sano nato da una fecondazione in laboratorio», ha affermato la prestigiosa istituzione al termine di uno studio dettagliato, «si potrebbe prevenire l’infecondità di cento donne tramite semplici programmi di prevenzione delle malattie trasmissibili per via sessuale, comprese quelle che causano la sterilità».

Malgrado la sua diffusione nel mondo, la procreazione artificiale non sembra aver ancora guadagnato la partita. La legislazione di numerosi Paesi — tra cui l’Italia — non è riuscita a creare un quadro di legalità per le pratiche di riproduzione medicalmente assistite. Dal punto di vista etico, poi, si è lontani dall’aver individuato una base di consenso, anche nell’ambito di tradizioni culturali omogenee.

Coloro che operano nel settore della riproduzione artificiale vengono praticamente a trovarsi in una terra di nessuno, sia dal punto di vista giuridico sia etico. Il frequente appello alla legge e all’etica, che proviene dagli stessi medici e ricercatori, ha una chiara funzione di legittimazione. Chi si muove su frontiere di confine esprime, mediante questo richiamo, il bisogno di sentirsi tutelato in un’attività così innovativa rispetto alle convinzioni più comuni nella nostra società. Coloro, invece, che invocano la legge e l’etica per mettere ordine nel pullulare di pratiche che rendono possibile la procreazione indipendentemente dal rapporto sessuale e con intervento di gameti al di fuori della coppia genitoriale, attribuiscono alla legge e all’etica una funzione diversa: di controllo, più che di legittimazione.

Si presuppone un esercizio della ragione critica che non avalli semplicemente le diverse pratiche in nome della domanda di mercato o della fattibilità tecnologica, ma piuttosto le valuti criticamente, mettendole in rapporto con gli interessi superiori degli uomini, con i valori irrinunciabili e con la “dignità umana” (comunque questa venga concettualizzata). In pratica, si domanda all’etica e al diritto che stabiliscano chiaramente i limiti che non devono essere oltrepassati, e che prendano saldamente in mano le redini del controllo, esercitandolo ognuno con i mezzi propri.

Il controllo esercitato dall’etica è diverso da quello messo in

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atto dalla legge. Anche supponendo che l’una e l’altra istanza normativa stabiliscano la linea da non oltrepassare alla stessa altezza (per pura ipotesi: fecondazione solo all’interno della coppia, senza intervento di gameti esogeni), l’esecuzione del controllo sarà diversa. La legge opera mediante la sanzione. Per reprimere gli abusi, punisce. Gli strumenti repressivi a sua disposizione coprono un vasto spettro.

Il “caso Serena Cruz”, che ha visto una coppia di coniugi privati della bambina che aveva adottato illegalmente, ha dimostrato che la legge può intervenire nel mondo degli affetti in modo estremamente repressivo, anche senza ricorrere a sanzioni pecuniarie o detentive.

Per colpire chi travalica i confini del lecito, l’etica ha a sua disposizione esclusivamente il senso di colpa e il senso di vergogna. Non bisogna sottovalutare l’efficacia di questi strumenti. Se non fossero anch’essi a loro modo efficaci, non ci preoccuperemmo del loro uso scorretto. Addirittura dobbiamo denunciare le categorie etiche impiegate talvolta in senso terroristico. Così è avvenuto, clamorosamente, a proposito dell’Aids presentata come “castigo di Dio”. Ma anche nell’ambito della procreazione artificiale i giudizi etici sono da taluni usati in un modo che eccede la lecita pressione sulle coscienze. È difficile valutare diversamente che come intimidazioni le affermazioni di moralisti che condannano qualsiasi procedimento di procreazione assistita, qualificandola come «frutto di una menzogna iniziale, adulterio commesso con pratiche veterinarie».

Sia la legge sia la morale ― si sa ― possono essere applicate male. Non per questo dichiareremo ingiustificato o invalido lo sforzo per una corretta formulazione sia dell’una sia dell’altra, in vista della funzione di controllo. Il punto che non si considera a sufficienza è piuttosto un altro: il controllo esercitato dalla norma giuridica e da quella etica funziona nella misura in cui i controllori pretendono o si auspicano che funzioni?

Se gettiamo uno sguardo disincantato sulla famiglia, che è il vero interlocutore di ogni progetto di controllo, ci accorgiamo che la famiglia degli Anni Ottanta ― quella che ha fatto ricorso in misura crescente alle tecniche di riproduzione artificiale ― presenta una fisionomia caratteristica. Cercando un’espressione che la definisca, il sociologo Pierpaolo Donati l’ha chiamata

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«famiglia autopoietica» (si veda il Primo rapporto sulla famiglia in Italia, ricerca promossa dal Centro internazionale studi famiglia e pubblicata dalle Edizioni Paoline, 1989). Si vuol dire con questo che la famiglia ha accentuato negli Anni ’80 la tendenza emersa nei decenni precedenti ad andare per conto suo. Non ha corrisposto alle attese sociali di chi pretendeva di guidarla dall’esterno, o di riportarla a un certo “ordine”. È stata ugualmente disobbediente tanto alle riforme istituzionali che la volevano comunitaria, democratica, socialmente partecipativa, quanto ai movimenti che ne avevano decretato la morte come istituzione. La famiglia post-moderna è, secondo Donati, un organismo che ben poco si adatta all’esterno: «dall’esterno può certamente ricevere indicazioni (valori, norme), ma essa non può farle proprie sic et simpliciter, così come sono suggerite o comandate. Può solo elaborarle secondo le proprie modalità di comunicazione autoreferenziale».

La famiglia, in altre parole, ci appare sempre più come un mondo vitale privato, che va avanti senza rispondere ad altro che a se stessa. Questo tratto è importante. Anche nell’ambito delle bio-tecnologie applicate alla riproduzione la famiglia tende a regolare se stessa, indipendentemente dalla norma esterna.

Ciò non vuol dire che la società debba contentarsi del ruolo passivo di spettatore. L’appello ripetuto all’etica e al diritto ci parla della convinzione matura che il laissez-faire non è più una politica accettabile, in un ambito che sconvolge così profondamente l’organizzazione sociale della parentela. Tuttavia le istanze normative devono essere realiste, se non vogliono esporsi alle peggiori delusioni: le regole e i divieti, una volta stabiliti, rischiano di essere rispettati solo in misura talmente piccola da frustrare qualsiasi progetto di controllo.

3. L’Europa protegge l’embrione

Nel periodo in cui in Italia riesplodeva con più violenza la polemica sull’interruzione volontaria della gravidanza e sul modo di applicare la legge che la regola, a Strasburgo veniva presa nell’ambito del Consiglio d’Europa una decisione che cambia completamente i termini della questione. La deliberazione

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targata “Consiglio d’Europa” non riguarda direttamente l’aborto; ma ormai non potremo più considerare la questione dell’aborto prescindendo da ciò che a Strasburgo è stato acquisito. In data 2 febbraio 1989, infatti, l’Assemblea parlamentare che raduna i rappresentanti dei Parlamenti di ventuno Paesi ha votato una raccomandazione, preparata dalla Commissione della scienza e della tecnologia, relativa alla ricerca scientifica sugli embrioni e feti umani. È da pensare che in futuro, rivedendo a distanza questo periodo storico così travagliato della formazione della coscienza morale su aspetti essenziali della protezione della vita umana, potremo concludere che la battaglia sull’aborto era in fondo un combattimento da retrovie: la guerra della protezione della vita non nata si stava decidendo su un altro fronte.

Il ricorso a un vocabolario bellico può sembrare inappropriato al tema. Eppure esprime bene gli umori del momento. L’impressione prevalente è che le ecatombi di esseri umani concepiti, che vengono avviati sulla strada della distruzione piuttosto che su quella della nascita, sopravanzino in numero le morti violente per aggressività bellica ; e se non sono così feroci, suscitano però non meno orrore per l’indifferenza morale che tradiscono.

Nei confronti dell’aborto le legislazioni di quasi tutti i Paesi si sono progressivamente allineate su un fronte di permissività. Con maggiori o minori restrizioni, hanno tutte fatto prevalere l’autodeterminazione della madre sul diritto alla vita del concepito. Gli allarmisti prevedevano tempi ancora più bui, dal momento che i progressi della biologia e della medicina hanno diffuso le tecniche di riproduzione artificiale, la creazione di embrioni in laboratorio, l’utilizzo di embrioni e feti per la ricerca, la sperimentazione, l’industria farmaceutica.

Queste fosche previsioni sembrano andar smentite: un improvviso moto di resipiscenza sta invertendo la tendenza, creando un punto di resistenza al potere arbitrario sul vivente non nato proprio là dove la frontiera aveva un aspetto di maggiore fragilità.

Secondo la raccomandazione del Consiglio d’Europa, i governi aderenti devono unitariamente elaborare delle legislazioni che partano dal presupposto che l’embrione è una forma di

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vita umana che va protetta: sempre, a partire dal concepimento. La presa di posizione è una di quelle che segnano una svolta. Pur essendo in continuità con i valori che tengono insieme la società, costituisce un salto di qualità. La nostra civiltà afferma, in linea di principio, la protezione delle libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo. La convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950) riconosce, ad esempio, il rispetto del diritto alla vita e all’integrità fisica e morale, alla protezione contro i trattamenti umani o degradanti, all’integrità personale e familiare, all’uguaglianza, alla libertà e alla sicurezza. Sono i cosiddetti diritti di «prima generazione».

La formulazione dei diritti riguardava solo gli esseri umani dopo la nascita. È soltanto negli ultimi quindici anni che lo sviluppo delle tecniche di fecondità artificiale e delle ricerche sulla prima fase della vita embrionale ha posto il problema inedito dell’estensione dei diritti dell’uomo all’embrione, al di fuori del vecchio e travagliato problema dell’aborto. La raccomandazione varata a Strasburgo ha trovato un consenso, che unisce rappresentanti dei diversi partiti e ideologie, sull’attribuzione della dignità umana all’embrione fin dal concepimento, e di conseguenza sul dovere di tutelarlo.

Per capire la difficoltà di giungere a un tale consenso bisogna considerare che numerosi rapporti e raccomandazioni di carattere nazionale che si sono succeduti negli ultimi cinque anni tendono ad adottare un punto di vista che privilegia la libertà di ricerca, tollerando quindi un intervento sugli embrioni prima di una certa fase di sviluppo. Citiamo per tutti il celebre rapporto inglese della Commissione Warnock (1984), che indicava la data dei 14 giorni dalla fecondazione come termine discriminante: prima di esso l’embrione poteva essere utilizzato come oggetto di ricerca, dopo no.

Il termine temporale non è arbitrario. Le conoscenze scientifiche sul processo di sviluppo dell’embrione permettono di individuare delle differenze legate alle diverse fasi. Il quattordicesimo giorno dalla fecondazione, in particolare, segna il termine dello stadio della “preorganogenesi” e del “preimpianto”. Non pochi scienziati si sono sentiti autorizzati a dedurne una differenza qualitativa, che permette di attribuire all’embrione prima

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di quella fase uno statuto biologico e giuridico non identico a quello spettante successivamente all’embrione. È stato creato anche il neologismo “pre-embrione”, per designare il gruppo di cellule che risulta dalla divisione progressiva dell’ovulo fecondato fino all’impianto nell’utero. Solo a questo punto, collocato cronologicamente attorno al quattordicesimo giorno, si comincia a evidenziare la formazione degli organi futuri, in particolare del sistema nervoso centrale, organo fondamentale della vita sensoriale e relazionale.

La linea di demarcazione tra pre-embrione ed embrione sembrava un compromesso ragionevole. La proponeva anche il cosiddetto “documento Palacios”, cioè il rapporto presentato dalla Commissione della scienza e della tecnologia del Consiglio d’Europa, che ha preceduto la raccomandazione attuale. Il compromesso, tuttavia, non poteva essere accettato da coloro che nello sviluppo dell’essere umano vedono, sì, dei salti qualitativi, ma non tali da oscurare il fatto fondamentale: dal momento in cui nella fecondazione si uniscono il gamete maschile e quello femminile, portanti ciascuno metà del patrimonio genetico, si ha un essere nuovo ed unico, che si sviluppa con continuità.

Questa visione non è esclusiva dell’antropologia cattolica: anche scienziati che non appartengono a una fede religiosa la condividono. Ottenere il consenso su questa linea non è stato facile. È un merito che va attribuito a coloro che hanno lavorato al progetto ― in particolare ricordiamo il rappresentante dell’Italia, l’onorevole Franco Foschi ―, di non averne fatto una guerra di religione, ma un terreno di confronto civile, per far prevalere la ragionevolezza. Questa ha suggerito di scegliere la soluzione più garantista, optando per la protezione dell’embrione fin dal momento del concepimento. Il punto decisivo della raccomandazione 1.100 del Consiglio d’Europa è la premessa, secondo cui «l’embrione umano, pur sviluppandosi in fasi successive indicate con definizioni differenti (zigote, morula, blastula, embrione, feto), manifesta comunque una differenziazione progressiva del suo organismo e tuttavia mantiene continuamente la propria identità biologica e genetica».

La raccomandazione fatta dagli Stati membri del Consiglio d’Europa da parte dell'Assemblea parlamentare prevede che,

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alla luce del principio che «l’embrione deve essere trattato nel rispetto della dignità umana», i singoli Paesi provvedano a definire «un insieme di criteri a partire dai quali sia possibile elaborare leggi e regolamenti nazionali di natura il più possibile universale e omogenea». Questa raccomandazione autorevole obbliga anche l’Italia, che sottoscrivendola si è impegnata ad attenersi a questi principi nell’elaborazione di un quadro legislativo in materia ormai indilazionabile.

Tra i suggerimenti dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa è opportuno segnalare quello di creare d’urgenza un’istanza internazionale multidisciplinare con il compito di assicurare la convergenza delle istituzioni nazionali con lo spirito della raccomandazione e con l’allegato tecnico che specifica, nelle varie condizioni, le possibili ricerche scientifiche o esperimenti su gameti, embrioni e feti umani, e la donazione di elementi di tale materiale umano.

Le profonde divergenze esistenti circa il migliore comportamento in questa delicata materia fanno prevedere una travagliata realizzazione della raccomandazione. Opportunamente, quindi, l’assemblea parlamentare ha approvato anche una “direttiva Foschi”, che domanda alla Commissione sociale, giuridica e della scienza di proseguire nell’esame costante degli sviluppi del tema della bioetica e di presentare nuovi rapporti periodici all’Assemblea parlamentare.

4. Scelte difficili, dopo la diagnosi prenatale

Da quando la medicina ha sviluppato la capacità di penetrare nel segreto silenzioso dell’utero, nel quale il feto si va sviluppando in quel periodo — lungo quanto un’intera èra geologica ― che va dal concepimento alla nascita, si è creata una situazione nuova, carica di potenzialità, ma anche di conflitti di coscienza.

Ben prima che il bambino nasca si possono avere molte informazioni su di lui: di quale sesso sia, se abbia malformazioni di origine ereditaria, se sia sano o malato. Utilizzando qualcuna delle numerose tecniche di diagnosi prenatale (ecografia, fetoscopia, amniocentesi, prelievo dei villi coriali, e di recente anche analisi del Dna di una cellula dell’embrione), si possono

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raccogliere tempestivamente dati preziosi per un intervento terapeutico.

Quest’ultimo aspetto va messo bene in evidenza, in quanto costituisce la vera novità della cosa: si tratta di fare, prima della nascita, una vera e propria “diagnosi”, trattando il feto come un malato, attuale o potenziale. Anche in passato il bambino non ancora nato poteva essere riconosciuto presente e suscitare una reazione di accoglienza o di rifiuto. Con un po’ di enfasi, possiamo dire che la “diagnosi prenatale” più celebre è quella che Elisabetta pronuncia incontrando Maria, all’inizio della sua gravidanza: «Tu sei benedetta tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno» (Lc. 1,42). Si tratta però di una “diagnosi” sapienziale, non medica. Oggi, invece, le conoscenze che si possono avere sul feto sono di pertinenza della medicina e riguardano lo stato di salute del concepito; e ciò che producono tali diagnosi per lo più non è un canto di gioia e di ringraziamento, come il Magnificat di Maria, ma piuttosto una serie di angosciose perplessità o un trauma che si conclude in modo tragico, con l’interruzione volontaria della gravidanza.

L’ecografia, che permette di sorvegliare la crescita del bambino e di verificare che tutto si sviluppi regolarmente, è ormai di routine nella gravidanza. Alcune volte si rende necessaria anche una diagnosi prenatale. Ad essa le coppie in attesa accedono talvolta per indicazione medica. Per lo più, tuttavia, è la coppia stessa che la richiede, per maggiore sicurezza. Ciò avviene quando c’è ragione di temere che il bambino sia affetto da un’anomalia. A motivo dell’età dei genitori, per esempio. Oggi anche la persona meno informata sa che l’eventualità di concepire un bambino con sindrome di Down (o “mongolismo”: malattia cromosomica dovuta alla presenza di tre cromosomi 21, invece dei due regolari) è molto alta quando la madre non è più giovane: a 26 anni la possibilità è di 1 su 35.000 nascite, a 35 di 1 su 5.000, poi aumenta progressivamente per raggiungere 1 su 400 a 43 anni. Oppure c’è già stata un’anomalia in famiglia e si teme che sia di origine genetica e possa quindi riproporsi.

Oppure la madre, durante la gravidanza, ha contratto un’infezione (è noto che la rosolia, contratta nel corso delle prime dodici settimane di gestazione, produce malformazioni agli organi

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della vista e dell’udito del bambino, o lesioni cardiache), oppure ha ricevuto dei trattamenti farmacologici che possono aver compromesso lo sviluppo dell’embrione.

Con quale intenzione si richiede la diagnosi prenatale? La questione dell’intenzione è importante, dal punto di vista morale: ciò rende buona o cattiva, morale o immorale un’azione, è anche il motivo che ispira colui che la fa. È una differenza essenziale, da questo punto di vista, se si vuole conoscere lo stato del feto per impedirgli di nascere o per poterlo soccorrere. Quest’ultima non è un’ipotesi improbabile: sapere che il nascituro ha una malformazione o una malattia, può permettere di curarlo tempestivamente appena nato, oppure già nell’utero stesso mediante un intervento di chirurgia fetale. Ciò è possibile per certe anomalie urinarie o cardiache.

Tuttavia sappiamo che, realisticamente, lo scenario sarà diverso. È bene che la coppia che procede a una diagnosi prenatale sia consapevole che mette in movimento qualcosa che può rischiare di travolgere le migliori intenzioni. Una volta che il feto sia stato diagnosticato malformato, l’apparato medico spinge per lo più all’aborto. Anche nell’ambiente sociale la coppia che deve prendere la decisione non trova sostegno, qualora inclinasse a non interrompere la gravidanza.

In passato chi sceglieva questa strada era ammirato per la scelta generosa a favore della vita, anche se handicappata. Oggi, invece, i coniugi che optassero per il bambino rischierebbero l’ostilità: come se prendere tale decisione fosse da irresponsabili, che non tengono in considerazione il bene del bambino, condannato all’infelicità dalle malformazioni, e le esigenze della società, costretta a sostenere un peso molto costoso e per nulla redditizio.

In se stessa la coppia trova difficilmente la forza per contrastare pressioni così forti. Il senso di attaccamento al nascituro all’inizio per lo più è debole: esso si crea progressivamente. Solo un prolungato contatto porta a vedere nell’essere che all’inizio è solo “un minorato”, o “un anormale”, i tratti umani, anzi i tratti unici del proprio figlio. Inoltre, lo shock della terribile rivelazione dell’anomalia provoca facilmente sensi di colpa: la coppia si sente responsabile di mettere al mondo un bambino non sano. Il controllo che oggi si esercita sulla riproduzione

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(«un bambino se voglio, quando voglio, come voglio...») rende più difficile accettare un imprevisto in questa organizzazione così precisa. Per molte generazioni è parso evidente che un bambino fosse un dono che va accolto.

In una prospettiva religiosa, poi, questo dono veniva messo in rapporto con Dio. Le donne della Bibbia riferiscono a Dio il figlio che concepiscono (quando Èva concepisce il primogenito, esclama: «Ho ricevuto un uomo tramite Jahwè», Gn. 4,1; e Sara: «Dio mi ha dato motivo di riso, tutti quelli che lo sapranno mi sorrideranno», Gn. 21,6). Quando prevale la concezione di un figlio che “si fa”, piuttosto che “si riceve”, diventa quasi eroico difendere il diritto alla vita anche per un bambino handicappato.

La coppia che si trovasse nella dolorosa situazione di sapere, attraverso la diagnosi prenatale, della malformazione del figlio, ha bisogno di molto sostegno. Il proprio senso morale fornirà ai genitori l’indicazione fondamentale. Se sono cristiani, si lasceranno guidare dalla Chiesa a opporsi alla tentazione d’interrompere quella vita. «La Chiesa», afferma la Familiaris consortio, «crede fermamente che la vita umana, anche se debole e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. Contro il pessimismo e l’egoismo, che oscurano il mondo, la Chiesa sta dalla parte della vita: e in ciascuna vita umana sa scoprire lo splendore di quel “sì”, di quell’“Amen” che è Cristo stesso». Anche se quell’“Amen” è, come Cristo, crocifisso.

Il sostegno maggiore la coppia lo troverà nella sua unione interna, anche se il padre e la madre hanno reazioni fondamentalmente diverse. Se si amano, l’appoggio mutuo che si offrono è insostituibile, qualunque sia la loro decisione. Anche la comunità cristiana è chiamata a offrire il suo apporto di sostegno. Rinunciando a rigide posizioni colpevolizzanti, qualora i coniugi, di fronte alla difficile scelta, avessero deflettuto dalla difesa della vita. Ma anche, e soprattutto, fornendo un contributo concreto alle famiglie che si trovano spesso schiacciate dal peso di un figlio handicappato.

Sarebbe la peggiore ipocrisia ricordare solo il precetto divino di non uccidere, esteso anche all’embrione portatore di handicap, senza fare niente per rendere quella vita sopportabile. Si cadrebbe così nella condanna che Gesù pronuncia contro

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i maestri della legge del suo tempo: «Voi caricate sugli uomini pesi difficili da portare, ma personalmente non li toccate nemmeno con un dito» (Lc. 11,46).

5. Vigilare per non cadere nella tentazione di barbarie

Azione e reazione. La proposta di legge e i commenti indignati. In Francia una sedicente “Associazione per la prevenzione dell’infanzia handicappata” invia ai partiti una proposta di legge rivolta a introdurre nella legislazione una depenalizzazione per i medici che, entro certi termini temporali, ometteranno l’assistenza terapeutica a bambini che nascono con gravi malformazioni. La proposta afferma letteralmente: «Il medico non commetterà né crimine né delitto se si asterrà dal somministrare a un bambino di meno di tre giorni gli aiuti necessari alla vita quando questo bambino presenti un’infermità inguaribile e tale che si possa prevedere che non potrà mai avere una vita degna d’essere vissuta».

Tra le reazioni è possibile spigolare tutti i diversi toni dello sdegno. Il cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi, giudica la proposta di legge «un caso di barbarie legale, indegna del nostro tempo e della nostra civiltà». C. Malhuret, segretario di Stato per i diritti dell’uomo, ritiene che un simile progetto «misconosca i più elementari principi del diritto alla vita e sia del tutto incompatibile con la filosofia dei diritti dell’uomo». L’Unione nazionale francese delle associazioni che raggruppano i genitori di bambini handicappati ritiene, a sua volta, che sia compito del Parlamento «garantire la tutela dei semplici diritti che fondano la dignità umana».

Tanto alla luce della fede cristiana, quanto a quella della ragione che sta alla base della convivenza civile, la proposta di legge appare insensata e da respingere. Il capitolo potrebbe così considerarsi chiuso; vorremmo voltar pagina e augurarci di non dover più essere costretti ad ascoltare simili enormità. Se invece dedichiamo a questo dibattito un momento supplementare di riflessione, è perché i problemi che esso solleva sono reali, anche se presentati in maniera deformata. E costituiscono un caso esemplare di nuove interpellazioni etiche rivolte alla

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coscienza. È un fatto reale, anzitutto, che intorno a certe culle di neonati sorgano dei gravi conflitti di coscienza nei sanitari e nei genitori. Bisogna sottolineare la novità di questa problematica. Fino a non molti anni fa, quando un bambino, nato a termine o prematuro, presentava una malattia grave che minacciava la vita, si poteva fare ben poco per lui. Le possibilità mediche di impedire che la natura facesse il suo corso erano molto limitate; questi neonati erano destinati per lo più a morte certa in breve tempo. Queste situazioni potevano creare un’intensa sofferenza (la morte di un bambino è sempre più enigmatica e angosciosa di quella di un adulto), ma non un problema morale: non potendo far nulla per salvare quella vita, non rimaneva che accettare la realtà. Oggi non è più così.

Con la rianimazione neonatale si possono tenere in vita perfino esserini che alla nascita non pesano più di ottocento grammi. Ora, proprio queste straordinarie risorse della medicina attuale possono, in alcuni casi, far problema. Non è altro, in fondo, che un’articolazione di una perplessità che sorge in altri ambiti della pratica sanitaria: una medicina così efficace è sempre, inequivocabilmente, un bene? Non si rischia di andare troppo lontano, creando situazioni in cui i benefici della medicina si tramutano in una specie di maledizione? La rianimazione neonatale dovrà, quindi, porsi dei limiti, per non superare la barriera oltre la quale la gioiosa possibilità di vivere diventa una condanna a vita?

È difficile, in un primo momento, capire come questo interrogativo si possa applicare a situazioni in cui si tratta di salvare una vita dalla morte: la pratica medica è infatti costruita su un a priori a favore della vita. E anche il senso comune opta sempre per la vita. Ma la certezza comincia a vacillare quando la vita che viene strappata alla morte si presenta così gravata e diminuita che è difficile attribuirle la qualifica di “umana”. Siamo confrontati, in altre parole, con il problema della “qualità” che la vita deve avere per essere un bene desiderabile.

Sappiamo che qui mettiamo il piede in un terreno scivoloso, che potrebbe facilmente farci precipitare molto in basso. Lo dimostra l’argomentazione con cui l’associazione, che ha avanzato il progetto di legge, appoggia la proposta. Essa si fonda sulla sofferenza che deriva da una vita con handicap: essendo

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una vita in tali condizioni talmente penosa tanto per l’handicappato stesso quanto per la sua famiglia («la famiglia il più delle volte è gravemente perturbata e non fa che gravitare attorno ad esso, votandosi a un’opera molto spesso senza speranza; se colloca il bambino in un’istituzione specializzata, ne è penosamente colpevolizzata»), ne tira la conclusione che è preferibile non permettere che tali vite si sviluppino. Perché un essere diminuito non potrà mai avere ― nei termini della proposta di legge ― «una vita degna di essere vissuta». Tradotto secondo la scala di valori della società contemporanea: affinché la vita abbia “qualità”, si richiede che, negativamente, non comporti dolore e che, positivamente, abbia un carattere di perfezione. Anche la minima deviazione dalla normalità viene percepita come un peso intollerabile.

La concezione consumistica della qualità della vita induce, come reazione, coloro che hanno a cuore la difesa dei valori religiosi e umanistici a riaffermare l’attributo di persona che spetta al bambino: sia prima che dopo la nascita; qualunque sia il suo grado di integrità fisica e psichica; di qualsiasi natura siano le vicende che accompagnano la sua nascita (un bambino può essere frutto del desiderio, del caso o della tecnica; può essere amato e adorato, ma anche rifiutato e condannato).

L’affermazione della qualità di persona è una barriera contro ogni volontà di disporre di quella vita, anche se mossi dall’intenzione soggettivamente buona di diminuire il carico delle sofferenze. Riaffermare i principi è importante, e la proposta di legge in questione è un’occasione per farlo. Tuttavia non dovremmo con questo illuderci di aver eliminato il problema di porre dei limiti alle possibilità della rianimazione neonatale.

Quando qualcuno propone di rifiutare di curare questo determinato bambino malato, per non correre il rischio di assumersi poi il peso di una vita gravata da handicap, ci sentiamo in dovere, in nome dei comandamenti divini e dei diritti dell’uomo, di respingere l’invito. Ma sarebbe ugualmente inaccettabile curare qualsiasi neonato a qualsiasi costo, per obbedire a un regolamento giuridico o per darsi buona coscienza. Come per la ricerca scientifica, così anche per la medicina terapeutica non è bene fare tutto ciò che siamo in grado di fare. Questa opera di discernimento è compito della coscienza.

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La rianimazione o altri interventi straordinari su un neonato a grave rischio, per permettergli una sopravvivenza “artificiale”, o l’interruzione di una rianimazione già avvenuta, affinché un bambino già condannato sia lasciato alla sua sorte “naturale”, sono decisioni che vanno maturate all’interno di una relazione umana di intensità e qualità eccezionale, quale è quella che si instaura tra i genitori e l’équipe curante. Sono in gioco aspetti tecnici, per i quali è indispensabile la competenza del medico (primo, fra tutti, l’elaborazione di una prognosi, sulla base di una diagnosi la più precisa possibile). Ma interferiscono anche elementi emotivi, che possono essere trattati adeguatamente solo all’interno di un rapporto di fiducia.

La regolamentazione per legge del comportamento da tenere in questi casi-limite rischia di deformare tale rapporto. Se ci opponiamo alla proposta di legge non è solo per la sua inaccettabilità morale, ma anche per la sua inopportunità. Essa nasce dal sospetto circa l’incapacità dei pediatri e dei genitori di prendere delle decisioni secondo «scienza e coscienza». Un sospetto che, appunto, non condividiamo.

6.. Eliminare i neonati handicappati?

È passato in Italia, facendo conferenze in alcune grandi città, e quasi nessuno si è accorto di lui. Il suo libro è uscito in traduzione italiana, e ha ricevuto solo tiepide recensioni. Ma appena ha valicato le Alpi è successo un putiferio. Per impedirgli di parlare a un simposio in cui era previsto il suo intervento, è stata annullata la manifestazione: alcuni si erano dichiarati disposti, infatti, anche a menare le mani, pur di non fargli prendere la parola. Sto parlando di Peter Singer, uno studioso di bioetica australiano.

Vive a Melbourne, dove dirige il Center for Human Bioethics presso la Monash University e pubblica la rivista Bioethics. Presso gli studiosi è noto soprattutto per essere uno dei leaders del movimento noto come “animal liberation”: applicando l’idea di diritti fondamentali, che è stata decisiva per i movimenti di emancipazione dai pregiudizi razziali e dalla marginalità delle donne nella nostra cultura, si propone di sottrarre gli animali allo sfruttamento e alla crudeltà umana.

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Insomma, dopo le battaglie contro il razzismo e il sessismo, Singer propone di aprire un altro fronte contro una forma di patologia dello spirito nei cui confronti eravamo finora ciechi: lo “specismo”, ovvero l’oppressione esercitata dalla specie umana sulle altre specie animali, in nome di una sua conclamata superiorità. Una tesi che ha richiamato l’attenzione di “verdi” ed ecologisti, nonché di coloro che si preoccupano di rifondare eticamente un nuovo atteggiamento verso la vita. L'affermazione dei diritti degli animali interessava più degli argomenti con cui veniva sostenuta. Neppure i più avvertiti mostravano di rendersi conto che, applicando conseguentemente i principi con cui Peter Singer argomentava, si giungeva a conseguenze inaccettabili non solo all’interno di un’etica particolare, ma per senso morale comune.

