- L'antropologia medica di Viktor v. Weizsäcker
- Guarire «tutto» l'uomo
- Come si diventa bioeticisti: il cammino di una professione discussa
- L'etica per una medicina umana
- Die Medizinische anthropologie
- Curare e prendersi cura
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- L'occhio clinico e l'occhio dell'artista
- Medical Humanities
- Sotto il segno di Giano
- L’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker: conseguenze etiche
- Verso una medicina antropologica
- La riflessione antropologica in medicina
- Per una medicina più umana
- L'educazione alla salute come sfida per una medicina umanistica
- La formazione in bioetica come emergenza
- La formazione etica del medico 1
- La formazione etica del medico 2
- Servizio di bioetica: che cos'è?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Formarsi alla nuova sanità
- Guaritori da guarire
- Se la cura è di genere femminile
- Bioetica e formazione permanente del personale sanitario
- Interessi plurali, interessi in conflitto nella pratica clinica
- Conflitto di interessi
- L'alleanza terapeutica
- Chi ha potere sul mio corpo?
- Curare e prendersi cura
- Il medico e il paziente, una relazione complessa
- Le mani sulla vita
- Come riconoscere il medico giusto
- Cambiamenti nella relazione tra medico e paziente
- L'educazione come terapia
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- Narrative based medicine
- We have a dream
- L'ascolto che guarisce
- La comunicazione medico-paziente
- La gestione dei conflitti in ambito sanitario
- Ripensare la cura nel contesto di una società conflittuale
- La necessità di porre limiti alla medicina
- Parlare o tacere?
- Il rapporto medico-paziente
- Il recupero del soggetto
- Etica della vita e intervento sanitario
- Elogio della indecisione
- Comunicare e informare: quale empowerment per il cittadino?
- L'ascolto che guarisce: conclusioni
- Dignità del malato e dignità del medico
- Aspetti etici della relazione medico-paziente
- La decisione cardiochirurgica: aspetti etici
- Il segreto nel rapporto con il paziente sieropositivo
- Il rapporto medico-paziente: modello in transizione
- La formazione culturale del curante
- Le professioni della salute si incontrano
- Le separazioni nella vita
- Quando inizia l'accanimento diagnostico e terapeutico?
- L'accanimento diagnostico e terapeutico
- La persona è al centro della comunicazione
- Il medico impari a non «scomunicare»
- Ma il malato deve o vuole sapere?
- Il dottor Knock si aggiorna
- Il tempo come cura
- A una donna come me
- La difficile virtù di saper ascoltare
- Dottore, ma l'operazione s'ha proprio da fare?
Sandro Spinsanti
«DOTTORE, STO MALE» - «MI RACCONTI»
in Bioetica e formazione nell'epoca dei social media. Esperienze in ambito scolastico e sanitario, a cura di Walter Bernardi, Stefano Miniati
FancoAngeli, Milano 2014
pp. 73-78
73
«La mia storia si è rotta: mi aiuta a ripararla?»
Maria Cristina Koch
Sei seduto davanti al medico. Quella visita di cui senti di avere tanto bisogno sta incominciando. «Dottore, sto male». È la tua prima mossa nella singolare partita a scacchi che stai giocando contro la tua malattia. Quale è la seconda mossa? Il medico può cominciare col il misurarti la febbre. Oppure prenderti la pressione («150-100: piuttosto alta!»). O può procedere a un prelievo di sangue per misurare quei parametri che lui ritiene rilevanti (saresti felice di una risposta rassicurante: «I valori sono a posto»). Insomma, il medico CONTA, misura. Perché così procede oggi la medicina scientifica.
Non hai certo motivo di lamentarti del tuo medico: se attraverso le analisi che ti prescrive arriva a diagnosticare la malattia e a prescriverti il trattamento opportuno (ancora numeri: «10 gocce prima dei pasti»; «Una pasticca mattina e sera per 8 giorni»...) che ti rimette in salute, puoi dire che sei capitato nelle mani giuste. Eppure... Commentando la visita, può esserti capitato di osservare: «Sì, è un dottore bravo. Ma non ti lascia parlare». Sei un po’ deluso, perché la mossa del medico te l’aspettavi un po’ diversa. Dopo la tua dichiarazione di sentirti male, avresti gradito che lui ti avesse rivolto l’invito: «Mi racconti». Perché per il medico è importante il contare (procederebbe al buio, a tentoni, se non lo facesse), ma per te è importante il raccontare.
