- L'antropologia medica di Viktor v. Weizsäcker
- Guarire «tutto» l'uomo
- Come si diventa bioeticisti: il cammino di una professione discussa
- L'etica per una medicina umana
- Die Medizinische anthropologie
- Curare e prendersi cura
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- L'occhio clinico e l'occhio dell'artista
- Medical Humanities
- Sotto il segno di Giano
- L’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker: conseguenze etiche
- Verso una medicina antropologica
- La riflessione antropologica in medicina
- Per una medicina più umana
- L'educazione alla salute come sfida per una medicina umanistica
- La formazione in bioetica come emergenza
- La formazione etica del medico 1
- La formazione etica del medico 2
- Servizio di bioetica: che cos'è?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Formarsi alla nuova sanità
- Guaritori da guarire
- Se la cura è di genere femminile
- Bioetica e formazione permanente del personale sanitario
Sandro Spinsanti
LA FORMAZIONE IN BIOETICA COME EMERGENZA
in Fondazione Carlo Marchi
quaderno 2, 1998, pp. 247-251
247
Di che cosa abbiamo bisogno in Europa nell’ambito della bioetica? La domanda sorge spontanea dopo aver a lungo ascoltato lo stato attuale di sviluppo della riflessione. Abbiamo prioritariamente bisogno di leggi? E queste leggi devono essere pesanti o leggere? Fino a che punto devono normare i comportamenti? Personalmente ritengo che, se abbiamo bisogno di leggi, un bisogno ancora maggiore riguarda quell’ambito che Tony Blair ha messo in evidenza nel discorso con cui ha presentato il suo governo al Parlamento inglese, affermando che tutto il suo programma si riassumeva in tre parole: “education, education, education”. Credo che nella bioetica noi abbiamo bisogno soprattutto di formazione.
Chi ne ha bisogno? Alcune categorie sono state esplicitamente menzionate, nel corso di questo convegno, come i magistrati, i giornalisti e i ricercatori scientifici. In primo luogo sono stati messi i medici; forse è stato dato come scontato che di formazione ha bisogno la popolazione nel suo insieme, oltre che i professionisti.
La giusta considerazione dell’ospitalità ci induce a menzionare le pregevoli iniziative di formazione alla bioetica intraprese dalla regione Toscana. La Toscana si è dotata di una Commissione Regionale di Bioetica, la quale ha promosso la creazione di comitati etici locali. La prima preoccupazione è stata quella di diffondere la formazione, in particolare sensibilizzando al nuovo rapporto medico-paziente, incentrato sul “consenso informato”.
La formazione che è necessario introdurre in sanità può essere ricondotta a una educazione dello sguardo, acquistando la capacità di cogliere altre dimensioni della qualità delle prestazioni sanitarie che sfuggono ai professionisti della salute che non sanno immaginare altri punti di vista oltre il proprio. Anche per il sanitario si tratta di superare una fase di “realismo intellettuale” che porta ad assolutizzare il proprio
248
punto di vista. La qualità valutata dall’operatore è stata finora l’unico parametro di riferimento. A questa bisognerà affiancare la qualità valutata dal paziente e la qualità organizzativa, che permette a un’azienda sanitaria di onorare il contratto di assistenza che ha con l’insieme della popolazione. La nuova sanità ci costringe a muoverci in uno spazio tridimensionale.
Forse la priorità assoluta nella formazione va data all’arricchimento dell’immaginazione. Non è inopportuno ricordare che il Piano sanitario nazionale 1994-96 identifica come compito della nuova sanità la ridefinizione del progetto di civiltà sanitaria (“La necessità di ripensare a fondo il profilo stesso di un programma sanitario per il paese si presenta come una straordinaria opportunità per ridefinire il progetto di civiltà, che è l’obiettivo di una politica della salute”) e sollecita l’immaginazione per dare contenuto a un miglioramento che si sviluppi sotto il segno della qualità, più che della quantità (“La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione”).
La sfida all’immaginazione è costituita dal passaggio della dimensione che è familiare a ciascuno — soprattutto se interiorizzata attraverso il processo della socializzazione in un determinato gruppo professionale, che induce ad assumere intuitivamente il punto di vista del medico, dell’infermiere, dell'amministratore ecc. — a un’altra dimensione. O a diverse altre dimensioni. Anche per la sanità possiamo assumere il compito che con insuperabile humour ha fatto proprio Edwin Abbott nel racconto fantastico Flatlandia (Adelphi, Milano 1996): passare da un mondo bidimensionale, abitato da esseri totalmente piatti: segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli — la Flatlandia, o Paese del Piano — alla Spacelandia, o Paese a tre dimensioni. Possiamo assumere la sua dedica come un richiamo per il mondo della sanità a continuare a esplorare le sue dimensioni e quindi a reinventare la qualità delle prestazioni: “Agli abitanti dello spazio in generale è dedicata quest’opera da un umile nativo di Flatandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciute soltanto due, così anche i cittadini di quella Regione Celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro cinque o addirittura sei dimensioni”.
