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Sandro Spinsanti
L’EDUCAZIONE ALLA SALUTE COME SFIDA PER UNA MEDICINA UMANISTICA
in Prospettive Sociali e Sanitarie
anno XXI, n. 21, 1 dicembre 1991, pp. 1-5
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L’attività di educazione alla salute viene svolta per lo più a partire da modelli esplicativi dei comportamenti che possiamo qualificare come ingenui.
Anche le assunzioni antropologiche implicite, sulle quali si fonda la pratica dell’educazione alla salute, di solito non vengono sottoposte a disamina critica. In manieri molto schematica, i modelli concettuali presupposti possono essere così riassunti: salute e malattia costituiscono due opposti, definibili ognuno tramite il rispettivo contrario; la malattia è una realtà oggettiva dell’organismo, sempre riconducibile ad alterazioni di ordine fisico; esiste un sapere, qualificato come scientifico, che “spiega” la malattia, facendo ricorso a un percorso standardizzato (l’apparato diagnostico decodifica i sintomi, riconducendoli a una precisa nosologia; quando una costellazione di sintomi è interpretabile entro un quadro tassonomico, acquista lo statuto di malattia); il paziente è spontaneamente orientato a fuggire la malattia e a ricci care la salute; l’attività educativi in questo ambito consiste nel trasmettere un sapere specifico riguardo ai comportamenti appropriali per recuperare o conservare la salute.
Questi modelli colgono una parte importante del processo di educazione alla salute, ma sono nel complesso abbastanza approssimativi c fondamentalmente unilaterali: spiegano la realtà a partire dal terapeuta/educatore, e il comportamento del malato come risposta all'attività di questi. Una più attenta osservazione del comportamento umano ci offre un quadro di maggiore complessità.
La domanda di salute
Se partiamo dalla domanda di salute quale può essere documentata dagli strumenti abituali di rilevamento di opinione, le concezioni della salute sulle quali si articola la domanda stessa possono essere ricondotte a tre modelli fondamentali. Il primo intende la salute come norma di efficienza. Sganciate dai vissuti soggettivi, la salute e la malattia appaiono come comportamenti socialmente standardizzati. Al malato sono permessi comportamenti “deviatiti” rispetto alla norma (a cominciare dall’essere dispensati dal lavoro e da altre prestazioni corrispondenti al proprio status e ruolo sociale). Lo stato di salute si caratterizza come buona corrispondenza ai dati “oggettivi” delle aspettative sociali. La domanda di salute adeguata a questo modello è quella relativa alla eliminazione di sintomi sgradevoli o debilitanti, intesi come evento incidentale della vita del soggetto. Il malato chiede, in pratica, al medico che lo aiuti a recuperare la norma di efficienza antecedente all’evento morboso.
Un secondo modello concepisce la salute come un’esperienza di equilibrio psicofisico. La malattia si presenta come l’alterazione di quell’equilibrio che connota, in modo silenzioso e permanente, l’esperienza quotidiana dello stato di salute. I sintomi, in quanto parlano alla soggettività del malato, svolgono un ruolo di indicatori dello squilibrio. Non sono semplicemente un incidente da mettere tra parentesi o da sopprimere, bensì un’occasione per individuare lo squilibrio e fornirgli una risposta creativa. I sintomi vanno decodificati (non solo scientificamente spiegati, ma compresi!), collocandoli in rapporto con la salute del paziente in quanto progetto esistenziale. Questa non ha un significato univoco. La malattia può convogliare un desiderio regressivo, la ricerca di “vantaggi” secondari, o una soluzione di compromesso. La domanda di salute come migliore equilibrio psico-fisico richiede un lavoro di saggia interpretazione e di paziente accompagnamento del soggetto nella ricerca di equilibri più avanzati.
