
- L'antropologia medica di Viktor v. Weizsäcker
- Guarire «tutto» l'uomo
- Come si diventa bioeticisti: il cammino di una professione discussa
- L'etica per una medicina umana
- Die Medizinische anthropologie
- Curare e prendersi cura
- «Dottore, sto male» - «Mi racconti»
- L'occhio clinico e l'occhio dell'artista
- Medical Humanities
- Sotto il segno di Giano
- L’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker: conseguenze etiche
- Verso una medicina antropologica
- La riflessione antropologica in medicina
- Per una medicina più umana
- L'educazione alla salute come sfida per una medicina umanistica
- La formazione in bioetica come emergenza
- La formazione etica del medico 1
- La formazione etica del medico 2
- Servizio di bioetica: che cos'è?
- Il processo di cambiamento nella sanità italiana
- Formarsi alla nuova sanità
- Guaritori da guarire
- Se la cura è di genere femminile
- Bioetica e formazione permanente del personale sanitario
Sandro Spinsanti
MEDICAL HUMANITIES
Edizioni Change, Torino 2007
pp. 32
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5 I. “Humanitas” e le sue varianti: una famiglia di significati
6 1. “Umanizzazione? No grazie!
9 2. Esercitare la medicina nel solco dell’umanesimo
12 3. La medicina come attività umanitaria
15 4. Umanità/disumanità: quando la medicina è orientata al risultato
19 5. L’umanità degli operatori sanitari
23 II. Le “Medical Humanities” in pratica
23 1. L’integrazione delle “due culture”
25 2. Dalla cultura dei diritti all’ “empowerment” del cittadino
29 3. Oltre la “belletristica”: le arti come interlocutrici
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I. "HUMANITAS" E LE SUE VARIANTI: UNA FAMIGLIA DI SIGNIFICATI
Chi in italiano fa ricorso a un termine straniero ha l’obbligo morale di addurre prove che lo stesso concetto non potrebbe essere espresso nella nostra lingua. L’espressione medical humanities non fa eccezione alla regola. La ragione determinante per preferirlo è presto detta: non esiste in italiano un’espressione che ricopra lo stesso ambito semantico. Ogni tentativo di cercare un equivalente in italiano è destinato a creare equivoci ― come l’infelice “umanizzazione” della medicina ― oppure riflette solo un aspetto parziale di quella complessa realtà denotata come medical humanities 1.
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"È opportuno seguire le diverse piste fornite dalla famiglia di espressioni affini, consapevoli che ognuna, considerata nei suoi aspetti negativi e in quelli positivi, tratteggia solo un aspetto parziale del quadro, non il quadro nella sua interezza.
1. “Umanizzazione”? No grazie!
La traduzione più fuorviante di medical humanities è quella di far equivalere la loro istanza a un progetto di umanizzazione della medicina. L’umanizzazione è un programma che si evoca solitamente con intenti polemici. Presuppone un’analisi negativa dei comportamenti che si vogliono umanizzare, perché giudicati, appunto, disumani. Che riguardino i detenuti nelle carceri o i malati in ospedale. Il programma di umanizzazione della medicina ha suscitato nel tempo molte adesioni: per motivi religiosi-filantropici (perché il professionista sanitario è considerato nell’alone del Buon Samaritano...) o per ragioni laiche, riconducibili al rispetto dei diritti umani e della dignità delle persone, anche in condizione di malattia. Non mancano motivi per rivendicare azioni correttive di comportamenti che si collocano al di sotto di quanto nella nostra società consideriamo un minimo decente. Sul banco degli imputati non c’è solo l’insensibilità degli operatori o semplicemente la maleducazione; anche la curiosità scientifica o gli interessi conoscitivi possono indurre a comportamenti biasimevoli. Per fare solo un esempio, riportato da un libro dedicato a un problema di scottante
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attualità, pensiamo al trattamento riservato in certi reparti ospedalieri alle donne infibulate.
Nel corso di questi anni, mi è capitato, purtroppo, di vedere un po’ di tetto: medici che si rivolgevano ai pazienti migranti dando costantemente loro del tu; l’impiego, durante la visita medica, di macchine fotografiche per documentare alterazioni dei genitali, senza prima averne concordato l’utilizzo; considerazioni sullo stato dei genitali della paziente straniera, pronunciate ad alta voce in mezzo al corridoio. Ancora ricordo con imbarazzo a questo proposito una visita in cui un medico ginecologo, una volta fatta accomodare una donna eritrea sulla poltrona, resosi conto della presenza di una escissione aveva lasciato la paziente in quella posizione per andare a chiedere al fotografo dell’ospedale di venire a scattare una foto che sarebbe stata inserita nel suo ultimo articolo sulla questione. Il tutto era avvenuto dando per scontato che la donna avrebbe acconsentito, non si sa bene per quale motivo (M. Fusaschi, I segni sul corpo, Per un’antropologia delle modificazioni genitali femminili, Bollati Boringhieri, p. 138).
Per saperne di più su ciò che oggi i cittadini considerano non accettabile, basta aprire gli archivi di un qualsiasi centro di ascolto del Tribunale dei diritti del malato o di un ufficio relazioni con il pubblico. O leggere le lettere ai giornali che danno voce al lamento contro la “malsanità”. Questa non è imputata solo di errori e inadempienze, ma spesso semplicemente di disattenzione verso esigenze elementari della nostra vita sociale. Ecco una testimonianza tra le tante:
“Sono stato ricoverato per tre giorni alla clinica dermatologica. Mi sono scontrato con la realtà di un ospedale dove ho vissuto come in un incubo (...) Manca persino il minimo indispensabile per una decorosa degenza. Non ho trovato accanto al letto né un comodino
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per mettere le mie cose, né un tavolino per mangiare: per non parlare di armadietti per il vestiario senza nemmeno una chiave.
