Le separazioni nella vita

Book Cover: Le separazioni nella vita
Parte di Rapporto professionista-malato series:

S. Spinsanti - L. Pinkus - G. Gatti - M. Perroni - B. Simmons - M.Tejera de Meer - R. Ghidelli - G. Fregni - G. Guerra - J. Kleemann

LE SEPARAZIONI NELLA VITA

Aspetti psicologici e spirituali

a cura di Sandro Spinsanti

Cittadella Editrice, Assisi 1985

pp. 7-13

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LE RELAZIONI DI AIUTO NELLE SITUAZIONI DI SEPARAZIONE

Le separazioni fanno provare già in vita il sapore della morte. Eppure non c’è vita senza separazioni: dalla separazione dal corpo materno, alla nascita, fino a quella definitiva dal proprio corpo, che si realizza con la morte, passando attraverso le separazioni dai genitori e di questi dai propri figli, nel normale processo di crescita che si conclude con l’autonomia e l’indipendenza; le separazioni dal coniuge, sempre più frequenti in una società che favorisce la mobilità piuttosto che la stabilità dei legami, l’onestà dei propri sentimenti, il vincolo della responsabilità; la separazione da coloro che ci precedono nella morte, senza dimenticare le separazioni dalla salute e dalle proprie forze, nonché dall’immagine di sé efficiente, a seguito di malattie invalidanti o del normale processo di invecchiamento 1. L’esistenza di ognuno è

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scandita da una sequenza ininterrotta di separazioni: volute o imposte, fisiologiche o traumatiche, tragiche o salutari.

In alcune di queste separazioni i protagonisti sollecitano l’intervento professionale di coloro che, a vario titolo, offrono delle relazioni di aiuto. Ciò può avvenire all’insegna del sacro e della religione, nella persona di sacerdoti e operatori pastorali; oppure in nome di un servizio svolto da psicoterapeuti, consulenti familiari, assistenti sociali.

Per il secondo incontro interdisciplinare tra psicoterapeuti e operatori pastorali, promosso dalla Cittadella Editrice e svoltosi nella Cittadella di Assisi nel novembre del 1984, il tema di confronto è stato proprio quello delle separazioni. Più specificamente, sono state prese in considerazione le separazioni coniugali, quelle tra genitori e figli e le separazioni dai morti. Ma la riflessione non poteva evitare di toccare il vissuto delle separazioni in generale, in quanto costituiscono per la vita psichica e spirituale dell’individuo un rischio o una «chance». Pur nel rispetto della varietà e della specificità delle diverse relazioni di aiuto, emergono delle questioni di fondo che sono comuni alle diverse pratiche professionali. Soprattutto se ci proponiamo di definire quale tipo di aiuto va offerto alle persone che si trovano nel crogiolo di una separazione.

Il compito principale di un professionista di una relazione di aiuto è quello di attutire, con i

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mezzi a sua disposizione, il dolore della separazione, per renderlo tollerabile? Volendo dare alla questione la forma di un dilemma: si deve tendere a eliminare il dolore della separazione o a elaborarlo in senso psicologico/spirituale? Le separazioni sono sinonimo di sofferenza; staccarsi da qualcuno o qualcosa fa male. Il dolore morale per la perdita dell’oggetto amato è una variabile personale: non tutti lo sentono nelle stesse situazioni e con la stessa intensità. Per alcuni la sofferenza massima è connessa con la morte, per il suo carattere di evento definitivo; per altri con le separazioni da relazioni amorose, nelle quali va distrutta l’identificazione conseguita mediante il rapporto d’amore. La richiesta di aiuto può essere facilmente interpretata come una più o meno esplicita richiesta di consolazione. Ciò sembra addirittura quasi ovvio per la prassi pastorale, intesa molto spesso come l’agenzia che dispensa le «consolazioni della religione»; ma il fantasma della consolazione si aggira anche tra la psicoterapia e i suoi equivalenti. La tentazione dell’approccio umanistico ― nota Daniel Widlöcher ― è quella di «ammansire le separazioni, e la più angosciosa di tutte, la morte, in una specie di nuova religione, quella dell’approccio psicologico, filosofico, che nega l’angoscia esistenziale» 2. Nell’antagonismo tra speranza di vita e angoscia di morte, implicito in ogni processo di separazione, l’approccio umanistico si appoggia alla concezione filosofica che sa vedere nella morte non lo scandalo o il fallimento, bensì il compimento

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del destino umano in senso trascendente. La separazione perde così il suo aspetto più drammatico e può addirittura essere integrata organicamente in un processo di «crescita» e di «autorealizzazione», aperto su un orizzonte transpersonale. Ma non rischiamo di trovarci così immersi in una consolazione a buon mercato, che toglie al dolore della separazione il suo pungiglione? Senza cedere a nessuna celebrazione retorica della sofferenza, e pur distanziandoci dal dolorismo, dobbiamo tuttavia concedere al dolore un valore maieutico. E il dolore non porterebbe i suoi benefici, anche se frutti dell’amarezza, se fosse troppo sollecitamente rimosso da una prassi consolatoria, svolta dal professionista delle relazioni di aiuto.

Si profila così un interrogativo antropologico, al quale colui che esercita una professione di aiuto non può sottrarsi: qual è il modello di uomo da promuovere e la capacità da favorire? Si rende un miglior servizio alla persona aiutandola a sviluppare la capacità ad essere sola, oppure incrementando la sua capacità di stabilire rapporti? Tanto chi annuncia la fede, quanto chi offre un servizio psicoterapeutico, fa implicitamente anche un’opera pedagogica. Soprattutto nei confronti dell’ultima separazione, la morte, è inevitabile domandarsi: ci si prepara meglio ad essa potenziando la capacità di essere soli, oppure la capacità di essere insieme? Ovvero questo è un falso dilemma, e la risposta consiste nel rendere possibile un’esperienza che incrementi contemporaneamente sia l’una che l’altra capacità?