Per quanto riguarda la modalità con cui condurre la formazione, vorrei osservare che la formazione non è indottrinamento. La formazione appunto, non è finalizzata a far prevalere un punto di vista, una dottrina su un’altra. Essa avviene fondamentalmente attraverso un
249
ascolto reciproco, dove il ‘formatore’ non prescrive i comportamenti, non li impone, ma piuttosto attraverso un confronto ― ci riferiamo ovviamente alla metodologia del dialogo, nel quale tutte le persone coinvolte hanno la possibilità di esprimere il proprio punto di vista sui comportamenti —, e attraverso l’ascolto reciproco matura quello che è stato il tema fondamentale anche di questo nostro incontro: il consenso.
Attraverso la formazione emerge l’attualità di un vecchio slogan, che ha caratterizzato un’altra stazione culturale e spirituale (almeno per quanto riguarda la chiesa cattolica, che è stata condotta da papa Giovanni XXIII e dal Concilio ecumenico ad abbandonare l’atteggiamento apologetico): è più quello che ci unisce che quello che ci divide. La bioetica è oggi l’ambito dove la pratica del dialogo può far riemergere questa verità.
Nella bioetica quello che ci unisce sono soprattutto i minima moralia. Mi riferisco alla distinzione proposta da Diego Gracia, il quale sostiene che i quattro principi classici individuati dalla bioetica americana — non maleficità, beneficità, autonomia e giustizia — possono essere considerati come il sunto di tutta la storia culturale dell’occidente relativamente all’etica medica. Tuttavia non dobbiamo pensarli come posti sullo stesso piano, ma è necessario stabilire tra loro una gerarchia. Ci sono dei principi che configurano un dovere più fondamentale e irrinunciabile. Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del “primum: non nocere”, già identificato dall’etica ippocratica. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire, che anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.
Ugualmente non negoziabile è l’altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta fondamentale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto. Non c’è una vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell’individuo, che va trattato come fine, non come mezzo. Diverso invece è il secondo livello regolato dai principi dell’autonomia e della beneficità. L’autonomia della persona
250
richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno. E la beneficità, cioè fare il bene del malato, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bene.
La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l’apporto dell’Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell’umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l’integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l’Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i minima moralia (Adorno), sotto i quali non c’è etica, anche se tutta la società, per ipotesi, fosse d’accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo in cui basta cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto. Di fatto possiamo registrare un amplissimo consenso sul fatto che non è lecito procurare il male alle persone — pensiamo anche alle pratiche di procreazione medicalmente assistita che non rispettino i criteri di indicazione clinica e non tutelino la salute delle donne che vi fanno ricorso — e, per quanto riguarda la giustizia, che tutti meritano uguale considerazione e rispetto (mentre la commercializzazione di certe pratiche offre un vantaggio soltanto a chi può procurarsi dei servizi a pagamento).
La beneficità, invece, tutelata dall’autonomia, è la ricerca del massimo morale. La non maleficità e la giustizia sono il minimo morale al di sotto del quale ogni società non deve scendere; anche se vi scendesse col consenso di tutti, sarebbe una società immorale. L’autonomia e la beneficità domandano, invece, quali massimi morali che siano stabiliti con il contributo della persona. Ciò implica che un’etica medica, che si presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, delle difese a oltranza di un’etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun soggetto morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.
Potremmo a questo punto chiederci se anche il principio della dignità non potrebbe essere suddiviso in questi due livelli, vale a dire
251
della ‘indegnità’ e della ‘dignità’ della persona umana. Credo che riusciremo a trovare un consenso amplissimo su ciò che va considerato come una lesione della dignità umana, e quindi va respinto come ‘indegno’, mentre invece per identificare ciò che è degno della persona umana non lo possiamo fare se non ascoltando le varie persone e offrendo loro un ruolo di soggetto (in quanto sarebbe contrario alla dignità della persona che qualcuno, paternalisticamente, gli dicesse che cosa è degno e che cosa non lo è). Il cammino per portare la bioetica laddove deve essere, cioè là dove si forma il consenso attraverso l’ascolto reciproco, è ancora lungo.