Dopo le mie proteste è arrivato un tavolinetto e, il giorno dopo, un comodino. Ma la cosa più intollerabile è stato il fatto che, stando circa 25 persone in una camerata divisa da esili pareti di plexigas, si lasciava che i malati e i relativi parenti parlassero a voce alta, urlando per comunicare ai cellulari e schiamazzando fino alle 11 di sera per giocare a carte, come può capitare al bar Sport. Reduce dall’intervento avrei avuto bisogno di calma e mi sono sentito male per questo. Dov'è la direzione sanitaria? Perché gli infermieri devono dare del tu all’ammalato? Perché nessuno controlla questi aspetti fondamentali per la quiete e la dignità del malato?”
(da La Repubblica, 6 febbraio 2007).
Eliminare dalla pratica della medicina ciò che offende e umilia rimane un programma inderogabile. È tuttavia discutibile che il termine “umanizzazione”, con cui abitualmente lo si designa, sia una scelta felice. I sanitari che si sentono oggetto di un programma di umanizzazione non possono evitare di sentirsi accusati di comportamenti “disumani”. È facile immaginare che la reazione più prevedibile sarà quella di risentita chiusura, o di ricerca di altri capri espiatori (gli amministratori della sanità, le condizioni di lavoro...). In ogni caso, sarà arduo avere come alleati in un programma di umanizzazione i professionisti che si sentano messi sotto accusa.
Anche se concordiamo sulla non opportunità di utilizzare il termine umanizzazione, non possiamo ignorare che vi hanno fatto ricorso i decreti legislativi 502 (1992) e 517 (1993) che negli anni ’90 hanno delineato il profilo rinnovato del servizio pubblico. Come indicatori per valutare la qualità delle prestazioni erogate venivano infatti menzionate la “personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza”.
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L’umanizzazione del servizio sanitario è diventata, più di recente, un obiettivo proposto ufficialmente dalla Regione Veneto, che ha anche pubblicato una lista dettagliata di parametri per verificarne la presenza. È opportuno tuttavia sottolineare con forza che le humanities che invochiamo come correttivo della pratica attuale della medicina non sono sovrapponibili all’umanizzazione. Quand’anche avessimo eliminato i comportamenti che violano i diritti e la dignità, il programma specifico delle medical humanities dovrebbe ancora avere inizio.
2. Esercitare la medicina nel solco dell’umanesimo
Etimologicamente, le humanities rimandano al latino “humanitas”, che è stato il potente motore del movimento che ha strutturato l’Occidente moderno: l’umanesimo, appunto. Siamo così con"dotti a considerare la medicina come un’impresa “umanistica” e il medico (in quanto referente simbolico di un complesso di azioni e di competenze proprie di numerose professioni che si dedicano alla cura) come un “umanista”. Questo uso linguistico richiede molta cautela. Si rischia, infatti, di scivolare verso aspetti caricaturali, così come quando si enfatizzano la missione e la vocazione di quanti esercitano la medicina, quasi praticassero una specie di sacerdozio secolarizzato. L’intento satirico era sicuramente presente in Giuseppe D’Agata, quando, nel romanzo Il medico della mutua (1964), mette in bocca a un primario una tirata contro il sistema mutualistico allora in vigore:
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La causa dei mali che affliggono la nostra benemerita classe è la mutua. Dobbiamo abolire la mutua, se vogliamo salvarci. Se ci richiamiamo al nostro aureo principio, di agire secondo scienza e coscienza, non c’è bisogno dell’esistenza della mutua. Non saremo certo noi a rifiutare le nostre cure ai poveri, agli indigenti, agli umili: si affidi sereno il lavoratore alla nostra sensibilità di medici e di umanisti. La missione del medico è universale, eterna, insostituibile. Non può tollerare vincoli e suddivisioni, senza che venga inquinata la purezza del suo significato umano e divino!
A più di quarant’anni di distanza, quell’appello alla professionalità del medico in quanto “umanista” non è più proponibile, neppure in chiave satirica. Abbiamo l’impressione che oggi nessuno più lo capirebbe. Tanto meno siamo disposti ad avallare un profilo “umanistico” ai professionisti sanitari che li ponesse al di sopra del complesso di diritti e doveri che incombono su chi opera all’interno del servizio sanitario pubblico, quale espressione del welfare state.
Eppure la correlazione tra i valori dell’umanesimo e quelli che guidano la pratica della medicina più esigente dei nostri giorni è seducente. Possiamo riconoscere una “assonanza culturale” tra l'humanitas rinascimentale e il nuovo paradigma della salute che si sta profilando nel mondo culturale e scientifico. Il riferimento va alla promozione della salute quale processo globale ― sociale, politico, educativo, economico ― finalizzato a mettere le persone in condizione di aumentare il controllo sul proprio stato di salute e di migliorarlo agendo sui determinanti della salute non solo di
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ordine bio-genetico, ma anche ecologico, sociale, economico e culturale. In questa prospettiva la medicina di oggi può attingere a piene mani dai valori dell’Umanesimo: riconsiderazione dell’uomo nel cosmo, accentuazione della personalità individuale come fulcro dell’azione umana, importanza della razionalità e della visione laica del mondo rispetto all’approccio centrato sulla fede. La medicina contemporanea può far proprio il discorso di Giovanni Pico della Mirandola nella Oratio de hominis dignitate (1486):
Non ti ho fatto del tutto celeste né terreno, né mortale né immortale affinché, quasi di te stesso arbitro e sommo artefice, tu possa scolpirti nella forma che avrai preferito. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori proprie dei bruti, potrai rigenerarti secondo la volontà del tuo animo nelle cose che sono divine.