Una terza concezione della salute può essere ricondotta allo stile di vita. L’accento principale cade non sulla dimensione sociale, né su quella psicologico-esistenziale del soggetto, bensì su quella socio-ambientale. La malattia diventa allora espressione di una cattiva interazione tra individuo e ambiente. La risposta a essa richiede, per poter adeguare la domanda di salute implicita, che il soggetto acquisisca una migliore competenza conoscitiva e maggiore autonomia nelle sue scelte. Negativamente ciò implica un distanziamento polemico dalla “medicalizzazione” della salute (cfr. le critiche di Ivan Illich all’espropriazione della salute da parte della medicina); positivamente, questa concezione della salute promuove una migliore interazione con l’ambiente fisico e sociale e la valorizzazione di tutti i fattori non medici della salute (lavoro, alimentazione, igiene di vita).
Se confrontiamo gli orientamenti della domanda di salute in Italia con questi tre modelli di concezione della salute 1, notiamo che le richieste tendono a costituire un quadro omogeneo allineato su una concezione antropologica che privilegia gli elementi esistenziali e ambientali. Si delinea
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una crisi della concezione della salute che mette in risalto l'aspetto organico di essa e la ricuce a norma di efficienza sociale; emerge sempre più nettamente, invece, la ricerca della salute intesa come benessere psicofisico e come equilibrio ambientale, prodotto da una migliore qualità di vita.
Più precisamente, nell’area della salute si va distinguendo un nucleo “hard”, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di morte o di cronicità, e un vasto insieme sistemico a dimensione somato-psichico-ambientale. Nei confronti del primo aspetto permangono gli atteggiamenti più tradizionali (il corpo inteso come un insieme di “pezzi di ricambio”; l'apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione dell’organismo-macchina, privilegiando il paradigma malattia/medicina/servizi sanitari); altrimenti prevale la nuova domanda di salute, con la richiesta di promozione del benessere psico-fisico, di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell'offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi.
Fattori di salute
Il rapporto con il corpo
Correlare la salute al rapporto con il corpo vuol dire anzitutto, negativamente, prendere le distanze da una concezione di educazione alla salute che si fonda su un sapere di esperti e sull’iniziazione a conoscenze specialistiche, utilizzando la molla della paura (vedi certe campagne “terroristiche” di dissuasione dal fumo...). La salute va cercata, piuttosto, sul versante della conoscenza diretta, esperienziale, del proprio corpo. Inoltre essa non è il prodotto di un investimento socio-culturale specifico: la salute non si “ordina". È questa la concezione che soggiace alla medicina moderna, la quale opera con una “lista di controllo” dei sintomi possibili e presume di produrre la salute escludendo questi. La salute è piuttosto il risultato di un “lavoro” sul corpo, analogo al procedimento con cui si “lavora” la pasta... Un tale “lavoro” rivolto alla salute comincia dalla persona stessa, dalla sua esperienza del corpo, dall’apprendimento che provoca un sentire, ripetere, imitare determinati comportamenti, con il corpo e attraverso il corpo.
La corporeità è diventata un luogo dove si elaborano cambiamenti di enorme portata per la nostra cultura 2. Ci limitiamo a segnalare alcuni capisaldi della nuova cultura del corpo che si ripercuotono nell’educazione alla salute. Anzitutto la “psicologizzazione” del corpo. Esso non è più visto come il polo opposto della psiche, luogo di avvenimenti patologici senza alcuna correlazione con il mondo delle rappresentazioni mentali, dei simboli, delle emozioni. Per rispondere alla domanda: “Perché ci ammaliamo?”, dobbiamo più che mai ripercorrere il cammino del corpo, ma del corpo inteso come organo di un tutto integrato, qual è l’essere umano 3.