È questo il pilastro centrale della «medicina basata sulla narrazione». Permettere al paziente che va a chiedere aiuto al medico di parlare del suo male ― i sintomi che avverte, ma anche le emozioni che li accompagnano: fantasie, timori, attese... ― non è solo un atto di cortesia da parte del curante. Sì, certo: anche questo. Perché è umiliante per una persona sentirsi considerato solo come il portatore di
74
una malattia, verso la quale si dirige tutta l’attenzione del medico. È l’atteggiamento reso popolare dal Dottor House, protagonista della serie televisiva. Senza imbarazzo, dichiara: «Sono diventato medico per curare le malattie, non i malati». Ama porre ai pazienti il dilemma: «Preferiresti un medico compassionevole che ti tiene la mano e ti lascia morire, o uno che ti tratta male, ma ti salva la vita?». È un falso dilemma, caro Dottor House: vorrei avere un medico che ce la mette tutta per salvarmi la vita e nel far questo mi tratta come una persona!
Ma la narrazione da parte del malato va al di là di un tratto di urbanità: è lo strumento principe dell’arte della diagnosi. Purtroppo è un’arte che va scomparendo, afferma autorevolmente Lisa Sanders, medico internista dell’università americana di Yale. Lo argomenta nel libro: Ogni paziente racconta la sua storia. L’arte della diagnosi (Einaudi, 2009). Lamenta il progressivo abbandono dell’esame obiettivo: ci si affida sempre più alla tecnologia per ottenere risposte. Invece, «l’esame obiettivo può guidare il medico nel suo ragionamento e ridurre la scelta dei test a quelli che hanno maggiori probabilità di fornire risposte utili, risparmiando tempo e denaro e a volte salvando delle vite».
Al medico si chiede di guardare il paziente, di toccarlo, di ascoltarlo: la medicina è scienza dei sensi. L’ascolto del paziente ha appunto una valenza diagnostica, oltre che umanitaria. Ancora Lisa Sanders: «Nelle facoltà di medicina si ripete continuamente ai futuri medici che se ascolteranno il paziente, questi dirà loro che cos’ha».
Ma soprattutto la narrazione è la porta di accesso al mondo interiore di ciascuna persona. La strumentazione diagnostica e gli esami di Laboratorio permettono di entrare, sempre più in profondità, nella struttura materiale del corpo. Questo arsenale è una risorsa preziosa messa a disposizione dalla scienza moderna e alla quale nessun paziente sensato è disposto a rinunciare. Ma per conoscere ciò che rende la persona unica anche la medicina dei nostri giorni non ha altro strumento che quello che aveva la medicina di ieri e di sempre: sollecitare il malato a raccontare la sua storia e disporsi ad ascoltarla. Da questo punto di vista, il medico contemporaneo è nella stessa situazione in cui si trovava chi si dedicava alla cura al tempo di Ippocrate (V secolo a.C.). E il medico, da parte sua, in quell’epoca remota si trovava nella stessa condizione dello storico.
75
Merita conto fare apparentemente una deviazione da ciò che ci sta a cuore ― capire il ruolo che ha la narrazione in medicina ― per lasciarci affascinare da una vicenda biografica singolare: l’apprendistato professionale del grande giornalista Ryszard Kapuscinski. Lui stesso l’ha ripercorso nel libro autobiografico: In viaggio con Erodoto (Feltrinelli, 2005). Appena laureato, senza mezzi economici e senza appoggi, parte dalla natia Polonia isolata dell’epoca comunista per fare il corrispondente nelle più diverse realtà geopolitiche, di cui non conosce niente, né la lingua né la cultura: prima in India, poi in Cina e a seguire l’Africa, l’America Latina... Come far fronte al caos, sia nel microcosmo dei vissuti umani, sia nel macrocosmo delle vicende storiche?