Nella presentazione dell’edizione italiana del volume collettivo Le separazioni dalla nascita alla morte, Giuseppe Di Chiara svolge una serrata

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riflessione sulla psicoanalisi e la separazione, che può fornire una traccia per la composizione del dilemma. Il punto di partenza è offerto da un’osservazione di Bion, che parla dell’analista e del paziente come «isolati all’interno del loro intimo rapporto». Perché l’esperienza della separazione si realizzi, dunque, è necessario preliminarmente l’incontro, come, peraltro, il rifiuto sistematico e ostinato dell’incontro, tipico di alcune personalità, sottende una paura della separazione. Incontro e separazione si implicano reciprocamente: «La coppia investita dall’esperienza psicoanalitica lo sa bene, quando, superate le difese, rotti gli indugi, lavora alacremente alla scoperta del mondo interiore e delle relazioni che lo regolano e sa che questo lavoro la porta sempre più vicina al momento del reciproco commiato, tanto più vicino quanto migliore è il lavoro svolto. Lo sa la coppia dei genitori che vede crescere bene i figlioli che, se andranno per la loro via, proprio perché ben cresciuti, non potranno realizzarsi che con il distacco dai genitori. Esperienze qualitativamente della stessa natura compiono gli insegnanti che assistono e promuovono la crescita dei loro discepoli, per essere alla fine contenti del loro distacco» 3. Rapporto e separazione non si escludono, ma si richiamano. Colui che è capace di incontrare saprà anche separarsi, così come la separazione è il prerequisito di ogni incontro. Come pure, d’altra parte, l’incapacità di separarsi è fonte di sofferenza e di patologia.

Il professionista che si trova coinvolto in una

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relazione di aiuto può porsi talvolta il concreto interrogativo se favorire o contrastare le separazioni. L’angoscia da separazione può portare, infatti, ad aggrapparsi disperatamente all’oggetto amato. Ora, se separarsi fa male, talvolta non separarsi fa peggio! Il non separarsi è un capitolo importante dell’«arte di rendersi infelici», di cui Watzlawick ha scritto delle brillanti istruzioni 4. È vero che il tempo, come afferma la saggezza popolare, guarisce ferite e dolori causati dalle separazioni; ma chi vuol essere infelice non si scoraggi: esistono molti espedienti per proteggersi da questo effetto del tempo! Tra i meccanismi che ha a disposizione chi vuol fare del passato una fonte di infelicità, due meritano una particolare menzione. Il primo è l’esaltazione del passato, guardandolo attraverso un filtro che lasci trasparire il buono e il bello nella luce più trasfigurante. Il secondo meccanismo è quello che Watzlawick chiama la ricetta dell’«ancora lo stesso»: «Questo meccanismo ― annota in modo grafitante ― può essere sfruttato anche da principianti, senza che sia necessaria una formazione specifica; è anzi talmente diffuso da offrire notevoli redditi, fin dai tempi di Freud, a generazioni di specialisti, dai quali tuttavia esso non è chiamato "La ricetta dell’ancora lo stesso”, bensì nevrosi. Basta essere ostinatamente fedeli ad adattamenti e soluzioni che in passato si rivelarono sufficienti, efficaci, o forse perfino gli unici possibili... Tale ricetta per l’infelicità la si vede in azione in certe relazioni amorose ripetitive: dopo un fallimento, si riallaccia un’identica relazione

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con un partner del tutto simile, per quanto diverso possa sembrare superficialmente ...».

Quando ci si vuol risparmiare il «lavoro della separazione», si gettano solo le basi per aggiustamenti malsani alla realtà, fonte di ulteriori sofferenze. In una società che non sa più fornire le categorie concettuali e i modelli comportamentali per elaborare il lutto, in tutte le sue dimensioni 5, i professionisti delle relazioni di aiuto possono essere chiamati sempre più spesso a confrontarsi con le conseguenze patologiche di separazioni non avvenute. Invece di rimuovere le separazioni, o di nasconderle come la spazzatura sotto il tappeto, bisogna imparare a elaborarle. Il compito terapeutico e pastorale assume qui una dimensione sapienziale, o quanto meno pedagogica: insegnare ― non in astratto, ma in un rapporto vissuto ― l’arte di separarsi, corrispettiva all’arte di incontrarsi. Ciò che emerge alla fine è il ritmo stesso della vita, fatta di tempi d’avvicinamento e di tempi di allontanamento. C’è un tempo per tutto sotto il cielo, direbbe l’Ecclesiaste: «un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dall’abbraccio, un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via» (Qo 3, 5-6).

Note

1 La panoramica più completa della fenomenologia della separazione, con i problemi psicologici e spirituali connessi alle diverse forme, si può trovare in H.J. Schultz (a cura di), Trennung, Stuttgart 1984. Vi sono contenuti saggi sulla separazione connessa alla nascita e sulla perdita dei genitori da parte dei figli, sull’esodo dall’infanzia e sulle separazioni coniugali, sul lutto e sulla vecchiaia e il pensionamento, sull’emigrazione e sul significato teologico della separazione nella Bibbia.

2 Nella prefazione a Le separazioni dalla nascita alla morte, a cura di P. Ferrari, tr. it. Roma 1979, p. XXVII.

3 G. di Chiara, «La psicoanalisi e la separazione», in Le separazioni..., cit., p. XIII seg.

4 P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, tr. it., Milano 1984.

5 Cfr. F.J. IllhardtTrauer. Eine moraltheologische und anthropologische Untersuchung, Düsseldorf 1982.

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