Il libro in cui Singer sviluppa sistematicamente il suo pensiero, estendendolo alla vita umana, ha aperto gli occhi sui pericoli di un approccio filosofico che pur si presenta in modo così accattivante per la sua generosità verso gli animali. Si tratta del volume Etica pratica, di recente tradotto anche in italiano. È già singolare il fatto che il presentatore dell’edizione italiana, Sebastiano Maffettone, non faccia mistero delle sue riserve. È vero che elogia l’opera come un esempio di «filosofia militante»: vale a dire, come momento di riflessione da cui si passa direttamente alla partecipazione a cortei, marce, sit-in e altre forme di protesta a favore di certe cause. Presenta inoltre il filosofo australiano come modello di “etica laica”, intendendo con ciò un procedimento in cui non «si ricorre al dogma o al pregiudizio per contrabbandare le proprie convinzioni personali» (come se questa condizione valesse solo per l’etica laica, e non per l’etica tout court!).

Il tenersi lontano dal dogma e dal pregiudizio non basta ancora per fare della buona filosofia. Ed è proprio sulla qualità della filosofia di Singer che Maffettone avanza delle critiche nella presentazione stessa del libro. Rimprovera a Singer di ricorrere a una doppia fondazione dell’etica: pur proponendo come decisivo nelle scelte morali il principio di utilità, in alcuni ambiti — specialmente per ciò che riguarda l’etica della vita animale ― ricorre al principio di uguaglianza. È come se, insomma, filosoficamente tenesse il piede in due staffe: l’uguaglianza

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vale per alcuni esseri viventi (gli animali), ma non per altri (embrioni umani e neonati malformati).

Ciò che ha colpito il grande pubblico non è evidentemente la metodologia filosofica, ma le affermazioni a cui il filosofo giunge, in forza del sistema adottato. Potremmo dire che coloro che in Germania si sono applicati con tutte le forze per impedirgli di prendere la parola in pubblico hanno applicato a Singer il metodo che egli stesso adotta per la sua filosofia: quello “conseguenzialista”; non lo hanno attaccato sulla logica che sottende i suoi ragionamenti, ma lo hanno considerato a partire dalle conseguenze cui conduce (forse ricordando la metafora evangelica dell’albero che va giudicato dai suoi frutti).

Per tornare ai fatti dai quali siamo partiti, Peter Singer avrebbe dovuto parlare in un simposio programmato a Marburg, sul tema: “Biotecnologia — etica — handicap mentale”. Successivamente avrebbe dovuto tenere una conferenza all’università di Dortmund, annunciata col titolo: “I neonati gravemente handicappati hanno diritto alla vita?”.

L’ambito problematico è quello scottante della tecnologia applicata alla genetica. Nel simposio di Marburg si sarebbe dovuto discutere sulle conseguenze sociali della possibilità di diagnosticare precocemente l’handicap di natura genetica. I genitori si vedranno costretti, direttamente o indirettamente, ad abortire i feti portatori di handicap? Esiste addirittura il pericolo che in futuro i neonati più gravemente malformati saranno sistematicamente lasciati morire, o che si proceda nei loro confronti a un’eutanasia attiva? L’associazione tedesca “Lebenshilfe”, che raccoglie i genitori di bambini con handicap mentali, si dichiara preoccupata: grazie alla ricerca genetica e alla diagnosi prenatale, in un prossimo futuro l’handicap potrebbe essere considerato come evitabile, e magari la nascita di bambini menomati potrebbe essere imputata a genitori imprevidenti.

Perciò l’associazione aveva deciso di prendere il toro per le corna, invitando a parlare il rappresentante delle tesi più estremiste. Ma ambedue le manifestazioni sono state impedite da proteste violente elevate da diverse associazioni di portatori di handicap, dal movimento dei “verdi” e da molti privati. Le tesi di Singer, contenute nel suo volume Etica pratica, già da tempo

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tradotto in tedesco, sono apparse improponibili ai suoi oppositori. Ciò che il filosofo sostiene possiamo verificarlo nei capitoli sesto e settimo del libro ora uscito anche in Italia; sono i capitoli che trattano rispettivamente dell’aborto e dell’eutanasia.

Le prese di posizione a favore dell’aborto non sono, purtroppo, una rarità: ne troviamo a ogni latitudine (insieme ― è vero ― a opposizioni e a ripensamenti). Tuttavia Singer si spinge molto più in là: concede semaforo verde non solo all’aborto, ma anche all’infanticidio. A suo avviso, «l’immoralità intrinseca dell’uccidere il feto a uno stadio avanzato di sviluppo e l’immoralità intrinseca di uccidere il neonato non sono marcatamente differenti». È questa una frase che potremmo mettere anche in bocca a un antiabortista, per difendere la sacralità della vita a ogni fase di sviluppo. Ma Singer opera una singolare inversione dell’argomento: siccome la sensibilità morale del nostro tempo ha già accettato l’uccisione del feto mediante l’aborto, diffusamente praticato, si impone un distacco più convincente dalla tradizione etica della sacralità della vita umana. Secondo il filosofo australiano, non esiste un diritto alla vita fondato sull’appartenenza alla specie umana: quello che è decisivo, non è appartenere alla specie homo sapiens, ma le caratteristiche di razionalità, autonomia e autocoscienza. E siccome, «preso in se stesso, il neonato è un essere senziente privo di razionalità e auto-coscienza», non si può rivendicare per lui un diritto alla vita. «Se ci dovesse essere una legislazione in materia», afferma, «essa dovrebbe probabilmente negare un pieno diritto alla vita per i bambini solo per un breve periodo dopo la nascita, forse un mese». La dilazione di un mese per decidere quali neonati devono vivere e quali no è finalizzata a un solo scopo: eliminare quei bambini che, essendo malformati, sarebbero solo causa d’infelicità per sé e per gli altri.

Avendo negato un diritto intrinseco alla vita, Singer deve fondare la possibilità di restare in vita su qualcos’altro. Lo individua nell’“interesse” di coloro che sono vicini al bambino, in particolare i suoi genitori. Dal punto di vista della dottrina filosofica dell’utilitarismo, che assume come principio etico, bisogna scegliere il corso dell’azione che, tutto considerato, ha le conseguenze migliori per tutti. Quando nasce un bambino malformato, la decisione più morale è quella che ha le conseguenze

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migliori, in quanto promuove l’interesse di tutti. Decidere moralmente vuol dire decidere in modo che il saldo di felicità totale risulti superiore al dolore.

Ascoltiamo ancora Singer: «La differenza tra uccidere neonati malformati e sani non consiste in un supposto diritto alla vita che il secondo ha e di cui il primo manca, ma poggia su altre considerazioni intorno al significato dell’uccidere. La più ovvia è la differenza che spesso esiste negli atteggiamenti dei genitori. La nascita di un bambino è di solito un evento gioioso per i genitori... È diverso il caso in cui il bambino risulti malformato. Naturalmente le malformazioni possono essere di diversi tipi. Alcune sono banali, e hanno scarsa incidenza sulla felicità del bambino e dei suoi genitori, ma altre rendono il gioioso evento della nascita una minaccia alla felicità dei genitori, e degli altri bambini che possono avere». In questi casi i genitori, in nome di un utilitarismo basato sugli interessi, possono lasciar morire i neonati malformati. Anzi, devono lasciarli eliminare dal medico. Singer sostiene che l’eutanasia attiva è preferibile a quella passiva, in quanto risparmia ulteriori sofferenze, che per definizione sono inutili.

È facilmente spiegabile la reattività che tesi simili hanno provocato in Germania. In questa terra l’eutanasia per gli handicappati non è stata solo un’idea per dibattiti accademici, ma una tragica pratica. Per i tedeschi consapevoli della loro storia l’eutanasia per vite ritenute «non degne di essere vissute» è un fantasma inquietante, che non deve essere menzionato neppure come ipotesi filosofica.

Singer rifiuta che il suo pensiero possa essere ricondotto all’ideologia nazista, anzi considera ogni analogia col nazismo come “fuorviante”. I criteri con cui i nazisti valutavano la vita erano quelli della razza, mentre la sua etica basa le scelte sulla diminuzione del dolore. Si è dichiarato, perciò, deluso soprattutto delle proteste sollevate dalle associazioni di genitori con figli handicappati: non hanno capito che con le sue tesi intende venire incontro proprio a loro?

Forse su questo punto di frattura il filosofo può imparare qualcosa. Ci auguriamo che non si chiuda nel risentimento per l’ingiustizia che gli è stata fatta, impedendogli di parlare (nel nostro mondo occidentale non esiste il delitto di opinione e togliere

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a qualcuno la possibilità di esprimere le proprie è considerato un comportamento gravemente illiberale). Ci piacerebbe che Singer interpretasse l’accaduto come un bisogno di parola da parte dei protagonisti stessi delle vicende legate alla nascita con handicap. Potrebbe mettersi a sua volta in ascolto di questi genitori che non si legano ai figli sulla base di un calcolo di interessi e rifiutano di lasciar ridurre la propria esistenza, pur con il suo carico di dolori dovuta alla condizione di nascita svantaggiata dei figli, a un bilancio passivo. Potrebbe imparare che la vita è diversa dai ragionamenti filosofici che si fanno su di essa; che la felicità non è uguale a ciò che si trova quando si organizza l’esistenza in modo da evitare il dolore; che ci sono forme di “interesse” e di “utilità” che non coincidono con quelle che conosce e promuove la società dei consumi. Se questo ascolto avvenisse, il suo viaggio in Europa potrebbe non essere stato inutile. E sarebbe in migliore condizione per riscrivere la sua filosofia.

7. Il luogo per nascere, amare e morire

Il convegno annuale del Centro internazionale studi famiglia (Cisf), organismo istituito nell’ambito dell’Associazione “Don Zilli” dal gruppo Periodici Paolini, ha assunto come tema: “Nascere, amare, morire: etica della vita e famiglia, oggi”. L’argomento in sé non si distingue per originalità: non passa settimana che non si senta parlare di un seminario di studio, congresso o simposio dedicato a quell’ambito di problemi che si è convenuto di chiamare “bioetici”. Non sono più soltanto le istituzioni accademiche o le Chiese che si interrogano sulla legittimità di ciò che la tecnologia applicata alla biologia e alla medicina permette di fare nell’ambito della vita umana e non umana. Ormai anche i partiti ne discutono. E si delinea una forte spinta a portare il dibattito anche in sede legislativa, proponendo leggi che regolino questi delicati settori di confine.

Analizzando la riflessione bioetica corrente, ci rendiamo conto che lo stato d’animo dominante è la preoccupazione. Si va sempre più diffondendo un senso di smarrimento: nei segmenti iniziali e finali della vita umana (riproduzione e morte) la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito — sempre così

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difficile da tracciare — sembra cancellata per sempre. Non sono solo le agenzie di pensiero religioso ad essere preoccupate: anche il mondo laico è in agitazione. Almeno in America si sta anche delineando qualcosa che assomiglia a un “movimento dei consumatori”. Quello animato dall’avvocato Jeremy Rifkin, ad esempio, si propone di aprire gli occhi alla gente sui pericoli connessi con la manipolazione del genoma umano e con le varie tecnologie biomediche, che si presentano sotto un aspetto innocuo.

Il convegno del Cisf, che si è svolto con il contributo di eminenti studiosi italiani e di docenti dell'Università cattolica di Lovanio, non ha percorso i sentieri della preoccupazione. La lettura dei fatti che è prevalsa è stata piuttosto rivolta a mettere in evidenza l’ambivalenza dell’intervento umano sulla vita.

Le possibilità che ci sono offerte dalle nuove tecniche biomediche possono essere comprese, più che con un discorso solamente razionale, attraverso un simbolo. Quello della terra promessa. La terra «stillante latte e miele» ― secondo il linguaggio biblico ―, quella che libera gli uomini dal triste giogo della costrizione imposto dalla pesantezza della natura, non è una terra vergine. Il simbolo della terra promessa si differenzia essenzialmente, da questo punto di vista, dall’immaginario che ha trascinato schiere di coloni americani verso la frontiera dell’Ovest. Essi immaginavano quelle terre come vergini, bisognose solo del loro sudore per produrre frutti in abbondanza. Gli autoctoni — gli indiani — non erano considerati come proprietari, ma come ostacoli da superare, ostilità naturali da distruggere, alla stessa stregua dei bisonti e degli orsi grizzly. Non così gli ebrei nei confronti della Palestina. Sapevano che la loro terra promessa era abitata. La conquista doveva avvenire sotto forma di insediamento di un popolo, che implica la cacciata di un altro.

La dimensione conflittuale è rimasta incollata al simbolo della terra promessa (e la situazione attuale della Palestina ce lo ricorda drammaticamente). Per questo motivo viene ad essere un’immagine più adatta di quella della «nuova frontiera» per evocare ciò che sta avvenendo in ambito bio-medico. La situazione si può riassumere in termini di scontro frontale: c’è già qualcuno che occupa quella terra, mentre un invasore ― ma

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che si sente autorizzato alla conquista da un mandato divino ― cerca di occuparla. Chi abita la terra è “la natura”; chi la invade è “il desiderio”.

Le modalità del nascere, del riprodursi e del morire sono determinate dalla necessità della natura: con le sue potenzialità e i suoi limiti, la sua saggezza e le sue incomprensibili oscurità, con il suo volto benefico e le sue mostruose violenze. La storia dell’umanità può essere descritta come una storia di adattamenti al triste peso della necessità, con ben poche possibilità di modificarla.

Si può dare senso unitario ai progressi biomedici contemporanei, descrivendoli come un’occupazione della terra, della necessità da parte del desiderio di salute, benessere, fecondità, longevità. «A me», sembra dire il “desiderio”, «questa terra è promessa!». La procreazione sarà quindi svincolata dallo spazio e dal tempo, addirittura resa indipendente dall’incontro sessuale: un figlio quando voglio, nel modo in cui voglio, addirittura un figlio su misura. La sessualità sarà separata dalla riproduzione. La morte stessa potrà essere tenuta sotto controllo, diventando il momento del morire una variabile dei mezzi di rianimazione impiegati.

Restando all’interno della metafora, ci possiamo rendere conto che non è vera terra promessa quella che preveda il benessere di alcuni a spese di altri, secondo la logica della sopraffazione. La metafora stessa ci obbliga a inventare un’altra dimensione del simbolo: sarà vera terra promessa solo quella che permetterà ai due popoli di vivere insieme.

Applicata l’immagine alla sintassi fondamentale dell’esistere nel corpo, circoscrivibili entro le vicende del nascere, amare e morire, possiamo ipotizzare che la sola terra promessa che abbia carattere etico sarà quella in cui ci sarà spazio tanto per la natura, quanto per il desiderio. Quest’ultimo non violenterà le strutture naturali, producendo nascite e morti totalmente svincolate dalla scansione che impone l’inerzia della materia; la natura, a sua volta, non eliminerà come irrilevante il desiderio, ma si piegherà ad esso, nella misura del possibile.

È una visione troppo idealizzata? Dovremo affidarci a una regolazione arbitraria, procedente da considerazioni etiche astratte, dal conflitto che contrappone ciò che l’uomo subisce

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dalla natura a ciò che egli vorrebbe produrre nella natura, modellandola sul suo desiderio? Qui interviene l’elemento messo in evidenza dal convegno del Cisf: la famiglia. Questa è un luogo in cui il costante braccio di ferro tra natura e desiderio, tra costrizione e libertà, trova una specie di regolazione spontanea.

È ben vero che la famiglia non è un’oasi felice, dove si spengono i conflitti di fondo che travagliano l’esistenza umana. Ad essi, piuttosto, si aggiungono quelli che derivano dall’intersoggettività, dal dover cioè condividere uno spazio ristretto con altre persone, portatrici di diversi progetti e desideri. Tuttavia in tanti secoli l’umanità non è riuscita a inventare qualcosa di meglio — o, se si preferisce, di meno peggio — della famiglia, come luogo in cui i desideri si compongono, perdendo la loro carica distruttrice anarchica.

La famiglia è, oggi come ieri, un buon luogo per nascere, amare e morire. E anche un buon luogo per risolvere i dilemmi etici che pone oggi l’applicazione della tecnologia a tutto l’arco della vita umana, dalla nascita alla morte.

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Capitolo III

MALATTIA, SALUTE E SALVEZZA

La pratica della medicina è diventata uno dei punti caldi della vita sociale e della riflessione etica. Fino a un passato recente, per quanto discussi potessero essere altri aspetti dell’agire umano, ciò che veniva fatto a vantaggio del malato e per il recupero della salute godeva di un consenso morale unanime. Oggi non è più così. I progressi della biologia e della medicina hanno aperto un ampio fronte di preoccupazione, in nome dell’umanesimo. E le situazioni oggettivamente conflittuali, in cui bisogna pur prendere delle decisioni con la consapevolezza che il bene e il male non si lasciano dividere con un taglio netto, possono portare a una sorta di paralisi della volontà. Quando non addirittura a uno scetticismo morale.

È più che mai necessario riaffermare il primato dell’etica nell’ambito della sanità. Ma non con compiti polizieschi e repressivi, assegnandole come unica funzione di demarcare i confini tra il lecito e l’illecito o di segnare i limiti che non vanno in nessun caso oltrepassati. Abbiamo piuttosto bisogno in primo luogo di un’etica che fornisca uno stimolo positivo per ridare all’attività terapeutica tutto il suo spessore, coniugando scienza e valori umani. Quando il campo del guarire viene ricostruito nella sua interezza, il curare e il prendersi cura appaiono come due momenti necessari e complementari. La cura della salute mostra allora una singolare affinità con la ricerca della salvezza.

1. Ricerca medica, ma senza calpestare la dignità del malato

Un medico di famiglia olandese ha in trattamento una coppia. Egli è a conoscenza che il marito, all’insaputa della moglie, ha una doppia vita sentimentale e intrattiene rapporti omosessuali.

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Il partner del marito si ammala di Aids e muore. Esiste un’alta probabilità che anche l’uomo in questione sia sieropositivo e abbia infettato la moglie. La coppia ad un certo punto va in crisi e divorzia; l’ex marito parte definitivamente per un Paese straniero dove il medico non può più raggiungerlo. La moglie si risposa e, completamente all’oscuro del pericolo che pesa su di lei e sulla prole eventuale, vuole generare un bambino. Il medico si trova in un dilemma. Il segreto professionale gli impedisce di rivelare quello che sa dell’ex marito. Ma in tal modo omette di proteggere la donna. Deve infrangere il segreto, informandola del virus che può avere contratto?

Un secondo conflitto di coscienza, dalla Svezia, questa volta. Riguarda una famiglia esposta al rischio di una malattia estremamente grave e per la quale attualmente non esiste alcun rimedio: il morbo di Hungtinton. La malattia può svilupparsi tardi, verso i 40 o 50 anni, con una sindrome cerebrale che distrugge la capacità di coordinare i movimenti e porta inevitabilmente a una morte straziante. È una malattia a trasmissione ereditaria. In una ricerca per una diagnosi predittiva, è stata contattata una famiglia in cui la nonna è morta per questa malattia. Il figlio e il nipote, rispettivamente di 40 e 20 anni, potrebbero essere portatori del gene che trasmette la malattia. Lo studio del patrimonio genetico rispettivo può predire oggi con una probabilità che uguaglia la certezza se i due uomini, pur non avendo attualmente nessun sintomo della malattia, ne siano portatori, e quindi si ammaleranno in un futuro più o meno prossimo.

Ora, il ragazzo ventenne teme fortemente di aver ereditato la malattia e vorrebbe sapere il risultato della diagnosi genetica. È ovvio che le decisioni che deve prendere circa la propria vita — sposarsi, ad esempio, e procreare dei figli ― dipendono da questa informazione. Il padre, invece, non vuole conoscere il risultato: preferisce ignorare se è portatore del male, e organizzare la sua vita indipendentemente da questa prospettiva. Il figlio ha diritto di sapere, mentre il padre, rispettivamente, di non sapere. Se però il figlio è informato, c’è il rischio molto fondato di informare indirettamente anche il padre: se infatti il figlio è portatore della malattia, l’ha ereditata dal padre, il quale la svilupperà in breve tempo. Il medico dovrà proteggere il padre, fino a negare l’informazione al figlio? Oppure riterrà che il diritto di quest’ultimo

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a sapere sovrasta le pur buone ragioni del padre di essere mantenuto all’oscuro? In ogni modo, un dilemma non facile da sciogliere per il medico.

I due casi sono stati presentati a un seminario di studio, svoltosi a Bellagio, al quale hanno partecipato sia i membri dell’Associazione europea dei centri di etica medica, sia alcuni loro colleghi statunitensi e canadesi. Tema del colloquio era il “consenso informato” nella pratica della ricerca e nell’esercizio della medicina. L’incontro ha offerto un’occasione per confrontare il ruolo che svolge l’informazione e il consenso del paziente, al di qua e al di là dell’Atlantico. Non è infrequente che i problemi relativi al consenso siano vissuti con un certo fastidio nell’ambiente medico, specialmente in Paesi nei quali la medicina viene esercitata in un clima di rapporti interpersonali caratterizzati da autoritarismo e paternalismo. Possiamo tranquillamente contare anche l’Italia tra questi. Chiedere il consenso di un soggetto su cui si sta svolgendo una ricerca biomedica può sembrare al ricercatore una limitazione che intralcia il suo lavoro scientifico, oppure una mancanza di fiducia nella nobiltà dei suoi intenti. Con maggiore irritazione reagiscono i medici quando si pretende da loro che informino i pazienti sulla diagnosi, o sui rischi di una terapia a cui li sottopongono, oppure che scelgano con il paziente, dopo opportuna informazione, l’alternativa terapeutica che questi preferisce, fra tutte quelle possibili.

Il medico, dopo tutto, non è qui per fare il migliore interesse del paziente? Pretendere di dare la parola a quest’ultimo, non equivale a gettare un’ombra di sospetto sul fatto che ciò che si fa nel trattamento di una malattia avvenga ad esclusivo beneficio del malato? Questa è stata la concezione prevalente del rapporto medico-paziente nella medicina del passato, che nella tradizione dell’Occidente si richiama a Ippocrate. Il medico veniva inteso come l’avvocato e il tutore della salute del paziente. Questi si affidava al suo terapeuta, al quale si attribuivano le conoscenze necessarie per guarirlo e la volontà benefica di fare il suo interesse; affidava a lui le decisioni che riguardavano il trattamento. Questo modo d’impostare il rapporto tra chi offre le cure e chi le riceve ha fatto il suo tempo.

Il primo grande scossone al rapporto di fiducioso abbandono del paziente nelle mani del medico è avvenuto nell’ambito della

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ricerca biomedica sui rapporti umani. Subito dopo la seconda guerra mondiale si è venuti a conoscenza che sotto il regime nazista erano stati condotti da medici degli esperimenti sui prigionieri con pretesi intenti scientifici. Lo shock provocato da quegli orrori si è espresso nel Codice di Norimberga (1947), che ha formulato le prime regole relative a ricerche mediche su esseri umani. La più fondamentale era quella che dichiarava che, affinché una ricerca sia moralmente lecita, «il consenso del soggetto umano è assolutamente necessario».

Purtroppo non si è trattato solo dello smarrimento momentaneo negli anni bui del totalitarismo. Più di recente, l’opinione pubblica è stata allarmata dalla notizia di abusi perpetrati in nome della ricerca scientifica. Leggendo i resoconti pubblicati nelle riviste specializzate, si veniva a sapere che certi nuovi farmaci venivano sperimentati su ospiti di case psichiatriche; che bambini affetti da profondo ritardo mentale venivano utilizzati per la ricerca sul cancro; che si somministravano delle pillole inattive a donne che credevano di usare dei contraccettivi, al fine di studiare il cosiddetto “effetto placebo”, ovvero l’incidenza della suggestione sull’efficacia dei farmaci. E soprattutto che, anche senza raggiungere punte così estreme, un’enorme quantità di ricerche biomediche veniva condotta all’insaputa delle persone che ne erano oggetto.

L’emozione creata da queste notizie ha indotto negli Stati Uniti a creare una commissione apposita ― la “Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani nelle ricerche biomediche” ―, che ha studiato per anni (dal 1974 al 1978) il problema del rispetto dei diritti umani in questo tipo di ricerca. Non si tratta di rimettere in discussione la necessità di fare ricerca: la scienza non può procedere solo con l’osservazione, deve anche sperimentare. L’efficacia della medicina di domani dipende dalla ricerca che sappiamo fare oggi. Basti pensare a che cosa ci aspettiamo dalla scienza medica per la cura di malattie che non hanno ancora un trattamento efficace, come buona parte dei carcinomi e l’Aids. Tuttavia non siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo. Un prezzo assolutamente non trattabile è quello che comportasse la rinuncia alla dignità dell’essere umano, qualora venisse semplicemente trattato come cavia. La richiesta del «consenso informato» è finalizzata a garantire questa protezione

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delle persone nelle quali si fa della ricerca. Uno degli espedienti concreti che si sono rivelati efficaci a questo fine è quello di chiedere il parere obbligatorio di un “comitato di etica” per tutti i protocolli di ricerca che utilizzino delle persone. La preoccupazione del comitato è che, oltre alla verifica che si tratti di una ricerca scientifica autentica e non fasulla, sia garantita una partecipazione libera e consapevole di soggetti sperimentali.

Nel frattempo il consenso informato sta diventando un problema maggiore anche in quella parte dell’esercizio della medicina che è propriamente l’attività clinica. I conflitti di coscienza che si pongono al medico sono almeno in parte assolutamente inediti: lo abbiamo visto nei casi presentati all’inizio. Ma è soprattutto il rapporto di fondo tra il terapeuta e il paziente che sta cambiando. Chi beneficia delle possibilità terapeutiche della medicina tende sempre più a concepire se stesso come un soggetto, dotato del diritto di decidere di se stesso. Talvolta tra ciò che il medico ritiene il miglior interesse del paziente e ciò che questo considera il proprio bene ci può essere una divergenza che sfocia in un conflitto.

Molte ambiguità delle proposte di legalizzare l’eutanasia nascono dalla richiesta non di un vero e proprio suicidio assistito, ma semplicemente dall’autorizzazione a terminare la vita in un modo che sia conciliabile con la dignità che spetta a un essere umano. Oppure si pensi al drammatico scontro tra medici e genitori sul miglior interesse di un bambino che nasce con gravissime malformazioni che lo porteranno a morte precoce, ma che potrebbe essere salvato impiegando le risorse di una medicina “eroica”. Può succedere che i genitori si oppongano a interventi eccezionali, mentre i medici si sentono presi in un dilemma: come uomini condividono le ragioni dei genitori, mentre come sanitari interpretano il loro dovere come un intervento a ogni costo. Sono problemi nuovi, che non possono essere risolti con le regole di comportamento elaborate per una medicina diversa dall’odierna.

2. L’ascolto che guarisce

Il grano che cresce non fa rumore. Un brusio appena percettibile può essere considerato l’incontro tra operatori della salute

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svoltosi ad Assisi, se paragonato con il gran chiasso che si fa intorno ai problemi sanitari. E a ragione: perché nell’ambito della cura della salute avvengono cose scandalose, indegne di un Paese civile; e il malcostume deve essere contrastato con la protesta, per evitare che si consolidi in comportamenti abitudinari. Ma se vogliamo nutrirci di speranza, dobbiamo rivolgerci a segni non clamorosi, come quello di Assisi. Esso ci parla di una nuova cultura della salute, che lentamente mette radici anche tra di noi, aggregando persone di diverso orientamento ideologico e di differenti ambiti professionali.

Quest’ultimo aspetto è il più evidente. La cura della salute nelle società sviluppate si è differenziata, frazionando l’accumulo di compiti che nelle culture più arcaiche caratterizzava la funzione terapeutica. Chi si occupa dell’anima non ha più contatto con chi cura i corpi malati; anche il trattamento dei mali psichici si è reso autonomo, con gli psicoterapeuti come professionisti della salute mentale e del benessere emotivo.

Nella società contemporanea, caratterizzata dalla complessità, non si può prescindere dalla divisione dei compiti. Ma la situazione tende a deteriorarsi, in quanto la specializzazione delle funzioni porta l’operatore a gravitare sempre più perifericamente rispetto alla persona bisognosa di cure, nella sua unicità. Ormai non solo tra medici e psicoterapeuti non c’è più unità di linguaggio e di interessi, ma si può dire che neppure i medici costituiscono una categoria omogenea: i cardiologi si incontrano con i cardiologi, gli ostetrici vanno solo ai convegni di ostetricia, e ognuno legge esclusivamente le riviste che riguardano la propria specialità. Coloro che si occupano della salute spirituale, poi, sono emarginati dal discorso sanitario, dopo che la medicina si è emancipata dalla religione e la psicologia ha, a sua volta, rivendicato un’azione autonoma sulla psiche umana.

In questo contesto, l’incontro avvenuto presso la Cittadella di Assisi costituisce un fatto nuovo, addirittura singolare nel panorama della nostra cultura. Superate le barriere professionali, i più di trecento convenuti si sono ritrovati sulla base del comune denominatore costituito dall’essere «operatori della salute». Medici, infermieri, psicoterapeuti, cappellani ospedalieri: ognuno con la sua specificità, eppure tutti uniti nel compito

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unitario di contribuire a quella autorealizzazione dell’uomo che si chiama salute. Un tratto che attraversa le diverse professionalità terapeutiche e le unifica è quello dell’ascolto. “L’ascolto che guarisce” era propriamente il tema dell’incontro.

Tra coloro che ricorrono ai professionisti della terapia serpeggiano soprattutto delusione e risentimento. Si ha l’impressione di essere traditi da coloro che dovrebbero ascoltare, e invece fanno tutt’altro che esercitare l’ascolto. Magari richiedono un gran numero di analisi, o prescrivono farmaci su farmaci, come è sempre più frequente nella pratica medica; oppure, se vogliamo assumere i pastori come bersaglio dello scontento, fanno prediche o prescrivono norme morali. Nelle riflessioni su La vita comune già Bonhoeffer faceva acute osservazioni sulla pratica dell’ascolto nella comunità cristiana: «Come l’amore di Dio incomincia con l’ascolto della sua Parola, così l’inizio dell’amore per il fratello sta nell’imparare ad ascoltarlo. I cristiani, specialmente i predicatori, credono di dover sempre “offrire” qualcosa all’altro, quando si trovano con lui; e lo ritengono come loro unico compito. Dimenticano che ascoltare può essere un servizio ben più grande che parlare. Molti uomini cercano un orecchio che sia pronto ad ascoltarli, ma non lo trovano tra i cristiani, perché questi parlano pure là dove dovrebbero ascoltare».

