- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
IL SEGRETO NEL RAPPORTO CON IL PAZIENTE SIEROPOSITIVO E AIDS CONCLAMATO: CRITERI ETICI DI ORIENTAMENTO
in L'AIDS e i suoi messaggi. Dalla conoscenza alla sanità, a cura di Antonietta Cargnel
Edizioni Unicopli, Milano 1997
pp. 121-131
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L'epidemia infettiva dell'AIDS ci ha costretto socialmente a cambiare alcuni comportamenti, a seguito dell'acquisita consapevolezza del pericolo costituito da alcuni liquidi vitali. In senso molto generale, la crisi innescata da questa consapevolezza è analoga a quella che ha portato, verso la fine del secolo scorso, la scoperta che l'acqua ― proprio "le chiare, fresche, dolci acque''...― era il veicolo di epidemie. Di colpo, dopo l'acquisizione del pericolo potenziale insito nell'acqua, tutti i comportamenti igienici, per quanto di durata secolare, dovevano essere rimessi in discussione. Si è imparato a distinguere l'acqua potabile da quella che non lo era. Oggi sarebbe un comportamento inammissibile bere una qualsiasi acqua, senza essersi prima assicurati che sia batteriologicamente innocua.
Sul finire del nostro secolo, la rimessa in discussione tocca ai nostri comportamenti che si riferiscono a liquidi corporei di vitale importanza: il sangue, lo sperma e i liquidi vaginali. In quanto potenziali veicoli dell'infezione da HIV, questi liquidi, di alto valore simbolico e correlati con comportamenti di grande spessore antropologico ― il dono del sangue, i rapporti sessuali e quella specie di comunione che si instaura tra i tossicodipendenti che usano la stessa siringa (qualunque sia il valore sociale e morale che vogliamo attribuire al gesto) ―, vanno maneggiati con una circospezione che non era richiesta in passato.
Ci stiamo rendendo conto di quanto sia difficile introdurre nei comportamenti quotidiani quelle misure di prevenzione che nessuno osa mettere in discussione dal punto di vista teorico. In ambito sanitario, per esempio, è consigliato assumere verso tutti i pazienti delle misure cautelative nelle procedure che portano a contatto con i liquidi vitali e sono perciò possibile veicolo di
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contagio (le cosiddette precauzioni universali, previste dalla legge n. 135 del 1990, che tutti gli operatori sanitari devono usare routinariamente come misure di barriera, nei casi in cui si preveda un contatto accidentale con il sangue o con altri liquidi biologici di tutti i pazienti). I comportamenti prudenziali, per quanto razionalmente condivisi, non sono ancora diventati routine (i sanitari oscillano tra una disinvoltura incosciente ― quanti prelievi di sangue fatti ancora senza la minima precauzione ― e un eccesso di misure protettive, come quando si presentano bardati da astronauti al letto dei malati di AIDS...).
Ancor più lontana dall'attuazione è la modifica di comportamenti nell'ambito della sessualità. Ancora molti ― troppi ― rischiamo il contagio con rapporti sessuali non protetti proprio in una fase in cui l’epidemia è sconfinata dai gruppi a rischio all'insieme della popolazione e viaggia attraverso gli eterosessuali non altamente promiscui (due-tre partner sessuali). La strada da percorrere, tuttavia, è obbligatoria: non potremo più accostarci disinvoltamente al sesso e al sangue, così come in precedenza abbiamo dovuto interiorizzare una perdita di innocenza nei confronti dell'acqua.
Una questione ancora più delicata riguarda quei comportamenti prescritti e socialmente condivisi che corrispondono alla etica medica: l'epidemia dell’AIDS ci costringerà a cambiare anche l'etica medica? Sarebbe fuori luogo enfatizzare l'etica medica, presentandola come un codice di comportamento monolitico, destinato a passare inalterato attraverso i secoli, prescrivendo a tutti i sanitari, di qualsiasi cultura e latitudine, gli stessi atteggiamenti nei confronti dei malati. Abbiamo a che fare, piuttosto, con norme di diverso peso e importanza che, alla prova dei fatti, dimostrano la loro tenuta nel tempo o la loro caducità.