E soprattutto è legittimo cogliere e rilanciare gli impulsi al pluralismo etico e alla tolleranza che sono contenuti nel discorso umanistico di Pico della Mirandola (cfr. Pier Cesare Bori, Pluralità delle vie. Alle origini del discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano 2000). Questa dimensione profonda dell’“umanesimo” attribuita alla medicina è sicuramente in sintonia con il progetto culturale che anima il movimento delle medical humanities. La medicina può ancora rivendicare di essere ― per adottare la formula a effetto di Edmund Pellegrino ― “la più umana (“umanistica”) delle scienze e la più scientifica delle humanities". Senza per questo qualificare anacronisticamente i medici come “umanisti”.
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3. "La medicina come attività “umanitaria”
L’aggettivo “umanitario” per qualificare la medicina ci sembra, a prima vista, ridondante, dal momento che l’erogazione di cure sanitarie è l’azione umanitaria per eccellenza. Eppure la sottolineatura umanitaria non è parsa superflua all’“Associazione internazionale perla medicina umanitaria”. L’Associazione ha programmi molto concreti. Si impegna a fornire cure mediche, chirurgiche, infermieristiche e di riabilitazione a pazienti provenienti da paesi in via di sviluppo mancanti di necessari specialisti; a portare soccorso alle vittime di disastri dove l’assistenza sanitaria è deficitaria; a mobilitare ospedali e specialisti nei paesi industrializzati per ricevere e trattare gratuitamente tali pazienti; a promuovere il concetto di salute come un diritto umano e a sostenere leggi e principi umanitari nella pratica medica.
Ci potremmo domandare se tutto ciò non faccia parte, costitutivamente, dello statuto etico della medicina. Insieme alla proclamazione di alti ideali filantropici, che indirizzano a curare tutti senza distinzioni, all’interno dell’etica medica tradizionale c’è anche una differenza impalpabile, raramente esplicitata, tra “noi” e “loro”, che stabilisce una separazione fondata sull’affinità e sull’appartenenza al gruppo sociale; la medicina, in base a tale distinzione, è riservata ai “nostri”. Ne troviamo una traccia nell’aneddoto, riportato da Plutarco nelle sue Vite, che riferisce una risposta di Ippocrate al re di Persia. Richiesto da quest’ultimo di andare a curare, dietro lauta ricompensa, i suoi sudditi affetti da una pestilenza, Ippocrate gli fa rispondere che mai avrebbe messo la sua arte a servizio dei barbari, che erano nemici del suo popolo.
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La distinzione tra “noi” e “loro” ― intendendo: l’obbligo di prestare cure si rivolge ai nostri, non agli altri ― è molto più attuale di quanto l’episodio citato da Plutarco potrebbe far immaginare. Basti pensare alle perplessità che sorgono quando bussano alla porta dei servizi sanitari persone alle quali non riconosciamo un diritto di cittadinanza ― extracomunitari, clandestini.... ― ; ancor più, quando si candidano per ricevere risorse scarse, come organi per i trapianti, che non sono disponibili in numero sufficiente per tutti. Le tensioni tra “noi” e “loro” in quest’ultimo caso si possono presentare anche all’interno di una comunità nazionale (vedi la polemica delle regioni che investono molte energie per procurare organi per i trapianti nei confronti di regioni che non fanno altrettanto, ma avanzano pretese di poter accedere agli organi disponibili).
Ci rendiamo conto che l’etica medica cresciuta sul tronco della tradizione ippocratica ha avuto bisogno di vigorosi innesti per bilanciare le sue evidenti parzialità e rispondere pienamente agli obiettivi che si prefigge la medicina umanitaria. Alcuni di questi correttivi hanno già una lunga storia. Basti pensare alle regole che hanno preso corpo intorno alla medicina di guerra, dall’istituzione della Croce Rossa internazionale alla Convenzione di Ginevra. La medicina si è sentita provocata a superare la dicotomia amico/nemico, che regola la vita civile e manda avanti le guerre (la medicina in guerra si regola secondo il principio che, quando sono feriti, i nemici diventano fratelli: la differenza tra i “nostri” e gli altri viene a cadere).
Gli sviluppi più recenti della vita sociale sul pianeta hanno creato le condizioni per un’altra trasformazione epocale, dopo quella che ha caratterizzato il sorgere degli stati moderni con le
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loro organizzazioni sanitarie nazionali. Siamo entrati nell’epoca dell’interdipendenza globale: nel male e nel bene. Il trauma del terrorismo internazionale ci ha fatto scoprire quanto sono interconnessi i sistemi sociali, anche quelli geograficamente e culturalmente più lontani tra di loro. La guerra stessa ha cambiato volto: basti dire che ormai il 90% delle vittime sono civili e che le distruzioni più pesanti non riguardano le armi del nemico, ma i suoi sistemi produttivi e le infrastrutture sanitarie.