Grande rilevanza ha anche il cambiamento dei ruoli sessuali, che sta avvenendo nella nostra epoca. Riferirsi al corpo vuol dire sempre riferirsi a un corpo di uomo o di donna, con le attese specifiche che la cultura di una determinata società collega con i ruoli dei sessi. L’uomo e la donna stanno ora parzialmente scambiando le loro attribuzioni tradizionali. Spinte all’estremo, anzi ridotte a tratti caricaturali, le immagini tradizionali rispettive si riducono al corpo-oggetto (per l’altro) della donna e al corpo-macchina per l’uomo. Ora l’uomo sta integrando di più il suo corpo privato e le sue emozioni, mentre la donna si lancia nella conquista sociale della sua autonomia e si distanzia dalla concezione del suo corpo che lo riserva in primo luogo al maschile. La donna è così meno esposta a fare del suo corpo il canale espressivo privilegiato del suo disagio (tendenza a somatizzare di più, in armonia con l’immaginario sociale del “sesso debole”); l’uomo, da parte sua, può conferire al corpo un ruolo espressivo più vasto di quello che è solito attribuirgli. La socializzazione sessualmente differenziata rispetto al corpo porta maschi e femmine a trattare diversamente il proprio corpo; ciò si ripercuote sui comportamenti di salute.
Un terzo cambiamento da segnalare è quello relativo al ruolo che il corpo gioca nel canalizzare il “desiderio”. L’accento si sposta dalla morbilità al desiderio, inteso come adeguamento del corpo agli obiettivi estetici ed edonistici della persona. I momenti di morbilità sono respinti nel campo della medicina professionale (è il motivo per cui la malattia e la morte sono bandite dal visibile quotidiano e ghettizzate nelle istituzioni sanitarie).
Il modellamento del corpo sul desiderio diventa invece l’elemento trainante della ricerca della salute. Il ventaglio degli interventi in questione si estende dai trattamenti anti-stress ed estetici delle “beauty farmes” alla regolazione della fecondità oltre e talvolta contro i limiti della natura (fecondazione in vitro, programmazione del sesso del nascituro e dell’eredità genetica).
La famiglia
La centralità della famiglia nell’educazione alla salute era legata in passato al ruolo della donna nell’ambito delle cure. A essa era primariamente affidata la cura dei bambini e degli anziani, nonché il compito di assistere i malati al di fuori delle situazioni ospedaliere e i convalescenti. Questa strutturazione dei rapporti è entrata in crisi per l’azione congiunta di due diversi movimenti, non privi di reciproche influenze: quello della emancipazione femminile dai compiti esclusivamente intradomestici e quello della “medicalizzazione” di tutte le vicende biologiche, dalla nascita alla morte, con conseguente subentro dell’istituzione sanitaria negli ambiti prima
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riservati alla cura non professionale.
In conseguenza di queste trasformazioni sociali e culturali, il potenziale della famiglia rischia di essere sottovalutato. Peraltro, là dove ci si scontra con l’inadeguatezza delle istituzioni a far fronte a determinate situazioni (come lungodegenti cronici, gestione della fase terminale della malattia), la famiglia rischia di essere sovraccaricata di aspettative e compiti che la schiacciano.
In un piano attuale di educazione alla salute la famiglia entra a diversi titoli. Anzitutto in forza dei principi di igiene di vita, che costituiscono il vissuto quotidiano e sono fortemente influenzati dalla socializzazione primaria della famiglia. Nella famiglia non bisogna considerare solo il “detto” (le regole di vita esplicitamente inculcati ai figli), ma anche ciò che viene loro “mostrato” con le pratiche in vigore nelle famiglie in materia di salute. Non di rado tra l'uno e l’altro livello esistono contraddizioni eclatanti 4.
In secondo luogo la famiglia entra nell’educazione alla salute dal punto di vista della politica sanitaria condotta dallo Stato. L’evoluzione delle strutture familiari modifica, infatti, il quadro di tale politica 5. Le trasformazioni demografiche in atto nella nostra società ― abbassamento del tasso delle nascite, aumento dei divorzi e delle famiglie mononucleari, allungamento delle speranze di vita e invecchiamento progressivo della popolazione ― richiedono un investimento diverso della risorsa costituita dalla famiglia.
