Ma il malato deve o vuole sapere?

Book Cover: Ma il malato deve o vuole sapere?
Parte di Rapporto professionista-malato series:

Sandro Spinsanti

MA IL MALATO DEVE O VUOLE SAPERE?

in Toscana Medica

anno VII, n. 12, dicembre 1989, pp. 9-10

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Il diritto del paziente a giudicare da sé contrasta con la preoccupazione del medico per il suo benessere. Ma una prognosi espressa in termini probabilistici è un’informazione ugualmente parziale.

Nello sviluppo delle idee e delle leggi che hanno portato all’assetto attuale del problema “informazione” in ambito sanitario, si possono individuare cronologi-camente almeno tre fasi che si sono succedute in tempi diversi, trapassando con più o meno delicatezza l’una nell’altra. La prima fase, che ha avuto il suo culmine verso gli ultimi anni del secolo scorso, era strettamente legata ad una tradizione che spesso vedeva il medico portato in giudizio per “sottrazione di informazione”: egli cioè poteva essere accusato di negligenza, quando incidentalmente avesse omesso di fornire notizie adeguate ad un paziente che, sottoposto per esempio ad un intervento chirurgico, avesse riportato un danno non previsto. L’assoluzione in casi simili era comunque quasi sempre scontata, dal momento che il medico riusciva a dimostrare di avere agito per l’esclusivo vantaggio del soggetto ed a suo beneficio.

Questa situazione cambia radicalmente nei primi anni del nostro secolo, fino al 1920 circa, quando prende campo un importante concetto del diritto, quello dell’aggressione fisica. Sottrarre una informazione costituisce una vera e propria aggressione fisica, dal momento che il medico non può liberamente agire sul paziente per il semplice fatto che quest’ultimo gli si è completamente affidato. Compare così alla ribalta l’idea di auto-determinazione del paziente. Un giudice america-no ha scritto: “Ogni essere umano, di età adulta e di sano giudizio, ha diritto a determinare ciò che si deve fare con il suo corpo, e se dunque viene sottratta questa possibilità di decidere per il proprio corpo, di autodeterminarsi, viene leso un diritto”. L’autonomia del paziente è stata definita, forse brutalmente ma con straordinaria efficacia, da un altro magistrato statunitense come “the right to be let alone”, il diritto ad essere lasciato solo.

La terza fase è quella della dottrina vera e propria del consenso informato: perché il paziente possa dare la propria approvazione o rifiuto è necessario che gli vengano offerte tutte quelle informazioni necessarie per programmare una scelta spesso difficile. Questa linea di pensiero e di condotta ebbe grande influenza sulla classe medica soprattutto negli anni Settanta, provocando nel personale sanitario una forte volontà di tutelarsi giuridicamente, di non farsi cogliere impreparati da una legge che sembrava onnipresente in tutti i campi della scienza medica.

Si è rivelato tra l’altro estremamente difficile per i medici entrare in questa mentalità così rigidamente “legale”, lontana apparentemente mille miglia da una tradizione vecchia di secoli. Sulla scia di queste concezioni, la classe medica si è spesso servita a scopo difensivo del cosiddetto diritto alla “non informazione”, esemplificato dall'esempio seguente. In una famiglia si individua una donna anziana morta per morbo di Huntington, malattia geneticamente trasmessa che si manifesta verso i 40-50 anni con sintomatologia neuro-cerebrale e che conduce ad una morte straziante. Un nipote (20 anni di età) di questa paziente vuole sapere se è o meno portatore di questa affezione, per decidere della propria vita, se sposarsi, avere figli, coltivare speranze per il futuro. Il padre di questo ragazzo, un quarantenne, non intende invece conoscere niente, forse anche lui è un portatore del terribile morbo che lo colpirà magari tra 10 o 20 anni, però preferisce vivere senza saperlo, esercitando il suo diritto alla “non informazione”. Il medico in questa situazione paradigmatica si trova in grave imbarazzo: se rivela al figlio la sua situazione di malato, indirettamente svela la tragica verità anche al padre, inevitabile portatore del gene malato. Il diritto del soggetto a sapere o a non voler sapere condiziona quella situazione che è stata definita “fedeltà multipla del medico”, il difficile adeguamento cioe alle richieste di un paziente, talvolta come, nel caso descritto, in netto contrasto con i desideri di un altro assistito.