Non ci sentiamo più autorizzati a presentare la medicina come “super partes”. La presunta neutralità porta di fatto ad avallare le sopraffazioni vigenti. Essere “super partes”, oltre che etica"mente inaccettabile, è autenticamente impossibile. Gli interventi umanitari, mescolati ad atti di oppressione, costituiscono un messaggio paradossale, come la sinistra metafora di pacchi di aiuti gettati sulla popolazione che si sta bombardando.... La medicina deve assumere con coraggio una posizione “di parte”, scegliendo ovviamente la parte degli oppressi. Non può più limitarsi a seguire le orme della guerra per sanare qualcuna delle innumerevoli piaghe che lascia: deve fare opera di prevenzione, aiutando a trasformare i conflitti in modo creativo e non violento.
In questa prospettiva possiamo dare diritto di cittadinanza alla medicina umanitaria, sottolineando la sua intrinseca precarietà. Lo scopo della medicina umanitaria è quello di rendere se stessa superflua. Quando la medicina umanitaria avrà ricordato alla medicina tout court che cosa comporta, in senso intensivo ed estensivo, lavorare per la salute, potrà anche scomparire come provincia separata della medicina. Non avremo più bisogno del"l’aggettivo ― umanitaria ―, perché il suo significato sarà passato integralmente
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nel sostantivo: medicina. Ma finché questa situazione non sarà diventata realtà, si impone un imperativo etico: aprire il cuore e la mente ― e prestare le mani ― alla medicina umanitaria.
4. Umanità/disumanità: quando la medicina è orientata al risultato
Un altro ambito semantico di umanità/disumanità nella pratica della medicina è quello relativo a situazioni nelle quali, per scarsità di mezzi o per scelta, si privilegia il curare rispetto al prendersi cura. Una semplificazione concreta è fornita dal libro Utopie sanitarie (Feltrinelli, 2002), che ha come sottotitolo esplicito: “Umanità e disumanità della medicina”. Il libro, curato da Rony Brauman, raccoglie diversi saggi redatti da sanitari che lavorano all’organizzazione “Medici senza frontiere”, di cui Brauman è stato presidente dal 1982 al 1994. Sappiamo che questi medici si trovano in prima linea in paesi nei quali la cura ha il carattere dell’emergenza e le condizioni di bisogno sono estreme. In questo libro a più voci, dedicato ad analizzare i presupposti, le convinzioni e i metodi della loro azione, non c’è ombra di compiacimento. Al contrario: i medici coinvolti, riflettendo sugli interventi che avvengono in condizioni di penuria, denunciano il carattere di freddo calcolo che talvolta la loro azione è costretta ad assumere. Devono scegliere tra chi curare e chi trascurare (scoprendo anche sorprendenti diversità culturali: in alcuni paesi, in situazione di carestia, sono i vecchi, in
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quanto garanti della coesione sociale, a dover ricevere per primi gli aiuti alimentari, e non i bambini, “gruppo debole”, che noi tenderemmo a privilegiare. Per gli organismi umanitari internazionali la priorità va data a evitare i decessi dei bambini, che ci sembrano più ingiusti e intollerabili, mentre in contesti culturali di sopravvivenza la scala delle priorità è un’altra).
Oltre a chi, i medici sono costretti a scegliere anche il come delle cure che erogano. I Medici senza frontiere sono i primi a denunciare che le loro azioni sono spesso costrette a essere “disumane”, perché assumono lo stesso carattere di “ingegneria” che siamo pronti a denunciare nella pratica medica a carattere più tecnologico. Tiziano Terzani, ad esempio, in Un altro giro di giostra (Longanesi, 2004) punzecchia i medici dell’ospedale oncologico di New York dai quali è in cura chiamandoli “gli aggiustatori”. Considerano, infatti, solo il problema clinico, al quale cercano di porre rimedio col meglio delle loro possibilità, ma non la persona malata:
“I miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell'ineffabile “altro” che poteva nascondersi dietro i fatti, così come i cosiddetti “fatti” apparivano loro, lo ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!”.
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Paradossalmente, questa è la stessa accusa che i Medici senza frontiere rivolgono alla propria azione: lavorando in condizioni di estrema penuria, sono costretti a cadere negli stessi difetti criticabili nella medicina più scientifica. Per quanto “umanitaria” nelle motivazioni individuali di coloro che la praticano, anche la loro medicina diventa “disumana”, perché le condizioni in cui si svolge il loro lavoro li costringono a sacrificare quelle dimensioni della cura che qualsiasi malato considera essenziali. Indipendentemente dalla qualità degli affetti e delle relazioni che si instaurano, la medicina può essere oggettivamente disumana, se diventa, per necessità o per scelta, una specie di ingegneria applicata.
L’orizzonte in cui si collocano le considerazioni proposte da Medici senza frontiere non è quello delle intenzioni soggettive de"gli operatori e del loro impegno umano. Ci invitano a considerare il contesto. Scopriamo così che la medicina, nei contesti opposti dell’estrema indigenza e della massima opulenza, può essere ugualmente disumana. Mentre l’auspicio dell’“umanizzazione” della medicina fa riferimento agli operatori ― e implica indirettamente l’accusa rivolta loro di mancanza di dedizione e di motivazione ― le analisi che si concentrano sulla disumanità della medicina prescindono dal vissuto degli operatori. Non equivalgono a un in"vito a “moralizzare” medici e infermieri, ma a un progetto rivolto a correggere la concezione stessa della medicina. Le differenze sono di grande peso: nel primo caso la terapia per la disumanità ha carattere predicatorio, nel secondo implica invece il correttivo delle medical humanities.