Agli inizi di una politica sociale dello Stato a beneficio della famiglia e della salute l’obiettivo identificalo era quello del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle donne e dei bambini (protezione della madre lavoratrice, proibizione di assumere i bambini). Oggi l’obiettivo più urgente è quello di promuovere nuove reti di solidarietà e di aiuto mutuo ― ivi compresa una nuova ripartizione dei compiti tra uomo e donna all’interno della famiglia ―, se non si vuole che la famiglia affondi come una nave troppo carica.
In seguito a considerazioni tanto umanistiche quanto di economia sanitaria, si torna oggi a riconsiderare la dimensione familiare all’interno del sistema di cure sanitarie. La richiesta di inserire l’individuo malato in un gruppo sociale e familiare riconosce alla famiglia un ruolo in quanto agente di salute e un potenziale positivo di risoluzione dei problemi.
Non si può continuare con programmi di salute centrati esclusivamente su istituzioni che forniscono servizi. Bisogna ormai applicare un approccio che parta dal lavoro di salute svolto dalla famiglia e fondi su questa base i servizi di salute.
Questi programmi dovrebbero essere elaborati in comune con le famiglie e concretizzarsi in una modifica dell’aiuto professionale, specialmente nei seguenti punti: riconoscimento del sapere e della competenza quotidiana acquisiti nel vissuto delle famiglie; accettazione di gruppi di aiuto come unità proprie; necessità che i professionisti sociali e della salute abbiano una competenza e un’esperienza che permetta loro di comunicare con la famiglia. Va menzionato, infine, che la prospettiva della famiglia nella problematica della salute serve di correttivo all’ambivalenza dei diritti sociali legati alla persona.
La famiglia garantisce che sia preso in considerazione l’interesse legittimo dei singoli membri, senza con ciò accelerare il processo negativo di individualizzazione unilaterale, che spesso sfocia nell’isolamento e nella solitudine dell’individuo 6.
L’etica
Indicando nell’etica un fattore di salute, intendiamo riferirci globalmente al fatto che la salute dell’uomo, oltre ad aspetti fisici, affettivi e sociali, ne contiene anche altri di natura morale e spirituale. Dal punto di vista semantico, etica è un termine meno esposto ad ambiguità di “morale” e “spiritualità”. La morale, infatti, tende a essere identificata con gli aspetti deteriori del moralismo (con l’uso del senso di colpa come strumento di manipolazione delle coscienze). La recente epidemia di Aids ha fornito ancora una volta occasione a revivals moralistici... Ciò induce molti a forme di rifiuto allergico a qualsiasi tentativo di correlare la dimensione della morale con quella della salute.
Anche la spiritualità è resa responsabile di una tradizione che la vuole estranea alla preoccupazione per la salute; talvolta si sono sviluppate concezioni estreme, come per esempio il “dolorismo”, che considera la malattia come una condizione particolarmente propizia per lo sviluppo spirituale. Di qui una diffidenza difficilmente superabile nei confronti di proposte di spiritualità correlata con la malattia.
È pur vero che tanto la morale quanto la spiritualità sono in grado di riferirsi a uno spazio semantico non ambiguo, nel quale possono godere di una amplissima base di consenso. Tuttavia è più semplice ovviare a questa difficoltà ricorrendo a un termine meno compromesso, quale appunto etica. Tanto più che di recente l’etica si è ricavata nel dibattito culturale un uditorio attento e sensibile, presentandosi con riferimento alla biologia e alla medicina nella nuova disciplina della “bioetica”.
Riguardo all’educazione alla salute possiamo assumere l’etica come risorsa, in quanto stimolo ad
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assumere le decisioni nell’orizzonte della responsabilità. La responsabilità ha due versanti: quello delle cause e quello delle conseguenze. Seguendo il primo, l’etica ci invita a restituire alla comprensione dei fatti patologici tutto il loro spessore antropologico. Proprio perché fatti umani, sono rivestiti di un senso che va cercato nella catena immanente delle cause. Anche nell'ambito della medicina fisiologica greca questo procedimento era presente a chi si domandava il perché della malattia. I medici-filosofi della scuola ippocratica rifiutavano di attribuire le malattie all’azione degli dei, ma rivendicavano al soggetto la responsabilità del proprio male.