Alcune sono uscite inalterate, anzi piuttosto rafforzate, dal loro incontro con questa nuova malattia infettiva. È il caso, in particolare, dell'obbligo del sanitario di prestare la propria opera dando la priorità al beneficio del malato (il principio di “beneficenze", teorizzato dalla bioetica anglosassone), piuttosto che alla propria autotutela. All'inizio del contagio si sono avute notizie ― sporadiche, per la verità, ma non per questo meno allarmanti ― di medici e infermieri che, sotto la spinta emotiva delle "demonizzazioni" a cui la malattia è stata soggetta nella opinione pubblica e delle inesatte informazioni allarmistiche
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diffuse in una prima fase sui pericoli di contagio, si sono rifiutati di presentare le cure sanitarie a persone affette da AIDS o sieropositive. Di fronte al pericolo di smantellamento di uno dei capisaldi dell’etica medica tradizionale, gli organismi professionali hanno reagito richiamando gli obblighi morali che vincolano a dare la priorità al bene del paziente. Si tratta delle regole tradizionali, che i medici hanno già stabilito quando peste e vaiolo facevano strage. Valga, a titolo di esempio, l’elencazione delle norme deontologiche ribadite dal Consiglio dell’Ordine dei medici in Francia, già nel marzo 1987. Secondo tali norme, in caso di AIDS i medici sono tenuti a
curare con la stessa coscienziosità e lo stesso rispetto ogni malato, qualunque siano le sue condizioni, la sua reputazione e i sentimenti che ispira: la quantità delle cure non può dipendere dall’amore del medico e dalle sue simpatie; rispettare e far rispettare le misure igieniche e profilattiche attualmente stabilite per il personale curante: questo non deve, a causa di negligenze, correre un rischio aggravato di contagio.
Senza incertezze, viene ribadito il punto cardine del rapporto professionale in sanità: il bisogno del malato rappresenta una domanda a cui medico e infermiere non si possono sottrarre, neppure se le attività di cura rappresentano un rischio personale.
Su altri punti del comportamento professionale del medico si sono abbandonate senza esitazioni le norme tradizionali. Così è avvenuto rispetto alla comunicazione della diagnosi al malato. Fino ad un recente passato, il sottrarre la verità al malato, quando questa era per lui traumatica o infausta, era considerato non solo legittimo, ma doveroso. In questo senso si esprimeva la Corte d'Appello di Milano in una sentenza del 16 ottobre 1964, a proposito di una causa in cui l'informazione prima di una operazione chirurgica a rischio era stata data ai familiari, e non alla persona interessata:
Risponde ai criteri di ragionevolità che devono caratterizzare la valutazione dei fatti umani oltre l'astrattezza e il formalismo delle norme, che il chirurgo taccia al malato la gravità del suo male e il rischio che un'operazione comporta, criterio sanzionato da una prassi tramandata a noi da tempi antichissimi e consacrata nei principi deontologici secondo cui il celare all'ammalato la nuda verità è precipuo dovere, forse il più nobile, del medico cui spetta di vagliare ciò che il paziente debba sapere e quanto debba essergli nascosto |per un inquadramento della sentenza nel contesto dello sviluppo
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storico dell'informazione medica al malato nel contesto italiano, cfr. Spinsanti, Pappalepore, 1995, pp. 62-67).
Basta pensare alla prassi diffusa nei confronti di malattie oncologiche per rendersi conto di quanto questo orientamento guidi ancora l’operato dei medici.
Ma nell'ambito dell'infezione da HIV non si è dubitato neppure un istante che, per quanto traumatica e infausta l'informazione possa essere per il malato, questa gli è dovuta. Ed è dovuta a lui, e a nessun altro. Più che la prospettiva dei diritti civili e la accettazione del nuovo modello di rapporto che si ispira al consenso informato, in questo caso ha influito la necessità di responsabilizzare il portatore del virus infettivo, affinché assuma i comportamenti adeguati per evitare di propagare il contagio.
Qualunque sia la motivazione, resta il fatto che "una prassi tramandata a noi da tempi antichissimi e consacrata nei principi deontologici" ― come si esprimeva enfaticamente il Tribunale di Milano ― non è stata neppure presa in considerazione nel caso dell’AIDS. Ha avuto luogo un superamento della menzogna ― o bugia pietosa, o restrizione mentale, comunque la si voglia concettualizzare ― quale comportamento atteso dal medico. Dare false rassicurazioni sarebbe gravemente scorretto dal punto di vista etico (oltre che probabilmente perseguibile da quello penale).