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Una certa insofferenza nei confronti delle esortazioni moralistiche a favore del buon rapporto, senza tenere nel debito modo la qualità del servizio offerto, è comprensibile. La forte enfasi nel curare, a discapito del prendersi cura, ha fatto la fortuna della serie televisiva che ha il dottor House come protagonista. Questo medico impersona la scelta di puntare sui risultati, facendo economia non solo dei buoni sentimenti e dell’attenzione alla persona, ma provocatoriamente anche delle buone maniere. La giustificazione di questo stile si fa forte della presunzione che, tra un medico che ti guarisce trattandoti male e uno che ti faccia morire tenendoti affettuosamente la mano, tutti preferirebbero il primo. Ma quando a un dottor House di un ospedale metropolitano si attribuiscono scelte volontarie per comportamenti disumani che medici di frontiera sono obbligati ad assumere si fa un’operazione mistificatoria (a meno che non sia una strategia di puro intrattenimento, centrato sul falso dilemma: “preferisci un medico che ti fa morire tenendoti amorevolmente la mano, o uno che ti guarisce trattandoti male?”). Le medical humanities non hanno come obiettivo di contrapporre il curare e il prendersi cura, la qualità relazionale e l’efficacia dei trattamenti, bensì la loro integrazione. Le humanities in questo contesto sono un sinonimo della “centralità del paziente”, o piuttosto della centralità della relazione nel processo di cura, nonché dell’importanza della comunicazione tra chi eroga le cure e chi le riceve.
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5. L’“umanità” degli operatori sanitari
Completiamo il periplo delle diverse accezioni che può assumere la “humanitas” riferita alla medicina portando l’attenzione sull’umanità, intesa come sintesi di qualità morali, di coloro che praticano la medicina. Parallelamente, ci dobbiamo interrogare sulle qualità richieste a coloro che delle cure mediche sono i beneficiari.
Un episodio, tratto dal resoconto dello scrittore inglese Thomas de Quincey: Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, ci introduce a questa ulteriore esplorazione del termine. De Quincey si è basato sulle relazioni di Vasiansky, che aveva assistito Kant in tutta la fase terminale della sua vita.
Il racconto presenta anche un episodio singolare. Il vecchio Kant, che aveva anche enormi difficoltà a esprimersi ― Vasiansky interpretava le parole che Kant balbettava ― riceve il suo medico; questi vorrebbe che Kant si sedesse, ma il filosofo rimane in piedi. Racconta de Quincey, con le parole di Vasiansky:
"Intanto continuava a tenersi in piedi, ma si vedeva che era sul punto di cadere a terra. Allora avvertii il medico, e ne ero ben convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto potesse soffrire rimanendo in piedi, finché non si fossero seduti i suoi ospiti. Il dottore sembrava dubbioso, ma Kant, che aveva udito quel che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento e pronunciò distintamente queste parole: “Dio non voglia che io cada così in basso da dimenticare i doveri dell’umanità”.
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"Certamente nel termine “Humanität” usato da Kant c’è il significato arcaico di “cortesia”, “gentilezza”; ma non soltanto questo. C’è un riferimento ai doveri dell’umanità, doveri verso se stessi, ma anche doveri verso gli altri: esistono i doveri della co-umanità.
Tutta la tradizione di riflessione sui doveri del medico ha incluso questi doveri di co-umanità nelle caratteristiche del buon sanitario. A partire dalla formulazione latina del medico come “vir bonus, sanandi peritus” (persona buona, esperta nel curare). Ma questa “bonitas”, che determina la qualità professionale, va intesa in senso attributivo (un buon medico) o in senso predicativo (un medico buono)? I movimenti di umanizzazione della medicina accentuano la posizione predicativa: auspicano un medico buono. Lo immaginiamo disinteressato, attento ai problemi dei pazienti, sensibile, capace di dialogo, empatico. Talvolta queste e altre at"tese sono riassunte nella richiesta che abbia una “visione olistica” del paziente e della sua patologia, intesa come una somma di capacità e di virtù.
Dal buon medico, invece, ci si aspetta altro. Anzitutto la competenza scientifica e un saldo dominio dell’arte terapeutica. La scienza abbinata alla coscienza, che si è soliti invocare per de"lineare il profilo del buon medico, oggi ha assunto un profilo molto preciso: la medicina che pratica deve essere evidence based, le linee guida hanno sostituito la libertà terapeutica, che in passato era talvolta sinonimo di arbitrio o di preferenze immotivate. Una cattiva medicina clinica non può essere etica; tuttavia la competenza clinica non basta più per fare un buon medico. La novità è stata recepita dalla più recente formulazione del Codice deontologico
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dei medici italiani (dicembre 2006). La “qualità professionale e gestionale” (art. 6) è così descritta:
“Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’autonomia della persona tenendo conto del"l’uso appropriato delle risorse. Il medico è tenuto a collaborare all’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportunità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità nelle cure”.
Il buon medico, quindi, oltre alle conoscenze scientifiche deve avere competenze comunicative per praticare la medicina “nel modo giusto”, così come richiede la cultura contemporanea, orientata al rispetto dell’autodeterminazione della persona malata. E deve avere competenze gestionali, in accordo con le esigenze dell’etica dell’organizzazione. In una parola, il buon medico non può essere solo competente sul versante delle scienze biomediche, ma deve esserlo in misura non minore in tutto l’arco dei saperi coltivato dalle medical humanities.