Se dal lamento passiamo a un’analisi del comportamento di non-ascolto, ci accorgiamo che ciò che avviene nell’ambito sanitario non è che un aspetto di un fenomeno molto più vasto. Come figli del nostro tempo, siamo incapaci di un ascolto pieno. Max Picard ha definito l’uomo moderno come un’«appendice del rumore». Immersi in un mondo di suoni, costituiamo una società in cui tutti parlano e nessuno ascolta. La scuola stessa è finalizzata a renderci professori della parola, ma analfabeti dell’ascolto.

La mancanza di ascolto non è solo frutto di cattiva volontà e debolezza morale. Bisogna tener conto anche di una resistenza inconscia di fronte a un incontro interpersonale, oscuramente percepito come una minaccia al nostro equilibrio e alla nostra integrità. La relazione non è solo un’appendice irenica del nostro “io”: è anche contrapposizione, talvolta conflitto; a una vera relazione interpersonale si arriva passando attraverso un

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processo di destrutturazione e una rimessa in discussione di se stesso. L’invocazione di aiuto dell’altro ci investe come un’ondata carica di pericolo. «Chi sente gridare un bambino», ha affermato Wittgenstein, «e lo comprende, sa che in quelle grida sonnecchiano tremende forze dell’anima, e diverse da quelle che si presumono abitualmente. Furia profonda e dolore e brama di distruzione».

Occorre tener presente questa dimensione profonda, se non vogliamo banalizzare l’ascolto, riducendolo a un atteggiamento di correttezza formale e generica benevolenza. Bisogna quindi presupporre che ognuno di noi si barrica di fronte a chi chiede ascolto, mette in atto delle difese. Anche l’operatore della salute ha le sue, di cui deve diventare consapevole.

Ci sono forme grossolane di non ascolto. Sono quelle di cui si è soliti lamentarsi, perché feriscono di più la sensibilità delle persone. Ma nel complesso non sono le più gravi. Ben peggiori sono le forme mascherate o subdole di non ascolto. Si può, per esempio, “dare ascolto” (cioè accondiscendere a una domanda di aiuto, quale che sia), al fine di non ascoltare, ovvero di non permettere che ciò che dell’altro è veramente importante venga allo scoperto. Un’altra modalità è quella di frazionare la richiesta. Ogni operatore acquisisce insensibilmente una certa deformazione professionale, che lo porta a ricondurre la domanda della persona sofferente a ciò che è rilevante per la sua professione. Si realizza così una “educazione” del paziente a far entrare i propri sintomi entro il quadro di leggibilità propria del terapeuta. Sempre più spesso si presenta di conseguenza la situazione del malato che, agli occhi del medico, «non ha niente», e viene perciò inviato a un altro professionista sanitario. Secondo Balint, specialista nell’analisi del rapporto terapeutico, i malati “offrono” i sintomi; di volta in volta l’operatore sceglie di accettare o no ciò che il paziente gli dice.

Anche una solida teoria (quella che l’operatore riceve dalla formazione medica, o dalla scuola psicologica a cui aderisce, o dal sistema dottrinale ortodosso dell’istituzione religiosa) può costituire un argine opposto allo straripamento dell’altro, con la carica dirompente della sua diversità. La teoria, dando l’impressione di poter capire gli altri in anticipo, adempie in realtà la funzione di tener lontano da sé le loro pretese. E soprattutto

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quegli aspetti inquietanti del mondo che trapelano attraverso il dolore degli altri. Colui che, in stato di bisogno corporeo, psichico o spirituale, domanda l’ascolto terapeutico di un operatore, lo mette al tempo stesso di fronte ad aspetti della propria realtà che questi cerca di eludere proprio con il ricorso all’attività terapeutica. Per poter veramente ascoltare, il medico deve accettare, di fronte al malato, l’idea della limitatezza della propria vita e che con lui egli ha in comune la morte. Il disagio psichico e la miseria spirituale, da parte loro, costringono chi esercita la professione psicoterapeutica o il ministero pastorale a confrontarsi con la propria pazzia e il proprio peccato.

Un ascolto consapevole presuppone che si sia in qualche modo passati attraverso il grande deserto, assumendo la distanza infinita che separa una persona dall’altra. Allora l’ascolto rivela il suo lato benefico, non solo per chi è ascoltato, ma anche per l’operatore che lo esercita. Ascoltando l’altro, egli si apre alla propria realtà umana in pienezza, compresa la sua inevitabile parte di ombra. Mediante l’ascolto, cioè mediante l’accoglienza rispettosa di noi stessi e degli altri, noi, malati di attivismo e di unilateralità, reintegriamo il nostro essere. Esercitare una professione di aiuto, qualunque essa sia, è una via a un modo più completo di essere uomini. E, d’altra parte, non si può offrire aiuto se non con la propria umanità.

L’invocazione dell’altro suscita una “vocazione”. Abbiamo forse un certo imbarazzo a usare questa parola per designare gli operatori della salute, dopo gli abusi di ogni segno di cui il termine è stato vittima. Pur con tutto il pudore necessario, bisognerà però osar dire che occuparsi della salute somatica, psichica o spirituale degli altri implica qualcosa che eccede l’ordine dell’esercizio di una professione.

Tra i partecipanti dell’incontro di Assisi alcuni hanno detto con candore che, riflettendo sulla pratica dell’ascolto, ritrovavano la gioia del proprio impegno professionale. Non è poca cosa, in quest’epoca buia per i rapporti interpersonali.

3. Non demonizzare la malattia

All’interno della Società italiana di psicologia si è costituita una nuova divisione che affianca le altre già esistenti: quella di

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“Psicologia e religione”. La neonata divisione ha dedicato il suo primo incontro di lavoro a un dibattito sul tema: “La demonizzazione della malattia, oggi”. Ambedue le notizie meritano una sottolineatura. È segno di un nuovo clima culturale il fatto che la psicologia e la religione, superando una lunga serie di sospetti e diffidenze reciproche, inizino a stabilire un confronto su un piano di parità. Ancor più significativo è che il terreno scelto per l’incontro sia la malattia. Lo psicologo e il rappresentante della religione si trovano coinvolti personalmente con il malato e sono chiamati a offrirgli la loro opera professionale per aiutarlo a elaborare il senso della malattia. Questo sostegno è particolarmente urgente e delicato quando la malattia non è più contenuta nel piano somatico, ma tracima in quello del sacro. È in questo contesto che avviene la “demonizzazione” della malattia.

Evocata la demonizzazione, il pensiero corre immediatamente alla sindrome da immunodeficienza acquisita, in sigla Aids. I malati che ne sono affetti vengono, infatti, “demonizzati”, nel senso che sono loro attribuite caratteristiche diaboliche: sono isolati, evitati, discriminati, al di là di ogni ragionevole misura cautelativa suggerita dalla prevenzione e dalla profilassi. Essendo una malattia che si trasmette mediante liquidi organici ad alto valore simbolico ― sangue e sperma — e legata soprattutto a comportamenti trasgressivi dal punto di vista morale — promiscuità sessuale e tossicodipendenza —, è facile capire che cosa alimenti il meccanismo che induce a isolare alcuni malati dal contesto sociale e a riversare su di essi tutta la negatività possibile, del mondo visibile e di quello invisibile. Le dettagliate descrizioni che storici e letterati ci hanno trasmesso dei comportamenti in epoca di peste ci hanno reso già familiare questo procedimento della demonizzazione nei confronti di alcuni malati, che fungono da veri e propri capri espiatori dell’angoscia che suscitano certe sindromi morbose.

Possiamo però dare alla «demonizzazione della malattia» un’ampiezza ancora maggiore, intendendo con questa espressione l’attribuzione alla malattia di significati appartenenti a un ordine che non è quello dei processi biologico-organici. Questo procedimento è usuale in ambito religioso. Tradizionalmente, infatti, la causa della malattia viene ricercata nel

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rapporto dell’individuo con il trascendente. Alcune chiavi di lettura dell’evento morboso sono di natura magica: la disgrazia o la malattia vengono in tali casi rapportate alla violazione di un tabù, anche senza la responsabilità morale della persona colpita.

Le spiegazioni della malattia che nascono in un contesto religioso prevedono invece due soggetti: la divinità e l’uomo. “Demonizzazione” della malattia vuol dire, in questo orizzonte, stabilire un rapporto tra il comportamento morale del singolo e la volontà di Dio. I significati possono essere molteplici, in quanto la malattia può essere vista come punizione di una colpa, oppure come prova, espiazione sacrificale, riparazione, purificazione personale, occasione per acquistare meriti per sé e per gli altri. In tutti questi casi possiamo parlare di una “demonizzazione”, in quanto il piano della trascendenza è invocato per rendere conto di ciò che succede al corpo dell’uomo. La forma più diffusa e ricorrente di spiegazione religiosa della malattia resta, tuttavia, quella di riferirla alla volontà punitiva di Dio.

Anche di recente si è sentito qualche ecclesiastico presentare l’Aids come il castigo di Dio per determinati peccati. È stato necessario che il Papa impegnasse la sua alta autorità morale, proclamando apertamente, in occasione del suo viaggio negli Stati Uniti, che i malati di Aids non sono colpiti da Dio.

Un correttivo a questo atteggiamento colpevolizzante consiste nel proporre delle “demonizzazioni” positive, nel senso di attribuire alla malattia altri significati morali. È, in fondo, quanto emerge dal dialogo di Gesù con i discepoli a proposito del cieco nato (cfr. Giov. 9,1-5): cercare la colpa non è l’unica possibilità; più fruttuoso ― anzi, nella prospettiva di Gesù, l’unico atteggiamento compatibile con l’immagine di Dio che egli propone ― è cercare quella utilizzazione della malattia, che permette che in essa «si manifestino le opere di Dio».

Questo processo di allargamento del significato spirituale della malattia è intrinseco alla religione stessa. Basta, in altre parole, che rimaniamo fedeli a tutto il patrimonio di valori trasmessoci dalla tradizione che ha riflettuto sulla malattia alla luce della fede nel Dio dell’Alleanza ― una meditazione che comprende sia il Pentateuco che Giobbe, sia i Salmi che Qohelet,

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i Vangeli come san Paolo ― per avere un efficace correttivo delle intemperanze verbali della cattiva retorica religiosa, proclive a frettolose correlazioni tra malattia e peccato. Per quest’opera di chiarificazione basta della buona teologia: non è necessario far ricorso alla psicologia.

Là dove, invece, l’incontro tra psicologia e religione porta tutto il suo frutto è nel rivendicare insieme il valore delle spiegazioni della malattia che possiamo globalmente qualificare come “non scientifiche”. L’imperialismo della scienza positiva ha prodotto una pratica svalutazione del valore conoscitivo di spiegazioni che non parlino il linguaggio delle scienze naturali. Non vogliamo considerare irrilevante il procedimento metodologico e pratico che consiste nel cercare la causa della malattia nei disordini funzionali e strutturali dell’organismo. La ricerca di microbi e di virus responsabili dei processi patologici è indispensabile, allo stato delle conoscenze attuali, perché la medicina possa rivendicare la qualifica di sapere razionale. Ma questa non è tutto: è solo una parte, o piuttosto un aspetto, di quella totalità integrata che costituisce il soggetto.

Questa medicina fisiologica non sa in realtà rispondere alla domanda più semplice e più fondamentale di tutte: «Perché ci ammaliamo?». Essa chiama in causa l’organismo, ma non l’uomo. Se la confrontiamo con la prima medicina “scientifica”, quella greca, la nostra medicina materialista ci appare molto più antiquata e grossolana. La medicina dei greci, infatti, per spiegare la malattia non ricorreva al divino, ma rimandava alla natura umana nella sua interezza.

Pitagora, cinque secoli prima di Cristo, affermava: «Gli dèi non sono colpevoli delle nostre sofferenze; tutte le malattie e i dolori del corpo sono il prodotto delle nostre dissolutezze». Pur differenziandosi da spiegazioni di tipo religioso, questa medicina rimaneva antropologica, in quanto rimandava all’uomo intero, quale causa di ciò che avviene fenomenologicamente al suo corpo: i suoi comportamenti; le sue idee; le sue emozioni; in una parola, la sua “moralità”.

Proprio al recupero di questa dimensione umana della malattia la psicologia oggi è chiamata a fornire un contributo indispensabile. Essa è in grado di farlo tanto più efficacemente, in quanto in epoca moderna ha esteso le sue capacità esplorative

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anche alla dimensione inconscia della psiche, oltre che a quella conscia. In questa battaglia per riumanizzare la malattia, psicologia e religione non sono avversarie, ma alleate.

4. Sull’Aids bisogna cambiare linguaggio

danni provocati dall’epidemia di Aids sono incalcolabili: migliaia di vite umane già decedute, e milioni di decessi previsti per i prossimi anni; perdite economiche rilevanti per il costo del trattamento dei colpiti e per la scomparsa di persone giovani e produttive; pesanti conseguenze anche per la vita sociale, minacciata dal sospetto, dalla discriminazione, dal diffondersi di misure repressive e illiberali. Tutto ciò ci è fin troppo noto. Nessuna attenzione è stata invece finora prestata ai danni che l’Aids provoca al linguaggio.

Il virus HIV non attacca solo il sistema immunitario, ma si infiltra anche nel linguaggio: lo contamina, lo rende inaffidabile, strumento di ulteriori sofferenze. Il richiamo alla patologia semantica prodotta dall’Aids poteva venirci solo da Susan Sontag. Ci aspettavamo da lei un contributo per aprire anche questo altro fronte nella lotta contro l’epidemia. La letterata e saggista americana non ci ha deluso. Pur deponendoci in mano un libro minuscolo, quasi una brochure (L’Aids e le sue metafore), ha dato un contributo di grande rilievo.

Dobbiamo subito dire perché l’intervento di Susan Sontag era atteso. Dieci anni fa la scrittrice aveva prodotto un saggio, che non era passato inosservato. Lo aveva intitolato Malattia come metafora. La sua attenzione si era rivolta alla mitologia che circonda certe malattie. Muovendosi con disinvoltura tra una dovizia di citazioni tratte dalia letteratura, la Sontag aveva imbastito un confronto tra due malattie considerate, in epoche diverse, come simbolo di affezione mortale: la tubercolosi e il cancro. Con un abile collage di citazioni e di riferimenti, la scrittrice evocava le associazioni, i simboli, le metafore che nel secolo scorso caratterizzavano il linguaggio riferito alla tubercolosi e ― al giorno d’oggi ― al cancro. Ambedue le affezioni sono state considerate più che malattie: simboli addirittura della morte stessa; i nomi che le denotano sono stati dotati di potere magico, soggetti alla disciplina dei tabù. Per lungo tempo morire di

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Tbc è stato considerato misterioso, romanticamente “interessante”, segno di una personalità superiore e creatrice. Con la scomparsa della malattia ― grazie soprattutto alla scoperta della streptomicina ― la forza del mito dileguò. Alcune delle metafore legate alla tubercolosi sono passate alla follia (l’idea del malato come creatura febbrile e spericolata, disponibile agli estremi delle passioni, come individuo troppo sensibile per tollerare gli orrori del volgare mondo di tutti i giorni), altre sono state trasferite al cancro.

La Sontag faceva notare inoltre che in questa specie di mitologia popolare, che si trova riflessa negli stereotipi letterari, tanto la tubercolosi quanto il cancro sono considerate come malattie della passione: conseguenza della frustrazione la Tbc, della repressione degli istinti sessuali o violenti il cancro. È proprio il carattere misterioso della malattia assunta nelle diverse epoche a simbolo del male che minaccia l’esistenza umana, che favorisce l’uso della malattia per giudizi di tipo morale e psicologico.

Sorge così il legame tra malattia e colpa, rimasto vivo anche quando l’uomo secolarizzato ha cessato di vedere nella malattia lo strumento della collera divina per i peccati personali o collettivi. Così nelle riviste popolari americane il cancro diventa la malattia delle persone “a marcia bassa”, che si abbandonano di rado a sfoghi emozionali. Nel postulato che le emozioni producano malattie, e che la volontà possa curarle, Susan Sontag denunciava una terribile trappola: «Le teorie psicologiche della malattia sono un mezzo poderoso di gettare la colpa sul malato. Spiegare ai pazienti che sono la causa involontaria della propria malattia significa anche convincerli che se la sono meritata». La scrittrice ne deduceva la necessità di liberarsi delle metafore legate alla malattia.

Queste tesi svolte in Malattia come metafora nulla hanno perduto del loro vigore. Acquistano, in più, una nuova luce da una confessione che Susan Sontag fa all’inizio di L’Aids e le sue metafore. Quel suo intervento di dieci anni fa non nasceva da un puro interesse letterario, ma da una drammatica esperienza personale. Colpita da cancro al seno, era entrata in un mondo insospettato. Frequentando i malati di cancro, aveva scoperto il marchio d’infamia che viene loro impresso, il senso di ripugnanza

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che li circonda, i sentimenti di vergogna e di colpa in cui si dibattono i malati, preda di fantasie sulla loro malattia. Quello che appariva come un saggio letterario era in realtà un pamphlet, un intervento militante: demistificando il cancro, voleva alleviare tanta sofferenza non necessaria, provocata dal linguaggio metaforico.

Questa intenzione umanitaria è iscritta a chiare lettere in apertura al saggio sulle metafore dell’Aids. Susan Sontag si rifà a un frammento postumo di Nietzsche: I pensieri sulla malattia. «Tranquillizzare l’immaginazione del malato, che almeno non abbia a soffrire, come è accaduto fino ad oggi, più dei suoi pensieri sulla malattia che della malattia stessa, penso che sia già qualche cosa. E non è poco!».

Dio sa se è necessario demistificare l’Aids! Questa malattia si è rivelata fin dall’inizio della sua triste carriera come la candidata ideale per tutti gli usi del linguaggio impropri, accusatori, terroristici. Ha trovato la sua nicchia nelle paure più generali che la nostra generazione ha circa il futuro: della catastrofe nucleare o di quella ecologica, dell’esplosione demografica o dell’esaurimento delle risorse naturali, dell’inquinamento o dell’invasione delle aree del benessere da parte di un Terzo Mondo affamato. L’Aids è diventato il punto di riferimento privilegiato delle campagne di moralizzazione. C’è un bisogno, che la cultura laica condivide con quella religiosa, di biasimare, punire e censurare attraverso l’immagine della malattia.

L’Aids, che ha cominciato col colpire gli omosessuali e i tossicodipendenti per estendersi alle persone dal comportamento sessuale promiscuo, sembrava fatta apposta per sostenere la convinzione che la malattia rivela e punisce il lassismo morale. A raffreddare l’entusiasmo dei moralisti, convinti che la malattia servirà a correggere i costumi, basta l’osservazione della Sontag relativa al diffondersi di una licenziosità “mentale”. La paura del contagio non rende più casti. Ha indotto, sì, a chiudere i locali newyorkesi dove venivano combinati incontri impersonali tra omosessuali; ma ha anche indotto la diffusione di stimolazioni sessuali “via cavo”.

I fustigatori di professione, intenti a evincere una lezione morale sull’Aids, non riescono a resistere all’opportunità retorica offerta da una malattia che si trasmette sessualmente e

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colpisce le persone che deviano dalla norma. Questa eccedenza di significato è veicolata soprattutto dalla metafora della peste. E l’Aids ― singolare malattia senza nome proprio, indicata da una sigla scientifica che designa una sindrome più che una specifica malattia ― è stata promossa al ruolo di «peste del XX secolo». La straordinaria forza ed efficacia della metafora della peste — annota Susan Sontag — consiste nell’insinuare contemporaneamente l’idea di punizione per un comportamento ritenuto deviante e quella di minaccia agli innocenti: è tanto una malattia che colpisce “gli altri” ― i vulnerabili, i gruppi a rischio ― quanto una malattia che potenzialmente colpisce chiunque.

Sviluppando la proposta precedente ― quella di considerare il cancro “solo” come una malattia ―, la Sontag ci invita a trattare l’Aids come un «fenomeno naturale», piuttosto che come un avvenimento «con un significato morale». Anche la malattia più carica di significato può diventare una semplice malattia. È quanto è accaduto per la lebbra. Impegnarsi affinché ciò avvenga anche per l’Aids, rinunciando all’ambigua battaglia per l’appropriazione retorica della malattia, è un obiettivo civile molto nobile. Chiunque voglia in primo luogo il rispetto dell’uomo ― per motivi religiosi o per ideale umanitario ― non può non sentirsi interpellato.

5. Curare anche quando non si può guarire

Dopo la morte di una persona, i discorsi tra i sopravvissuti vertono invariabilmente intorno al modo in cui il morente ha vissuto il trapasso. «Ha sofferto?», è la prima inevitabile domanda. E poi si vuol sapere se si è reso conto di morire, se sapeva che la sua malattia era inguaribile, se ha mostrato coraggio o disperazione, se ha trovato conforto nella fede religiosa... Questo è ciò che a noi interessa, umanamente, del segmento finale della vita. Queste preoccupazioni, invece sembrano irrilevanti per la medicina. «Abbiamo fatto tutto, oppure si poteva fare qualcosa di più per prolungare di qualche giorno o di qualche ora la vita?»: è l’interrogativo più probabile che agiterà i più coscienziosi tra i medici.

La preoccupazione per la qualità umana della morte sembra

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abitare su un altro piano rispetto a quello dove opera la medicina. «Ma come abbiamo potuto per tanto tempo non vedere la miseria che sfigura il morire nei nostri ospedali? Come abbiamo potuto accettarla come un destino inevitabile, da cui distogliere lo sguardo per non lasciarsi sconvolgere e da dimenticare il prima possibile?». Sono le domande che si poneva il dottor Balfour Mount, direttore del servizio di cure palliative del Royal Victoria Hospital di Montreal, in occasione del primo congresso europeo di cure palliative, svoltosi a Milano. Come in altre situazioni, riuscire a porsi la domanda è già l’inizio della risposta. Quando ci si lascia interpellare dalla disumanità del morire, quando non la si accetta fatalisticamente come un elemento inevitabile dell’esistenza umana, si è fatto il primo passo fuori di una situazione che sembrava senza via d’uscita.

La risposta alla morte disumanizzata sono le cure palliative. Questo termine può fare difficoltà. «Rimedio palliativo» si associa, infatti, nella mente di molti all’idea di falsità e inefficacia. Quando si parla, invece, di medicina palliativa si intende oggi una medicina che si propone come finalità quella di migliorare la qualità della vita dei pazienti inguaribili e della loro famiglia.

Il primo obiettivo della medicina deve essere la guarigione della persona, malata; là dove il male non può essere rimosso e la malattia si cronicizza, si punterà a prolungare il più possibile la vita del malato. Ma giunge il momento in cui neppure questo secondo obiettivo può essere raggiunto. Nel brutto gergo degli ospedali si parla allora di «malati terminali». Ebbene, a questi sono rivolte le cure palliative. Le quali sono e devono restare una parte integrante della medicina.

Non si tratta di creare un’agenzia umanitaria su cui scaricare gli insuccessi della medicina curativa. Piuttosto, la medicina deve essere aiutata a riscoprire l’essere umano come un’unità di corpo, emozioni, relazioni sociali e bisogni spirituali; e il progetto curativo deve essere integrato dalla dimensione del prendersi cura del malato, affinché anche la morte sia una parte della vita.

La medicina non può essere estromessa dalla cure palliative per una ragione fondamentale: la palpazione comincia, infatti, con la eliminazione del dolore, e questo è un compito eminentemente

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medico. Oggi la medicina è in grado di tenere sotto controllo il dolore nella quasi totalità dei casi. Se non lo fa, se lascia morire il paziente nei dolori, commette una colpa di omissione imperdonabile. E impedisce che ci si possa prendere cura degli altri bisogni del malato, come quelli emotivi e religiosi. Quando atroci sofferenze sconvolgono una persona, è inutile che il cappellano si avvicini a recitare una preghiera: la religione non conforta, perché in quelle condizioni la preghiera non può farsi spazio nell’animo del malato.

Le cure palliative rivolgono un’attenzione privilegiata ai sintomi di malessere fisico che, nella condizione di un malato che va verso il recupero della salute, possono essere disattesi come secondari, mentre per colui che sta andando verso la morte non fanno che rendere la situazione ancor più disumana.

Mentre le cure rivolte a salvare la vita o a prolungarla possono essere viste come l’«animus» della medicina, quelle palliative ne costituiscono l’«anima», ovvero la dimensione femminile. Non è per caso che le cure dei morenti e di malati che non guariscono abbiano come leaders carismatici delle donne: Cecily Saunders, in Inghilterra, fondatrice del St. Christopher’s Hospice, prototipo delle strutture finalizzate a umanizzare il trapasso; Elisabeth Kübler-Ross, in America, colei che ha rivoluzionato la conoscenza della psicologia dei morenti, divulgando le «fasi del morire» e le reazioni emotive che le accompagnano.

La Kübler-Ross è stata presente al congresso di Milano, costituendo il ponte ideale tra le realizzazioni avanzatissime in cure palliative del continente nordamericano e l’Europa, che si va aprendo appena adesso a questi problemi. Ha parlato delle cure di cui hanno bisogno i malati di Aids, dell’assistenza di bambini che muoiono di leucemia (e che esprimono la loro angoscia mediante il disegno e rafforzano la loro fiducia giocando con pupazzetti che da bozzoli si trasformano in farfalle), dei vecchi che ritrovano, come i bambini, il linguaggio fondamentale della comunicazione umana costituito dal contatto fisico.

Dopo che venti anni fa ha cominciato a levarsi la voce di questa donna, il mondo della sanità non è stato più come prima. Medici e infermieri sono stati costretti a chiedersi: ma come abbiamo fatto a non vedere finora quello che ci chiedevano i morenti?

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Gli occhi si sono aperti spesso sotto l’impatto di una dolorosa esperienza personale. È il caso dei coniugi Floriani. La perdita precoce di un figlio ha fatto scoprire loro il continente straziante della morte per cancro. E hanno deciso che altri non dovevano morire come lui. Con il loro patrimonio hanno costituito una fondazione che ha assunto un ruolo pilota in Italia per la terapia antalgica. Questo primo congresso europeo, promosso dalla Fondazione Floriani, è stato il coronamento di un lavoro cominciato dieci anni fa nel vuoto delle istituzioni e nell’indifferenza culturale. Una prima realizzazione stabile è sorta nel frattempo a Brescia. Ispirandosi ai principi della Fondazione, le Ancelle della Carità hanno aperto il primo “hospice” italiano, cioè un centro per il trattamento antalgico e il sostegno dei pazienti inguaribili.

Il cammino delle cure palliative non assomiglia, tuttavia, a una marcia trionfale. Le ostilità del settore medico sono comprensibili: i medici sono educati a concepire la loro attività come una battaglia frontale contro la morte; sono inoltre abituati a confidare esclusivamente nei farmaci e disdegnano i mezzi semplici, come la parola o il messaggio.

Stupisce di più, invece, l’atteggiamento di diffidenza verso le cure palliative da parte cattolica. In occasione del congresso di Milano un quotidiano cattolico presentava l’iniziativa in una luce ambigua: il vero obiettivo delle cure palliative ― insinuava ― è l’eutanasia.

È giusto che i cattolici facciano barriera contro le virulenti battaglie legislative e pratiche a favore dell’eutanasia. Ma è completamente fuorviante indicare come nemico le cure palliative. Queste, anzi, sono la sola vera alternativa all’eutanasia. Il contrario dell’eutanasia, infatti, non è la «non-eutanasia», ma il prendersi cura dei malati che non guariscono, in modo che la qualità della vita non degradi fino a un punto in cui uccidere sembra più umano che far vivere in simili condizioni. Per evitare ogni ambiguità, il congresso di Milano ha revocato l’invito al medico tedesco Julius Hackethal, dopo che questi ha preso una posizione a favore dell’eutanasia.

Per difendere efficacemente la vita non bastano le condanne di coloro che prestano una mano compiacente per interromperla prima del tempo. Bisogna, positivamente, rendere la vita appetibile.

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Anche quella di un malato inguaribile può esserlo, a condizione che riceva quell’aiuto che le cure palliative possono offrire.

6. Per l’anziano c’è solo il cronicario?

Le infermiere dell’ospedale di Lainz continueranno per parecchio tempo a disturbare i nostri sogni. Le avremo presenti come un incubo anche quando le leggi spietate della cronaca, che si nutre sempre del nuovo, le avranno relegate nel dimenticatoio. In quell’ospedale alla periferia di Vienna è avvenuto un episodio, la cui portata simbolica eccede ogni classificazione nelle categorie del crimine o della psicopatologia. Ciò che è avvenuto in quell’ospedale, senza cessare di essere delitto o pazzia, è anche un rispecchiamento conturbante dei nostri fantasmi circa la vecchiaia. Le infermiere, che con mezzi spicciativi si sbarazzano di vecchi cronici e molesti, hanno espresso in forma brutale un atteggiamento di rifiuto molto diffuso nella nostra società occidentale nei confronti dei vecchi che la popolano. E che saranno sempre più numerosi.

Di recente la Fondazione Agnelli ha reso noti i risultati di una ricerca, ricavata dall’analisi dei dati degli ultimi vent’anni. Secondo le proiezioni demografiche fondate su quei dati, nel 2007 in Italia saremo un milione di abitanti in meno, mentre l’età media della popolazione sarà cresciuta e sarà aumentato notevolmente il numero degli anziani.

Nel frattempo abili campagne di marketing vanno lanciando gli anziani come consumatori. Ci si rivolge a questa categoria di persone cercando di persuaderli che la vita non finisce con la pensione: possono ancora ricevere molto; leggi: consumare molto: vacanze, crociere, soggiorni termali, cure mediche. È questa l’età in cui gli anziani sono ancora utili alle giovani famiglie come nonni-baby sitter e possono essere utilizzati nel quartiere per dirigere il traffico davanti alle scuole. Non bisogna lasciarsi trarre in inganno da questa apparente promozione della terza età nella nostra società. I veri problemi cominciano quando gli anziani non possono più essere catalogati come consumatori (a meno che non si vogliano considerare tali quelli che sono costretti a far largo uso di pannoloni...). A quel punto

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i “giovani vecchi” lasciano il posto ai “vecchi vecchi”, ovvero ai “vecchi da morire”. Sono questi che troviamo nell’ospedale di Lainz o in tanti nostri cronicari. Che fare di questi vecchi? L’opinione pubblica si indigna appena viene a conoscenza di fatti come quelli accaduti nell’ospedale austriaco. L’esecrazione in questo caso ha esaurito, per la sua estrema gravità, tutte le possibilità offerte dal vocabolario. Ciò che su di loro è stato commesso è un’indegnità da allineare con le peggiori di cui sono stati capaci degli esseri umani. Ma forse non è stata dedicata sufficiente attenzione al fatto che la violenza su di loro era già cominciata prima che le infermiere-aguzzine infierissero su di loro. Quei vecchi si trovavano dove forse non avrebbero dovuto essere. Va da sé che una persona malata sia ricoverata in ospedale e dimessa alla sua guarigione. Ma l’ospedale non è il luogo appropriato per il paziente cronico. Lo stesso essere confinato in ospedale è il prologo del dramma.