Oggi la considerazione del soggetto, in quanto artefice strutturante della malattia, è mollo più complessa che al tempo dei greci. Province sempre più vaste sono state acquisite alla conoscenza antropologica 7.
La chiave per penetrare nella comprensione dell’uomo malato è passata dal mito alle scienze umane: la psicologia ― compresa la psicanalisi e la conoscenza dell’influsso dell’inconscio sul comportamento umano ―, la sociologia, l'antropologia culturale, la linguistica. Questa interrogazione multiforme del dato morboso lo sottrae al regno della “in-sensatezza”, per riportarlo nel pieno registro dell’umano. Su di essa si innesta l'etica.
Questa può cambiare il nostro apporto con la malattia, purché si prefigga il compito non di incrementare gli oscuri sensi di colpa, sempre connessi con gli eventi morbosi, bensì di far crescere la libertà essenziale dell’uomo, che prende forma nell’assunzione della responsabilità.
La responsabilità ha anche una faccia che guarda verso il futuro. Nei comportamenti ― individuali, familiari e societari che incidono sulla salute bisogna includere la considerazione delle conseguenze sulle generazioni future.
Per capire quanto sia necessario e urgente introdurre questa dimensione nel prendere le decisioni, basta confrontare la nostra cultura tecnologica, che privilegia il rendimento immediato, con quella degli indiani irochesi, che ha istituzionalizzato una visione specifica del futuro in tutte le decisioni da prendere.
Un capo irochese così si esprime: “Noi guardiamo avanti, perché uno dei primi mandati assegnati a noi, che siamo i capi, è di garantire che ogni decisione presa tenga conto della prosperità e del benessere della settima generazione a venire, e questo è il fondamento per le nostre decisioni in assemblea.
Ci chiediamo: la nostra decisione andrà a beneficio della settima generazione? Questa è la nostra regola” 8.
L’etica diventa una risorsa ― e non delle minori ― per l’educazione alla salute quando forma ad ampliare lo sguardo, considerando buono non solo ciò che è salutare per la generazione attuale, ma ciò che lo sarà anche per le generazioni che seguiranno.
L’educazione alla salute come ascolto
Ci sono in circolazione parecchie idee ingenue circa l’educazione alla salute. Questa attività viene spesso presentata con toni trionfalistici, sotto il segno della più lucida razionalità. Semplificando un po’, possiamo immaginare i programmi di educazione alla salute come crociate contro comportamenti sbagliati, e quindi patogeni (tabagismo, alcolismo, abuso di droghe, mancanza di esercizio fisico, squilibri alimentari).
Ci si aspetta che la presa di coscienza del rischio insito in tali comportamenti produca una correzione dei comportamenti stessi. La supposizione che il fatto che gli interessati “sappiano” agisca sul loro modo di agire concreto, modificandolo in senso positivo per la salute, si dimostra invece, allo stato dei fatti, problematica. Anche il miglior programma non è in grado di controllare tutti i fattori (sociali, familiari, culturali) che giocano un ruolo sulla salute. A questa complessità va aggiunta anche la dimensione della profondità: il comportamento patogeno può essere inserito, a livello psicologico ― emotivo, in un “gioco” (nel senso in cui ne parla l’analisi transazionale di Eric Berne) che carica il sintomo di un particolare valore e lo rende resistente al cambiamento 9.
In queste condizioni, l’educazione alla salute da gloriosa crociata si tramuta spesso in una fonte di frustrazione per gli operatori.
Solo la prospettiva di un alto “guadagno” può motivare gli operatori sanitari a dedicarsi all’educazione alla salute.
Non saranno tanto i vantaggi economici ― realisticamente modesti in una attività di questo genere ― quanto piuttosto benefici di altro genere che compenseranno l’operatore che si inoltra nel complesso mondo dell’educazione sanitaria. Sinteticamente, possiamo identificare questo alto obiettivo, sommamente motivante, nel fatto che l’operatore, educando gli altri alla salute, educa se stesso.