I doveri di co-umanità riguardano anche, specularmente, quanto deve mettere in atto chi ricorre ai servizi della medicina per essere un “buon paziente”. La Humanität del vecchio Kant, traducibile essenzialmente in urbanità e rispetto, non basta più. La fine della “minorità non dovuta”, che per il filosofo costituiva l’entrata nell’epoca dell’Illuminismo e della modernità, ha modificato in profondità il modo di esercitare la medicina. Quando il
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rapporto che vigeva tra sanitari e pazienti era fondamentalmente di stampo paternalista, il buon paziente era il malato compliant: docile e remissivo, coltivava una relazione fiduciale. Si affidava al discernimento del medico e interferiva il meno possibile con le decisioni che questi prendeva per il bene del malato. Non è certo proibito comportarsi ancora secondo questo modello, se ciò corrisponde a una preferenza personale, ma in generale non è quanto ci aspettiamo dal buon paziente dei nostri giorni. Ai nuovi diritti corrispondono anche nuovi doveri. E nuove responsabilità da parte del malato. Deve partecipare al processo decisionale, prima di tutto informandosi, chiedendo. Il buon paziente non è più quello che non fa domande: al contrario, non smette di far domande finché non si è creato quel quadro della situazione clinica che gli permette di decidere insieme al medico. E deve anche accetta"re i limiti che il contesto dell’organizzazione sanitaria impone alle sue richieste di servizi. Non può essere un buon paziente chi si comporta secondo modelli di bulimia consumistica, a danno del"le legittime esigenze di altri cittadini. Tutto questo è incluso oggi nell’empowermenf che si richiede per essere un buon paziente. Questo è appunto il modello ideale di rapporto che le medical humanities vogliono promuovere.
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II. LE "MEDICAL HUMANITIES" IN PRATICA
1. L’integrazione delle “due culture”
La consapevolezza che la medicina presuppone due sguardi diversi sull’uomo ha una lunga storia. Non a caso l’immagine di Giano bifronte ― figura mitologica centrale nel pantheon latino ― è stata utilizzata innumerevoli volte per illustrare la caratteristica peculiare della medicina di guardare contemporaneamente in due direzioni opposte: quella delle scienze della natura (Naturwissen-schaften) e quella delle scienze dello spirito (Geistwissenschaften), per usare la terminologia proposta dallo storico e filosofo tedesco Wilhelm Dilthey. Da una parte le scienze dell’uomo basate sulla storia, la narrazione, la comprensione, dall’altra le scienze esatte, tese all’accertamento di leggi e meccanismi; mentre le prime richiedono la comprensione (in tedesco: verstehen), le scienze della natura ricorrono invece alla spiegazione (erklären). Per questo il medico, che è uno scienziato di uomini, e di uomini malati deve non solo sapere che cos’è la malattia, ma deve anche capire il malato.
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Il processo di integrazione dei due aspetti della medicina ha conosciuto diversi tentativi, più o meno coronati da successo. In Germania uno dei più sistematici è stato quello proposto da Viktor von Weizsäcker (1886-1957), fondatore dell’approccio de"nominato “Medicina antropologica”. A lui dobbiamo questa felice formulazione del problema della pluralità degli sguardi: “Determinate scienze permettono solo determinate domande selezionate; la risposta a esse, qualora non siano risolvibili con le proprie premesse, la rimandano, nei casi migliori, a una disciplina vicina, se non la sopprimono del tutto”. L’obiettivo delle medical humanities è invece proprio quello di tenere insieme i diversi sguardi, senza negare la rilevanza di ognuno, nella sua irriducibilità.
Una ulteriore messa a fuoco del problema delle “due culture” (così è stato identificato dopo il successo del libro di Charles P. Snow: The two cultures and the scientific revolution, 1960) parte dalla constatazione che le scienze dell’uomo hanno subito una certa discriminazione all’interno del mondo della cultura genera"le. Così è sicuramente avvenuto in Italia. Le correnti filosofiche idealistiche hanno ostacolato lo sviluppo delle scienze dell’uomo. Soprattutto per l’influsso dello storicismo di Croce, che ha esercitato un’influenza determinante fino a tutti gli anni Cinquanta del XX secolo. La conoscenza storica, considerata come la più peculiare e significativa, non svalutava solo la conoscenza scientifica, ma anche quella prodotta dalle scienze umano-sociali, che per la filosofia crociana erano scienze spurie. La cultura italiana ha dovuto, perciò, affrontare due problemi: dare diritto di cittadinanza accademica alle scienze umane e, successivamente, portarle a dialogare con le scienze sulla natura.
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In concreto, la penalizzazione delle scienze umane si ri"scontra nella formazione dei medici. A fronte di un ampio spazio assegnato nel curriculum degli studi alle scienze biologiche ― nonché ai loro fondamenti: chimica, fisica, genetica... ― pressoché assente è l’attenzione dedicata a quelle sociali: sia dal punto di vista descrittivo della realtà umana (sociologia, psicologia, antropologia culturale), sia dal punto di vista prescrittivo dei comportamenti (di"ritto, etica). Molti degli sforzi delle medical humanities sono rivolti a correggere, a posteriori, uno sguardo deformato da un riduzionismo indotto da una frequentazione unilaterale delle scienze bio"mediche durante tutto il curricolo formativo. Sarebbe invece urgente che la capacità di equilibrare e integrare le due culture fosse coltivata sin dall’inizio. Lo spazio adeguato alle scienze umane nell’ambito della formazione universitaria dei futuri medici non è ancora previsto nell’agenda di nessuna proposta di riforma.
2. Dalla cultura dei diritti all’“empowerment” del cittadino
Mentre la prima linea applicativa delle medical humanities riguarda la fondazione del sapere che il sanitario mette a servizio delle persone che ricorrono alla medicina, la seconda ha a che fare con il loro rapporto. Un rapporto che è cambiato con il tempo ed esige oggi altri modi di relazionarsi. Ci sono situazioni che urtano con la nostra sensibilità e con il concetto di rispetto dovuto alle persone, soprattutto se malate o fragili. Sono, appunto, le situazioni rispetto alle quali si sente invocare la necessità di procedere
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a una “umanizzazione” della medicina. Quand’anche non esistessero più occasioni per le quali si ritiene appropriata questa infelice espressione, rimarrebbe integro il problema di una riscrittura sociale delle regole che sovrintendono ai rapporti tra sanitari e cittadini.