Il medico cerca ancora di “difendersi” dagli obblighi apparentemente rigidissimi della legislazione con un processo mentale che conduce ad una deformazione dei dati oggettivi: egli tende cioè ad attribuire al malato la volontà di non sapere in misura molto maggiore di quanto in realtà avvenga. In una ricerca condotta negli Stati Uniti è stato chiesto ad un numero di medici statisticamente significativo

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quanto tempo, secondo loro, avevano dedicato all'informazione di pazienti le cui visite erano state registrate su nastro. Il risultato è stato sorprendente: i sanitari stimavano il tempo impiegato per dare spiegazioni ai pazienti in media nove volte maggiore di quanto avvenuto in realtà.

Nella psicologia della comunicazione tra chi offre le cure e chi le riceve si creano delle sequenze interminabili che non risultano certamente utili per un sereno e costruttivo dialogo. I medici dicono: “i pazienti non vogliono sapere”; questi ultimi ribattono “noi non domandiamo perché i medici non vogliono dire”. Si arriva così alla chiusura di un cerchio che spersonalizza ed inaridisce il rapporto sanitario/oggetto delle cure.

Queste catene infinite, a livello di comportamento, traducono il rifiuto ad entrare dentro la logica, secondo la legge apparentemente semplice, del “dovere informare”. I medici avvertono quasi la violazione di un concetto tradizionale della propria professione, identificato dall’etica come “principio di beneficialità”, il ricercare cioè sempre e comunque il bene per l’assistito, compreso quindi l’eventuale sottrazione di informazioni che potrebbero nuocere al suo stato psico-fisico.

Il moderno principio dell’autonomia del malato entra talvolta in rotta di collisione con i tentativi di “beneficialità” attuati dal medico e proprio in questo strappo con la tradizione si possono ricercare le cause per la deformazione di quello che, percettivamente, si è intuito e vissuto nel secolo come rapporto fondamentale tra medico e paziente.

La medicina di ieri, senza risalire troppo addietro nel tempo, era basata su una logica determinista e causale: una certa malattia è provocata da un determinato agente sociologico, con segni e sintomi più o meno chiari, la terapia richiesta dallo stato morboso è strettamente legata alla sua patogenesi e la prognosi dipende dalla giustezza o meno delle cure messe in atto in quel determinato soggetto.

Oggi la logica predominante in medicina è invece quella statistica e probabilistica. Quando noi diciamo la verità ad un paziente gli forniamo una diagnosi di incertezza, una nuvola di probabilità diagnostiche, prognostiche e terapeutiche: l’ipertensione arteriosa, ad esempio, non ha una causa unica, probabilmente non è neppure una specie morbosa ben definita, ma soltanto un sintomo e la sua prognosi viene attualmente valutata in termini strettamente statistici, usando il calcolo delle probabilità per definire le situazioni a rischio, le complicanze e la mortalità provocata da questa affezione. Si presenta a questo punto il problema di quale verità dire al paziente, dal momento che secondo le moderne concezioni, molteplici aspetti vanno tenuti presenti nella gestione di una qualsiasi condizione patologica. Non possiamo assicurare al paziente che egli morirà entro 3 o 9 o 17 giorni, ma neppure diamo una informazione di qualche utilità se gli diciamo che ha il 50% di possibilità di vivere altri 2 anni; siamo cioè in condizioni di potere fornire dati che in fondo ad un ammalato non servono più di tanto, costruiamo una verità piuttosto che dirla.

Abbandonare psicologicamente un paziente inguaribile al quale abbiamo descritto con precisione la gravità della sua condizione clinica si rivela una deformazione grave del principio di autonomia espresso sopra: l’autonomia di un paziente condannato a morire è relazionale, non comporta il diritto “ad essere lasciato solo”, semmai quello opposto di essere accompagnato da chiunque possa stargli vicino, medico compreso, nei momenti estremi della vita.