L’educazione di se stesso alla salute diventa, in questa accezione, sinonimo di autorealizzazione esistenziale.
Per entrare in questa prospettiva, bisogna rinunciare alla rappresentazione semplicistica che colloca colui che si dedica a educare gli altri alla salute su un piedistallo di conoscenza e di dominio dei meccanismi di produzione della salute, dall’alto del quale dispensa i nostri servizi a coloro che non sanno prendersi cura della propria salute. Anche l’educatore ― come tutti ― ha già invece elaborato inconsciamente strategie che gli impediscono di essere “sano” (nel significato antropologico pieno che acquista la salute quando non la consideriamo soltanto in rapporto a una norma di efficienza). Tutti abbiamo prodotto, e con il tempo perfezionato, comportamenti di non ascolto
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della natura che ci parla attraverso il corpo e i suoi sintomi 10.
Il non ascolto del corpo può essere un grossolano meccanismo di difesa, corrispondente in senso psicodinamico alla negazione (il comportamento che amiamo attribuire allo struzzo, che nasconde la tesi a sotto la sabbia...). Si attua quando il ripiegamento sul corpo è etichettato come atteggiamento non consono al proprio “Io” ideale: quando ci si identifica, in altre parole, con una persona “forte”, che non deve cedere a debolezze, come accusare dolori o soggiacere a malattie. Oltre a queste, esistono forme più subdole, e quindi più pericolose, di non ascolto. Si può, per esempio, “dare ascolto”, al fine di non “ascoltare”, ovvero di non permettere che ciò che è veramente importante venga allo scoperto.
Quella guarigione totale in cui consiste l’autorealizzazione della persona attraverso i percorsi tortuosi della malattia e della salute richiede che si ascolti non soltanto quello che preme per essere ascoltato (non di rado si tratta di un’organizzazione di sintomi che funge da paravento alla vera causa del malessere, impedendo così alla persona di modificarsi in profondità), ma anche e soprattutto quello che è stato “scomunicato”, cioè sottratto alla comunicazione. Il sanitario, in altre parole, occupandosi unicamente di ciò che funge da copertura, può usare la propria competenza nel guarire per “tenere a d stanza" ciò che è veramente importante.
L'ascolto dirottato sui sintomi, ovvero su qualcosa di secondario e periferico, nell’ambito della personalità, affinché non emerga l'essenziale, avviene per lo più con la collaborazione conscia o inconscia, del malato stesso. Può essere questi a condurre il gioco, puntando sull’ambiguità fondamentale della malattia, e depistare il terapeuta. Mediante l’ascolto compiacente questi finisce impantanato in un terreno di inautenticità, mentre la capacità di ascoltare si risolve in una recettività amorfa e non selettiva. Ascoltare equivale allora a colludere con quella parte del paziente che banalizza il male e gli toglie la funzione di stimolo per la crescita in autenticità. L’ascolto perde in questo caso la capacità di essere anche una “confrontazione”.
Una delle modalità più diffuse di difendersi dalle scomode esigenze dell’ascolto totale è quella di frazionare la richiesta. Ogni operatore acquisisce insensibilmente con l’esercizio della professione una certa deformazione, che lo porta a ricondurre la domanda della persona sofferente a ciò che è rilevante per la sua professione. Si realizza così una “educazione” del paziente a far entrare i propri sintomi entro il quadro di leggibilità che il terapeuta ha assunto come proprio.
Secondo Balint, specialista nell’analisi del rapporto terapeutico, i malati “offrono” i sintomi: di volta in volta l’operatore sceglie di accettare o no ciò che il paziente gli porge 11.
Su questo piano inclinato si procede, con l’aiuto della specializzazione, verso quella focalizzazione sulla malattia, piuttosto che sul malato, che favorisce l’anonimato e i rapporti impersonali. Ma questa protegge, al tempo stesso, sia il malato che il sanitario dalle questioni antropologiche più inquietanti che si incontrano sul cammino della salute/malattia.