Storicamente questa istanza ha preso voce con i movimenti che, dalla metà degli anni ’70, hanno rivendicato la cura come un diritto del cittadino, piuttosto che come un atto di benevolenza del sanitario. La costituzione dei Tribunali dei diritti del malato è stata un momento politico rilevante di questa revisione del modello di di rapporto. La prima sessione del Tribunale tenutasi a Roma in Campidoglio il 29 giugno 1980 (con il titolo programmatico: “Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popo"lare delle strutture sanitarie”) culminava con la presentazione dei “33 diritti del cittadino”. Nel lungo elenco di diritti rivendicati un’attenzione relativamente modesta veniva riservata alla partecipazione attiva del paziente alle decisioni cliniche (solo l’art. 28 parla di un diritto ad avere inserita nella cartella clinica “una scheda dove siano illustrate in termini chiari e comprensibili, e con testo obbligatoriamente dattiloscritto, la diagnosi e la terapia in corso, nonché le previsioni circa la durata del ricovero e le eventuali possibilità di guarigione”).
Il confronto con altri movimenti che andavano prendendo consistenza in quegli stessi anni rivela una diffusa percezione che l’informazione fosse centrale per promuovere un diverso rapporto tra sanitari e cittadini malati. Per esempio, l’Associazione dei pazienti della Svizzera italiana presentava la propria attività non sotto l’immagine di un tribunale che tutela chi è costretto a subire
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maltrattamenti, ma come una struttura che può fornire consigli quando sorgono interrogativi, quali: “Ho diritto di vedere la mia cartella medica? A chi appartengono i risultati delle analisi e le radiografie? Quali informazioni devono esser date al paziente sul suo stato di salute e sulla cura che deve seguire? E ai suoi familiari? C’è libertà di scelta della terapia?”. In pratica, si tratta degli interrogativi diventati correnti negli ultimi anni, e che circoscrivo"no il passaggio che possiamo chiamare, sinteticamente, dall’etica medica alla bioetica.
Tuttavia, mentre la bioetica è andata sempre più concentrandosi su casi limite e scelte drammatiche, in cui possono confliggere sistemi e riferimenti morali, recedeva sullo sfondo il bisogno di un cambiamento sistemico dei rapporti, che può e deve dar forma anche alle relazioni routinarie. È questo, invece, l’interesse principale delle medical humanities. Con una sola parola, possia"mo designare l’intero processo come “empowerment” del cittadino. La parola inglese contiene la nozione di “potere” (power). L’aspetto più visibile è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte in una relazione sanitaria.
Il potere al quale ci riferiamo non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano; si tratta piuttosto di quel potere che entra inevitabilmente in gioco quando qualcuno si prende cura di persone a lui affidate. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere, utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: è quanto avviene nel rapporto tra genitori e figli, insegnanti e allievi, medici e infermieri e malati, appunto. Questo tipo di transazioni ― che rientrano nella categoria delle
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relazioni complementari ― si basa sulla differenza tra le posizioni coinvolte. Relazioni di questo genere funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell’altro. Dal punto di vista grafico, il modello che le rappresenta prevede due posizioni: una sovrastante (one up) e una sottostante (one down):
one up |
one down |
Diverse sono invece le “relazioni simmetriche”, nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare l’uno di fronte all’altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce. Ora, il senso del processo di empowerment del paziente non è quello di mettere quest’ultimo in posizione one up e il medico in posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un’autorità indiscutibile e induce il paziente a essere “osservante” o compliant). L’empowerment del cittadino è piuttosto un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani. Comprende una dimensione culturale (che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e di migliorarla, nonché di assumere un atteggiamento psicologico “adulto” nei confronti dei professionisti sanitari): una dimensione clinica (con la raccolta sistematica delle informazioni sui trattamenti proposti e l’accesso consapevole alle prestazioni
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sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali, rischi, complicazioni); una dimensione etica (con l’autonomia come principio etico che controbilancia il principio di “bene del paziente” stabilito unilateralmente dal medico). L’empowerment del cittadino è l’atto finale della rivisitazione del rapporto medico"paziente che la situazione attuale della complessità ci costringe a intraprendere. Si tratta, in pratica, di ripensare la pratica della medicina entro i concetti che costituiscono la modernità. Implica una articolazione inedita della “humanitas”, estranea alla cultura pre-moderna.
3. Oltre la “bellettristica”: le arti come interlocutrici
L’espressione “bellettristica” (dal francese les belles lettres) può assumere nel nostro contesto un significato ironico. Cultura letteraria e buona medicina sono state spesso accostate, non sempre però come realtà sinergiche: la letteratura e le arti, che pacificano lo spirito e promuovono l’equilibrio interiore, possono essere anche intese come un momento individuale di pace interiore che gratifica il professionista sanitario, ma che non garantisce una pratica della medicina dotata di qualità dal punto di vista dell’efficacia terapeutica. L’archetipo di questa critica lo troviamo in un dialogo del Malato immaginario di Molière. Nello scambio di battute tra Argan, il malato immaginario, e suo fratello Béralde il commediografo condensa la sua opinione negativa sulla medicina e sulla funzione puramente esornativa che attribuiva alla cultura
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umanistica dei medici, fatta di accademismo, lingue morte e steri"le frequentazione dei classici:
Argan: I medici non sanno dunque niente, secondo voi?
