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Sandro Spinsanti
CONFLITTO DI INTERESSI
in Giornale Italiano di Endoscopia Digestiva
anno 3, volume 31, settembre 2008, pp. 257-259
257
Il medico deve fare il bene del malato,
ma deve farlo nel modo giusto
- rispettando la sua autonomia -
senza dimenticare i suoi doveri di assistenza
nei confronti di tutti quelli che hanno diritto e bisogno.
La scelta consapevole
Una novità vistosa del più recente codice di deontologia dei medici italiani (approvato nel dicembre 2006) è la presenza di un articolo dedicato al “conflitto d’interesse”, corredato di una linea-guida per l’applicazione. La descrizione del conflitto è contenuta nell’articolo 30: “riguarda aspetti economici e non, e si può manifestare nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti individuali e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la Pubblica Amministrazione”. Le linee guida applicative dettano poi norme specifiche concernenti, rispettivamente, la ricerca scientifica, l’aggiornamento, la formazione e la prescrizione di farmaci. L’attenzione primaria del medico ― afferma il Codice ― non deve essere “indebitamente influenzata da un interesse secondario”.
È sicuramente apprezzabile lo sforzo del Codice deontologico di portare chiarezza in un ambito della professionalità medica tra i più discussi della nostra società. La richiesta al medico di prendere le proprie decisioni “in coscienza” (oltre che “in scienza”) non basta più. La sua coscienza va confrontata realisticamente con le diverse spinte che influiscono sulle decisioni. Anzitutto, bisognerà declinare al plurale l’interesse del medico. Il Codice deontologico ci autorizza a parlare degli interessi del medico come molteplici, e ognuno con un carattere di legittimità.
Mentre l’articolo 30 lascia intendere che il focus del medico sia uno solo ― la salute, appunto, dei cittadini ― l’articolo 6, dedicato alla qualità professionale del curante, ci presenta una realtà ben più complessa. Per essere un “buon dottore”, il professionista non può limitarsi a fornire le migliori cure al malato che ne ha bisogno, così come le identifica la scienza clinica oggi, ma deve contestualmente promuovere la capacità della persona di partecipare alle scelte che lo riguardano e tutelare l’accesso ai servizi sanitari dei più svantaggiati:
“Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure
nel rispetto dell’autonomia della persona
tenendo conto dell'uso appropriato delle risorse.
Il medico è tenuto a collaborare
all’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario,
al fine di garantire a tutti i cittadini
stesse opportunità di accesso, disponibilità,
utilizzazione e qualità delle cure” (articolo 6).
Gli interessi del curante ― dai quali non può prescindere la buona medicina ― si estendono dalla somministrazione delle cure efficaci alla preoccupazione per un’equa allocazione delle risorse, passando per l’empowerment del cittadino. Gli interessi, perciò, sono plurali; l’idea che uno ― la salute del malato ― sia prioritario e gli altri vengano in seconda linea non
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trova giustificazione in questa visione, il medico deve fare il bene del malato, ma deve farlo nel modo giusto ― rispettando la sua autonomia ― senza dimenticare i suoi doveri di assistenza nei confronti di tutti quelli che hanno diritto e bisogno.
Se la fiducia nel medico non basta
In questa prospettiva bisogna ripensare anche alla conflittualità tra gli interessi. La parola “conflitto” ha una connotazione per lo più negativa; sta a significare una situazione indesiderabile, che si dovrebbe prevenire o quanto meno risolvere, eliminando i problemi. Ma se gli interessi sono plurali, è ipotizzabile che possano scontrarsi tra di loro. Anzi, il conflitto dovrà essere previsto come la regola, piuttosto che come l’eccezione. E la saggezza consisterà non nel neutralizzare qualcuno dei legittimi interessi, ma nel comporli tra di loro, con soluzioni creative.