Bisogna rendersi conto di che cosa significa, specialmente per una persona anziana, l’allontanamento dal suo domicilio. La casa è un fattore importante per la conservazione dell’identità. Essa infatti gli assicura la continuità della memoria nel tempo (le foto, i mobili, le mille cianfrusaglie accumulatesi nel corso di una lunga vita) e la stabilità nello spazio. Questo tipo di memoria è preziosa per compensare i deficit cerebrali e sensoriali che aumentano con l’età. Si fa dolorosamente l’esperienza di questa frattura tutte le volte che un anziano, ancora pienamente padrone delle proprie facoltà finché viveva nel suo ambiente familiare, precipita improvvisamente nella demenza, appena ricoverato in un ospedale o in un cronicario.

Le soluzioni domiciliari, ideali in linea di principio, sono di fatto spesso difficili da realizzare. Non solo per mancanza di generosità e di disposizione virtuosa da parte della famiglia. La stessa struttura della famiglia moderna si dimostra inadeguata a tale compito. Quando si giunge a un’alta età, spesso la famiglia non esiste più. Evento sempre più probabile in futuro, in conseguenza dell’evoluzione demografica. Gli ottuagenari di oggi hanno avuto, in media, tre-quattro figli. La famiglia italiana odierna ha mediamente 1,4 figli. Le possibilità che i vecchi di domani trovino assistenza all’interno della famiglia diventano così irrisorie. Senza parlare della difficoltà oggettiva

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per dei figli, a loro volta già anziani e in precarie condizioni di salute, di occuparsi di genitori novantenni. Sono tutti fatti che vanno considerati, prima di far cadere generici giudizi di condanna sulle famiglie che scaricano i loro vecchi nelle istituzioni. Nelle quali, per altro, anche da noi i vecchi finiscono male la loro vita.

Anche senza raggiungere gli eccessi criminali dell’ospedale di Lainz, le nostre strutture di ricovero sono assolutamente carenti. Lo si ricava dalla relazione sullo stato sanitario del Paese, inviata dal ministro della Sanità ai presidenti delle due Camere. La relazione mette in evidenza «il livello molto basso della qualità dell’assistenza prestata in gran parte delle strutture residenziali per anziani non autosufficienti in Italia»: in oltre il 60% dei casi non è rispettato il criterio dell’abolizione delle barriere architettoniche; nel 97% dei casi vi è una commistione tra anziani con e senza difetti cognitivi; nel 78% dei casi manca la collaborazione con il geriatra.

È necessario ripensare il futuro, progettandolo in base all’aumento imponente degli anziani nella nostra società. Le soluzioni devono essere trovate soprattutto al di fuori degli ospedali. Se non per motivi civili ed etici (essere curati a casa può essere configurato come un diritto personale), almeno per motivi economici. Nessuno Stato sarebbe in grado di pagare la fattura presentata da un servizio sanitario che utilizzasse gli ospedali per l’assistenza agli anziani. Almeno in questo caso le ragioni dell’economia e quelle dell’etica sembrano coincidere.

Le cure domiciliari ci appaiono in questa prospettiva come la nuova frontiera della medicina. Come segno promettente di questa sensibilità, indichiamo il primo congresso mondiale sulla “Home Care” ― l’Assistenza sanitaria domiciliare ―, svoltosi a Roma, con un’imponente partecipazione di quasi un migliaio di medici. La geriatria in particolare trova in questo modello la sua linea principale di sviluppo. A tale proposito il professor Italo Simeone, primario del Centro di geriatria dell’ospedale universitario di Ginevra, in una tavola rotonda sull’assistenza domiciliare agli anziani, tenutasi nell’ambito del congresso, è ricorso all’immagine della svolta copernicana: «Bisognerà fare un cambiamento radicale nei modelli di pianificazione sanitaria. Una volta era la Terra al centro dell’universo, così come è

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ancora oggi l’ospedale al centro del sistema di cure. Al contrario, è il malato che deve restare al centro e siamo noi altri che dobbiamo ruotargli intorno».

Il cambiamento di prospettiva s’impone anche quando la cura a domicilio non è una via praticabile. Da questo cambiamento ci attendiamo l’immaginazione necessaria per trovare molteplici soluzioni alternative all’istituzionalizzazione degli anziani: day hospital, unità di alloggio temporaneo presso case di riposo, alloggi protetti, appartamenti comunitari.

Si tratta di inventare qualcosa che sostituisca l’epilogo solitario in ospedale, dove l’anziano viene inevitabilmente avviato su un binario morto. È qui che si gioca prioritariamente la questione etica.

Il compito della nostra civiltà non è solo quello che si evitino i crimini, come quegli eccessi sadici, dei quali occasionalmente veniamo a conoscenza, contro poveri vecchi ridotti a un’esistenza larvale. Se vogliamo chiamarci civili, dobbiamo soprattutto prevenire che si moltiplichino quelle aree di parcheggio dei vecchi nelle quali lo spirito viene messo a morte molto prima del corpo. Altrimenti non ci rimane che consumare il rituale ipocrita di scandalizzarci di fronte all’episodio isolato, ignorando la disumanità nel trattamento abituale degli anziani.

7. Salute e qualità della vita

«Basta la salute...»; «Pensa alla salute»; «La salute e un paio di scarpe nuove»: quante espressioni proverbiali o idiomatiche di questo genere potremmo elencare. In tutte trapela una gerarchia di valori che attribuisce alla salute il primo posto. Sotto il velo di un atteggiamento scanzonato, in queste ricette di saggezza popolare la preoccupazione per la salute ci si presenta come il baricentro che dà stabilità alla vita, guidandoci a stabilire la giusta priorità tra le tante sollecitazioni alle quali siamo quotidianamente sottoposti.

I sociologi, interessati ai cambiamenti tanto delle strutture sociali quanto dei valori e delle opinioni, non possono accontentarsi di osservazioni così sommarie. Essi hanno a disposizione strumenti di rilevamento che permettono di evidenziare fin nei dettagli le variazioni delle mentalità. Lo si può constatare sfogliando

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l’indagine recente del Censis sul rapporto tra italiani e salute (La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti degli Anni ’80).

Il materiale da cui nel rapporto sociologico vengono ricostruiti i cambiamenti intervenuti è fornito da numerose interviste in profondità con pazienti, da sondaggi di opinione dei medici di base e dall’analisi di messaggi pubblicitari relativi a prodotti per la salute. Ne risulta in termini inequivocabili che nel giro di pochi decenni è cambiato il modo di intendere quest’ultima, così come i rapporti con il medico e la medicina. L’attuale richiesta di salute costituisce un quadro omogeneo allineato su una concezione antropologica che privilegia gli elementi esistenziali e ambientali.

Recede una concezione della salute in cui questa è identificata esclusivamente con gli aspetti organici o misurata con criteri di efficienza socialmente standardizzati (in cui la salute coincide, praticamente, con la “normalità”: è sano chi non devia da ciò che la società reputa normale, come ad esempio la capacità di lavorare). Per contro, emerge sempre più nettamente la ricerca della salute come benessere psicofisico e come equilibrio ambientale, prodotto da una migliore qualità di vita. Più precisamente, la ricerca del Censis evidenzia che nell’area della salute si va distinguendo un nucleo “hard”, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte o di cronicità, e un vasto insieme sistemico a dimensione somato-psichico-ambientale, centrato sulla ricerca del benessere.

Nei confronti del primo aspetto permangono gli atteggiamenti più tradizionali, che possiamo osservare in azione quando sopravviene una minaccia all’integrità o alla vita. Quando è in gioco la vita, il paziente tende ad essere passivo, affidandosi al medico e alla struttura sanitaria, a cui consegna l’organismo-macchina per la riparazione. Prevale la concezione organicistica del corpo, considerato come un insieme di pezzi di ricambio. Là dove, invece, si fa strada la nuova domanda di salute, lo scenario cambia. Il paziente richiede di promuovere il proprio benessere psico-fisico; non si consegna passivamente, ma vuol autotutelarsi e gestire autonomamente la salute; entra con il medico in un rapporto che tende ad essere paritario, “contrattando” la terapia, combinando autonomamente diverse

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offerte, sperimentando nuovi percorsi. L’obiettivo diventa quello della qualità e la domanda di salute si traduce nella ricerca di stili di vita che garantiscano il benessere totale.

L’emergere di questo nuovo paradigma della salute è molto significativo per chi si interroga sul futuro dell’uomo. Si diffondono dei comportamenti non privi di ambiguità, ma allo stesso tempo carichi di promesse. Lo possiamo verificare nel modo di trattare il corpo. Nella nuova cultura della salute l’accento si sposta: non si tratta solo di evitare le malattie che colpiscono il corpo, ma di lasciarlo attraversare dalla forza plasmatrice del desiderio, che lo adegua agli obiettivi estetici ed edonistici della persona. I momenti di morbidità tendono ad essere respinti nell’ambito della medicina professionale (è il motivo per cui la malattia e la morte sono bandite dal visibile quotidiano e ghettizzate nelle istituzioni sanitarie).

L’elemento trainante della domanda di salute al di fuori del patologico diventa il modellamento del corpo sul desiderio. Il ventaglio degli interventi in questione si estende dai trattamenti anti-stress ed estetici delle “beauty farms” alla regolazione della fecondità oltre, e talvolta contro, i limiti della natura (fecondazione in vitro, programmazione del sesso del nascituro e dell’eredità genetica). Se il pericolo evidente è quello di una proliferazione indistinta di richieste nello spirito del consumismo, si profila però anche il vantaggio della diffusione di una nuova e più positiva immagine della corporeità.

Il corpo non è più visto come il polo opposto della psiche, luogo di avvenimenti patologici senza alcuna correlazione con il mondo delle rappresentazioni mentali, dei simboli, delle emozioni. Questo corpo “psicologizzato”, inteso come organo di un tutto integrato, qual è l’essere umano, è molto più aperto allo spirito di quanto possa esserlo quello dipendente da una concezione dualista, platonica o cartesiana che sia.

In secondo luogo, la nuova cultura della salute è più adatta a valorizzare le dimensioni comunitarie dell’essere umano, a cominciare dal nucleo più fondamentale: la famiglia. In seguito a considerazioni tanto umanistiche quanto di economia sanitaria, si torna oggi a riconsiderare la dimensione familiare all’interno del sistema di cure sanitarie. La richiesta di inserire l’individuo malato in un gruppo sociale e familiare riconosce alla

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famiglia un ruolo in quanto agente di salute e un potenziale positivo di risoluzione dei problemi. Non si può continuare con programmi di salute centrati esclusivamente su istituzioni che forniscono servizi. Bisogna ormai applicare un approccio che parta dal lavoro di salute svolto dalla famiglia e fondi su questa base i servizi di salute.

Questi programmi dovrebbero essere elaborati in comune con le famiglie e concretizzati in una modifica dell’aiuto professionale, specialmente nei seguenti punti: riconoscimento del sapere e della competenza quotidiana acquisiti nel vissuto delle famiglie; accettazione di gruppi di aiuto come unità proprie; necessità che i professionisti sociali e della salute abbiano una competenza e un’esperienza che permetta loro di comunicare con la famiglia. Inoltre la prospettiva della famiglia nella problematica della salute serve da correttivo all’ambivalenza dei diritti sociali legati alla persona. La famiglia garantisce che sia preso in considerazione l’interesse legittimo dei singoli membri, senza con ciò accelerare il processo negativo di individualizzazione unilaterale, che spesso sfocia nell’isolamento e nella solitudine delle persone.

La domanda di salute di questa fine degli Anni ’80 si lascia, infine, iscrivere più facilmente nell’orizzonte dell’etica. Non intendo con ciò quei pericolosi moralismi che correlano superficialmente malattia e colpa morale, ricorrendo al senso di colpa come strumento per manipolare le coscienze. La recente epidemia di Aids ha fornito ancora una volta occasione per revivals moralistici di questo genere. Ciò induce molti a forme di rifiuto allergico a qualsiasi tentativo di mettere in relazione le dimensioni dell’etica con quelle della salute. L’etica permea, invece, la ricerca della salute in quanto permette di considerare la salute entro la categoria della responsabilità.

La responsabilità ha due versanti: quello delle cause e quello delle conseguenze. Seguendo il primo, l’etica ci invita a restituire alla comprensione dei fatti patologici tutto il loro spessore antropologico. Proprio perché fatti umani, sono rivestiti di un senso che va cercato nella catena immanente delle cause. Ciò equivale a dire che, quando ci si domanda il perché della malattia, si consideri il soggetto umano in tutta la sua interezza. A questo proposito diventa rilevante parlare di “stili di vita” come

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sani o patologici, comprendendo non solo il trattamento che si riserva al corpo, ma l’integrazione dei valori, non esclusi quelli trascendenti. In altre parole, per capire la malattia dobbiamo considerare come l’uomo vive e per che cosa vive.

Questa interrogazione multiforme del dato morboso lo sottrae al regno della “in-sensatezza”, per riportarlo nel pieno registro dell’umano. Su di essa si innesta l’etica. Questa può cambiare il nostro rapporto con la malattia, purché si prefigga il compito non di incrementare gli oscuri sensi di colpa, sempre connessi con gli eventi morbosi, bensì intenda far crescere la libertà essenziale dell’uomo, che prende forma nell’assunzione della responsabilità.

La responsabilità ha anche una faccia che guarda verso il futuro. Nei comportamenti ― individuali, familiari e societari ― che incidono sulla salute bisogna includere la considerazione delle conseguenze sulle generazioni future. Per capire quanto sia necessario e urgente introdurre questa dimensione nel prendere le decisioni, basta confrontare la nostra cultura tecnologica, che privilegia il rendimento immediato, con quella degli indiani irochesi, che ha istituzionalizzato una visione specifica del futuro in tutte le decisioni da prendere. Secondo quanto riporta Jeremy Rifkin, un capo irochese così si esprime: «Noi guardiamo avanti, perché uno dei primi mandati assegnati a noi, che siamo i capi, è di garantire che ogni decisione presa tenga conto della prosperità e del benessere della settima generazione a venire e questo è il fondamento per le nostre decisioni in assemblea. Ci chiediamo: la nostra decisione andrà a beneficio della settima generazione? Questa è la nostra regola».

L’etica diventa una risorsa — e non delle minori ― per l’educazione alla salute quando forma ad ampliare lo sguardo, considerando buono non solo ciò che è salutare per la generazione attuale, ma ciò che lo sarà anche per le generazioni che seguiranno. Occuparsi di promuovere la salute non diventa allora un progetto privatistico e regressivo, come appare nei detti che abbiamo citato all’inizio. La promozione della salute è piuttosto un percorso privilegiato per portare l’umanità verso la pienezza, in armonia con la preoccupazione che è iscritta all’interno della visione religiosa dell’uomo.

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8. Il “testamento di vita”: pro e contro

Per quanto sgradevole l’argomento possa essere; per quanto forte la tentazione di rimuovere questo lato oscuro della vita, bisogna ancora una volta tornare a parlare della morte. L’occasione ce la offre il congresso organizzato dalla Società svizzera di medicina palliativa. Con questo termine si intende indicare quell’organizzazione delle cure rivolte ai malati per i quali non esistono rimedi curativi. Sta fortunatamente emergendo la consapevolezza che i malati che non vanno verso la guarigione sono ancora di pertinenza dell’assistenza medica, perché il “prendersi cura” è parte costitutiva del curare; anzi, il “prendersi cura” è un obbligo morale del sanitario che non è soggetto a revoche, mentre talvolta bisogna mettere dei limiti all’ostinazione a voler combattere a tutti i costi e con ogni mezzo la malattia, se non si vuol cadere nell’esecrato accanimento terapeutico. Da questa presa di coscienza e dall’impegno a operare per umanizzare il morire sono nate alcune associazioni nazionali, con lo scopo di promuovere le cure palliative. Nell’ambito del congresso della società svizzera, tenutosi a Lugano, si è parlato del “testamento biologico”. Per la precisione bisognerebbe dire che se ne è discusso animatamente, con opinioni molto contrastanti sul valore di questo strumento.

Le divergenze cominciano già dalla stessa denominazione. In America, da cui la pratica trae origine, si chiama «living will», termine approssimativamente traducibile come «volontà della persona viva». In Europa prevale l’espressione “testamento biologico”, ma con l’avvertenza che tanto il sostantivo quanto l’aggettivo che lo qualifica vanno presi in senso molto lato. Mentre un testamento vero e proprio, infatti, produce gli effetti dopo la morte, quello di cui si parla dovrebbe entrare in funzione prima, per poter influire sulla morte stessa; “biologico”, poi, vuol indicare una concezione della vita in cui gli aspetti spirituali hanno una priorità di valore rispetto a quelli somatici: praticamente, il contrario di quanto il termine “biologico” lascia intendere. La Caritas svizzera ha preferito chiamarlo «disposizioni del paziente», con un’espressione molto blanda che ha rinunciato al pathos evocato da quelle affini.

In pratica, si tratta di un documento, che la persona sottoscrive,

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rivolto a far conoscere al medico la propria volontà circa i trattamenti nella fase terminale della malattia, in previsione del caso di essere incapace in quella fase di prendere autonomamente le decisioni che lo riguardano.

Al di là delle differenti accentuazioni, tutti i documenti di questo genere tendono a mettere dei limiti: colui che sottoscrive dichiara di rinunciare all’ambiguo “beneficio” di pratiche mediche che possono prolungare la vita biologica anche in presenza di danni cerebrali profondi e irreversibili, che rendono impossibile la vita cosciente.

In filigrana vediamo il profilo dell’angoscia relativa alla morte propria del nostro tempo. In epoca romantica la paura irrazionale si sedimentava attorno alla morte apparente. Truci storie di persone sepolte vive, destinate a un tragico risveglio nella tomba, toglievano il sonno a molti. C’era anche chi si premuniva dalla eventualità chiedendo un supplemento di morte (magari con il classico spillone che trapassasse il cuore). Il nostro immaginario di abitanti della città tecnologica è sconvolto da altri fantasmi. Noi siamo angosciati dalla prospettiva di finire attaccati a delle macchine che ci impediscano di morire. Abbiamo paura non del medico distratto, che ci dichiari morti per errore, ma di quello che si accanisca a tenerci in vita, quando questa è una pura sopravvivenza biologica, sprovvista di caratteristiche umane.

Il timore dell’accanimento terapeutico — un tipico mito del nostro tempo, nutrito dai racconti dell’agonia interminabile di certi moribondi illustri, come Tito, Franco e l’imperatore Hirohito ― sta alla base del diffondersi del testamento biologico. In Svizzera è stata creata nel 1982 l’associazione “Exit”, con lo scopo di rendere più facile alle persone che lo desiderano svincolarsi dai ceppi medici che li tengono legati alla vita contro la loro volontà. L’associazione, che conta attualmente più di 40.000 membri, paganti annualmente una consistente quota associativa, è una delle principali promotrici dell’ondata dei testamenti biologici.

Su questo sfondo va collocata l’iniziativa della Caritas svizzera di predisporre e diffondere un proprio testo: le Disposizioni del paziente. Con questo la persona comunica le proprie volontà, «per il caso in cui non dovesse più essere in grado di prendere

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una decisione». Vale la pena riportare letteralmente alcuni passi del documento:

«1. Nel caso in cui fossi colpito da un disturbo di salute grave ma non tale da condurre inevitabilmente alla morte, desidero siano messe in atto, secondo scienza e competenza, misure mediche destinate a migliorare le condizioni e ad alleviare eventuali sofferenze.

2. Se le funzioni vitali elementari dovessero essere danneggiate al punto da precludere con un tasso di probabilità vicino alla certezza qualsiasi miglioramento verso un’esistenza umanamente degna, e se le condizioni evolvessero da sole verso una morte certa, desidero l’interruzione di tutte le cure intense straordinarie destinate a prolungarmi la vita.

3. Prego il mio medico di prescrivermi una dose di analgesici sufficiente per:

― rendere sopportabili i dolori salvando nella misura del possibile le sue facoltà intellettuali;

― alleviare sofferenze insopportabili anche nel caso in cui fosse necessaria una dose di analgesici tale da limitare la coscienza o indirettamente ― come possibile conseguenza ― ridurre in qualche modo la speranza di vita».

Altre disposizioni riguardano il desiderio di assistenza religiosa e l’indicazione di persone che hanno la fiducia del paziente, con le quali il medico è pregato di discutere la sua decisione.

Che cosa si è proposta la Caritas svizzera con questa iniziativa? Nell’ambito del congresso di Lugano è toccato al domenicano padre Roland Trauffer, segretario della Conferenza episcopale elvetica, spiegare il senso delle “Disposizioni del paziente”. Ha presentato il testo come uno strumento rivolto a sollevare nella società il problema della morte con qualità umana e lo ha inserito nell’insieme delle iniziative già intraprese dalla Caritas in questo settore.

Non va inteso nel senso di un “testamento biologico” cattolico, da contrapporre ad altri laici. Il pensiero cristiano sull’uomo e sulla morte sta sullo sfondo delle “Disposizioni”; ma la proposta di diffondere la pratica non è che un elemento di una “diakonia” più complessa e articolata che spinge la Chiesa a occuparsi dei sofferenti nella società. Questo compito ecclesiale oggi comporta, con riferimento a coloro che affrontano la fase

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terminale della vita, la difesa prioritaria della “dignità”, in vita e in morte. La Chiesa ― in altri termini ― non può limitarsi a proclamare e tutelare il valore della vita; deve oggi difenderne la dignità, offesa da certe modalità del morire.

La dichiarazione di intenti non basta a far cadere le riserve su questo documento. Le critiche provengono da diverse parti. Coloro a cui sta a cuore che anche nella fase terminale non si abdichi al criterio etico della «santità della vita», attaccano soprattutto l’espressione contenuta nel secondo punto relativa a «un’esistenza umanamente degna». Questo criterio sembra troppo labile per una difesa efficace della vita: adottando la “dignità” come criterio, non si rischia di esporsi ad arbitri di ogni genere, compreso il ricorso all’eutanasia per liberare certi poveri esseri dal peso di una “indegna” degradazione?

Chi ha una preoccupazione giuridica rimprovera ai “testamenti biologici” di creare una confusione rispetto alle responsabilità legali del medico. Questo è tenuto a rendere conto del suo operato, se questo non corrisponde ai criteri previsti dalla legge. Se sottopone un paziente a un trattamento insensato, può essere sottoposto a processo. Ma ciò si applica non solo nel caso di colui che abbia espresso la sua volontà mediante un “testamento biologico”, bensì per ogni paziente. Quella del “testamento biologico” è una soluzione semplicistica: «Non perché si danno risposte facili ― ha affermato un giurista al congresso di Lugano ― il problema diventa facile». Se poi si volesse dare a questi documenti un valore legale, non si farebbe che attribuire allo Stato il compito di risolvere i problemi che l’individuo non sa risolvere.

I medici sono, in genere, fortemente critici nei confronti del testamento biologico. Lo vedono come un atto burocratico, che rischia di espropriarli del compito di capire la singola situazione, creando la categoria generica di «malato terminale», nei confronti della quale tenere un comportamento standardizzato. Non mancheranno di ricordare l’uno o l’altro episodio di malati che, salvati dal coma mediante l’impiego di quanto oggi la tecnologia rianimativa mette a disposizione, hanno ringraziato il medico e benedetto la circostanza che questi non sia venuto a conoscenza che il paziente aveva fatto un testamento biologico, o non ne abbia tenuto conto. In ogni caso, per i medici

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il diffondersi di queste disposizioni suona come sfiducia nei loro confronti: come se ormai fosse tramontato il tempo in cui ci si poteva affidare alle decisioni che i medici prendevano «in scienza e coscienza».

Forse una visione così negativa del ruolo svolto dai testamenti biologici non è giustificata. Ma questo strumento di disposizione della propria volontà per essere utile deve restare entro il rapporto medico-paziente, e non sostituirsi ad esso. Non è destinato a far fare economia di dialogo, ma piuttosto a portare il medico più vicino al malato, mettendosi in ascolto dei suoi valori. In questo senso va interpretata l’iniziativa della Caritas svizzera, non certo come un appoggio alla tendenza di “Exit” di spianare il cammino verso l’eutanasia su richiesta. Questa continua e continuerà ad essere vista da una sensibilità cristiana non come un gesto di misericordia, ma come uno sbarazzarsi spicciativo di coloro che più ci gravano. Un gesto, perciò, non solo ambiguo, ma profondamente ipocrita.

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Capitolo IV

TRA PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ

Un lungo lavoro di schedatura e catalogazione sembra essere andato perduto. Dove prima esistevano categorie chiaramente delimitate, regna la confusione. La psicologia era stata distinta dalla religione, la psicoterapia dalla guida spirituale, la ricerca del benessere dalla pratica ascetica. E le religioni, poi, avevano ognuna il proprio territorio geografico e culturale. Per non parlare della scienza, che si teneva sdegnosamente lontana da questi ambiti. Tutto rimesso in discussione. Non per amore di regressione o per nostalgia di stati confusivi, ma perché ci si rende conto che certi schematismi fanno violenza alla realtà dell’uomo, la deformano, sono causa di sottili patologie. La parola d’ordine è: cambiamento di paradigma. Per capire l'uomo, ma soprattutto per essergli di aiuto in vista di una crescita, bisogna pensare e agire in modo diverso. Le scienze della psiche e le antiche saggezze religiose, pur senza perdere la loro identità, riprendono a comunicare. L’apparente confusione si rivela, da questo punto di vista, come il presupposto di una nuova sintesi, o piuttosto una sintesi «in statu nascenti».

1. Eros e pathos: le due facce della vita

Per gli educatori e per tutti coloro che operano per la prevenzione sanitaria è un vero tormento: non sanno come indurre i giovani a prendere le misure profilattiche necessarie per evitare il contagio di Aids. Ormai la malattia ha perduto il carattere misterioso che aveva all’inizio: si conosce perfettamente la struttura biochimica del virus che la provoca, le modifiche patologiche che produce nell’organismo e le modalità di trasmissione. In mancanza ― chissà ancora per quanto tempo ― di una terapia per le persone colpite, l’unica carta da giocare è la prevenzione:

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impedire, cioè, che il morbo si diffonda. Basterebbero, in fondo, misure abbastanza elementari: precauzioni nei rapporti sessuali e, per i tossicodipendenti, evitare l’uso della stessa siringa nell’assunzione degli stupefacenti. Proprio su questo fronte, invece, si incontrano le resistenze che fanno disperare coloro che si preoccupano di arginare il contagio.

Questa resistenza dei giovani ad accorgersi del pericolo che sovrasta merita una riflessione. È un comportamento da imputare non esclusivamente all’imprevidenza tipica dell’età; dietro questo atteggiamento possiamo vedere, in filigrana, delle caratteristiche proprie della nostra società in generale. Per quanto riguarda i giovani, bisogna considerare i condizionamenti particolari che li rendono refrattari all’idea che la propria esistenza possa essere visitata dal dolore, o addirittura stroncata da una morte prematura. L’età dello sviluppo è caratterizzata da un’esplosione di vitalità naturale, tutta tesa all’esplorazione di nuove frontiere e all’esperienza di forti sensazioni. L’erotismo non è che un’espressione peculiare dell’“eros”, inteso come categoria più ampia e universale: la tendenza, cioè, della vita a celebrare se stessa. Questa costellazione emotiva induce il giovane a ritenere di essere al riparo dalla sofferenza legata a una defezione del corpo. Il narcisismo proprio di questa fase dello sviluppo psicologico lo illude, facendogli pensare che il male possa colpire solo gli altri.

La fantasia di immunità è favorita dall’immaginario sociale. Questo utilizza correntemente il mito della giovinezza, presentata come condizione di completo benessere, per abbinarlo a prodotti da vendere. Il giovane descritto dalla mitologia della società industriale avanzata non è mai minacciato nella salute corporea, handicappato, insicuro, afflitto; deve solo godere la vita come una festa permanente e consumare i beni, abbondanti e inesauribili, che lo circondano.

L’azione congiunta del narcisismo interiore e dell’immaginario sociale non costituisce, in realtà, uno scudo protettivo della sofferenza, bensì una congiura ai danni del giovane. La presunta invulnerabilità si tramuta in maggiore fragilità. La festa vitalistica si conclude spesso in tragedia: e non solo per il contagio di Aids. Quando gli eventi inevitabili della vita mettono il giovane in contatto con la sofferenza, ciò acquista le dimensioni

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di un cataclisma interiore. Si sente cacciato dal paradiso terrestre e vive ciò come un’ingiustizia, perché quella felicità gli era stata promessa come dovuta.

Queste caratteristiche della condizione giovanile non fanno che ingigantire dei tratti propri di tutta la società. Anch’essa, in generale, si trova presa nella morsa di una paradossale contraddizione: tende a evitare con tutte le forze la sofferenza, e si trova invischiata in essa come non mai. L’algofobia, cioè la paura morbosa del dolore, è un fenomeno maggiore della nostra civilizzazione.

Questa non dispone più di strumenti concettuali per interpretare la presenza del dolore nella vita umana (modelli teorici filosofici o religiosi sull’origine del male, sul suo senso e finalità), né di proposte etiche sul modo di affrontarlo: virtù o atteggiamenti interiori da coltivare; simboli, miti o ideali; modelli etici, come il Cristo in croce che si affida al Padre, o Socrate che affronta la morte impartendo un’ultima lezione ai suoi discepoli sull’immortalità dell’anima. L’imperativo etico della nostra cultura nei confronti del dolore si riduce alla sua soppressione.

Al dolore non viene attribuito nessun significato positivo: è semplicemente un assurdo che deve essere eliminato. La soppressione del dolore è diventata un’impresa esclusiva della medicina. Filosofia e religione sono state spossessate dalla medicina del loro rapporto privilegiato con la sofferenza umana.

Un’inchiesta di qualche anno fa aveva rivelato che in Italia si consumavano in media 300 compresse antidolorifiche all’anno per abitante, spendendo per combattere il dolore più che per comprare il pane. Negli ultimi tempi la consumazione dei farmaci antalgici non ha certo subito un’inversione di tendenza. Come dire: una pillola al giorno per sopportare il male di vivere.

Il fatto di considerare la sofferenza come un elemento non legato necessariamente all’esistenza umana, e quindi da respingere nella misura delle proprie forze, è di per sé un progresso rispetto ad atteggiamenti fatalisti. Questi hanno spesso assunto in passato una copertura ideologica di tipo religioso: come se, cioè, la religione predicasse la rassegnazione, e non la lotta contro le condizioni che producono sofferenza. Il concetto

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di “pazienza cristiana” è stato spesso invocato in questo senso, fino a diventare un’espressione stereotipata. Analizzando questi atteggiamenti, Teilhard de Chardin annotava che una falsa interpretazione della pazienza cristiana è una delle fonti principali delle antipatie che inducono molte persone del nostro tempo a odiare lealmente il Vangelo: «La rassegnazione cristiana è sinceramente considerata e biasimata da molte persone oneste come uno degli elementi dell’“oppio religioso” che provocano il sopore più pericoloso. Dopo il disgusto della terra, non c’è atteggiamento che si rimproveri con più rancore al Vangelo che di aver diffuso la passività davanti al male, una passività che può arrivare fino alla cultura perversa della diminuzione della sofferenza».