Béralde: Proprio così, fratello mio. La maggior parte di loro conoscono delle bellissime humanités, sanno parlare in un latino elegante, sanno chiamare in greco tutte le malattie, le sanno definire e classificare, ma per quanto riguarda il guarirle, non sanno proprio niente.
A partire dall’inizio del XX secolo, la formazione del medico ha gravitato di più sul versante delle scienze esatte, abbandonando il contesto delle lettere e delle arti (con l’influsso determinante del celebre rapporto di Abraham Flexner: Medical education in the United States and Canada, 1910). Tuttavia non si è mai spenta del tutto la convinzione che i medici sono adeguati al loro compito solo quando considerino la dimensione psicologica-etica-spirituale degli esseri umani che curano, oltre agli aspetti propriamente biologici. La coltivazione personale delle arti e delle lettere è stata vista come la via privilegiata per completare il profilo umano del terapeuta. Nell’ambito dei professionisti medici non mancano strutture organizzative dei vari interessi artistici, come le associazioni di medici pittori, narratori, poeti (con i relativi concorsi a premi per le migliori realizzazioni). Si segnalano anche complessi di medici musicisti, che si producono nei congressi di categoria...
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Attingendo alla letteratura, alla musica, alla pittura, le medical humanities rischiano di vedersi ridotte a medical “amenities”, ovvero a ornamenti marginali della pratica medica, che lasciano tuttavia inalterata nella sua sostanza.
Una distinzione chiarificatrice può essere quella, proposta dal medico e letterato spagnolo Gregorio Maranón, tra l’esercizio professionale e pubblico della scienza medica e la coltivazione delle arti in modo dilettantistico e privato:
“A mio avviso i medici non devono fare mostra estrema od ostentazione di altra arte che non sia quella di Esculapio. È bene che ognuno riservi una porzione del suo giardino per coltivare questa o quella attività artistica. Tutti convengono che Esculapio va d’accordo con le Muse, e che le cerca appunto con speciale necessità per temperare l’aridità che il contatto permanente con il dolore gli causa allo spirito. Ma è opportuno riservare queste attività extrascientifiche al proprio piacere o, al più, a quello della famiglia, senza esporle a un pubblico verdetto.
Le arti possono, dunque, essere coltivate in privato, come una specie di “riposo del guerriero”: Marañón suggerisce al medico di frequentare le arti da amateur, non da professionista, perché “se si pretende di essere professionisti nella scienza e nelle arti in modo uguale, si corre il pericolo di essere dilettanti in tutt’ e due. Se un pittore dedicasse i suoi momenti di ozio a far ricette, è sicuro che nessuno farebbe ricorso a lui per alleviare i suoi mali. Allo stesso modo, la gente vede con riserva i quadri e i romanzi dei medici, in quanto superano i limiti di una intimità discreta”.
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Di tutt’altra portata è invece il ricorso alle arti come chiave interpretativa dell’umano nella sua interezza, che è l’oggetto appropriato della cura. Da questo punto di vista le discipline letterarie e le arti si sentono autorizzate a rivendicare un ruolo non secondario nella formazione dei professionisti sanitari. Per citare Kathrin M. Hunter, una docente di letteratura coinvolta a tempo pieno in una facoltà di medicina, l’onore della prova spetta non a chi vuole introdurre la letteratura nella formazione dei futuri medici, bensì a chi vorrebbe escluderla: “Come potrebbe la letteratura non far parte del curriculum medico? Questa, che è la forma più soggettiva del discorso umano, ha un’utile collocazione nella rigorosa formazione scientifica e clinica del medico. Un posto di particolare rilievo spetta alla poesia. Come il resto della letteratura ― fiction, biografia, testo ― la poesia fornisce ai suoi lettori una descrizione della condizione umana vista dall’interno. Sono informazioni di cui hanno estremo bisogno coloro che si orientano nella professione medica. Gli studenti di medicina sono giovani: è probabile che non siano mai stati seriamente malati; possono non aver mai conosciuto qualcuno molto vecchio o morente. La letteratura fornisce a chi legge e a chi l’ascolta l’opportunità di vedere la vita come altre persone la sperimentano. Gli studenti possono imparare qualcosa circa ciò che significa essere malato o morente, o appartenere a un’altra razza o classe sociale o sesso; possono anche intuire che cosa vuol dire essere medico”.
NOTE
1 Può essere di conforto a chi usa l’espressione inglese nel contesto italiano che anche per gli anglofoni non mancano le difficoltà. In un articolo pubblicato sul Journal of American Medical Association Rafael Campo prende le mosse da un convegno svoltosi a Londra, al quale partecipavano poeti, medici, registi, infermiere, sociologi, letterati, arte-terapeuti, esperti di etica, fotografi, studenti di medicina, operatori di hospice, storici, musicisti, filosofi, terapisti occupazionali, ballerini e pazienti: tutti radunati dal comune intento di porre rimedio al malessere della medicina, sotto il comune programma di medical humanities. “Ma che cosa sono, alla fin fine, le medical humanities?”, chiedeva uno studente dotato di senso pratico, durante una pausa. La difficoltà dell’autore di dare una risposta concisa si traduce nel titolo dell’articolo “The Medical Humanities”: for lack of a better term (JAMA, 2005; 214:1009-1011). Potremmo sottoscrivere: usiamo medical humanities in mancanza di un’espressione migliore.