Possiamo a questo punto chiederci come si situi il capitolo tradizionale dell’etica medica relativo al segreto professionale: fa parte dei comportamenti che hanno superato indenni la crisi dell'AIDS o di quelli che vanno rimessi in discussione? Alcuni elementi del quadro sociale contribuiscono a rendere più acuta la problematica del segreto connesso con l'infezione da HIV. Si stanno diffondendo notizie allarmistiche su soggetti recalcitranti a ogni misura di autocontrollo, i quali costituiscono quindi una minaccia per la salute pubblica.
Forse alcune di queste notizie possono essere messe sul conto delle "leggende metropolitane”, come quella che ― in contesti diversi ― parla di un uomo o di una donna infettati che, per spirito di vendetta, hanno deliberatamente rapporti sessuali con molte persone, al fine di trascinare il più gran numero con sé nella rovina (è diventato classico il racconto dell'uomo che, dopo un incontro occasionale, trova scritto al mattino sullo specchio del bagno: "Benvenuto nel mondo dell’AIDS”...). Anche
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se è prudente fare la tara a questi racconti, non si può negare che diversi operatori ― medici, psicologi, assistenti di comunità ― conoscono casi, che fanno parte della propria esperienza professionale, di persone sieropositive che rifiutano di informare il coniuge o partner e proibiscono al sanitario di farlo. Situazioni di questo genere creano conflitti morali estremi nei sanitari, che si sentono complici di fatto di un grave danno inferto a degli innocenti.
Alcune delle spinte a rimettere in discussione il vincolo del segreto professionale vengono da interessi di terze parti, come le assicurazioni o i datori di lavoro, che vorrebbero conoscere la condizione sierologica delle persone per fini diversi da quelli del medico. La normativa italiana ha ritenuto opportuno ribadire, anche nel caso di malati di AIDS, il vincolo del segreto professionale. Ma l’etica non può limitare il suo sapere argomentato alle norme giuridiche: deve trovare nell’ambito dei valori quanto serve a motivare i comportamenti. Ora, proprio la tutela del segreto medico illustra il conflitto insanabile tra valori contrapposti che si può instaurare in alcune situazioni.
Un esempio da manuale è costituito dal "caso Tarasoff", molto discusso nell'ambito della bioetica americana (cfr. Veatch, 1981, pp. 108 sgg.). Il caso si è creato quando la famiglia di Tatiana Tarasoff ha denunciato lo psichiatra che aveva in cura l'ex-fidanzato della ragazza, un giovane con evidenti disturbi psichici, che aveva minacciato di uccidere la ragazza, responsabile di aver rotto il fidanzamento, una volta che lei fosse tornata da un viaggio. Lo psichiatra aveva sollecitato il ricovero del suo paziente in una casa di cura, dalla quale tuttavia era stato ben presto dimesso. Ritenendosi vincolato dal segreto, non aveva avvertito delle minacce né la polizia, né la famiglia. Purtroppo il suo paziente aveva dato seguito ai suoi propositi uccidendo Tatiana.
Dagli atti processuali risulta che la giuria si divise in due posizioni contrapposte. Una parte considerava lo psichiatra colpevole di negligenza professionale, argomentando che il terapeuta ― come qualsiasi altro cittadino ― è tenuto a proteggere la vita di una persona in pericolo. Il diritto di tutela della confidenzialità (privacy) è scavalcata dal pubblico interesse per la sicurezza dall’aggressione violenta.
La posizione sostenuta da coloro che nella giuria approvavano il comportamento dello psichiatra considerava altri valori:
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non soltanto i diritti del paziente, ma il bene stesso della comunità. Mantenendo le regole della confidenzialità, lo psichiatra ha contribuito al bene pubblico, in quanto tali norme deontologiche sono finalizzate proprio a creare un clima di fiducia nei confronti del sanitario, così che molte persone in difficoltà si sentano incoraggiate a ricorrere al suo aiuto professionale. Se il paziente psichiatrico non fosse sicuro che il terapeuta manterrà il segreto, sarebbe dissuaso dal ricercarlo. D'altra parte, la maggioranza di coloro che minacciano omicidi è innocua; se tutti costoro venissero internati con un trattamento psichiatrico obbligatorio, non potrebbero beneficiare dell'aiuto psichiatrico.