Due apporti decisivi per modificare l’atteggiamento fatalista nei confronti della sofferenza sono venuti dalle scienze umane. La critica sociale ci ha resi più consapevoli della dimensione sociale della sofferenza. La distribuzione del potere, i meccanismi di sfruttamento e di emarginazione ci appaiono oggi come le forme maggiori della sofferenza. La psicologia, quella del profondo in particolare, ci ha dato, a sua volta, una percezione diversa da quella ingenua sul coinvolgimento personale nella sofferenza stessa. Ci ha aperto gli occhi sul dolore che non appartiene in modo necessario all’esistenza umana, ma l’accompagna in modo gratuito e indebito. Si tratta del vasto continente del dolore “nevrotico”. Sofferenze smisurate, incapacità di gioire e di allacciare legami di amore, angosce disperate e aggressioni distruttrici, delusione e scontentezza costituiscono l’esistenza del nevrotico, in un processo senza fine che si rinforza lungo il cammino. Di tutta questa sofferenza non necessaria è la persona nevrotica stessa, inconsciamente, responsabile. Il nevrotico è il peggior nemico di se stesso. Questa sofferenza può e deve essere combattuta: sarebbe immorale rassegnarsi.

Questo punto di vista è oggi condiviso anche dalla morale e dalla spiritualità cristiana. Non si sente più fare professione di “dolorismo”, cioè di una concezione ostile alla vita e alla gioia, in nome del cristianesimo. La fede, anzi, è diventata per molti una forte spinta a lottare contro la sofferenza indebita, tanto in campo sociale che psicologico. Di ciò non possiamo che rallegrarci. Ma forse oggi il compito culturale del cristianesimo è

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anche quello di riproporre la virtù della “pazienza”. Non con le ambiguità del passato, cioè come atteggiamento fatalista. La pazienza necessaria è quella modalità dell’esistenza che dipende non da quello che facciamo, ma da ciò che subiamo. Valutando esclusivamente l’azione, la cultura tecnologica dell’Occidente produce uno sbilanciamento, che è anche una deformazione antropologica. Il “pathos”, che è alla radice della pazienza, ci aiuta a rimettere le cose a posto.

Imparare a soffrire vuol dire accettare che la vita, nelle sue determinazioni concrete, non è la proiezione della nostra fantasia narcisista. La vita non può essere la ricerca continua dell’“eros”. Eros e pathos si implicano reciprocamente: sono i due lati di una vita veramente umana. Il desiderio soggettivo — di piena salute, di intesa interpersonale perfetta, di autoaffermazione e successo ― deve confrontarsi col reale, pagando un prezzo di sofferenza per questa incarnazione.

Con la pazienza si impara il peso dell’oggettività. Di questa azione pedagogica della sofferenza, che ci aiuti a riconoscere le reali dimensioni dell’esistenza umana, abbiamo bisogno tutti, giovani e meno giovani.

2. La cultura secolare riscopre il digiuno

La prima volta che ci è capitato di vedere l’inserzione sul giornale ci siamo stropicciati gli occhi, increduli. Poi abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza: esiste una pubblicità che cerca di vendere... il digiuno! Si reclamizzano soggiorni ― a pagamento, s’intende ― in luoghi ameni per imparare a digiunare, sotto la guida di esperti. L’invito non è rivolto solo agli obesi — un grande esercito di 11 milioni di persone in Italia, secondo recenti statistiche —: tutti sono invitati a digiunare, per la salute e la bellezza.

Il digiuno, dunque, è diventato un fenomeno di costume della civiltà dell’opulenza. Pare che la “settimana di digiuno” programmata da un’emittente televisiva tedesca sia stata seguita da mezzo milione di persone. Il pensiero corre alle folle innumerevoli del Terzo Mondo, che al digiuno sono costrette dalla miseria. Ma evitiamo considerazioni inevitabilmente colorate di moralismo. Si potrebbe fare anche dell'umorismo nero, indicando

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in questo allenamento al digiuno una risposta alle previsioni del presidente della Fao, secondo cui verso il traguardo del Duemila un miliardo di uomini morirà di fame. Cerchiamo invece di riflettere con serietà su questa nuova moda, domandandoci se in essa non si nasconda qualche brandello di religiosità. Senza equivoci, però: queste forme di digiuno dietetico-estetico sono pienamente secolari. Il digiuno moderno ha spezzato il filo che lo collegava alle pratiche ascetiche tradizionali. In tutte le religioni, in ogni epoca, sotto tutte le latitudini, si è molto digiunato. Il digiuno fa parte di quell’insieme di osservanze ascetiche ― tra cui l’astinenza dalla carne, la continenza sessuale, la mortificazione della volontà e del sentimento ― con cui il fedele controlla l’azione ostacolante del corpo nella vita spirituale.

Nel monachesimo, durante i primi secoli della civiltà cristiana, il digiuno era una delle pratiche più vistose. Le vite dei padri del deserto sono costellate di racconti paradossali riguardanti restrizioni volontarie del cibo. A saper leggere dietro le stravaganze (come il racconto del monaco che diventa indemoniato per aver mangiato un cespo d’insalata, nel quale si era nascosto il diavolo!), il significato è trasparente: il cibo è nemico del monaco, ritarda il cammino di purificazione con cui cerca di penetrare in un altro piano di esistenza. Il digiuno è dunque un modo sia di sfuggire alla potenza di demoni, sia di prepararsi all’incontro con la divinità.

Gli esperti della storia delle idee individuano sullo sfondo il dualismo platonico, entrato abbastanza precocemente nel cristianesimo: la realizzazione spirituale è intesa come un distacco dell’anima dalla prigione del corpo, in un progetto generale di disimpegno dal mondo dei sensi. Quando il cristianesimo eredita l’orientamento dualistico, la salvezza viene subordinata al ripudio del corpo.

Un altro tipo di digiuno che troviamo nell’esperienza religiosa è quello con finalità non ascetiche, ma estatiche. Si sottopone il corpo alla più dura privazione per provocare positivamente una specie di «uscita da se stesso». Si sa, per esempio, che nelle culture indiane dell’America settentrionale l’adolescente si ritirava a digiunare a lungo in luoghi solitari per realizzare, al culmine dell’esperienza, il sogno o la visione che gli indicavano

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il suo destino. Il digiuno di Gesù nel deserto, prima dell’inizio della sua missione (Mar. 1,12 ss), appare più affine a questo tipo di digiuno iniziatico che al digiuno dei monaci. Il digiuno a finalità estatiche può ricorrere anche fuori di un quadro di riferimento religioso. Lo ha intuito la scrittrice Marguerite Yourcenar, la quale fa dire all’imperatore Adriano, reso emblema della saggezza pagana, che il digiuno prolungato conduce a «quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un’immagine della gelida levità della morte». La morte per inedia può rappresentare una specie di orgia alla rovescia, in cui la sostanza vitale invece di essere esaltata si esaurisce. È un’esperienza non priva di un certo fascino morboso. Per gli psichiatri ha un nome preciso: si chiama «anoressia mentale», e miete numerose vittime, specie tra le adolescenti.

Nel digiuno che si va oggi diffondendo non si ritrovano, a prima vista, le tracce di una mentalità religiosa. Non viene proposto né in nome di un’ascesi che castiga il corpo, né per raggiungere esperienze mistiche. È proposto in nome di un utilitarismo più basso, centrato sulla promozione del corpo. Forse però è legittimo scorgervi residui di una religiosità naturalistica. Sfogliando i manuali divulgativi dedicati al digiuno, troviamo che la finalità più celebrata è quella di tornare a un armonioso rapporto con la natura. Gli argomenti possono sembrare ingenui: si rimanda all’esempio degli animali, che digiunano per settimane e mesi in determinati periodi dell’anno; ai digiuni spontanei che osservano i bambini quando sono malati... In breve, si tratta di ritrovare i ritmi della natura, che comprendono tanto il nutrimento quanto l’astensione da esso. Non manca neppure una certa “demonizzazione” del cibo, presentato come un pericolo costante dell’organismo. Ciò che si nasconde nell’insalata non è più il diavolo, bensì l’inquinamento. L’intossicazione è generale: insieme al cibo noi ingeriamo “veleni”. Il digiuno diventa allora il mezzo per liberarsi di rifiuti, scorie, impurità.

Pur cambiando significato, la dialettica tra puro e impuro è quella di sempre. Può capitare anche che il digiuno sia raccomandato con toni miracolistici per curare malattie nei confronti

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delle quali la medicina tradizionale è inefficace. Viene detto: «una potente operazione senza bisturi», che in modo sapiente e indolore elimina gli elementi dannosi e conserva ciò che è utile all’organismo. Ad ascoltare i suoi paladini, sarebbe l’ultima arma contro certe malattie incurabili, come alcune forme di cancro.

Un ulteriore tratto che colora religiosamente la nuova pratica del digiuno è l’atmosfera generale che viene raccomandata. Il digiuno non riguarda solo il corpo, ma tutto l’uomo: ogni cellula del suo corpo, ma anche la sua psiche e il suo spirito. Deve diventare perciò un tempo di raccoglimento, preceduto da un distacco dal ritmo della vita normale. Lasciati gli impegni professionali, il telefono, elevata una barriera contro la marea degli stimoli dall’esterno, il digiunante si accinge ad incontrare se stesso. Il digiuno può diventare così anche una profonda esperienza interiore. L’esercizio fisico è quindi finalizzato a un perfezionamento umano di carattere etico.

Mentre la cultura secolare si accinge a riscoprire, non senza qualche esagerazione, il valore del digiuno, che ne è del tradizionale digiuno cristiano? Dobbiamo registrare il crollo, che sembra irrimediabile, di una pratica che pur è stata difesa accanitamente, almeno nella Chiesa cattolica. I protestanti, invece, hanno ben presto abbandonato il digiuno, insieme a tutte le altre opere di penitenza e di ascesi, vedendovi una minaccia all’autogiustificazione per fede. Eppure la pratica del digiuno aveva radici profonde nella tradizione cristiana, ancor prima del monachesimo. Nella Chiesa primitiva si registra l’abitudine di digiunare, specie prima di prendere delle decisioni importanti. Come atto di pietà collettivo era noto anche al popolo d’Israele: nelle ore critiche della sua storia il popolo intero esprimeva col digiuno la sua attesa del soccorso divino.

Unito al comportamento degli afflitti ― vestirsi di sacco e cilicio, cospargersi il capo di cenere, stracciarsi le vesti ―, il digiuno è anche espressione di un profondo pentimento. Ma può essere anche un modo con cui si crede di far pressione su Dio, una specie di mendicità servile che esprime una concezione utilitaristica della religione. Isaia e Geremia, come tutti i grandi profeti, hanno tuonato contro il digiuno ricattatorio. «Anche se digiunano», fa dire Geremia al Signore, «non ascolterò

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la loro supplica; anche se presentano olocausti e oblazioni, non amerò quella gente» (Ger. 14,12). Al tempo di Gesù la pratica era molto diffusa tra i devoti; i farisei digiunavano due volte la settimana; digiunavano anche i discepoli di Giovanni Battista. Riprendendo le proteste dei profeti, Gesù ha condannato il digiuno ipocrita, senza conversione del cuore e senza misericordia, quasi un emblema di quel comportamento che sarà chiamato (a torto o a ragione) “fariseismo”. Tuttavia Gesù non era pregiudizialmente contro il digiuno. Lo ha anche osservato personalmente. Semmai raccomandava ai discepoli di non esibire i loro digiuni, ma di lavarsi e di profumarsi il capo quando digiunavano (Mat. 6,16-18). Il digiuno non si è radicato nella comunità dei discepoli di Gesù come una pratica da osservare regolarmente.

La ragione che ne dà Gesù stesso è rapportata al momento particolare della storia della salvezza che si stava svolgendo: lo “sposo” è là, e i suoi amici non possono digiunare (Mat. 2,18-20)! Il riferimento alla gioia della “buona notizia” è stato sempre presente al digiuno dei primi cristiani. Così il digiuno pasquale era originariamente finalizzato all’eucaristia dell’alba della domenica: ci si asteneva dal cibo per uno o due giorni, al fine di sottolineare la gioia del pasto fraterno col Risorto. Questo è per i cristiani il filo da non perdere. Anche oggi, quando la ricerca del benessere porta paradossalmente i nostri contemporanei a riscoprire il digiuno, il loro compito essenziale rimane quello di annunciare la gioia a un mondo che acquista sempre più un aspetto funereo.

3. Il pellegrinaggio: una “psicanalisi” per il popolo?

Sottoporre i pellegrini a qualche test proiettivo, prima e dopo il pellegrinaggio, per stabilire se siano intervenute modifiche della personalità... Questa ricerca non è ancora venuta in mente a nessuno, e si spera che non succeda in futuro. Non è in questo modo che la psicologia potrebbe capire meglio che cosa avviene durante il pellegrinaggio.

Ma esistono tuttavia buone ragioni per coloro che si occupano della salute psichica di guardare con attenzione alle forme tradizionali di pellegrinaggio religioso. Non fosse altro, perché

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il flusso che porta gli strati più coltivati della popolazione verso gli psicoterapeuti assomiglia, in qualche modo, al pellegrinaggio che spinge le persone motivate religiosamente verso i santuari; e il ruolo che svolgono rispettivamente la psicoterapia e il pellegrinaggio presso differenti strati di popolazione presenta alcune analogie. Lo notava di recente uno psicologo, Sheldon Kopp, in un libro dal titolo provocatorio: Se incontri il Buddha per la strada uccidilo.

La domanda che in passato era formulata in termini religiosi oggi, in un contesto secolare, assume la forma di una richiesta d’aiuto all’esperto. Il pellegrino contemporaneo si fa discepolo dello psicoterapeuta; il divano dello psicanalista è il santuario cui va a cercare l’illuminazione. Qualcuno può nutrire la speranza che il “maestro” ― il guru, lo psicoterapeuta ― possa dargli le risposte definitive e si faccia carico di lui totalmente; che diventi, insomma il “santo” terapeuta. In questo caso il pellegrinaggio, anche nella sua forma laica, non serve alla liberazione, ma all’alienazione. Si crea solo una nuova forma di dipendenza, e non quella riappropriazione della propria esistenza che è il vero fine del cambiamento, religioso o secolare che sia. A queste persone Kopp ricorda il detto del maestro Zen sull’uccisione del Buddha che si incontra al di fuori di noi, a vantaggio del Buddha che ciascuno ha in se stesso.

Che il cambiamento lo si cerchi presso un santuario o presso lo psicoterapeuta di fama, perché avvenga in modo costruttivo per la persona è necessario che la potenza sia interiorizzata. Chi va a cercare l’aiuto si sente vuoto di potenza e la chiede a colui che suppone ne sia ripieno. Nel periodo di transizione si appoggia sul Potente: il santo gli concede la protezione, il terapeuta tempo, attenzione e competenza. Ma alla fine la potenza deve essere ritrovata in se stessi: è la condizione per ogni vera crescita.

La potenza interiorizzata si manifesta in uno stato di euforia vitale. È come se le energie stagnanti ricominciassero a fluire. Per questo il pellegrinaggio ha un aspetto marcatamente festoso. Anche quando predomina la dimensione penitenziale, il pellegrinaggio non è mai deprimente. Il festivo e il quotidiano si confondono. La vita quotidiana, sotto forma di problemi individuali e collettivi, viene portata al santuario; e quella festiva

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viene riportata a casa. Ricordini, regali, oggetti di devozione sono solo il simbolo di quel surplus vitale che è il vero e proprio frutto del pellegrinaggio. La “grazia ricevuta” non rimane un’evenienza straordinaria e in qualche modo marginale. Il pellegrino riceve piuttosto la grazia come risposta allo smarrimento, al vuoto di potenza.

Il pellegrinaggio è dunque la psicoterapia dei poveri? L’accostamento è seducente. Purché l’analogia non sia spinta oltre un certo limite. Il pellegrinaggio avviene infatti in un universo religioso, e ha una motivazione spirituale. La sua caratteristica specifica è quella di essere una ricerca che coinvolge l’essere umano nella sua interezza, a cominciare dal corpo. Anche quando si domandano grazie per l’anima, le si richiede con il corpo. Perché il pellegrinaggio è una lotta con lo spazio, che domanda uno sforzo fisico. Il santuario è un luogo decentrato, che si raggiunge solo mettendosi in cammino verso di esso.

Il superamento dello spazio in passato costituiva una difficoltà rilevante, accresciuta talvolta da pratiche di penitenza, come il camminare scalzi. Era la prova dello spazio che consacrava il pellegrino. Le facilitazioni dei mezzi di trasporto moderni hanno solo in parte abolito le difficoltà. Il pellegrinaggio resta un’esperienza faticosa, e ben lo sanno i pellegrini, vinti dalla stanchezza alla fine delle giornate. Anche se si raggiunge il santuario in macchina, nessuno si sottrae alla Via crucis o alla processione. Senza dire della riscoperta del pellegrinaggio a piedi che si va diffondendo soprattutto tra i giovani, magari sotto forma di marce della pace. Il pellegrinaggio è una deambulazione orante, un atto totale che si fa con il corpo, le emozioni e, naturalmente, con lo spirito.

Ritrovare lo spessore corporeo della preghiera è un ottimo antidoto contro la rarefazione intellettuale che vizia la spiritualità delle persone acculturate in Occidente. Ma ha anche dei benefici influssi sulla psiche. È un altro motivo per cui sembra legittimo accostare i risultati di un valido pellegrinaggio a quelli di un trattamento psicoterapeutico.

La psicoterapia sta scoprendo oggi quanto è importante coinvolgere il corpo nel processo di cambiamento. Lo testimonia il diffondersi di psicoterapie a base corporea: dalla bioenergetica ai metodi di rilassamento, dallo psicodramma ai massaggi,

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senza dimenticare i diversi tentativi di agganciare la psico-terapia al movimento. Ci si rende sempre più conto che il malessere psichico che affligge l’uomo contemporaneo è legato con fili misteriosi alla violenza che subisce il corpo nella nostra civilizzazione. Il coinvolgimento del corpo è indispensabile per suscitare le fiammate di vitalità da cui derivano gli accrescimenti qualitativi dell’esistenza.

4. È l’ora del confessore laico

Circola un’espressione curiosa: i “nuovi confessori”. Non si fa riferimento ai testimoni della fede, ma al ruolo che svolgono presso le masse di lettori gli scrittori di successo che, volta a volta, l’industria culturale elegge ad autorità da ascoltare in merito alla saggezza della vita. Per riferirci a numeri e nomi: una casa editrice ha festeggiato il milione di copie tirate dai libri del sociologo Alberoni; l’ultimo libro dello psicanalista Musatti, a carattere biografico e divulgativo, è stato a lungo nella lista dei best-seller. Sono questi i “nuovi confessori”. Confrontandosi con i dati del successo, i commentatori si sono sbracciati a trovare una definizione per il fenomeno: questi consiglieri-divulgatori-consolatori esercitano una forma laica di predicazione? Svolgono la funzione di confessori per l’epoca secolarizzata in cui viviamo? Suppliscono una pratica del mondo cristiano caduta in disuso, cioè la direzione spirituale?

Una prima domanda riguarda le ragioni del successo delle diverse forme di magistero della saggezza. Una risposta data in prima battuta da chi ha analizzato il fenomeno additava come causa la pratica identità delle risposte con ciò che l’uomo della strada vuol sentirsi dire. In altre parole, Inesperto” è bravo perché dice le stesse cose che penso anch’io! Quest’analisi può spiegare una parte del consenso, ma mette in ombra un’altra dimensione della consulenza: quella che non si risolve in una gratificazione narcisistica («Sono intelligente quanto il celebre esperto, perché abbiamo un’identità di vedute»), bensì in smarrimento e umiliazione.

In un libro recentemente tradotto in italiano Christa Neves, psicoterapeuta tedesca che da vent’anni esercita la consulenza per bambini e adolescenti, descrive impietosamente la sorte dei

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genitori che chiedono l’aiuto dell’esperto. Essi bussano fiduciosamente alla porta di consultori familiari e coniugali, istituti psicoterapeutici, servizi di consulenza che si sono diramati a macchia d’olio su tutto il territorio. «Tuttavia», osserva l’autrice, «la speranza di sgravare il cuore dal peso dei pensieri, dai peccati riconosciuti con pentimento, e di ricevere consigli praticabili risulta sovente un’illusione, che ben presto si infrange contro una realtà dura come pietra. Anzi, dalla padella dell’oltraggio da parte dei figli i genitori cascano nella brace di una condanna da parte dell’autorità specialistica che li penetra e li smaschera dall’alto del suo tono di competenza».

Solo l’estremo smarrimento dei nostri contemporanei rispetto a modelli di comportamento validi può spiegare tanto bisogno di appoggiarsi sulle autorità. Si cerca di guarire dal malessere costringendo l’essere entro la camicia di forza della normalità.

Anche se il ricorso agli esperti è pagato col prezzo di un’ulteriore umiliazione, è più rassicurante conformarsi a ciò che viene prescritto. Si attribuisce al professionista delle relazioni umane o allo studioso aureolato dal successo garantito dai media la conoscenza della via da percorrere per evitare la sofferenza della vita e conseguire l’autorealizzazione. Ciò che agisce è piuttosto, in realtà, una spinta a uniformarsi ai comportamenti che l'ambiente sociale giudica “normali”. Vediamo così emergere una nuova forma di patologia: accanto alla psicosi (la “pazzia”, che disorganizza il pensiero e sconvolge le emozioni, rendendo incapaci di avere rapporti con la realtà) e alla nevrosi (quella forma, più o meno accentuata, di sofferenza che deriva dalla violenza che esercitiamo nei confronti del nostro vero essere, impedendoci di essere quello che siamo), possiamo parlare oggi di “normosi”.

Questo adeguamento forzato alla “normalità” va considerato come una vera e propria malattia, nella misura in cui intralcia il processo di evoluzione di un individuo e lo induce a rinunciare a valori ignorati da una società castratrice della dimensione spirituale dell’uomo. I maestri di saggezza più celebrati e le istituzioni che fabbricano il consenso sono le agenzie privilegiate della “normosi”. Chi vi si affida si lascia ridurre allo stato infantile. Lusingato di essere tenuto dalle salde braccia di colui

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che sa, oppure sgridato e umiliato: poco importa; pur di essere liberato dalla spigolosa necessità di realizzare la propria unicità, che deborda da ogni “normalità”.

Si può dire la stessa cosa di quella guida che è parte integrante dell’insegnamento a vivere cristianamente? Anche questa guida può essere vissuta in modo “eteronomo”, e quindi sostanzialmente alienante. Ciò avviene quando ci si affida ciecamente a qualche istanza normativa, delegandola di distillare le regole di comportamento a cui attenersi. Non è questa, però, la natura del Vangelo.

Il messaggio evangelico è in sé una “terapia”: su questo punto la Chiesa delle origini e dei padri è unanime. Esso guarisce non perché costringa l’individuo dentro lo standard massificante di una norma, ma in quanto lo restituisce alla salute originaria dell’uomo, quella per la quale è stato creato. Il Vangelo è “informazione”, nella duplice valenza della parola: dà una forma, una struttura, un’unità organica (una forma che va cercata non verso il basso della biologia e della istintualità pulsionale, ma verso l’alto del Pneuma che parla il linguaggio dell’Amore) e conferisce una conoscenza (è un insegnamento comunicato da qualcuno che “sa” a qualcuno che non sa). In quanto terapeuta, Gesù riorganizza e re-informa gli organismi malati, mal-sani.

Questa dimensione sanante della fede, che rispetta l’individuo nella sua unicità ma lo guida con energia al di là di ciò che è, verso il suo completamento, era molto presente nella pratica del cristianesimo dei primi secoli. Il catecumeno veniva progressivamente iniziato alla pratica del mistero della salvezza e l’azione complessiva della Chiesa equivaleva a una “mistagogia” (cioè una guida al mistero). Il combattimento quotidiano per la «conversione del cuore» e per conformarsi sempre più agli esempi di Cristo faceva parte integrante della trasmissione della fede. L’esercizio dell’esistenza cristiana costituiva una specie di «psicoterapia iniziatica». Col linguaggio moderno di Goethe si potrebbe dire che il credente imparava a conformare la sua vita alla legge del «muori e diventa».

Tutto ciò ci porta lontano dalla saggezza in pillole e dalle regole di comportamento garantite dagli esperti, che hanno corso ai nostri giorni. Ma bisogna avere il coraggio di affermare

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che, quando l’uomo ha nostalgia di una guida, aspira a qualcosa di più della sicurezza conferita dall’essere come gli altri: magari senza chiara coscienza desidera la trasfigurazione, cioè il raggiungimento di quelle qualità dell’essere e della coscienza che si sono manifestate in Gesù Cristo come in un archetipo.

5. Il transpersonale, ovvero la psicologia dell’altezza

La tentazione di un cronista che partecipa a un congresso è quella di lasciarsi calamitare dalle stelle di prima grandezza che formano le tipiche costellazioni di questo genere di riunioni. E nel primo congresso europeo, svoltosi a Bruxelles, dell’Associazione transpersonale (International transpersonal association), le personalità di grande rilievo non hanno certo fatto difetto. Tra i sessanta oratori iscritti a parlare spiccavano Ilya Prigogine, premio Nobel per la fisica; il matematico e filosofo Jean Ladrière; André Chouraqui, il moderno traduttore della Bibbia in francese, che per questa opera ha ricevuto la medaglia d’oro dell’Académie Française, nonché autore di numerosi volumi sull’ebraismo e la spiritualità ebraica; Marcel Legaut, il matematico che, dopo aver fatto per trenta anni il contadino nel silenzio e nella riflessione, è esploso nella tarda vecchiaia con opere sulla spiritualità cristiana di risonanza mondiale. E ancora, Elisabeth Kübler-Ross, l’iniziatrice delle ricerche sulla psicologia dei morenti e sull’assistenza ai malati terminali; Rosili R. Baker, fondatore del centro di meditazione zen a Santa Fe; Pir Vilayat Inayat Khan, maestro sufi, autore di pubblicazioni sulla scienza, la spiritualità e la psicologia. L’elenco potrebbe continuare a volontà.

Difficile sottrarsi al fascino di queste personalità. Lo dimostrano i capannelli di partecipanti e di giornalisti che si stringono intorno a loro nella hall e nei corridoi del centro in cui si sono svolti i lavori. Si rischia però così di non cogliere la fisionomia più profonda del congresso, quella che è data dalla massa dei partecipanti. Chi sono queste centinaia di persone presenti nei cinque giorni del convegno, stipati all’inverosimile di relazioni, incontri, seminari, film?

Il programma quotidiano comincia alle otto del mattino con un’ora di meditazione in una sala apposita, che raramente sarà

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del tutto vuota durante la giornata. Che cosa tiene insieme questo popolo eterogeneo di meditanti, di filosofi e di religiosi, di scienziati e di scomunicati dalla scienza, di psicologi e psicoterapeuti di ogni scuola e obbedienza? Una risposta c’è: si tratta del “transpersonale”. La parola lascia perplessi per qualche istante. Chiediamo soccorso a Laura Boggio Gilot, psicoterapeuta, l’unica italiana tra gli oratori del congresso.

«Che cosa è il transpersonale?». Lo definisce come quel livello della psiche che è oltre la personalità comunemente definita in senso fisico e mentale. Si situa al di là della persona, senza negarla. Il transpersonale si rende visibile e si concretizza nell’arte, nella poesia, nella spiritualità, negli stati di illuminazione mistica, negli slanci di amore altruistico... Il transpersonale è legato alla realizzazione delle potenzialità umane più alte: per questo ― precisa ancora L. Boggio Gilot — si chiama anche «psicologia dell’altezza».

La definizione non difetta di chiarezza. Altri illustri rappresentanti del movimento transpersonale sarebbero ugualmente disposti a fornirci definizioni altrettanto precise della dimensione transpersonale della psiche. Preferiamo tuttavia, invece di consultare altri esperti, rivolgerci a una partecipante al congresso. Discosta, riservata, c’è una signora di mezza età. Il cartellino l’identifica come Christine B., proveniente dalla Germania. Le chiedo che cosa l’ha condotta qui; quello che mi racconta è il suo proprio cammino transpersonale. Il quale comincia con una laurea in fisica teorica. Il suo desiderio originario era di capire le leggi della natura, precisa. Presto si accorge di aspirare più in profondità a un altro tipo di saggezza, che non si può imparare all’università: sono la vita e la morte, le maestre di questa saggezza. La morte del marito, dopo lunghe sofferenze per un tumore al cervello, e la quasi contemporanea nascita della figlia hanno aperto nella sua vita l’accesso a un’altra dimensione: «Con tutto il mio corpo ho sperimentato uno stato che era al di là di quello che si impara nelle scienze naturali. Vedevo la saggezza sul volto di mia figlia e volevo accedere anch’io a quella visione».

Dopo anni di formazione pratica in psicologia e un lungo apprendimento presso sciamani indiani, Christine ha trovato la sua strada. Ora esercita a Monaco di Baviera una professione

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vicina alla psicoterapia, ma fuori dai quadri convenzionali: andrebbe piuttosto classificata tra gli psicoterapeuti “selvaggi”. Il suo scopo è di aiutare le persone ad entrare in contatto con il proprio Sé più alto, servendosi di strumenti come la meditazione o l’astrologia, intesa non come divinazione, ma come pratica di un’armonia con l’universo.

Nella vicenda personale di Christine sono presenti gli aspetti più caratteristici del movimento transpersonale. Il superamento della scienza positivistica, in primo luogo. Nel movimento, nato ufficialmente in California nel 1972, si ritrovano coloro che rimettono in discussione la visione meccanicistica dell’universo che domina in Occidente da Cartesio a Newton. Non si vuol più lasciare alla scienza di definire in esclusiva che cosa costituisca la realtà. La parola d’ordine nell’ambito del movimento transpersonale è il «cambiamento di paradigma»: bisogna cambiare i presupposti per cui solo una parte del reale viene percepito come reale, con l’esclusione di una vasta gamma di vissuti e di esperienze: proprio di quelle che sono le più importanti per l’autorealizzazione dell’uomo.

Una profonda corrente di trasformazione attraversa attualmente l’insieme del mondo scientifico; ne sono corifei degli scienziati che hanno le carte in regola con il mondo accademico della scienza e non possono essere accusati di ciarlatanesimo, come I. Prigogine e Fritjof Capra. Ai congressisti il chimico Prigogine ha esposto la sua convinzione che sono le metamorfosi stesse della scienza moderna che tendono a ristabilire la comunicazione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Il contesto culturale ristretto a cui era legata la scienza occidentale del XVII secolo si è infranto; la scienza ci porta oggi dai confini dell’universo un messaggio che sembra potersi integrare con un campo culturale più vasto, un messaggio più rispettoso di altri interrogativi e di altre tradizioni.

In modo sorprendente nel nuovo paradigma trovano una straordinaria convergenza le più recenti elaborazioni scientifiche e le concezioni millenarie delle diverse tradizioni mistiche. Il fisico atomico Fritjof Capra, uno dei più ascoltati maîtres à penser del movimento transpersonale, ha potuto scrivere un libro intitolato Il Tao della fisica, in cui intraprende un viaggio unico attraverso l’universo degli atomi e il mondo della saggezza

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orientale. La convergenza fra le affermazioni della fisica moderna e la filosofia dell’Oriente conduce a un’altra immagine del mondo. Superata la visione frammentaria e meccanicistica, l’universo diventa un tutto coerente e armonioso.