Dalla caporedattrice del suo giornale riceve come viatico un libro: le Storie di Erodoto, che diventa il suo unico compagno di viaggio. Non è una coincidenza. Anche Erodoto si è trovato, nel V sec. a.C., in una situazione analoga. Voleva capire e raccontare il grande scontro che aveva contrapposto Greci e Persiani. Diffidando delle spiegazioni mitologiche che circolavano, adotta un metodo diverso: quello della historìe. In greco la parola significa «ricerca» (i 9 libri che pubblicherà si chiameranno Historiai, propriamente «inchieste, ricerche», piuttosto che Storie, come traduciamo con approssimazione fuorviante). Il metodo comporta il mettersi in viaggio, raccogliere dati, confrontarli ed esporli, domandare e ascoltare i racconti, con tutte le necessarie riserve per le storie riferite da altri. Senza carte geografiche, senza libri: la conoscenza acquista la forma di narrazioni comparate. Ciò ha permesso a Erodoto di viaggiare per tutto il mondo antico, scoprendo e accettando la pluralità culturale del mondo. È diventato così il fondatore della storia come disciplina, così come la concepiamo anche oggi.
Annota Kapuscinski:
Nel mondo di Erodoto l’unico (o quasi unico) depositario della memoria è l’uomo. Se si vuole conoscere ciò che è stato memorizzato, bisogna consultare l’uomo. Se quest’uomo vive lontano dobbiamo metterci in cammino, raggiungerlo e, una volta trovato, sederci ad ascoltare ciò che ha da dirci. Ascoltare, memorizzare, magari annotare. Erodoto, quindi, viaggia per il mondo, incontra altri uomini e ascolta quello che hanno da dirgli. Raccontano chi sono, narrano la propria storia [...]. La conoscenza assume la forma di racconti.
76
Non è senza significato che nello stesso periodo storico andava prendendo forma la historìe come strumento per la techné medica, proposta dalla scuola di Ippocrate. Il metodo della historìe è centrale anche nella scienza che si avventura nel caos della malattia. Anche il medico rinuncia alle spiegazione mitologiche e soprannaturalistiche (vedi il trattato ippocratico Sul male sacro, con lo scetticismo verso le spiegazioni di ordine magico-religioso nei confronti del «male sacro», ovvero l’epilessia), si affida all’indagine e sollecita il racconto. Perché, appunto, «ogni paziente racconta la sua storia»...
Non è una semplice coincidenza che nello stesso grandioso V secolo a.C. siano nate contemporaneamente in Grecia sia la storia che la medicina. Soprattutto se consideriamo che tutt’e due, con le loro enormi differenze, procedono utilizzando l'historìe come metodo, ovvero l’indagine che si serve della narrazione. L’evoluzione le ha condotte poi a collocarsi agli antipodi, l’una come emblema delle scienze umane, l’altra delle scienze della natura. Ma oggi sono destinate a uno spettacolare riavvicinamento, se la medicina accetta come compito e sfida anche l’esplorazione dei mondi personali. Per capire la vita di ognuno è necessario un lungo viaggio, per il quale non sono disponibili carte geografiche e navigatori satellitari: solo il racconto ci può guidare. Accogliendo il racconto spontaneo, ma anche sollecitando e favorendo il racconto di chi si sente mancare le parole appropriate (cfr. Felice Di Lernia: Ho perso le parole. Potere e dominio nelle pratiche di cura, ed. La Meridiana, 2008).
Ascoltare la narrazione del paziente non è un optional. Non è questione di gentilezza d’animo da parte del curante; e neppure è solo un a strategia per arrivare con più sicurezza a una diagnosi giusta. Senza ascolto non si può fare oggi una buona medicina, così come la richiede la cultura del nostro tempo. Perché cercare di fornire al paziente le cure più appropriate al suo caso non basta: è necessario che il malato dia il suo esplicito consenso ai trattamenti. Quand’anche ciò che le cure mediche forniscono fosse risolutivo per la sua patologia, se è erogato senza il suo consenso non si può chiamare buona medicina. Con una frase molto efficace, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sintetizzato la regola fondamentale della medicina della modernità come: «Niente su di me, senza di me».