Si deve riconoscere che, con tutte le differenze, il caso Tarasoff porta un contributo rilevante all'inquadramento della problematica del segreto nei rapporti con i malati di AIDS. Emerge la natura pro-sociale, e non solo individualistica, del segreto medico. A chi ritiene che il segreto in medicina sia inflazionato, avendo assunto l’aura sacrale del segreto religioso della confessione ― cfr. Muller, Belavoine, 1991 ― si può contrapporre la natura essenzialmente utilitaristica del vincolo posto al sanitario. Esso è sorto ben prima che in medicina si annunciasse quella "rivoluzione liberale" che ha portato anche nell'ambito delle cure mediche la rivendicazione dei diritti personali (cfr. Gracia, 1993, p. 174). Il segreto professionale è nato dalla convinzione che non c'è medicina senza fiducia, non c'è fiducia senza confidenza, non c’è confidenza senza segreto.
Che cosa fare quando il segreto diventa intollerabile pesante da portare, come nelle situazioni in cui la volontà della persona contagiata di non informare i propri intimi mette questi ultimi pesantemente a rischio? L'aneddotica in merito è molto ricca. Si pensi al caso di un medico che conosce la sieropositività di un proprio paziente e sa che la ex-moglie di questi, ora separata, ha contratto un nuovo matrimonio e vuole generare un figlio. È moralmente tollerabile il vincolo del segreto anche in situazioni così estreme, dove il silenzio si traduce in una pratica complicità a danno di innocenti? Il segreto ha un carattere assoluto, oppure il suo mantenimento dipende da una valutazione di opportunità da parte dell'operatore? Ma se il segreto è lasciato alla sua discrezione, è ancora un segreto?
Coloro che si orientano secondo la bioetica standard sviluppata nell'ambito cultuale anglosassone ― la bioetica dei
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quattro principi, elaborata originariamente da Beauchamp e Childress e diventata un punto di riferimento molto diffuso: Beauchamp, e Childress, 1979 ― cercheranno una guida nel risolvere conflitti di questo genere nell'impegno morale a rispettare, prima facie, l'autonomia delle persone, la beneficità, la non-maleficità e la giustizia. Tali principi tuttavia, pur fornendo un quadro analitico generale e un linguaggio morale comune in una società pluralista, non sono traducibili in regole facilmente operative. Prima facie ― un termine introdotto dal filosofo inglese W.D. Ross ― significa che il principio è vincolante, a meno che non entri in conflitto con un altro principio morale; se ciò avviene, dobbiamo scegliere fra di essi.
L'approccio dei quattro principi non fornisce un metodo per scegliere. Ciò è fonte di insoddisfazione per coloro che suppongono che l'etica consista in un insieme di regole prescritte e che, una volta fornita l'informazione rilevante, un algoritmo o un computer forniranno la risposta. A questa immagine Raanon Gillon, pur proponendo un’etica medica basata sui quattro principi, preferisce sostituire quella del giocoliere. Quando dobbiamo conciliare principi opposti, siamo simili a un giocoliere che tenta di tenere molte palle in movimento. Come il giocoliere, dobbiamo fare il nostro meglio per migliorare la nostra abilità, che consiste nel far piroettare per aria il maggior numero di palle per il maggior tempo possibile, evitando che qualcuna cada per terra (Gillon, 1994). Sappiamo tuttavia che qualcuna inevitabilmente ci sfuggirà (e che gli spettatori circostanti additeranno quella caduta, non tutte le altra che continuano a rimanere in aria...).
Un approccio diverso è quello che troviamo in Malherbe, più in sintonia con la tradizione etica del continente europeo, dove l'etica ha prioritariamente una funzione critica e antiideologica. Nell'opera Il cittadino, il medico e l'AIDS, la crisi provocata dal diffondersi dell’epidemia viene messa in rapporto con tre ambiti: quello delle relazioni interpersonali, quello dell'etica medica e infine con la crisi sociale del soggetto contemporaneo, per l’irruzione dell'AIDS nel suo spazio simbolico. Per quanto riguarda la crisi dell'etica medica, Malherbe appunta le sue osservazioni critiche soprattutto sull'individualismo che caratterizza l’etica medica tradizionale, la quale non ha sviluppato un giusto bilanciamento tra i diritti dell’individuo e il bene pubblico. A suo avviso, la confidenzialità e la solidarietà pubblica
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appaiono come due pilastri di uno stesso imperativo etico, in un ripensamento dell'etica della comunicazione.