Un modo ancora di alzare una difesa nei confronti della domanda di ascolto della malattia consiste nel predeterminare la conoscenza di quella domanda. Lo si ottiene appoggiandosi a una solida teoria, che è quella riconosciuta scientificamente valida nel proprio ambito professionale. La teoria riempie lo spazio mentale dell’operatore, che si trova così sollevato dal compito gravoso, e pericoloso per gli equilibri più profondi, di colmare la propria ignoranza mediante un ascolto dell’altro nella sua concretezza e unicità personale.
L’interiorizzazione dei modelli teorici può costituire un argine allo straripamento dell’altro, con la carica dirompente della sua diversità e con l’eccedenza di significato insita nel fatto patologico. La teoria, dando l’impressione di poter capire gli altri in anticipo, adempie in realtà la funzione di tener lontano da sé le loro pretese più esigenti e di esercitare un controllo sulla malattia. Soprattutto imbriglia quegli aspetti inquietanti del mondo che trapelano attraverso il dolore: la comune destinazione alla morte, di cui ogni malattia fisica è il non gradito messaggero; la follia, a cui tutti paghiamo un piccolo o grande tributo; il peccato e la colpa, più presenti che mai là dove si cerca vanamente di tenerli lontano con sistemi di autogiustificazione.
L’educazione alla salute, in questo senso antropologicamente più pregnante, equivale ad addentrarsi là dove l’esistenza umana pone le supreme sfide. Il patologico fa emergere un campo di forze contrastanti. Esso attira e respinge allo stesso tempo la suprema questione del senso. Educare gli altri alla salute significa entrare in profondità nella ricerca del senso, che ha il carattere notturno della lotta di Giacobbe con l’angelo (Gen. 32, 25-33).
NOTE
1 Ci riferiamo soprattutto alla più recente ricerca curata dal CENSIS: La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti degli anni '80, Milano, F. Angeli.
2 Cfr. Sandro Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Brescia, Queriniana, 1987.
3 Si veda la ripresa contemporanea anche in ambito psicoanalitico del concetto freudiano ― applicato finora soltanto alle malattie di natura psichica ― di “Organsprache” con riferimento anche alle malattie somatiche: Luis Chiozza, Perché et ammaliamo?, Roma, Borla, 1989.
4 Un punto di osservazione interessante di ciò che si fa per sostenere lo sviluppo dell'igiene di vita nella famiglia e con la famiglia è costituito dal Centro Federale d’educazione alla salute di Colonia, che ha stabilito un accordo di collaborazione con l'OMS. Il Centro raccoglie una documentazione internazionale e scambi di esperienze su azioni, programmi e materiali di educazione sanitaria nella famiglia. Costituisce inoltre una rete che coordina i progetti e fornisce loro effettive vie di comunicazione mediante una Newsletter.
5 Per le trasformazioni della condizione della famiglia nel nostro Paese, cfr. Pierpaolo Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1989.
6 Cfr. AA.VV., Nascere, amare, morire. Etica della vita e famiglia, oggi, Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1989.
7 Si veda Sandro Spinsanti, Guarire tutto l’uomo. La medicina antropologica di Viktor von Weizsäcker, Cinisello Balsamo, Ed Paoline. 1987.
8 Citato da Jeremy Rifkin, Guerre del tempo, tr. it. Milano, Bompiani, 1989, p. 76.
9 Cfr. Eric Berne, A che gioco giochiamo, Milano, Bompiani, 1967.
10 Sui problemi dell'ascolto nella pratica delle professioni della salute ― non solo di quelle sanitarie, ma anche delle professioni che si occupano della salute psichica e spirituale ― cfr. AA. VV., L'ascolto che guarisce, Assisi, Cittadella, 1989.
11 Michael Balint, Medico, paziente e malattia, Milano, Feltrinelli, 1988.