I conflitti hanno la loro radice profonda nella suddivisione del potere. In medicina è in corso una vera e propria “traslocazione” del potere. Il termine, mutuato dalla genetica, connota volutamente il potere come parte costitutiva, in termini genetici, dell’esercizio della professione. Nel modello tradizionale, che potremmo chiamare ippocratico, il medico esercita sul malato un potere esplicito, senza complessi di colpa e senza bisogno di giustificazioni. Il potere si regge intrinsecamente sulla finalità che lo ispira: è esercitato per il bene del paziente. Rodrigo De Castro, un curante del XVII secolo, nel suo trattato Medicus politicus arriva ad affermare: “il medico governa il corpo umano, così come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo”. Si tratta di un potere assoluto, in cui chi sta in posizione dominante (one up) determina in modo autoreferenziale di che cosa ha bisogno chi sta in posizione dominata (one down).
Nel caso specifico della medicina, il dottore stabilisce la diagnosi, indica l’opportuna terapia e la esegue, senza bisogno di informare il malato e senza necessità di ottenere un serio consenso, se non quello implicito nell’affidamento fiduciale. Questo modello, che costituiva la spina dorsale dell’etica medica, è stato in vigore in Occidente ininterrottamente per 25 secoli. La buona medicina poteva, e anzi doveva, interrogarsi se le decisioni prese “in scienza e coscienza” fossero giustificate dalle conoscenze mediche e se fossero davvero orientate al miglior interesse del malato. Non richiedeva però al professionista di includere le preferenze del paziente tra gli elementi che determinavano le decisioni. La volontà stessa dell’individuo era ― al limite ― irrilevante,qualora il medico fosse in grado di far valere il suo punto di vista.
La “dominanza medica” 1 non si esercitava solo sul paziente. Tra i professionisti che, a diverso titolo, collaboravano alla cura vigeva lo stesso rapporto one up/one down, con il medico in posizione dominante. Gli infermieri, culturalmente equiparati a “serventi” 2, in ogni caso ricondotti alla vasta categoria dei “para-medici”, erano solo esecutori delle decisioni cliniche. La strutturazione gerarchica dei rapporti faceva sì che i conflitti, qualora si fossero presentati, venissero risolti per via autoritaria.
Consenso informato: un cambiamento formale?
Un terzo ambito in cui vigeva questo stesso modello era quello che regolava i rapporti tra i medici e gli amministratori. I clinici, forti della loro posizione dominante, si richiamavano alla “libertà terapeutica” e pretendevano da politici e amministratori le risorse ― tecnologiche, farmaceutiche, organizzative ― che loro valutavano opportune per fare buona medicina. Il potere di prescrivere si traduceva in un potere su quanti dovevano provvedere a rendere disponibile ciò che il medico riteneva necessario per esercitare la cura.
La modernizzazione della medicina ha messo in crisi il modello tradizionale del potere del curante. Le radici del cambiamento di paradigma affondano nella rivendicazione di un potere di autodeterminazione da parte dell’individuo sulle decisioni che riguardano il suo corpo. Si tratta di quella “uscita da una minorità indebita”, indicata da Kant come il segno distintivo dell’entrata nei tempi nuovi. In medicina il cambiamento è stato registrato due secoli dopo la sua teorizzazione e con molto ritardo rispetto ad altri ambiti della vita, ma alla fine ha avuto luogo. Per avere un punto cronologico di riferimento, consideriamo la creazione del Tribunale dei diritti del malato; l’uscita pubblica del movimento è avvenuta nel giugno 1980, con la prima seduta dal titolo programmatico
Da malato a cittadino:
contro l’emarginazione,
per la gestione popolare delle strutture sanitarie.
L’onda lunga del cambiamento sarebbe poi arrivata in Italia negli anni Novanta. E purtroppo è arrivata più come reazione a eventi giudiziari (come la clamorosa condanna del chirurgo Carlo Massimo per omicidio preterintenzionale, a seguito della morte
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della paziente che aveva operato senza il suo consenso) e all’escalation di conflittualità tra professionisti sanitari e cittadini, piuttosto che come sviluppo coerente con l’accettazione del paradigma fondamentale della modernità. È legittimo sospettare che molti dei cambiamenti intervenuti siano più formali che sostanziali. Basti pensare alla vicenda del consenso informato, introdotto nella pratica come misura difensiva piuttosto che come un modello diverso di prendere le scelte in medicina. Dovrebbe testimoniare una decisione consensuale, e invece significa il più delle volte una scelta fatta dal medico per conto del paziente, che la ratifica con una firma, spesso senza adeguata informazione e senza coinvolgimento nel processo decisionale. Il consenso informato va collocato piuttosto all’interno dello scenario evocato dall’espressione “empowerment del cittadino”.