Anche le indicazioni di Malherbe, tuttavia, si rivelano poco conclusive quando si tratta di aiutare l'operatore sanitario a uscire dal conflitto nel caso specifico di un'informazione confidenziale, che porterebbe beneficio a una terza persona. Riportiamo il suo testo più esplicito al proposito:
Il problema più delicato è di sapere cosa fare quando il paziente rifiuta che venga informata una terza persona legittimamente interessata. In linea di principio il medico non deve scavalcare la volontà del paziente. Per quanto riguarda le istituzioni, la cosa non fa eccezione. Per quanto riguarda le persone, non si può escludere che il medico sia preso da un conflitto di doveri e che, dopo aver fatto ricorso a tutta la sua capacità di persuasione, ritenga di dover scegliere il comportamento che implichi le conseguenze meno dannose. Ci sembra tuttavia che queste conseguenze debbano essere rigorosamente soppesate prima di prendere una decisione. Difatti, un medico che sia a conoscenza di un grave rischio a proposito del quale è interrogato da una persona che possa addurre un interesse legittimo (cioè in questo caso una persona che corra il rischio a causa dei suoi rapporti con il paziente sieropositivo), malgrado il suo dovere di proteggere questa persona, non ha il diritto di comunicarle un’informazione ottenuta sotto il vincolo del segreto e che la fiducia del suo primo paziente gli impone di mantenere riservata. Certamente, il medico così preso tra l'incudine e il martello dei suoi due doveri contraddittori si troverà in una situazione molto scomoda. Ma questo non l'autorizza a sacrificare un principio essenziale della democrazia a favore dell'interesse del suo secondo paziente né, a maggior ragione, per sua comodità personale. Ma prima di optare per il male minore, farà il possibile per persuadere il suo primo paziente a informare il suo partner (Malherbe, 1991, pp. 86 sgg.).
L'indicazione di privilegiare il dialogo sulla coercizione e la persuasione sulla denuncia è facilmente condivisibile. Rimane tuttavia difficile vedere in quale concreta direzione orienti la scelta del male minore.
Una indicazione più precisa ci è offerta dall'approccio alla bioetica dei princìpi proposto da Diego Gracia. Secondo lo studioso spagnolo, i quattro principi individuati dalla riflessione anglosassone ― non-maleficità ("Primum non nocere”), beneficità, autonomia e giustizia ― configurano obblighi diversi del sanitario nei confronti del paziente. Il primo dovere, assolutamente fondamentale, è quello di non recare detrimento al malato. La scuola ippocratica l'ha formulato come "Primum non nocere”. La non-maleficità ha a che vedere con il principio generale che tutti gli esseri umani devono essere trattati con
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uguale considerazione e rispetto. Per questo non dipende direttamente dalla volontà delle persone. Non possiamo fare del male a qualcuno, neanche se è lui stesso che ce lo chiede! Anche il principio della giustizia obbliga allo stesso modo. Sul piano sociale si commette un'ingiustizia quando le persone non vengono trattate con uguale considerazione e rispetto, qualunque siano le loro preferenze soggettive.
Se non è lecito fare del male a qualcuno o trattarlo ingiustamente, indipendentemente dalla sua volontà, lo stesso non può dirsi riguardo all'obbligo morale di fare il suo bene (principio di beneficità). Il bene va sempre riferito alla situazione concreta di una persona, a ciò che nella sua valutazione corrisponde a un valore: non si può fare del bene a un altro contro la sua volontà, benché siamo obbligati a non fargli del male anche se, per assurdo lo desiderasse. La beneficità dipende sempre dal sistema di valori che è proprio di una persona e ha perciò un carattere più soggettivo che oggettivo. L'autonomia della persona è il limite invalicabile posto alla tutela di questo bene.
Nel sistema bioetico di Diego Gracia i quattro principi vengono così posti su due livelli gerarchici: uno più fondamentale dove l’azione è diretta dai principi di non-maleficità e di giustizia, e un altro, che potremmo chiamare di secondo livello, ispirato alla beneficità e controllato dalla autonomia dell'individuo. Il primo corrisponde all'etica del minimo, alla quale siamo obbligati per forza superiore, mentre il secondo ― letica del massimo ― dipende dal sistema di valori personale, dagli ideali di perfezione e felicità che abbiamo fatto nostri. Una è l'etica del dovere, l'altra è l'etica della felicità.