Non confondiamo il vero consenso con la sua caricatura, ovvero con la richiesta di apporre una firma sotto un foglio prima di un intervento
77
diagnostico o terapeutico. Succede spesso che questo momento non sia stato preceduto da nessuna informazione; e soprattutto da nessuna verifica di ciò che il malato ha capito di quanto eventualmente gli è stato comunicato. Questa prassi merita di essere chiamata «consenso estorto», piuttosto che «consenso informato».
La narrazione del paziente è soprattutto necessaria quando l’aspirazione è quella di fare una «medicina sartoriale», cioè tagliata su misura della singola persona. Come un abito che esce dalla sartoria è diverso da uno a taglia unica, fornito dai grandi magazzini, così la medicina su misura tende a considerare nelle scelte il profilo singolare di ogni persona. Una felice metafora è la «sartoria del viaggio», uno slogan con cui un’agenzia turistica reclamizza il rapporto con i propri clienti:
Ogni viaggiatore è per noi unico e ogni viaggio è un abito su misura dei suoi desideri. Con questa consapevolezza come un sarto «prendiamo le misure» ai nostri clienti, ascoltiamo le loro domande, rispondiamo a ogni loro curiosità. Nelle nostre boutiques confezioniamo per loro quell’unico viaggio capace di realizzare il loro sogno.
Un’immagine che si attaglia perfettamente al viaggio nei territori della cura, seguendo i percorsi della salute e della malattia.
In medicina si comincia a parlare di «tailored medicine» (medicina sartoriale, appunto) a proposito di certi farmaci di nuova generazione, che si modellano sul profilo genetico della singola persona; o di «tailored surgery», con riferimento alla chirurgia robotica o al trattamento di patologie specifiche, come l’ernia inguinale. Se la «sartorialità» in questi ambiti è ancora un orizzonte lontano ― anche a causa dei costi stratosferici di queste innovazioni ― dal punto di vista dell’etica può essere realizzata già oggi. Con un unico costo: quello del tempo dell’ascolto. Ma è un costo ampiamente ripagato dai benefici che lo accompagnano.
Soltanto includendo la narrazione dei valori e delle preferenze personali nelle scelte cliniche si può parlare di «giusta misura». Perché ogni persona è diversa dall’altra: se la misura è unica, a qualcuno può andare stretta, a qualcun altro troppo larga. È una considerazione che diventa pressante quando consideriamo i prezzi da pagare in sofferenza fisica e angustia psicologica che certe cure richiedono. Specie
78
quando abbiamo a che fare con malattie croniche e degenerative, per le quali la medicina non ha a disposizione rimedi risolutivi. Può tenerci, piuttosto, sospesi su un piano inclinato che degrada inevitabilmente, garantendo, sì, una sopravvivenza, ma sempre più onerosa. Solo persone informate e consapevoli possono indicare quando il peso eccede il beneficio e quando il saper vivere suggerisce il saper rinunciare a cure diventate futili o sproporzionate.
La narrazione finalizzata a favorire decisioni condivise tra paziente e medico può essere favorita da quest’ultimo con opportuni sussidi, come questionari del tipo: «Le domande da fare al medico», al fine di essere sicuri che nessun elemento essenziale dell’informazione sia trascurato. Sono strumenti che facilitano la narrazione da parte del paziente, in particolare nella prospettiva di malattie che si aprono su scenari infausti o che tolgono progressivamente le capacità mentali.
Rimane pur sempre la possibilità che la persona malata si tiri indietro e rinunci all’informazione e alla propria partecipazione alla decisione. L’eventualità è esplicitamente prevista dal Codice deontologico dei medici (2006, art. 33): «La documentata volontà della persona assistita di non esser informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata».
In generale, tuttavia, possiamo affermare che in numero crescente i cittadini rinunciano ad affidarsi passivamente al medico e a delegare le decisioni ai propri familiari; chiedono invece di poter essere protagonisti del processo di cura e dei limiti da porre, affinché aderisca il più possibile all’ideale di buona vita (e di buona morte) che ciascuno coltiva come aspirazione profonda. Per questo la buona medicina oggi non può prescindere dall’ascolto della narrazione che ogni singolo paziente può e vuole fare.