Abbandoneremo dunque la tecnologia e torneremo all’india?, si è domandato lo psichiatra Stanislav Grof nel corso del congresso. Nessuno auspica una regressione di questo genere. Si tratta piuttosto di mostrare che le relazioni tecnologiche sono avvenute a prezzo di alcune distorsioni, tra le quali la più gravida di conseguenze è l’esclusione dello spirito dal reale. Su questo punto si concentra il consenso della comunità così eterogenea che costituisce il movimento transpersonale: in nome del reale si è escluso lo spirito del reale! Le esperienze spirituali sono state riservate ai mistici, o lasciate in balìa dei ciarlatani... È stata penalizzata così la capacità dell’individuo di superare i propri limiti, compresi quelli dell’io, per comunicare con l’universo. E con Dio. Il movimento transpersonale dà un’udienza privilegiata a coloro che vivono un’esperienza spirituale, sia nell’ambito delle religioni tradizionali sia al di fuori di esse.

Al congresso di Bruxelles era rappresentato, oltre alle tre grandi religioni monoteiste ― ebraismo, cristianesimo e islamismo ―, anche il buddismo. Facendo il bilancio dei lavori, André Patsalides, presidente del congresso, faceva notare che, chiamati a parlare della propria tradizione religiosa, gli oratori avevano parlato, invece che del particolare, dell’universale. Legaut ha sviluppato il rapporto che esiste tra vita spirituale cristiana e vita spirituale umana, illustrando il legame tra la scoperta della propria realtà, fatta di mistero, e la conoscenza di ciò che Gesù ha vissuto venti secoli fa. Chouraqui, parlando della mistica del cuore in Israele, ha attribuito all’esperienza religiosa una portata universale: il cuore non batte solo il ritmo della mia vita, ma ha la pulsazione del mondo.

Se spirituale è tutto ciò che crea legami, le religioni, quando sono vissute come autentiche esperienze spirituali, mostrano una potenzialità unitiva che l’uso della religione come strumento ideologico e di potere non lascia sospettare. Il congresso ha avuto il suo momento di maggior incandescenza degli animi nell’abbraccio fra l’ebreo Chouraqui e il siro-cristiano Patsalides, con la promessa dei partecipanti al congresso di impegnarsi

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affinché le tre grandi religioni monoteiste servano, in Medio Oriente e nel mondo intero, all’unità tra gli uomini, non all’approfondimento delle divisioni.

Nuotando nel mare straripante di spunti e temi del congresso, ciò che si incontra con più frequenza è la particolare accentuazione della nascita e della morte, come i due eventi sui quali si concentrano i tentativi più riusciti di superare le concezioni anguste della vita umana. Se la chimica e la fisica moderna dissolvono il tessuto materialistico della realtà, a vantaggio di una concezione in cui predominano i rapporti e le relazioni, le scienze della salute ― medicina e psicoterapia ― privilegiano dal canto loro una visione energetica che sconfina oltre i limiti convenzionali dell’esistenza individuale.

Esoterismo? Con questa etichetta la scienza è solita squalificare chi dissente dalla visione convenzionale. I dissenzienti propongono di considerare fatti e esperienze che possono ricevere una spiegazione solo se rilevati con strumenti diversi da quelli della scienza ufficiale. A questa luce la dicotomia classica tra corpo e psiche non regge più e deve essere sostituita anch’essa con un nuovo paradigma. Come rappresentante della “medicina dell’energia”, la dottoressa Janine Fontaine, autrice di La médecine et corps énergétique e di Médecine des trois corps, proponeva al congresso, a partire dal proprio vissuto personale di medico che vuol considerare tutta la realtà dell’essere umano, uno schema profondamente innovatore: l’approccio della malattia e della guarigione è più adeguato se presupponiamo di essere composti “di tre corpi” ― fisico, energetico e spirituale ―, capaci di soffrire di tre tipi diversi di patologie appartenenti a mondi retti da leggi differenti.

All’alba del terzo millennio la sete di vita, che sembra esasperarsi all’ombra dei fantasmi di distruzione planetaria, si abbevera al mistero della nascita e della morte, interrogandosi su ciò che precede l’una e ciò che segue l’altra. Esoterismo, ancora una volta? Etichetta comoda, per evitare di porsi domande scomode. Adottare una prospettiva transpersonale, del resto, non significa nessuna condiscendenza verso i visionari, né l’obbligo di seguire pratiche stravaganti. Lo ha detto con garbo, ma con fermezza, Elisabeth Kübler-Ross all’assemblea: «Io non ho mai fatto ricorso a droghe psichedeliche per alterare gli stati di coscienza;

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non so stare ferma a fare meditazione, né conosco stati di illuminazione o esperienze mistiche. Tutto quello che so fare è stare accanto alle persone gravemente malate, stare ad ascoltarle, accompagnarle fino alla morte. Questo è il mio contributo alla realizzazione transpersonale mia e degli altri».

Lo psichiatra De Batselier sosteneva, da parte sua, che abbiamo ragione di credere che la coscienza umana comincia già fin dal primo momento del concepimento, per cui diventa essenziale, a tutela della salute psichica e spirituale del bambino, aver cura che il concepimento stesso avvenga con amore. La prospettiva transpersonale viene, in definitiva, a coincidere con la più squisita preoccupazione umanistica: che tutta la vita dell’uomo, dalla nascita alla morte, si sviluppi in un contesto di amore. Il transpersonale non plana in qualche sfera celeste, attingibile solo da parte di pochi privilegiati, ma è una dimensione della vita quotidiana, quella che assicura l’umanità dell’uomo.

6. Soffia in Occidente lo spirito dell’Oriente

«L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e mai si incontreranno», sentenziava Rudyard Kipling un secolo fa. Oggi si sentirebbe probabilmente smentito dai fatti. L’Oriente attinge avidamente dal mondo industrializzato i frutti ambigui della tecnologia, mentre l’Occidente allarga le maglie del suo materialismo per far spazio alle religioni orientali. Sempre più numerosi sono coloro che prendono la via dell’india, alla ricerca dell’espansione della mente o di una redenzione; l’Europa e gli Stati Uniti sono invasi da quello che è stato chiamato «il supermarket del misticismo orientale».

Si sta veramente realizzando un’osmosi tra Oriente e Occidente? C’è speranza o disperazione dietro questa rinascita del misticismo orientale? (Per far eco alle parole di Nietzsche: «Si dirà di noi un giorno che anche noi, virando a Ovest, sperammo di raggiungere l’india, ma che fu nostro destino naufragare nell’infinito?»). E qual è il contraccolpo di questo incontro sulle grandi religioni: cristianesimo da una parte induismo e buddismo dall’altra?

Molti gli interrogativi che si pongono a chi osserva il fenomeno.

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Ma prima di tutto lasciamoci provocare da qualche segno visivo concreto. Domenica mattina. Con una giornata di sole è facile riconciliarsi con Roma e perdonarle gli insulti da stress urbano che ci infligge quotidianamente. Siamo in Trastevere: non però sulle tracce dei turisti, né dei romani festaioli. La ricerca della presenza dell'Oriente in Occidente ci ha condotto in una saletta del museo del folclore. Fuori della porta fanno la guardia svariate paia di scarpe; dentro, sedute per terra, una cinquantina di persone stanno ad ascoltare intente le parole di un maestro tibetano. Namkhai Norbu ― ci informa la locandina ― dà corsi di yantra yoga, astrologia, medicina e storia tibetana. Al di là dei suoi impegni accademici (è docente di lingua tibetana e mongola all’istituto orientale di Napoli) e familiare, dedica la sua esistenza a insegnare gratuitamente lo yoga e la meditazione.

Per più di due ore, senza una sosta, in un italiano approssimativo e disarmante, impartisce il suo insegnamento. «Insegnamento, non cultura», precisa; e ironizza sugli occidentali che vanno in India e tornano soddisfatti dopo anni, convinti di essere più vicini all’illuminazione per il fatto che sono diventati uguali, nel modo di mangiare come nelle relazioni sociali, a un indiano o a un tibetano... Un’illusione certo non tragica, anche se patetica: non è per questa strada che si arriva a quella consapevolezza che distrugge i limiti che ci tengono prigionieri come un uccello in gabbia, spiega il lama. E gli ascoltatori, seduti all’orientale, annuiscono con convinzione.

Il volto di Norbu, senza età e senza pena, incarna l’Oriente spirituale, verso il quale oggi più che mai si rivolgono gli occidentali: turisti metafisici, in cerca del sorriso che aleggia sulla faccia del Budda. L’incontro che si sta realizzando nella seconda metà del XX secolo è diverso da quelli che lo hanno storicamente preceduto. Nel secolo XVII sono stati dei missionari cristiani che si sono messi alla scoperta della spiritualità buddista: alcuni gesuiti vissero a lungo nelle pagode buddiste in Tailandia, in Cambogia e anche in Tibet.

La seconda tappa degli scambi spirituali tra l’Oriente e l’Occidente si è realizzata nel secolo scorso. Da una parte i grandi studi filologici degli eruditi tedeschi e inglesi, che portavano alla conoscenza diretta dei testi fondamentali dell’induismo

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(Schopenhauer era convinto che la conoscenza della lettura sanscrita avrebbe avuto sui tempi moderni un’influenza non meno profonda della rinascita delle lettere greche del XV secolo); dall’altra la somma considerazione per la metafisica orientale presso pensatori di primo piano per lo sviluppo della filosofia moderna: come Schopenhauer, appunto, e soprattutto Nietzsche. Dopo il crollo dei valori susseguente alla crisi dell’idealismo, l’Oriente appariva come la patria di una saggezza immutabile, un mondo in possesso di conoscenze segrete ma fondamentali per tutta l’umanità.

Ciò che oggi predomina non è l’interesse per la metafisica dell’Oriente, veicolata dalla religione, bensì il coinvolgimento appassionato nella sua vita religiosa vera e propria. Questo incontro religioso è stato reso possibile da un’apertura avvenuta tanto nell’uno come nell’altro fronte. Importanti movimenti di riforma religiosa, nati in India verso la fine del secolo scorso, hanno portato alla disseminazione in Occidente di un induismo e di un buddismo più accessibili alla mentalità dell’uomo occidentale.

Sono stati aiutati in questa diffusione da una vivace spinta missionaria. La prima personalità di forte spicco in questo rinnovamento è stato Vivekananda, che ha portato in America e in Europa la “missione Ramakrsna”. Tra gli altri grandi maestri spirituali, che hanno affascinato un Occidente sempre più scettico verso la propria tradizione religiosa, bisogna ricordare almeno Krsnamurti. Rappresentava un induismo morbido, aperto al sincretismo, disposto a considerare tutte le religioni come cammini equivalenti che conducono all’Assoluto. In questa prospettiva, Krsna, Gesù e Maometto appaiono come incarnazioni divine, i cui rispettivi messaggi si equivalgono.

Un processo graduale di apertura avveniva contemporaneamente all’interno del cristianesimo. Anche il dialogo con le grandi religioni beneficiava dell’atteggiamento ecumenico che è andato progressivamente sostituendosi alla polemica, al proselitismo e alla condanna in blocco di tutte le altre religioni come errore ed empietà.

Quale punto di arrivo di un movimento che ha visto impegnati teologi di avanguardia come De Lubac e Daniélou, possiamo riferirci al decreto sulle religioni non cristiane del Vaticano II.

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Riconoscendo che Dio è all’opera nelle altre tradizioni religiose («La Chiesa cattolica considera con sincero rispetto quei modi d’agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini»), veniva aperta la porta a un vero dialogo con l’induismo e il buddismo. Non solo gli ex cristiani con nostalgie religiose, ma anche i più convinti tra i credenti potevano rivolgersi alle religioni orientali per cercare lo stesso Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo.

Per dialogare bisogna reciprocamente conoscersi. C’è chi si accontenta di una conoscenza di seconda mano, fatta di stereotipi e di termini della metafisica orientale citati a proposito e a sproposito, e chi invece vuole attingere alle fonti, sedendosi magari ai piedi di Norbu o di qualche altro lama che la conquista cinese del Tibet ha spinto in Occidente. Anche in Italia non mancano le possibilità di entrare in contatto diretto con realizzazioni vissute dell’esperienza religiosa orientale. Per quanto riguarda il solo buddismo, siamo in grado di segnalare la Comunità Dzogcen e il Centro Samanthabadra a Roma, il Centro Milarepa a Pinerolo, l’istituto Lamatzongkapa a Pomaia presso Pisa. Quest’ultimo, che si sta affermando come il centro pilota di vita religiosa e studi buddistici in Italia, ha iniziato a pubblicare una rivista, Paramita, per fornire sia le basi della dottrina che una guida alla pratica.

Non c’è, certo, penuria di “maestri spirituali”. Il pericolo è piuttosto l’inflazione, con la conseguente difficoltà di distinguere tra maestri autentici e fasulli, tra illuminati e ciarlatani. L’enorme richiesta dell’Occidente ― da ricondurre anche al fallimento di un certo attivismo politico e sociale che ha annientato la speranza dei giovani che hanno partecipato al ’68 ― ha fatto pullulare guru, guide e maestri. I gruppi attualmente predominanti presentano la caratteristica, rispetto alle correnti riformatrici dell’induismo legate ai nomi di Shri Aurobindo e Vivekananda, di essere fondati da maestri spirituali orientali, ma di avere tra i propri adepti esclusivamente degli occidentali; anzi, molto spesso gli orientali sono violentemente ostili a formazioni sincretistiche che si discostano sensibilmente dall’antica

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tradizione. Esistono ashrams in India che non hanno un solo adepto autoctono. I modelli della società occidentale, nella quale nascono o emigrano questi movimenti neo-orientali, esercitano un’influenza considerevole sulla loro organizzazione.

Talvolta questi gruppi religiosi mostrano una struttura di funzionamento analoga a quella delle imprese capitalistiche classiche. L’esempio più discusso in tal senso è quello di Bhagwan Shree Rajneesh. Dopo aver radunato nel suo singolare ashram a Poona, in India, migliaia di discepoli entusiasti, ha chiuso dall’oggi all’indomani il fiorente centro e si è trasferito nell’Oregon, negli Stati Uniti, dove ha costruito una “città sannyasin”. La promessa è sempre la stessa: offrire un’alternativa alla società dei consumi mediante una comunità fondata sull’amore mutuo; propone un’esperienza mistica ― e quindi anche una riscoperta del divino ― al di fuori della prassi repressiva delle religioni tradizionali; indicare una via di salvezza dentro di sé, legata a una presa di coscienza diretta della realtà, che ribalta gli schemi convenzionali con cui siamo soliti guardare il mondo.

Un meccanismo di difesa rudimentale, utilizzato da coloro che non vogliono lasciarsi mettere in discussione, consiste nel dispensarsi da un discernimento critico e catalogare tutti i maestri spirituali in circolazione tra gli imbroglioni che usano disinvoltamente manipolazione, plagio e suggestione per farsi una fortuna. È una generalizzazione ovviamente ingiusta. Come ovunque, anche qui c’è zizzania e buon grano. Per non poche persone farsi discepoli di un guru è un approdo che ridà un senso alla vita.

La nuova ondata di spiritualità orientale che sta invadendo l’Occidente si distingue da quelle del passato per una più spiccata accentuazione di quegli elementi culturali che parlano direttamente ai sensi — vista, udito, olfatto; e poi: ritmo, canto, respiro, gesti ― piuttosto che all’intelletto. Le pratiche interessano più dei contenuti filosofici o delle dottrine: comprese le pratiche rituali da cui ci si allontana con disdegno quando sono proposte dalla tradizione religiosa dell’Occidente.

La corsa verso le religioni orientali è in Occidente un fenomeno parallelo al boom della psicoterapia. Tra i due movimenti non è difficile scorgere un legame: ambedue contengono una

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denuncia implicita rivolta alla nostra cultura per la sua inadeguatezza a rispondere ad alcune esigenze fondamentali dell’uomo. Le nuove psicoterapie, del resto, attingono senza remore dal patrimonio di tecniche di meditazione e concentrazione che l’Oriente usa a fini spirituali. Spesso il contesto dottrinale originario è lasciato cadere del tutto. Il caso più vistoso è quello dello yoga: privato di qualsiasi riferimento alle sue fonti religiose, travisato nella sua natura di disciplina spirituale, ridotto alle “posizioni” (asanas), di cui si reclamizzano gli effetti benefici per il corpo e per la psiche, nella sua versione occidentalizzata si fa difficoltà a ravvisarvi uno spessore maggiore che in qualsiasi tecnica che si può apprendere in un club di ginnastica. Una sorte analoga è toccata alle arti marziali giapponesi e cinesi, appiattite a sistemi di autodifesa, con appena un po’ di colore esotico nell’abbigliamento e nel linguaggio.

I nuovi metodi psicoterapeutici, preoccupati di prendere il corpo come norma prima e quasi unica, hanno trovato nelle tradizioni religiose orientali una miniera quasi inesauribile di materiali. Questo sincretismo fra le religioni e le magie dell’Oriente e la psicologia occidentale più sofisticata non finisce di stupire gli osservatori. Qualcuno resta sospettoso e critico. Così il teologo e sociologo Harvey Cox, per il quale sotto l’apparente somiglianza sussiste una diversità radicale: «La psicologia vede nelle pratiche orientali dei procedimenti nuovi per scandagliare le possibilità abissali dell’io. La tendenza dell’Occidente al narcisismo ha ricevuto qui un nuovo battesimo: la ricerca dell’io autentico prende in Occidente la forma di una ricerca religiosa».

Un altro processo integrativo di pratiche orientali è quello avvenuto da parte della spiritualità cristiana. Anche qui possiamo rilevare la stessa dissociazione tra le tecniche e i riferimenti dottrinali originari: soltanto che la finalità delle tecniche non è così lontana come nella destinazione che assumono quando vengono integrate nella psicoterapia. Quando un monaco cristiano, in altre parole, usa la meditazione zen a fini contemplativi, si muove pur sempre in un contesto religioso, per quanto diverse possano essere le visioni di Dio e dell’uomo nelle rispettive religioni. La tradizione contemplativa cristiana soffriva di una carenza che doveva essere colmata: quella di un rapporto

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positivo con il corpo, come strumento per la crescita spirituale. La riabilitazione cristiana del corpo percorre diverse vie, tra cui anche l’assimilazione di metodi e tecniche coltivate dalle religioni orientali.

L’integrazione nella disciplina cristiana di differenti tipi di meditazione venuti dall’Oriente ha avuto l’appoggio di autorevoli teologi e uomini di profonda esperienza spirituale. Citiamo Hugo Enomiya-Lassalle per quanto riguarda il buddismo zen, Heinrich Dumoulin e Jean Déchanet per le tecniche yoga. Su tutti emerge l’eccelsa figura di Thomas Merton, il quale nell’ultimo periodo della sua vita è emigrato fisicamente e spiritualmente in India. Parlare oggi di “zen cristiano” e di “yoga cristiano” non evoca nessun fantasma di operazione culturale ibrida. Sembra piuttosto la realizzazione profetica di un ecumenismo tra le religioni, così arduo da realizzare che può essere solo un compito dell’avanguardia spirituale dell’umanità.

7. La meditazione, esperienza che guarisce

A Todtmoos ― una località a mille metri di altezza nella Selva Nera, in Germania, a una cinquantina di chilometri da Freiburg ― si sale per due scopi: o per devozione, o per motivi di salute. Si può andare in pellegrinaggio a un santuario mariano, dove si venera un’effigie di Madonna nera, molto simile a quella di Chestocowa. Oppure si va per un ricovero di qualche settimana nella clinica Wehrawald. «Da noi vengono», informa la dottoressa Rinnenburger, «soprattutto persone affette da ipertensione e problemi cardiaci, molte volte imputabili al sovrappeso. Sono vittime di iperconsumo alimentare e modelli di vita sbagliati. Non sempre, tuttavia, le nostre apparecchiature, per quanto sofisticate, riescono a individuare la causa organica dei malesseri che neppure la tanto decantata aria della Selva Nera riesce a guarire».

La nostra meta, tuttavia, non è Todtmoos. Siamo diretti a Rütte, una sua frazione, a pochi chilometri di distanza. Non più di venti case in tutto. Ci veniamo per lo stesso motivo per cui si va al santuario e alla clinica di Todtmoos: per amore dello spirito e per quello del corpo. Qui però corpo e spirito non sono semplicemente accostati, ma trovano una sintesi singolare,

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unica nel suo genere. Rütte è diventata per molti sinonimo di guarigione, in un senso tuttavia che non corrisponde né a quello di un miracolo che si può ricevere in un santuario, né alla guarigione clinica che interessa la medicina.

Inutile nasconderlo: presso la gente “seria” dei dintorni Rütte non gode di buona fama. Vi alludono con un termine dispregiativo, che equivale al nostro “gabbia di matti”. Pochi si prendono però la briga di andare a conoscere direttamente che cosa avviene in quell’agglomerato di case. Eppure un migliaio di persone all’anno vi salgono, per soggiorni più o meno prolungati; una cinquantina di ospiti sono in media presenti stabilmente, distribuiti nelle varie case del villaggio. Chi sono queste persone, e che cosa vengono a cercare a Rütte?

Sulla soglia di quella che ci indicano come la “Casa del dottore” incontriamo Gerda. Trentenne, spigliata, esuberante. È anche lei arrivata quassù, ma la sua non è la visita di un estraneo. «Sono venuta qui a diciott’anni», racconta. Le cose andavano male per lei: una crisi profonda, l’inizio di un tunnel, che sembrava solo promettere la via crucis delle malattie mentali. I suoi genitori l’hanno portata a Riitte, dal conte e da Maria. È rimasta per qualche tempo. In seguito è tornata a intervalli regolari, a questa che sente come una sua seconda casa. Ora abita negli Stati Uniti, studia psicologia in California e sta facendo la formazione come psicoterapeuta. Ha già scelto l’argomento per la sua tesi di dottorato: la Vergine Maria come archetipo femminile integrato con il maschile. Non è necessario chiederle del suo benessere emotivo e spirituale: lo irradia nel modo inconfondibile, tipico di coloro che hanno sperimentato una “seconda nascita”.

Il conte, Maria: conoscere Rütte equivale a conoscere queste due persone. Per chi non sia con loro familiare come Gerda va specificato che si tratta del conte Karl Dürckheim e di Maria Hippius, sua consorte. Incontrare il marito non è possibile: è ricoverato attualmente in ospedale, ma si sta riprendendo, e in modo sorprendente; nato nel 1898, il conte Dürckheim è un nonagenario di incredibile lucidità e vitalità. La contessa Maria Dürckheim ci riceve, invece, con un calore che sembra compensare l’assenza del suo compagno. E rievoca le tappe di un sodalizio di vita e di attività che dura da quasi quarant'anni e si

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irradia da Rütte in numerosi altri centri collegati, in Germania come in altri Paesi europei. Perché Rütte è essenzialmente questo: il frutto dell’integrazione di due personalità carismatiche.

Maria e Karlfried si erano già incontrati negli Anni Venti all’istituto di psicologia di Lipsia, come professore e allieva. Fortemente influenzata dalla psicologia di Jung, la Hippius si era laureata con una tesi sulla “espressione grafica dei sentimenti”.

In seguito, per dieci anni, Dürckheim era stato in Giappone, dove aveva fatto l’incontro decisivo per la sua vita: aveva scoperto quella che in un libro del 1949 chiamerà la “cultura del silenzio”. Era stato iniziato alla meditazione praticata nel buddismo zen e alle diverse pratiche (tiro dell’arco, cerimonia del tè, ikebana) con cui viene favorito il contatto con il centro, lo “hara”. Anche qui un titolo tra le numerose pubblicazioni di Dürckheim: Hara. Il centro vitale umano secondo lo zen. La parola significa “ventre”. Vivere a partire dallo hara è qualcosa che riguarda l’uomo intero; si realizza quando la persona riposa nel suo centro vitale, è libero dall’atteggiamento di sfiducia che deriva dal suo io e lo blocca nell’angoscia e nella preoccupazione.

Tutta la saggezza orientale, che Dürckheim ha così efficacemente saputo rendere accessibile anche agli occidentali, consiste nell’adottare quell’atteggiamento di accoglienza, di quiete, di vuoto in cui si sperimenta la vera realtà dell’Essere, che invece si vela quando si applica la ragione per volerla capire. Nel meditante, quando la ragione tace, emerge l’Essere che penetra tutto: la “natura del Buddha”. Questa esperienza non è privilegio dei buddisti. Senza voler fare nessun sincretismo religioso, Dürckheim ha assunto e adattato la meditazione zen, senza le credenze religiose connesse, semplicemente come un esercizio che favorisce l’esperienza della trascendenza e avvia quel contatto con il centro dell’essere che risana e guarisce.

A Rütte ogni giornata si apre con un esercizio di meditazione, ripreso poi il pomeriggio. Altri pilastri del cammino proposto sono poi incontri di terapia individuale, tanto verbale che corporea, ed esercizi finalizzati all’espressione della creatività: musica, danza, psicodramma, modellazione della creta. Un posto

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particolare spetta al “disegno guidato”, una tecnica sviluppata da Maria Hippius. Inoltre, non diversamente da quanto avveniva negli antichi monasteri, si dà un ampio spazio alle attività manuali, che favoriscono una reintegrazione del corpo con lo spirito.

Il cammino terapeutico che viene proposto a Rütte ha assunto la denominazione di “Terapia iniziatica”. “Iniziazione” non va intesa nel significato che ha nella storia delle religioni. Nessuna pratica segreta, né inclinazione all’esoterismo; Dürckheim riconduce semplicemente il carattere iniziatico della terapia al significato etimologico che ha initiare in latino: aprire la via. La terapia è finalizzata a creare un accesso a qualche cosa di nascosto: ciò che noi siamo nel nostro nucleo più profondo e nella nostra essenza più vera, e che si palesa solo attraverso un accesso esperienziale all’Essere nella sua totalità, che include la trascendenza.

Anche Jung riteneva che la repressione del nucleo centrale dell’Essere, che si manifesta nella negazione della religiosità, fosse la tipica malattia dell’Occidente, guaribile solo se ci si ricolloca in seno alla realtà trascendente. Dürckheim e Maria Hippius non si sono limitati a cogliere l’esigenza del nostro tempo, ma hanno creato anche una via praticabile perché l’esperienza della trascendenza diventi un processo sanante. Per questo la loro terapia iniziatica si colloca a pieno diritto in quel movimento, noto col nome di “transpersonale”, che si prefigge di rinnovare il sapere scientifico dell’uomo d’oggi facendolo incontrare con la sapienza tradizionale, quella «filosofia perenne» trasmessa dagli spiriti più creativi dell’umanità e soprattutto dalle grandi religioni. In collegamento con il movimento internazionale, a Rütte si è costituita una scuola che forma i terapeuti secondo l’ispirazione propria della psicologia transpersonale.

Un’attenzione privilegiata sta avendo intanto la terapia iniziatica presso alcuni ordini religiosi. Benedettini e francescani in particolare hanno accolto con entusiasmo la possibilità di dare corpo allo spirito mediante le pratiche meditative ed espressive. Sacerdoti e suore soggiornano a Rütte; novizi vengono mandati per seguire dei corsi. E con esiti del tutto diversi rispetto al famigerato esperimento di Cuernavaca, in Messico,

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in cui l’introduzione della psicanalisi freudiana in un monastero portò alla fuga in massa dalla vita religiosa: solo due o tre, tra le numerose diecine di religiosi passati per Rütte, hanno riconosciuto che la propria vocazione era allo stato laicale. Per tutti gli altri, invece, salire qui ha significato un viaggio verso il proprio centro vitale, e quindi verso il Dio che lo abita.

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Capitolo V

INCONTRI CON TESTIMONI DELLA PIENEZZA

Le idee sono importanti per la svolta della coscienza dell’umanità che stiamo vivendo. I buoni libri sono per lo spirito un pane più necessario di quello che procuriamo quotidianamente al corpo. Ma niente è tanto essenziale come le donne e gli uomini nuovi, che incarnino nella loro vita quel cambiamento di paradigma verso il quale si rivolge la nostra speranza.

Qui ne vengono presentati alcuni. Non scelti sulla base di un’ipotetica graduatoria di importanza o di rappresentatività. Sono stati incontri quasi casuali, nel contesto di convegni o per un incrocio occasionale di cammini. Ma sono stati incontri che hanno lasciato un seme in crescita nella coscienza. E la voglia di partecipare a tanti la gioia per aver visto qualche anticipo del mondo più umano di domani.

1. André Chouraqui: «Ho lottato con Dio per comprenderne la Parola»

A voler presentare André Chouraqui non si ha che l’imbarazzo della scelta tra aspetti multiformi di un’attività poliedrica, che gli ha fatto conoscere il successo in diversi campi. Come scrittore ha al suo attivo decine di libri di storia e spiritualità ebraiche. Ha il merito di aver fatto conoscere I doveri del cuore di Bahya Ibn Paquda, meditazioni scritte in arabo da un ebreo spagnolo dell’undicesimo secolo.

Chouraqui ha tradotto l’opera in francese, apparsa con l’introduzione di Jacques Maritain. Un’opera eccelsa, che ha corretto l’immagine del giudaismo come arida religione della legalità e del ritualismo, rivelando la vena profonda della sua «mistica del cuore». Di recente I doveri del cuore sono stati proposti

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in italiano (Edizioni Paoline), in una edizione curata da Gianfranco Ravasi. Come non parlare di Chouraqui uomo politico? Ha combattuto nella Resistenza francese (nato in Algeria nel 1917 da una famiglia ebrea originaria della Spagna, si è trasferito ventenne a Parigi per fare studi di diritto e di filosofia). Emigrato nel 1951 a Gerusalemme, è stato consigliere di Ben Gurion e successivamente pro-sindaco di Gerusalemme, incaricato degli Affari culturali e delle relazioni interconfessionali della città. Il suo libro, Lettera a un amico arabo, del 1970, è stato il coraggioso manifesto di un programma di riconciliazione, in quel Medio Oriente dilaniato da tensioni politiche e religiose apparentemente irrisolvibili.

Chouraqui rappresenta la via del dialogo tra ebrei e musulmani nella terra che li vede opposti frontalmente. Ha l’audacia di proporre, traendo ispirazione dalla sua visione religiosa, una fraternità vissuta tra ebrei, cristiani e musulmani, sotto la forma politica di una federazione palestinese. Forse non bisognerebbe neppure dimenticare la sua vita familiare, che ce lo presenta come un patriarca biblico, coronato di cinque figli. Eppure si ha l’impressione che tutti questi aspetti ― scrittore, politico, uomo di dialogo, pater familias ― siano quasi delle futilità, che impallidiscono davanti all’opera della sua vita: la nuova traduzione della Bibbia in francese. La sua impresa segna un’epoca: non è retorico dire che oramai si dovrà parlare di traduzioni bibliche prima e dopo Chouraqui.