Il sistema è stato sviluppato da Gracia per rispondere a problemi molto generali posti dall’etica medica della nostra società. Esso tuttavia svolge un utile funzione di orientamento anche nei confronti del problema contingente ― il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo ― di cui ci stiamo occupando. Quando il paziente fosse indotto a dare la preferenza ai propri interessi, formulati in modo da accaparrarsi il beneficio delle cure mediche, ma vincolando il sanitario al segreto, per non recare detrimento all'immagine che il .malato stesso ha in seno alla famiglia o al gruppo sociale, non può invocare a tutela delle sue scelte il principio di autonomia.
Qualora l'autodeterminazione confligga con i principi di non-maleficità e di giustizia, deve cedere a questi che si collocano a
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un livello gerarchico più fondamentale. In altre parole, il sanitario non deve temere se, facendo entrare nella costruzione storica dell'etica medica il principio dell'autonomia personale, il suo ruolo sia derubricato a quello di mero esecutore della volontà del paziente. Al contrario, il sanitario può e deve attestarsi nella difesa del minimo morale, che corrisponde ai comportamenti che si misurano con i principi di non-maleficità (in questo caso il detrimento alla salute, anzi alla vita stessa di persone esposte inconsapevolmente ai comportamenti di sieropositivi irresponsabili e di giustizia (tutti meritano uguale considerazione e rispetto: non solo il paziente tutelato dal segreto medico, ma anche le persone che si collocano al di fuori dell’alleanza terapeutica).
Possiamo rendere visivamente più perspicua questa impostazione immaginando che tra la regolamentazione del comportamento medico propria della lunga stagione dell'etica medica e quella nata con l'emergere della bioetica ― la prima quale espressione del paternalismo medico, la seconda prodotta dall'ingresso in medicina dai valori dell’autodeterminazione delle persone, che sono propri dell'epoca moderna ― si crei un campo di tensioni feconde, che sono oggetto di una continua contrattazione. L’etica medica, guidata dall'ideale che consiste nel procurare il maggior beneficio possibile al paziente, non aveva altro vincolo che ciò che il medico (in scienza e coscienza) riteneva benefico per il malato. Con la bioetica lo scenario della relazione terapeutica si è modificato. Sono entrate a pieno diritto le preferenze del paziente, che fanno riferimento al suo universo morale, ai suoi valori e al suo modo di intendere la vita.
Ciò non vuol dire che ci muoviamo sempre a grandi altezze... Come dimostrano i casi che suscitano tanta perplessità morale nei sanitari, i valori di pazienti che preferiscono mettere a repentaglio la vita del proprio coniuge piuttosto che compromettere la propria rispettabilità, si collocano ben al di sotto dei valori minimi della decenza morale. Ma proprio questa complessità, dovuta all’irrompere in medicina degli universi morali soggettivi, porta a valorizzare la partecipazione attiva della coscienza morale del sanitario. Tra chi offre cure e assistenza ― medico, infermiere, psicologo, assistente sociale ― e chi ne beneficia si apre uno spazio di contrattazione. La soggettività del paziente con i suoi valori e disvalori attiva la soggettività
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del sanitario. Questi può far valere le proprie condizioni per prestare assistenza, senza che ciò possa essere qualificato come un'espressione di arroganza che deriva dal potere. La difesa dell’etica del minimo, al di sotto della quale si diventa complici della sopraffazione, può essere una delle condizioni per accettare l'alleanza terapeutica con il malato.
BIBLIOGRAFIA
Beauchamp T., Childress J., Principles of biomedical ethics, Oxford University Press, New Jork-Oxford 1979.
Gillon R., "Medical ethics: four principles plus attention to scope", British Medical Journal, 309, 1994, pp. 184-188.
Gracia D., Fondamenti di bioetica, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993.
Malherbe J.-F., Zorilla S. Spinsanti., Il cittadino, il medico e l'AIDS, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1991.
Muller D. Balavoine J.-F., SIDA: le secret médical menacé, Folia Bioethica, Genève 1991
Spinsanti S., Pappalepore V., Dall'educazione sanitaria al consenso informato, Mediamix, Milano 1996.
Veatch R., A theory of medical ethics, Basic Books, New York 1981.