L'empowerment è un cambiamento di rapporti complesso,
che ha luogo su diversi piani:
su quello sociale
(è la dimensione culturale),
nel rapporto tra professionisti sanitari e pazienti
(dimensione clinica)
e nell'ambito dei valori condivisi
(dimensione etica).
L'empowerment si colloca sulla stessa lunghezza d’onda della filosofia proposta dall’Oms sotto il nome di promozione della salute (health promoting): è un “processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla”. La redistribuzione del potere tra sanitari e malati implica l'orientamento delle decisioni secondo i valori della persona malata, che possono essere dissonanti rispetto a quelli del professionista medico, portato a privilegiare le azioni rivolte a salvare e prolungare la vita rispetto a quelle finalizzate a risparmiare inutili sofferenze. In una parola, l’empowerment è potere condiviso: questo è l’obiettivo della bioetica, intesa come trasformazione profonda dei rapporti vigenti in sanità.
Le traslocazioni del potere non riguardano solo ciò che è avvenuto nei rapporti tra medici e pazienti. Anche l’autocomprensione delle numerose professioni che contribuiscono alla cura e alla definizione delle relazioni reciproche hanno subito un forte cambiamento, culminato nella legge 43 del 2006 sulla riforma delle professioni sanitarie. Con la trasformazione dei collegi professionali esistenti in altrettanti ordini si sono poste le premesse per una ridistribuzione del potere e le creazioni di rapporti nuovi, non riconducibili al modello gerarchico del passato.
La politica in corsia
Ma un nuovo fatto sociale è intervenuto a rendere più complesso lo scenario. A partire dagli anni Novanta, a seguito della “riforma della riforma” che ha modificato il Servizio sanitario nazionale, il potere è trasmigrato tra le braccia dell’economia. Budget e diagnosis related group sono diventate le nuove parole d’ordine; i medici si sono dimostrati fin troppo propensi a misurarsi con la quantità, piuttosto che con la qualità. Sempre maggior spazio, inoltre, ha assunto la politica, nella forma più bassa di spartizione di quote di poltrone tra aggregazioni partitiche, nei diversi livelli decisionali delle aziende sanitarie. Con predilezione, ovviamente, per i vertici.
Malgrado le denunce pubbliche
e le battaglie ideali di alcuni pochi fautori della depoliticizzazione
nell’assegnazione delle cariche di gestione della sanità,
i criteri del merito e della competenza
svolgono ancora un ruolo secondario nelle scelte.
Sullo sfondo, infine,
non esplicito ma fortemente presente,
si delinea il potere di Big Pharma
nel guidare la ricerca e le scelte politiche farmacologiche.
È come dire che la genetica del potere è ancora più propensa a dar vita a dei mostri piuttosto che agli organismi “umani” che sogniamo. Più che con il denaro, i conflitti di interessi in medicina hanno dunque a che fare con il potere. Un potere da condividere, piuttosto che da utilizzare per prevalere sugli altri. Le linee-guida per districare queste situazioni conflittuali sono più difficili da scrivere che quelle che regolano i rapporti del medico con l’industria farmaceutica. Ma, prima o poi, bisognerà cominciare a mettervi mano.
BIBLIOGRAFIA
E. Freidson, La dominanza medica, Franco Angeli Editore 2002.
V. Dimonte, Da servente a infermiere, CESPI 1995.
S. Spinsanti, Chi decide in medicina?, Zadig Editore 2004.
M. Bobbio, Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza, Einaudi Editore 2004.
NOTE
1 E. Freidson, La dominanza medica, Franco Angeli Editore 2002.
2 V. Dimonte, Da servente a infermiere, CESPI 1995.