Non si tratta di fare confronti sgradevoli in un campo che ha visto imprese culturali eccezionali e che ha fornito prodotti di pensiero e di spiritualità eccezionali, ma semplicemente si vuol sottolineare la novità della sua impostazione. La sua è la prima di una “nuova generazione” (così come si parla di una nuova generazione per i computer). La Bibbia tradotta da una lingua viva a una lingua viva. Consensi ne ha avuti da ogni lato. Basti citare quello autorevolissimo del teologo Hans Urs von Balthasar. In un lungo studio pubblicato su Études ha scritto, tra l’altro, che la Bibbia di Chouraqui è la prima che consulta e l’ha lodata come «un’opera veramente ispirata, che ci ha restituito la Parola».

La traduzione di Chouraqui è apparsa dapprima in una edizione in 26 volumi, tra il 1974 e 1979. L’Académie Française

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ha conferito all’opera la medaglia d’oro del Premio della lingua francese. Successivamente è stata ripresa sotto forma di enciclopedia, L’univers de la Bible, in dieci volumi, riccamente illustrati, con commenti teologici ebraici, cristiani e musulmani. Oggi la traduzione definitiva appare, rivista e corretta dall’autore, in un solo volume, pubblicato dall’editrice cattolica Desclée de Brouwer. Nel corso di un’udienza privata, André Chouraqui ha presentato la sua traduzione a Giovanni Paolo II. Abbiamo potuto incontrarlo a Roma in occasione di questa visita e rivolgergli alcune domande.

La sua traduzione, più che un tranquillo lavoro di un intellettuale, appare come l’opera di un appassionato. Viene in mente il misterioso episodio della Genesi, cap. 32, in cui Giacobbe lotta con Dio per una notte intera per strapparne la benedizione. Può dire anche lei di aver ricevuto una benedizione da questa lotta col testo della Bibbia, una lotta durata non una notte ma una vita intera?

«L’immagine mi tocca particolarmente. Ho almeno questo in comune col mio antenato Giacobbe: anch’io, come lui, zoppico! Giacobbe è stato evocato anche da Giovanni Paolo II. Presentandogli la mia traduzione della Bibbia, gli ho ricordato che Giovanni XXIII ricevendo degli ebrei si era presentato loro dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”. Appoggiandomi su quel precedente, ho detto a Giovanni Paolo II: “Sono Israele, vostro fratello. Ed ecco l’irrecusabile atto di identità di Israele: la Bibbia”. In risposta il Pontefice, visibilmente commosso, mi ha detto: “Israele è Giacobbe”.

Anch’io, come Giacobbe, posso dire di aver ricevuto la benedizione di Dio. Anzi, più benedizioni. La prima è quella di essere nato in seno al popolo della Bibbia. I miei antenati, da quando sono stati presenti al Sinai, hanno veicolato il testo della Bibbia di generazione in generazione, senza discontinuità. Questa Bibbia l’ho trovata in ebraico nella mia culla alla nascita. Mio padre conosceva i salmi a memoria e li recitava ogni giorno. La Bibbia era la sua vita. Fin dal XIV secolo alcuni miei antenati hanno commentato la Bibbia in ebraico. Uno di questi, Saadia Chouraqui, vissuto in Algeria dal 1604 al 1704 era un matematico, autore di uno dei primi trattati di matematica ebraici. Era anche un poeta, del grande filone della poesia ebraica in Spagna e nell’Africa del nord, ed esegeta: ha scritto

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sul salmo 117 un sublime commentario, qualcosa come 800 pagine! Questa eredità è passata nelle mie mani alla nascita: l’ho ricevuta come un deposito sacro. La mia famiglia era di quelle che avrebbe dato la vita, piuttosto che rinunciare a uno iota della Bibbia.

La seconda benedizione è quella di essere nato in Algeria, in un ambiente pluriculturale. Ho conosciuto attorno a me l’arabo, lo spagnolo e soprattutto il francese, che è diventato la mia lingua. Quando leggevo la Bibbia in ebraico e in francese, sentivo la differenza. Posso aggiungere anche un’altra benedizione, o dono: il buon Dio mi ha dotato di una memoria come un calcolatore. Per tutta la mia vita ho lavorato sulla Bibbia accumulando i documenti senza dimenticare niente. Ho lavorato tutta una vita, 15 ore al giorno, per compiere quest’opera.

Ma tutto ciò non basta a spiegare la novità della traduzione. La fortuna è stata quella di trovarsi, in questo preciso periodo storico, alla confluenza di una quantità di situazioni nuove che sono maturate per la Bibbia. Abbiamo acquistato lo spirito storico. Per secoli la Bibbia è stata letta senza domandarsi a che cosa corrispondesse. Quando da bambino mi parlavano di Gerusalemme, mai mi chiedevo dove si trovasse o quale fosse la sua storia. Eravamo “prigionieri del testo”. Improvvisamente abbiamo scoperto la realtà a cui il testo si riferiva.

Le basti un solo elemento: oggi ci sono in Israele tanti gruppi archeologici quante squadre di calcio avete in Italia! Ogni giorno ci apportano nuovi elementi del passato della Bibbia. Un altro affluente è la rivoluzione linguistica. Questa riguarda il francese, che non può più essere scritto come nel secolo scorso, in funzione di una lingua accademica. Ma soprattutto riguarda l’ebraico. È questa la novità assoluta: insieme alla rinascita della terra d’Israele, è rinato l’ebraico come lingua viva. Io mi trovo ad essere il primo dei traduttori che parla ebraico. Fino ai nostri giorni, quando si traduceva la Bibbia, si aprivano i dizionari per sapere quello che le parole volevano dire. I fabbricanti di dizionari, a loro volta, per stabilire il significato delle parole ebraiche consultavano le traduzioni... Tutti i traduttori della Bibbia, malgrado la loro buona volontà, erano in questa situazione. Non conoscevano l’ebraico come Cicerone conosceva il latino, ma come poteva conoscerlo un parroco di campagna,

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dai libri. Per la prima volta io parlo ebraico in mezzo a un popolo che parla ebraico: questo fatto produce la nuova generazione di traduzioni.

Voglio menzionare un ultimo elemento: dei meravigliosi collaboratori. Questa traduzione è opera di un solo uomo, ma non di un uomo solo. L’ho scritta tutta con la mia penna, ma prima di pubblicare una sola parola l’ho fatta passare al vaglio dei migliori specialisti di tutto il mondo. La traduzione che ho avuto il privilegio di presentare al Pontefice è il coronamento di questa impresa multiforme».

Già in passato aveva presentato la precedente edizione in 26 volumi a Paolo VI, il quale in quell'occasione le disse: «Era necessario molto amore per fare un’opera simile». Un figlio d’Israele che offre la Bibbia al Papa: è solo un gesto di cortesia, l’omaggio di uno studioso, o un gesto spirituale?

«Decisamente un gesto spirituale. Tanto più che la mia traduzione comprende i libri Deuterocanonici e il Nuovo Testamento, di cui ho fatto un commento. Questa traduzione del Nuovo Testamento è certamente la prima che un figlio d’Israele presenta al capo della Chiesa cattolica. Oserei dire che dal tempo di Simon Pietro, il primo Papa, è la prima volta che un ebreo, figlio di ebrei, arriva da Gerusalemme con una Bibbia sotto il braccio. Ho detto a Giovanni Paolo II che questo gesto è in buona parte la risposta di Israele al lavoro ecumenico fatto dalla Chiesa cattolica a partire dal Vaticano II. Nel settembre 1985 ricorreva il XX anniversario della pubblicazione del decreto conciliare Nostra aetate sulle religioni non cristiane. La Chiesa ha fatto un cammino formidabile per ritrovare le sue radici.

Ho detto al Santo Padre che Israele è le radici e la Chiesa il tronco; una radice senza tronco, come pure un tronco senza radici, non possono portare frutti. E se noi figli del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ― dicendo “noi” mi riferisco agli ebrei, ai cristiani e anche ai musulmani ― non facciamo frutti, il mondo perirà. I frutti sono più che mai necessari, perché l’umanità muore di fame e di sete».

Che accoglienza ha avuto la sua traduzione della Bibbia?

«Lascio parlare le cifre. La prima edizione di 20.000 copie della traduzione in un solo volume l’editore pensava di venderla

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in un anno, ed è stata venduta in 20 giorni: una velocità dieci volte maggiore del grande successo che pur aveva avuto la Bible de Jérusalem. Perché questo grande interesse? Ebbene, credo che sia legato al fatto che per venti secoli la Bibbia si è sviluppata nella cristianità nel quadro di una cultura greco-latina. Con la mia traduzione ridò il substrato semitico e il contesto storico antecedenti a quelle traduzioni, con un forte profumo di verità. Ciò che mi stupisce è che questa Bibbia è accolta non solo da cattolici e protestanti, ma anche dall'“intellighenzia” parigina, che non aveva mai letto la Bibbia. Anche gli intellettuali sono affascinati dal suo linguaggio nuovo ed eterno.

Ho ricevuto circa tremila resoconti entusiasti della mia traduzione. Quelli negativi sono pochissimi, si possono contare sulle dita di una mano. E vengono da specialisti. Forse a loro si può applicare la dura parola di Gesù: “Farisei ipocriti, che non avete la chiave e volete impedire agli altri di entrare”. Ma capisco anche il turbamento di coloro che non accettano la mia traduzione: con la sua novità toglie loro un contatto col testo che era abituale».

Oggi c’è una diffusa attesa, ma è difficile riconoscervi un’attesa messianica. Più che un agnello pasquale molti aspettano un “leone di Giuda", magari sotto l’aspetto caricaturale di un Rambo vendicatore... Che ne è dell’attesa messianica degli ebrei e dei cristiani?

«Quello che si può osservare circa le attese dei nostri contemporanei è un’aberrazione, che nasce dalla frustrazione drammatica di un mondo che corre verso la morte. Facciamo finta di non accorgercene, ma non possiamo dimenticare che basta che un pazzo schiacci un bottone perché il mondo scompaia. Il fenomeno delle sètte e il “rambismo” esasperato sorgono sullo sfondo di questo pericolo di morte, non solo individuale ma globale. Manchiamo di ossigeno su questa terra. “Fermate il mondo, voglio scendere”, diceva uno slogan goliardico. Oggi dovremmo dirlo tutti.

L’attesa dei cristiani è quella del ritorno di Cristo; quella degli ebrei è una salvezza trascendentale che venga e ristabilisca le cose. Ma immaginiamo che il Cristo ritorni, che il Messia d’Israele trasformi ― come è scritto ― le armi in aratri. Finché l’uomo è quello che è, quanto tempo impiegherà per ritrasformare gli aratri in armi? Nel frattempo gli uomini combatterebbero

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a colpi di aratri... Più essenziale della nostra attesa del Messia è il fatto che il Messia ci attende. La sua venuta sarebbe vana se gli uomini non faranno ciò che è necessario per trasformare i loro cuori. La predicazione dei profeti d’Israele e di Gesù rimane vera: apritevi all’amore, fuggite l’illusione, ritornate al concreto. Senza di ciò, Dio stesso è impotente a fermare la follia degli uomini, che continuano ad accumulare armi atomiche, sufficienti già a distruggere 25 volte il pianeta».

Elia Wiesel riporta in un suo libro la storia di un rabbino a cui un uomo va a chiedere consigli circa una situazione difficile da risolvere. Il rabbino non aveva soluzioni; ma — annota Wiesel — «quando un ebreo non ha una risposta da dare ha sempre una storia da raccontare». A chi le chiedesse una soluzione per i problemi dell'umanità contemporanea, in mancanza di risposte avrebbe una storia da raccontare?

«La storia che racconterei sarebbe questa. Nel momento in cui le armate romane sotto il regno di Adriano terminavano di saccheggiare Gerusalemme e di spargere sale sulle sue rovine ― sulle rovine del Tempio che era la casa del Dio di Abramo, di Isacco c di Giacobbe ―, rabbi Aquiba, gran dottore della sinagoga, passeggiava con alcuni discepoli sulle rovine del Tempio. Improvvisamente il rabbino si mise a danzare di gioia. I suoi discepoli pensarono: “Ha perso la ragione”. “No”, rispose rabbi Aquiba, “non ho perso la ragione, ma era scritto”, e citò i testi che il Tempio sarebbe stato distrutto. “E ora il tempio è distrutto. Allora io danzo di gioia: perché se il testo era vero per annunciare la catastrofe, lo sarà anche per annunciare la gloria eterna”».

2. Françoise Dolto: «C’è un’incredibile fonte di gioia nei Vangeli»

«Inconscio e Vangelo»: due abissi su cui un seminario di studio, organizzato dall’istituto Stensen di Firenze, ha teso una fune, invitando qualche coraggioso ad avventurarsi. I rischi sono ovviamente di natura diversa rispetto a quelli che corrono i funambolisti, ma non meno gravi: si può cadere nella banalità o nel puro delirio verbale; chi perde l’equilibrio non si rompe le ossa, ma si copre di ridicolo.

A guidare il seminario è venuta da Parigi Françoise Dolto, una delle voci più autorevoli tra coloro che hanno osato confrontare

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la conoscenza psicanalitica dell’uomo e la saggezza evangelica. Medico e psicanalista, si è dedicata prevalentemente alla cura di bambini affetti da turbe psichiche. Nel 1978, raggiunta la settantina, decideva di cessare la sua attività. Ma non per passare monotonamente i suoi giorni da pensionata. In Francia era improvvisamente assurta alla notorietà.

Nel 1976, una serie di trasmissioni radiofoniche sui problemi della salute psichica dell’infanzia ne aveva fatto una voce autorevole, e discussa, nel campo della cura e della prevenzione delle malattie mentali. L’anno seguente usciva un suo libro, seguito rapidamente da un secondo, in cui l’autrice proponeva una sua “lettura psicanalitica” del Vangelo. Ambedue sono noti anche al pubblico italiano: Psicanalisi del Vangelo e Libertà di amare. Sono scritti sotto forma di dialogo tra Françoise Dolto e Gerard Sévérin, uno psicanalista che è anche teologo.

Nei suoi libri Françoise Dolto ha esplicitato a chiare lettere il suo progetto. Ha voluto accostare ciò che conosce dell’essere umano in quanto psicanalista ― quella dinamica dell’inconscio di cui dopo Freud stiamo scoprendo la portata e decodificando le leggi ― con il messaggio di amore e di gioia dei Vangeli. Si è messa perciò a leggere le Scritture cercandovi una convalida, un’illustrazione della viva dinamica che opera nella psiche dell’uomo e della forza che sgorga dall’inconscio. Una lettura di cui il minimo che si possa dire è che è dotata di un notevole effetto-sorpresa. Durante la sua presenza a Firenze la signora Dolto ci ha permesso, rispondendo ad alcune domande, di cogliere gli aspetti della sua originale proposta più legati alle sue vicende personali.

Una psicanalista cristiana — che non si limita ad esserlo privatamente o pubblicamente, ma che faccia di questa sua condizione la fonte di un modo diverso di accostarsi al Vangelo — è una rarità. Qual è il cammino che ha percorso?

«Nella mia educazione cristiana non c’è stato niente di particolare, che assomigliasse a una predestinazione. Sono stata educata in modo che chiamerei banalmente cristiano: cattolica perché francese. Mia madre aveva avuto un padre protestante, il quale però sposò una cattolica e volle che i figli fossero educati da cattolici: “Se sono francesi, devono essere cattolici!”. Tuttavia mia madre ha dato ai suoi figli dei nomi di santi antecedenti

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alla Riforma. Io sono stata chiama Françoise in onore di san Francesco d’Assisi: era accettato dai protestanti come l’immagine umana più prossima al Cristo, poeta e un po’ anticlericale. Questa immagine di san Francesco mi ha accompagnato durante la mia infanzia: faceva parte del mio folklore personale».

Come è arrivata all’altro suo grande interesse, la psicanalisi?

«Mi hanno condotto ragioni personali e non didattiche. Fin da bambina volevo essere medico. Era un’idea che non piaceva alla mia famiglia. Tanto più che dichiaravo di voler essere “medico dell’educazione”: una professione che non esisteva, ma per me doveva esistere. Quando ho deciso che nessuno mi avrebbe impedito di studiare medicina ― avevo 25 anni — è stato un dramma per i miei. Per mia madre io ero perduta, partita nella direzione che oggi si direbbe degli “emarginati”. Ero smarrita per questa frattura.

Un’analista mi consigliò di cominciare una psicanalisi. Ben presto arrivai a capire che c’era rivalità tra me e mia madre e che dovevo superarla proprio per amore di mia madre. Oltre ai vantaggi personali, la psicanalisi ha avuto il merito di farmi capire che la maggior parte dei disturbi psichici che vedevo nei bambini erano dovuti ai sensi di colpa che fornivano come una base per religione».

Per molti anni lei è stata psicanalista dei bambini. I suoi libri, i suoi interventi alla radio le hanno fatto acquisire una grande autorevolezza nel campo dell'igiene mentale infantile.

«Il successo è arrivato solo tardi. Mi sono laureata con una delle prime tesi in psicanalisi (Psicanalisi e pediatria, 1935). Poi non ho più pubblicato nulla fino al 1971. Uno dei motivi è la difficoltà di scrivere del trattamento clinico di persone viventi. Specialmente quando si tratta di bambini. Avevo chiesto una volta l’autorizzazione ai genitori di parlare della cura del loro figlio. Sono venuti ad assistere alla conferenza che tenevo e ne sono rimasti traumatizzati. Mi hanno detto: “Non lo faccia più. È tremendo per dei genitori sentir parlare del proprio bambino come di un caso”. Per me hanno ragione. Solo dopo la morte dei pazienti si dovrebbe parlare pubblicamente di loro».

Malgrado il suo lungo silenzio in pubblico lei ha svolto un ruolo importante nell’educazione dei bambini. Molti genitori si sono rivolti a

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lei. È giunta a costituire un punto di riferimento per un’educazione che rispetti il bambino come un uomo.

«Ho cercato sempre di far capire ai genitori che il bambino si esprimeva proprio attraverso le difficoltà che lo facevano condurre dallo psichiatra infantile; e che se i genitori avessero ascoltato quello che il bambino aveva da dire, probabilmente i disturbi sarebbero scomparsi. Talvolta, lettere successive dei genitori mi hanno confermato che il fatto di non impedire al sintomo del bambino di manifestarsi aveva cambiato completamente la relazione tra di loro. I genitori capivano ciò che il bambino diceva e talvolta arrivavano anche a porgli domande dirette».

Per l’opinione pubblica, formatasi alla lettura dei suoi libri, lei non è solo la psicanalista dei bambini, ma la credente che interpreta psicanaliticamente il Vangelo. C’è stato nella sua vita qualcosa che assomigli a un’intuizione fulminante o a una svolta che l’ha portata a una lettura psicanalitica del Vangelo?

«Nient’affatto. L’unico fatto nuovo è stata la pubblicazione delle mie riflessioni in un libro, e l’eco che ha suscitato. Ma personalmente, da almeno venti anni, soprattutto durante le vacanze, riflettevo su quei temi. Mi sono interessata alla Bibbia fin da bambina. Quando ascoltavo in chiesa i sermoni con cui i sacerdoti parafrasavano il Vangelo, ero stupefatta. Mi sembrava che i predicatori talvolta deformassero il messaggio. E che in ogni caso non lo spiegassero nella sua profondità. Faccio un esempio. Nella formazione religiosa che avevo ricevuto c’era una verità che mi faceva sprofondare in una meditazione senza fine: era la Trinità. Un giorno mi sono domandata, da psicanalista, perché fossi così interessata alla Trinità. Credo di aver capito: è perché parla di una circolazione d’amore. Il cristianesimo è la sola religione che parla di una comunicazione all’infinito tra tre interlocutori uguali che attraverso la loro comunicazione danno vita a tutto.

Come psicanalista mi sono detta, un giorno: ma questa Trinità, questi tre desideri accordati che fanno la vita, non è esattamente ciò che determina la nostra nascita, che ci fa apparire al mondo: il desiderio del padre, il desiderio della madre e il desiderio del soggetto che ciascuno di noi diventa? Questo mistero della Trinità non è il mistero inerente al nostro ingresso

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nella vita? Non so se è vero o falso: ma è così che mi sono interessata alla Trinità, che nelle parole di Gesù è legata insieme al comando di battezzare».

I lettori sono molto toccati dalla sua interpretazione del Vangelo. Quali sono le reazioni che l'hanno colpita di più?

«Soprattutto quelle di coloro che hanno confessato di aver attinto dalle mie parole il desiderio di riaprire la Bibbia. Le lettere che mi hanno fatto più piacere, magari completamente al di fuori di qualsiasi idea di religione, che hanno scoperto la straordinaria fonte di gioia che c’è nel Vangelo. Altri, che sono stati educati religiosamente in modo completamente nevrotico, hanno scoperto che si può essere dei veri “fedeli” senza essere schiacciati da sensi di colpa e da svalutazioni di se stessi. La mia mediazione consiste nell’aver mostrato che Gesù non ha mai biasimato nessuno. Ha sempre sostenuto il “desiderio” di tutti, qualunque fosse il loro livello. I sacerdoti della sua religione si scandalizzavano che Gesù si contaminasse frequentando pubblicani e prostitute. Ma Gesù poteva frequentare tutti i livelli del “desiderio”. Permetteva loro di essere attirati da lui, se erano maturi per questo passo; se non lo erano, non si sentivano colpevolizzati. Questo mi è sembrato il messaggio della buona novella che Gesù aveva da portare».

Non tutti sono d’accordo con le sue interpretazioni. Le sono state rivolte anche molte critiche. Quale l’ha colpita maggiormente?

«Quella di essere una “beghina lamentosa”! Ma la persona che me l’ha rivolta non era andata più in là della lettura del titolo del mio libro. Non poteva ammettere che uno psicanalista si interessi al testo sacro. In molte critiche c’è la paura che, interessandosi alla religione, si tradisca la propria autenticità in quanto psicanalisti. Io ritengo che bisogna saper assumere dei rischi».

Continuerà ancora a scrivere del messaggio di Gesù in termini psicanalitici?

«I tre volumi che ho pubblicato sono solo una parte di ciò che ho scritto per mio conto. Forse anche il resto apparirà un giorno. Le mie riflessioni sul Vangelo non ho voluto pubblicarle da sola, ma piuttosto sotto forma di dialogo, affinché il lettore si inserisca idealmente come terzo partecipante, ascoltando due persone che dibattono. Lo faccio riferendomi alla parola di Gesù,

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secondo cui egli è presente là dove due o tre parlano in suo nome. Ritengo che nessuno abbia in pugno la Verità; ma quando la si cerca insieme, può forse sorgere dal cuore».

3. Stanislav Grof: «È possibile ridestare le energie addormentate dello spirito»

Stanislav Grof è una delusione per chi vorrebbe la spiritualità rappresentata da esseri umani diafani. Alto e di corporatura massiccia, sembra sfidare con la sua persona la trasparenza dello spirituale. Ma basta lasciarsi arpionare un istante dai suoi occhi profondi, ed è fatta: si naviga con lui nell’oceano del transpersonale!

Cecoslovacco di origine, psichiatra di formazione, iniziò già nel suo Paese la ricerca su sostanze allucinogene e conobbe, in occasione di un viaggio di studio a Leningrado, la situazione della ricerca russa sui fenomeni parapsicologici (sembra che durante la guerra fredda fra le due massime superpotenze fosse in atto una competizione serrata per cercare di utilizzare le conoscenze extrasensoriali a fini militari...). Nel 1967 emigrò negli Stati Uniti e si dedicò all’insegnamento universitario. Dapprima a Baltimora, dove le sue ricerche sull’Lsd fecero di lui uno dei massimi esperti mondiali sugli effetti allucinogeni di questa droga. Poi in California, all’istituto Esalen, la punta più avanzata del nuovo umanesimo che cerca un accordo tra psicologia, scienze del comportamento e spiritualità.

All’interno dell’Associazione transpersonale internazionale Grof è uno dei leader più autorevoli. L’edizione francese di uno dei suoi ultimi libri lo colloca, nella presentazione, allo stesso livello di Freud, Jung e Maslow. Senza voler stabilire una graduatoria d’importanza, si può affermare che il suo impatto sulla psichiatria tradizionale è altrettanto dirompente quanto lo fu l’approccio dei più grandi innovatori sulla conoscenza della psiche. Abbiamo incontrato Stanislav Grof in occasione di un convegno sulla psicologia transpersonale svoltosi a Bruxelles per iniziativa della “International Transpersonal Association”, il primo del genere tenutosi in Europa.

Professor Grof come il suo modo di considerare gli stati di coscienza si differenzia da quello della psichiatria medica tradizionale?

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«Direi che la differenza più vistosa è il giudizio sulle esperienze spirituali. Nella psichiatria tradizionale, quella in cui anch’io sono stato formato, non si riconosce alcuna differenza tra esperienze mistiche e situazioni psicotiche. Tutto ciò che non è ordinario è considerato come patologico. Anche oggi, chi dichiarasse di aver avuto un’esperienza della propria morte o della propria nascita, o di aver avuto un flash di una vita precedente, oppure di aver sentito in modo travolgente di essere uno con Dio e con il cosmo, rischierebbe di essere etichettato come schizofrenico c di ricevere un massiccio trattamento di tranquillanti. La psicologia transpersonale assume invece un altro atteggiamento: non acritico, certo, né disposto a convalidare qualsiasi esperienza, ma aperto tuttavia alla possibilità che alcuni stati di coscienza non ordinari, insieme con le manifestazioni emotive e psicosomatiche che li accompagnano, siano la manifestazione di crisi evolutive anziché di malattie mentali. Mi riferisco di solito a queste situazioni qualificandole come “emergenze spirituali”».

Emergenza"'’ come circostanza critica, di pericolo grave?

«Emergenza nel duplice significato del termine. Nelle drammatiche situazioni che consideriamo lo spirito emerge, si fa visibile. E nello stesso tempo si cerca la possibilità di accedere a un più alto stato di coscienza, che è terapeutico e trasformatore. La psichiatria tradizionale, che considera gli stati di coscienza insoliti come dovuti a modificazioni patologiche del cervello o ad altre cause mediche, è incapace di capire un simile linguaggio. Le mappe per questo genere di esperienze ci sono fornite in primo luogo dalle tradizioni sapienziali-mistiche, sia dell’Occidente che dell’Oriente. Sono tradizioni che hanno impiegato un’enorme quantità di energie per sviluppare tecniche grazie alle quali questi stati vengono utilizzati per l’iniziazione, la guarigione, la trasformazione interiore delle persone. C’è nella letteratura spirituale il concetto che noi abbiamo un’energia addormentata: in determinate circostanze della vita ― sotto l’azione di stress emotivi, incidenti, sforzi fisici e malattie, parto o esposizione a droghe psichedeliche ― questa energia si risveglia e le persone sperimentano stati energetici e di coscienza fuori dell’ordinario. Chi è soggetto a tali esperienze teme per lo più di perdere la ragione, di impazzire... Gli psichiatri vi

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vedrebbero dei sintomi preoccupanti di psicosi. Noi diciamo: “Un momento; può essere un’emergenza spirituale!”. Evidentemente il trattamento è diverso se nell’esperienza si riconosce una crisi transpersonale o se si vede in essa solamente uno stato etichettato come psicotico».

Lei ha accennato all’uso di droghe per sperimentare stati di coscienza non ordinari. Non le sembra che le droghe debbano essere considerate come una specie di mistica a buon mercato, rispetto a ciò che si sperimenta ricorrendo a tecniche spirituali?

«Dipende dal contesto in cui le droghe vengono prese. Noi le abbiamo banalizzate: vengono consumate nelle festicciole, distribuite nei concerti rock. Perché l’assunzione di sostanze che danno esperienze psichedeliche abbia un significato spirituale, sono necessari un contesto il più possibile vicino al contesto sacro delle antiche tradizioni e una preparazione adeguata. Penso in particolare al modo in cui si è avvicinato ad esse Aldous Huxley. Personalmente, da quando mi sono trasferito in California, ho abbandonato la ricerca sull’LSD e le altre sostanze psichedeliche. Per favorire le esperienze di “emergenza spirituale” ora uso tecniche che non fanno ricorso a droghe, come il lavoro corporeo, l’iperventilazione da respirazione forzata, la meditazione, la musica o esercizi psicoenergetici della tradizione buddista tibetana. In questo modo cade il sospetto che le modificazioni dello stato di coscienza siano qualcosa di artificiale: se si ottengono con un mezzo così normale e fisiologico come il respiro, è chiaro che si tratta di un vero aspetto della natura umana».

Gli stati di coscienza non ordinari possono essere considerati come prove del soprannaturale?

«Non penso che si possa argomentare in questo modo. È un fatto che la psiche tende, quando non venga impedita, a produrre forti esperienze che non si lasciano ricondurre nell’alveo dell’esperienza quotidiana normale. Mi riferisco, per tutte, alle esperienze di vite precedenti, magari corredate di conoscenze di dettagli precisi che possono essere verificati dall’esterno, mediante dati di archivio e biblioteche. Sono fatti che spesso suscitano una notevole impressione. Ma come interpretarli? Io non li considero prove di una vita precedente, quasi si trattasse di autentici replay storici. La questione se possa o no esistere qualcosa

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che assomiglia alla reincarnazione deve essere studiata in altro modo: con la metafisica, per esempio. Io stesso ho avuto esperienze di vita passata. Non ne ho tratto la conclusione che ho già vissuto un’altra vita. Però ora sono più aperto a questa possibilità. Al tempo in cui studiavo medicina non avrei mai osato fare una simile affermazione: mi avrebbero subito etichettato come matto! Allora credevo di conoscere la medicina, e la realtà, e di dover perciò escludere la reincarnazione. Adesso non sono più così sicuro...».

Qual è stata in America la reazione delle Chiese al modo in cui il metodo transpersonale viene applicato alla realtà umana?

«Abbiamo organizzato dei programmi in cui, oltre agli psichiatri, anche ministri della religione potevano partecipare alle nostre prove di modificazione degli stati di coscienza. Per alcuni ministri si è trattato di un fatto sconvolgente. Mi riferisco a coloro che predicavano qualcosa a cui non credevano, e avevano perciò l’impressione di essere falsi. Avere esperienze mistiche fu per loro un grande sollievo: potevano sentire la sostanza di ciò di cui parlavano. Le esperienze transpersonali stanno alla radice della religione: si pensi ai profeti... Quando però nella religione predomina l’istituzione, si rischia spesso di perdere la capacità di sperimentare di persona la dimensione transpersonale. La pratica religiosa può fungere quasi da vaccinazione. Solo chi si espone a queste esperienze realizza la dimensione transpersonale della psiche. C’è un film su Cari Gustav Jung, lo psichiatra svizzero fondatore della psicologia analitica, intervistato da un giornalista della Bbc. A un certo punto il giornalista gli domanda: “Dottor Jung, lei crede in Dio?”. Sul suo volto appare allora un sorriso meraviglioso: “Non credo in Lui: io lo conosco”. Questa è la via mistica che interessa la psicologia transpersonale, quella dello spirito che si rende sensibile e trasparente alla coscienza».

4. Claudio Naranjo: «Psicoterapia e sapienza delle religioni sono complementari»

Madre Teresa di Calcutta, il simbolo vivente di una spiritualità non intellettualistica, ricondotta essenzialmente al servizio dei diseredati; Shlomo Carlebach, il rabbino un po’ hippy, che

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tiene viva la tradizione dei canti e danze cassidiche; Fritjof Capra, ricercatore di Fisica teoretica delle alte energie; Karl Pribram, lo scienziato famoso per i suoi studi sulla biochimica del cervello: che cosa hanno da comunicarsi persone così diverse? A chi può essere venuto in mente di metterli insieme in uno stesso congresso? Si è tenuto a Bombay, in India, sotto l’egida dell’“Associazione internazionale transpersonale”. Il tema proposto: Est e Ovest: antica sapienza e scienza moderna. La curiosità per una combinazione così insolita è grande. La stampa di informazione non aiuta ad appagarla; non sono questi gli eventi che fanno notizia. Non rimane quindi che farselo raccontare dalla viva voce di chi vi ha partecipato. Incontriamo a Roma Claudio Naranjo, di ritorno dall’India, in una tappa del viaggio che lo riconduce in California.

Cileno di origine, medico psichiatra, con formazione psicanalitica nella clinica diretta da Matte Bianco, si è trasferito in California per apprendere ed esercitare la “psicoterapia della Gestalt” creata da Fritz Perls. Ma Naranjo seguiva un proprio cammino, che lo ha portato progressivamente a integrare la psicoterapia con altri apprendimenti di tipo non psichiatrico ma spirituale. Ha ricevuto una formazione presso un maestro sufi, si è interessato seriamente al buddismo tibetano. Attualmente risiede in California, dove ha fondato un proprio istituto con un programma di “psicoterapia integrativa”, e dà corsi presso l’istituto di studi asiatici a Berkley.

Prima di parlare del congresso di Bombay, qualche chiarimento. Un’“associazione transpersonale”: di che cosa si tratta?

«Sembrava scontato, Fino a un recente passato, che la verità scientifica avesse definitivamente squalificato la verità spirituale, così come è stata tramandata dalle grandi tradizioni religiose. Tra scienza e spiritualità si era aperto un abisso, apparentemente incolmabile. Ma la situazione sta cambiando. Sviluppi rivoluzionari nella fisica moderna hanno messo in crisi e trasceso i postulati della scienza meccanicistica e il paradigma newtoniano-cartesiano. Si è giunti a una drastica revisione della nostra immagine e dell’universo e di ciò che significa l’essere umano. L’universo ci appare ora come un tessuto unificato di relazioni piuttosto che come un orologio meccanico infinitamente complesso; più un centro pulsante di energia che inerte

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materia cui la chimica e fisica classiche ci avevano abituati. Questa nuova immagine dell’universo, che ne include anche una corrispondente della psiche umana, ha un’incredibile rassomiglianza con quella che hanno fornito i mistici di ogni tempo e tradizione, e con le descrizioni offerte dai vari sistemi di yoga, buddismo zen, taoismo, cabala, nonché le tradizioni spirituali occidentali. Il movimento “transpersonale” raccoglie cultori di varie scienze, implicati dal comune interesse per questa visione mistico-ecologica-spirituale».

C’è qualche rapporto con il movimento noto come “psicologia umanistica ”?

«L’interesse transpersonale è emerso successivamente a quello umanistico. Questo si è voluto differenziare dagli altri approcci psicologici per la sua considerazione dell’uomo come persona, vale a dire un’entità simbolica capace di ponderare la propria esistenza, di orientarsi secondo valori, di ricercare un significato e uno scopo alla vita umana. Era una reazione necessaria ad approcci riduttivi, come quello della psicanalisi, che considera l’uomo come determinato dalle motivazioni inconsce, o quello della psicologia comportamentista, che valuta solo i condizionamenti subiti dall’ambiente. La psicologia umanistica ha messo l’accento sullo sviluppo, sulla crescita, sull’autorealizzazione; ma anche sulla “felicità qui e ora” (instant happiness). Un programma alquanto ingenuo, influenzato dagli ideali consumistici americani.

Il periodo della luna di miele della psicologia con i cosiddetti “valori umanistici” è terminato. L’antica sapienza, con il suo richiamo alla disciplina e all’ascesi, apporta il necessario riequilibrio. La psicologia transpersonale, che si è assunta il compito di un serio confronto con le tradizioni religiose, è la nuova frontiera della ricerca. La sintesi è ancora lontana. Ma il fatto stesso che la psicologia scientifica abbia indirizzato il suo interesse al “transpersonale” è un’innovazione ricca di conseguenze. Una subcultura, interessata al trascendente, si è fatta udire dalla cultura in generale. La ricerca del trascendente si è ufficializzata».

Il congresso di Bombay ha permesso di vedere in che direzione spira il vento?

«Ci sono state diverse polemiche, dentro e fuori il congresso.

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È stato criticato, per esempio, il fatto che il congresso si sia tenuto in un hotel di lusso, in forma spettacolare. Queste polemiche hanno avuto, se non altro, il merito di dar risonanza al congresso nella stampa locale. Alcune personalità religiose hanno criticato le approssimazioni e il semplicismo con cui l’Occidente si avvicina alla spiritualità orientale. Si parla troppo spesso di kundalini, di chakras e di karma in modo irresponsabile. Malgrado tutte le ingenuità, è un fatto incontestabile che la ricerca spirituale è molto effervescente in Occidente. Ed è una provocazione per l’india, dove prevale un atteggiamento quasi cinico verso le proprie tradizioni millenarie e un entusiasmo ingordo per la tecnologia: proprio ora, quando l’Occidente comincia a voltare le spalle alla tecnologia rendendosi conto dei limiti della rivoluzione industriale e della mentalità che ne deriva. Penso che il congresso abbia piantato un seme di riflessione anche in India; è un richiamo a non svendere la propria tradizione spirituale in cambio di elettrodomestici e di Coca-Cola, a non buttare via il bambino con l’acqua sporca».

La scienza e l’antica saggezza: come possono contribuire l'una allo sviluppo dell’altra, e insieme allo sviluppo dell’uomo?

«Voglio restringere la considerazione della scienza alla psicologia rivolta alla salute mentale, cioè alla psicoterapia. Mi sembra che la psicoterapia sia un complemento importante della religione, tanto per gli occidentali quanto per gli orientali. È emerso anche dal congresso di Bombay: mentre l’Occidente si accinge a recuperare la saggezza religiosa tradizionale, l’India ha bisogno di importare la psicoterapia moderna. In Oriente, e in India in particolare, c’è molta repressione (basti pensare alla posizione della donna nella società), molto tradizionalismo puritano, che in questo momento diventa obsolescente, molta poca coscienza delle emozioni. Ciò che la psicoterapia apporta è la comprensione del fenomeno repressivo (in particolare la teoria della nevrosi, con la necessità di liberare la parte istintuale dell’uomo) e le tecniche espressive. È il complemento a tutta un’etica del controllo, che spesso si esercita a forza di repressione. D’altra parte, sarebbe unilaterale parlare solo della liberazione dell’istinto senza prendere in considerazione la necessità del distacco, della rinuncia al mondo, così fortemente affermata dalle religioni orientali. Non si tratta di

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una contraddizione, bensì di una complementarità. Una complementarità che solo adesso comincia a essere riconosciuta».

Sono interessato a un altro tipo di complementarità, o integrazione: quella tra la psicoterapia e la meditazione.

«L’essenza del progetto che sto personalmente perseguendo, e che ho chiamato appunto “psicoterapia integrativa”, consiste nell’incontro e nella fecondazione reciproca di questi due approcci. Ritengo che i processi implicati nella meditazione siano del medesimo ordine rispetto a quelli psicoterapeutici. Ci sono varie componenti della meditazione che sono anche componenti della psicoterapia. La meditazione mira allo sviluppo della libertà interiore, della spontaneità della mente che è andata persa sotto il condizionamento della società e delle passioni. Anche la psicoterapia è un recupero della spontaneità dell’organismo, di quella spontaneità del bambino che si è congelata con lo sviluppo del carattere. Un altro aspetto della meditazione è lo sviluppo dell’attenzione e della coscienza di sé: lo stesso si può dire della psicoterapia. La meditazione ha questo di particolare: che la persona la può usare senza dipendere necessariamente da un altro. Viene a equivalere, quindi, a una forma di “autoterapia”. Sia per l’una che per l’altra il problema di fondo è identico: si tratta non di adattare l’uomo al mondo com’è, e neppure di fornirgli una via di evasione, bensì di aiutarlo ad attingere a quei valori dello spirito che stanno al di sopra della persona, per rispondere in modo creativo al senso perduto dell’esistenza».

5. Miek e Hans Ringrose: «A sessant’anni abbiamo cominciato a capire cosa significa vivere»

Se avessero una ricetta segreta bisognerebbe cercare di ottenerla, o magari di carpirla. Come si fa ad essere così dinamici, radiosi, contagiosamente vitali a 71 anni? I primi ad essere stupiti dello straordinario ritmo di vita che pulsa in loro sono proprio gli interessati, i coniugi olandesi Miek e Hans Ringrose. Confessano di aver cominciato a capire cosa significa vivere solo da una decina d’anni, quando sono andati in pensione e si sono dedicati anima e corpo alla nuova attività. E non perché provassero tedio nella vita professionale. Insegnante montessoriana,

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lei. Entusiasta di Maria Montessori, che considera la sua prima maestra: le ha mostrato la via per far crescere i bambini senza repressioni, lasciandoli sviluppare nella libertà, perché diventino quello che sono. Psicoterapeuta, lui. Gli ultimi anni di lavoro li ha trascorsi a Groningen, ad aiutare studenti che avevano difficoltà negli studi. Affermati professionisti, ma inconsapevolmente insoddisfatti e desiderosi di un completamento spirituale. Una decina di anni fa la svolta decisiva. Ad Hans capita di leggere un libretto di Karlfried Dürckheim sulla meditazione e si rende subito conto che è quella la sua strada. Va a trovarlo a Rütte, al sud della Selva Nera, in Germania, dove abita.

Dürckheim è una singolare figura di scienziato, psicologo e mistico. È uno dei migliori conoscitori del Giappone, e specialmente del buddismo zen che egli ha contribuito come pochi altri a far conoscere in Europa, favorendone una versione europea. Ama citare l’affermazione di Roshi Yuho Seki: «Lo zen originariamente è venuto dall’India. Dall’India passò in Cina, dove si è formato uno zen cinese. Poi lo zen passò in Giappone e si formò lo zen giapponese. Oggi lo zen si trasferisce in Germania e in Europa. Tocca a voi ora creare uno zen europeo». Dürckheim è stato uno dei padri di questa inculturazione europea dello zen. Ha dedicato la sua lunga vita ― è nato nel 1896 ― a studiare e a diffondere questa forma di spiritualità, confrontandola con quella cristiana. Dürckheim ha anche un’eccellente conoscenza della spiritualità cristiana, nelle sue diverse denominazioni (la madre era protestante, ma egli ricevette la prima educazione religiosa da un parroco cattolico; più tardi fece la confermazione nella Chiesa evangelica; col tempo si avvicinò molto alla Chiesa ortodossa orientale; di recente ha affermato che, se potesse ricominciare da capo, aderirebbe alla Chiesa ortodossa russa: una parabola ecumenica vivente, insomma!). Ora è ultraottantenne. È quasi cieco, ma nelle migliori condizioni mentali: «All’esterno cieco, ma all’interno vedente», commentano i coniugi Ringrose, che lo considerano il loro maestro, colui che ha insegnato loro la strada per diventare personalmente liberi e lasciar diventare liberi gli altri. La strada è quella della meditazione.

Incontriamo Miek e Hans Ringrose a Bruxelles, al congresso

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organizzato dall'Associazione transpersonale internazionale. Animano la meditazione che apre la giornata, con una folta partecipazione di congressisti. Dopo anni di personale esperienza nella meditazione e di frequenti visite a Dürckheim, questi li ha esortati a insegnarla ad altri. Hanno così incominciato un’intensa attività sia ad Arnheim, nell’Olanda meridionale, dove si sono trasferiti, sia in Germania. Ora hanno costituito un gruppo di formazione, cui partecipano psicoterapeuti e pastori, sia cattolici che protestanti.

Le domande si affollano. Per cominciare proprio dalla più elementare: «Che cos’è la meditazione che voi praticate e insegnate?». «C’è un equivoco frequente», risponde Hans, «quando si parla di meditazione in Occidente. La si associa spontaneamente con quella pratica religiosa che consiste nel concentrare l’attenzione della mente e del cuore su una verità della fede o un mistero della vita del Salvatore. La meditazione che viene dall’Oriente è altra cosa. Per questo la si chiama spesso “meditazione senza oggetto”. I suoi elementi caratteristici sono: la giusta posizione, seduti con la spina dorsale diritta; la giusta respirazione, con un respiro profondo, calmo e ampio; il rilassamento del tono muscolare e il centrarsi in basso, in quel centro del corpo e dell’essere che i giapponesi chiamano hara; il completo silenzio e l’immobilità; e naturalmente la meditazione stessa, senza un oggetto su cui riflettere, seguendo i movimenti del respiro. Questo è un metodo o via da seguire, collaudata dall’esperienza secolare dei meditanti della tradizione buddista. Una via per passare dall’estroversione e dispersione, che sono il nostro stile di vita abituale, all’esperienza del nostro essere come parte dell’Essere».

Questa è la via orientale; ma, chiedo, può essere introdotta tale e quale in Occidente, senza adattamenti? Hans è accurato nell’illustrare le modifiche introdotte da Dürckheim e dagli altri maestri europei. La più rilevante è l’aver prestato attenzione alle emozioni di chi medita. Quando si medita, si entra attraverso il silenzio in contatto con se stessi; emergono allora i problemi profondi, le emozioni non digerite, i conflitti nascosti e tutta la parte di ombra legata alla mancata realizzazione spirituale.

Nello stile giapponese classico, questi problemi non vengono

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affrontati. In Europa ciò sarebbe irresponsabile, perché da noi l'“Io” ha ricevuto uno sviluppo maggiore. Questa ipertrofia è anche causa di malesseri psicologici, di cui ci si deve rendere consapevoli quando emergono nella meditazione. Quando questi problemi vengono adeguatamente trattati ― e qui è importante che chi guida le meditazioni abbia anche una competenza nella conoscenza della psiche e dei suoi conflitti ―, la meditazione può portare anche un beneficio sul piano della guarigione dei disturbi o dei problemi psicologici. La meditazione, insomma, guarisce; e per questo sempre più in alcune psicoterapie si prevede, a diversi livelli, il ricorso alla meditazione.

Miek fa l’esempio di Helga, un’insegnante tedesca che attraverso la meditazione è giunta a un vistoso ribaltamento della propria vita. Quando iniziò la meditazione era una donna di 35 anni, magra, piena di paure, completamente isolata. Il suo matrimonio era fallito e anche come insegnante si sentiva in crisi. Dopo un’introduzione alla meditazione, volle partecipare a un corso intensivo di una settimana. La condizione che Hans e Miek le posero fu che non meditasse troppo intensamente, e che ogni giorno facesse loro un resoconto delle sue esperienze. Di fatto ben presto si annunciò una crisi, che esplose con molte lacrime. Le emozioni represse emergevano, in modo sconvolgente. Le crisi si succedettero, lasciandola però un po’ più libera ogni volta. Dopo una settimana partì commentando: «Mi ha fatto un male terribile, ma anche un bene terribile. Che tipo di bene mi ha fatto, però, non lo so ancora». Lo avrebbe saputo ben presto. Riprese il suo lavoro e continuò a meditare. A poco a poco si è così trasformata, da diventare una persona diversa anche dal punto di vista fisico: la femminilità, che prima aveva represso, è emersa. Ricevette, come insegnante, un altro posto che a lei piaceva molto. Si svilupparono la sua intuizione e la sua creatività, esprimendosi in poesie. Sviluppò la capacità di contatto con gli altri. A un certo punto, con meraviglia, scoprì che aveva talento per la politica. Aderì al movimento pacifista. Assunse però una posizione critica nei confronti del movimento stesso: sapeva ― anticipando una presa di coscienza dello stesso movimento pacifista ― che una politica che non abbia fondamenti spirituali non ha un respiro lungo.

«La meditazione», commenta Hans, «non è un’evasione dalla

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vita di ogni giorno. La vita quotidiana come esercizio: è il titolo di un libro di Dürckheim che può essere assunto come programma della meditazione. Se voglio cambiare qualcosa al di fuori, devo cominciare col cambiamento in me stesso».

L’attenzione alla dimensione terapeutica della meditazione è la prima modifica che questa pratica ha assunto in Occidente. Una seconda sta nell’integrazione di aspetti esplicitamente religiosi. In ambito cattolico questa apertura, favorita da personalità autorevoli come K. Tillmann ed Enomyia Lassalle, è avvenuta prima che in quello protestante. Nella meditazione zen occidentalizzata si è riconosciuto un utile strumento per favorire la vita contemplativa, con una diffusione abbastanza rapida tra i religiosi e le religiose. Il mondo protestante, tradizionalmente diffidente verso la mistica, è stato più restio.

Attualmente, assicurano Hans e Miek Ringrose, in Germania e in Olanda c’è un’eguale disponibilità verso la diffusione della meditazione nelle due Chiese; pastori dell’una e dell’altra confessione apprendono a meditare e propongono la meditazione ad altri. Sì, certo, qualcuno vorrà vedere nel diffondersi della meditazione un segno del riflusso che favorisce l’intimismo... E se fosse, invece, il segno di un’«emergenza spirituale», di un’aspirazione, cioè, a superare la crisi presente dell’individuo e della società puntando verso l’alto?

6. Bernhard Häring: «Voglio usare la voce per annunciare la gioia»

Bernhard Häring è per molti il simbolo del rinnovamento della teologia morale cattolica. Lo conoscono gli studiosi per la sua produzione vasta e fortunata. Una raccolta di saggi pubblicata in occasione del suo 65° compleanno contiene la sua bibliografia dal 1950 al 1977: più di 60 titoli. Tra questi il manuale in tre volumi La legge di Cristo, pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1953. Ha avuto otto edizioni tedesche e traduzioni in 14 lingue. Ma padre Häring è ben noto anche a chi non frequenta le biblioteche. Per anni ha avuto una sua rubrica su Famiglia Cristiana, in cui trattava i problemi morali che gli ponevano i lettori. Attraverso la sua parola il grande pubblico ha imparato a vedere nel teologo morale colui che non

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reprime, ma educa il desiderio umano. Il volto asciutto e scavato è addolcito da uno sguardo luminoso. «Ho visto la bontà liberatrice», sembra ripetere; così ha voluto intitolare le sue memorie del tempo di guerra. Aiuto medico nell’esercito tedesco, ha fatto le campagne di Russia e di Polonia. Curando i feriti, ma anche testimoniando come sacerdote l’amore di Cristo che supera le divisioni etniche e gli odi nazionalistici. Ha conosciuto la violenza della guerra e ha toccato con mano il meccanismo interiore che fa funzionare la cieca obbedienza militare. Ne è uscito con il proposito di parlare ai cristiani di responsabilità, piuttosto che di obbedienza. Si è fatto teologo della non-violenza, in quanto strumento più appropriato al cristiano per il cambiamento sociale e politico. Su La legge di Cristo si sono formati i giovani teologi e pastori dell’epoca del Concilio. Sono passati quasi trent’anni da allora. Era necessaria una nuova sintesi, piuttosto che una nuova edizione. Häring ha deciso di scrivere un’altra opera.

È nata così: Liberi e fedeli in Cristo, una trattazione globale della teologia morale cattolica, diretta a studenti di teologia e a sacerdoti, ma anche ai laici interessati ai problemi della fede e della morale, concepita in tre volumi, come la precedente. È pubblicata dalle Edizioni Paoline. Abbiamo incontrato padre Häring a Roma per parlare della sua opera.

Lei ha dedicato la sua vita, attraverso l'insegnamento e le pubblicazioni, alla morale. È insomma un “moralista”...

«Per quanto mi ricordo non mi sono mai chiamato moralista. Ogni tanto qualcuno dice di me che sono un “grande moralista”. Accetto l’offesa con umiltà e faccio l’esame di coscienza: mi chiedo cioè se per caso non mi merito il titolo di “moralista” nel senso negativo in cui si usa oggi il termine, cioè nel senso di uno che pretende di sostituirsi alla coscienza degli altri, di un legalista, di una persona schiava di precetti alienati dalla vita. La mia professione è quella di teologo, che coltiva in modo particolare la teologia morale. Come teologo io mi dedico alla vita in Cristo, che è un ideale di pienezza in continuo sviluppo. Ogni divisione tra dogmatica e morale, o tra morale ― che si occupa del minimo — e spiritualità ― che propone il massimo ― per me è arbitraria. Per tutta la vita ho inteso lavorare alla sintesi tra religione e vita, tra fede e morale».

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Chi si dedica alla morale, dunque, si occupa dei problemi della vita. Dovremo considerarlo come un “grande saggio”, che insegna a vivere meglio?

«Ci inoltriamo qui in un problema molto profondo: io ritengo che non si possa fare teologia morale se non si è innamorati di Cristo e della saggezza. Se nella propria vita non si cerca con tutte le forze la saggezza, non si è sulla lunghezza d’onda giusta per questo compito. Tuttavia la saggezza è fondamentalmente dono dello Spirito. Lo dice anche Confucio, i cui libri sacri non parlano di virtù ― nel senso in cui Aristotele parla di autoperfezione ― ma di doni del Cielo. Per Confucio i quattro doni più preziosi che Dio ha dato al saggio sono: la benevolenza, la gentilezza, quella giustizia che conviene alla famiglia e alla comunità, e la prudenza che è frutto della saggezza. Essere teologo moralista vuol dire in primo luogo essere un uomo di preghiera, che accoglie il dono di Dio e non pensa di monopolizzare la sapienza. Per un cristiano la sapienza coincide con la sequela di Cristo. Mettendosi alla sua scuola, ascolta la parola di Dio. Con un orecchio al magistero della Chiesa, ma ascoltando anche il popolo umile, al quale spesso Dio dà questo dono della sapienza in modo speciale. Lo ha detto anche Gesù nel suo grido di giubilo: “Ti rendo grazie, Padre, perché quello che resta nascosto ai sapienti e agli intelligenti, tu lo hai rivelato ai semplici”».

Ne consegue che un teologo deve sapere non solo insegnare, ma anche ascoltare la sapienza di Dio, che spesso parla da pulpiti molto bassi.

«Il teologo che si dedica alla morale deve distinguersi nell’ascolto. Chi non ascolta i piccoli non può capire la Parola di Dio, perché la Parola di Dio è semplice, si indirizza a tutti, non a una classe privilegiata. Conoscere la vita che vivono i credenti è un arricchimento particolare per la teologia morale».

Quali sono i maestri di saggezza che hanno lasciato la traccia più profonda nella sua esistenza?

«Il primo insegnamento l’ho avuto dai miei genitori: gente semplice, ma di una grande saggezza, e animati da molto zelo per i poveri. Negli anni della guerra, poi, mentre svolgevo il mio ministero presso i contadini russi, che per tanti anni non avevano avuto un sacerdote, è stato per me un arricchimento particolare vedere l’opera dello Spirito tra di loro. Ma voglio

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ricordare anche i popoli dell’Asia e dell’Africa, presso i quali mi è capitato molto spesso, negli ultimi anni, di essere chiamato a parlare. In questi Paesi non ho mai accettato uno stipendio. Ho sempre detto: il mio stipendio è ascoltare voi, essere partecipe della vostra sapienza ed esperienza. Lo Spirito Santo opera ovunque: lo dice anche l’enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis. Noi occidentali abbiamo una grande tradizione, che dobbiamo apprezzare, ma anche gravi limiti. Dobbiamo aprirci a tutto quello che Dio ci manifesta per mezzo di uomini, donne, bambini di altre culture. Non ascoltare la sapienza di altre culture è arroganza. E lo Spirito non si rivela agli arroganti».

Al volgere del secondo millennio cristiano ci troviamo in una drammatica crisi di civilizzazione. Qualcuno ha detto che sopravviveranno solo i più saggi. Il cristianesimo può contribuire a creare la saggezza necessaria per la sopravvivenza?

«La parola “sopravvivenza” può essere presa letteralmente, in senso drastico. Mi dà da riflettere il fatto che la nazione più ricca del mondo, la Germania Federale, abbia una natalità così ridotta. Lo stesso succede nelle altre nazioni dell’area dello sviluppo, nonché all’interno delle nazioni (basti vedere, in Italia, la differenza di sviluppo demografico tra il Nord e il Sud). Quelli che hanno un senso profondo della vita, e preferiscono la sapienza alla ricchezza, avranno molti figli; mentre gli altri, che non cercano il significato ultimo, rinunceranno a moltiplicare la specie. Io non penso alla sopravvivenza in senso darwiniano, cioè alla specie più adatta a sopravvivere perché più forte delle altre; e neppure mi pongo il problema nei termini di Skinner, il quale ritiene che si debba manipolare la gente per garantire la sopravvivenza della nostra cultura. Ciò che a me sta a cuore è la fedeltà a Cristo, e quindi, se vogliamo, la sopravvivenza del sapiente in senso cristiano, dell'homo orans. Ma la questione della fedeltà e quella della sopravvivenza sono connesse. Se il genere umano non diventa più saggio, rischia di autodistruggersi: con la bomba atomica o col consumo eccessivo, non ha importanza. In quanto teologo cristiano, il mio compito è di condurre gli uomini, modestamente ma anche appassionatamente, alla saggezza divina, e di dir loro: “Mangiate, bevete, qui è la ricchezza del mondo!”».

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Parliamo un momento della sua opera. La sua nuova sintesi di teologia morale l’ha intitolata “Liberi e fedeli in Cristo”. La libertà è messa in evidenza, al primo posto. Il suo primo manuale aveva per titolo: “La legge di Cristo”. C’è stato uno spostamento d’accento dalla legge alla libertà?

«Alcuni hanno pensato che la mia nazionalità mi avesse guidato la mano nello scegliere per titolo “La legge di Cristo”: opera di un tedesco, con un debole per l’autorità e la legge. È sfuggito loro che in realtà mi riferivo a una parola di Paolo, tratta dall’epistola ai Galati, la sua grande lettura sulla libertà: “Portate gli uni il fardello degli altri, così adempirete la legge di Cristo”.

Il cuore della legge di Cristo, quale egli la rivela nella sua persona e nella sua vita, è la solidarietà salvifica. La legge di Cristo è una legge di unità nell’amore. Anche questa nuova opera si ispira allo stesso programma di vita cristiana tracciato nella lettera ai Galati. Il tema della libertà è preso di lì. Tutto il primo volume ruota attorno alla frase: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi”. Lo spostamento dalla legge alla libertà lo ha fatto Paolo, anzi risale a Gesù stesso. A lui risale l’annuncio originario: “La verità vi farà liberi”».

Il permissivismo teorizzato è diventato una ideologia. L’uomo di oggi sembra già ubriaco di libertà. È necessario che gliela annunci il cristianesimo?

«L’esperienza del regime totalitario nazista e della guerra mi ha convinto che la libertà ha fondamenta fragili in molte persone. Ho visto l’obbedienza stupida e criminale di tanti cristiani nei confronti della tirannide e della malvagità. Una certa responsabilità doveva anche essere attribuita a una formazione morale che insisteva unilateralmente sull’obbedienza. Ciò ha determinato una svolta nel mio pensiero sulla teologia morale. Oggi è necessario riscoprire l’annuncio cristiano della libertà, e formare alla responsabilità e al rischio. Io faccio mia la preoccupazione di Paolo di mostrare il vero volto di quella libertà per la quale Cristo ci ha redenti. Si parla molto di libertà, ma non per tutti ha lo stesso significato. La libertà cristiana, in particolare, non è libertinismo. È coniugata con la fedeltà. L’ho messo in evidenza nel titolo della mia opera: “Liberi e fedeli in Cristo”».

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La fedeltà è diventata un problema per l’uomo d’oggi, non meno della libertà. Presi nel vortice dei cambiamenti, non possiamo più restare là dove siamo nati. Anche mantenere gli impegni presi liberamente diventa difficile, quando tutto cambia attorno a noi e la vita sembra domandarci cose contraddittorie. A chi essere fedeli? Come comportarsi?

«Metterei prima di tutto in rilievo che la nostra vita si realizza a partire da una scelta. Alcuni vogliono lasciarsi aperte tutte le possibilità, non scelgono, e quindi non diventano liberi, perché la libertà domanda un impegno. Ma la fedeltà alle nostre scelte può diventare problematica, possiamo trovarci in conflitto tra fedeltà ed esigenze diverse. Lei chiede giustamente: a chi dobbiamo essere fedeli? La fedeltà principale del cristiano è rivolta a Cristo, e solo in modo subordinato a quelli che sono fedeli al Cristo. Dunque il discernimento è domandato al cristiano. Sarà fedele al Cristo e fedele alla Chiesa; ma non senza domandarsi quale parte della Chiesa è più fedele al Cristo».

Come si sviluppa questa sua nuova sintesi di teologia morale?

«Il secondo volume ha come tema: “La verità vi farà liberi”. Vi traccio una fenomenologia della verità, percorrendo le diverse vie che conducono alla verità. Sono quelle della fede, della speranza e della carità. Il nostro tempo determina fortemente i modi in cui viviamo la fede. Tengo presente che la nostra testimonianza avviene in epoca di ateismo e di dialogo ecumenico tra le confessioni cristiane. Parlo anche della sessualità nella prospettiva della verità che ci fa liberi (perché proprio in questo campo sono tante le bugie!): come linguaggio della verità la sessualità esclude l’inganno di sé e degli altri. Il terzo volume è composto di due parti: la bioetica, che comprende un’estesa trattazione dell’arte di guarire, e la missione dei cristiani di creare un “ambiente divino” (nell’economia, nella vita sociale e culturale, nell’impegno per la giustizia e la pace)».

Vorrei concludere con una domanda molto personale. Si è saputo che una seria malattia ha rischiato di privarlo della voce. Come ha vissuto questo momento, lei che per tutta la sua vita è stato un uomo della parola?

«A causa di un cancro alle corde vocali avevo la massima probabilità di rimanere senza voce per il resto della mia vita. In quel momento mi sono reso conto che Dio mi ha dato una voce buona e una missione bellissima: quella di annunciare la pace.

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Questa voce è servita per tanti anni. Guardando al passato, non avevo motivo di lamentarmi. Quanto al futuro mi sono detto: se resto muto, si svilupperà di più la funzione dell’udito; ascolterò di più; e poi avrò sempre la penna per comunicare. Ed ero contento. Ma quando, dopo l’operazione, la voce è tornata — forte, normale — ero più che contento: ero giubilante! Ho fatto subito un proposito: di non abusare mai della mia voce per esprimere malcontento. Voglio usarla pienamente per annunciare la gioia. Ce ne sono già tanti che diffondono l’annuncio triste della cronaca nera...».