La decisione in medicina come problema etico

Book Cover: La decisione in medicina come problema etico
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

LA DECISIONE IN MEDICINA COME PROBLEMA ETICO

in Toscana Medica

anno XVI, n. 3, marzo 1998, pp. 14-18

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Il modello di medicina condiziona le decisioni del medico. Quindi la scelta clinica si muove in un intreccio antropologico i cui fili spesso si indirizzano in senso contrario. Solo una consapevole politico sanitaria può tenerli insieme.

Chi deve prendere le decisioni in medicina ― chi va curato e in che modo va curato ― e in base a quali criteri? Il dibattito attuale, sviluppatosi in oncologia, tocca in realtà un problema centrale in tutta la storia del pensiero medico e dell’organizzazione sociale delle cure. Può essere utile ricostruire per sommi capi la storia di questi interrogativi, per collocare il problema che ci occupa oggi sullo sfondo delle diverse risposte che sono state date.

In modo schematico, il pensiero e le prassi sanitarie possono essere raggruppate attorno a quattro modelli fondamentali: le concezioni naturalistiche, il modello dell’ideale messianico, l’orientamento liberistico e quello mutuato dallo stato sociale.

I modelli evidenziano valori diversi e presuppongono concezioni antropologiche e sociali non riconducibili l’una all’altra. Si sono sviluppati in senso diacronico, in epoche successive, e hanno una vitalità che ha permesso loro di trovare formulazioni nuove in contesti differenti.

Il sapere medico si espande e si frammenta, ma nel confronto con i bisogni di salute delle persone richiede un modo di pensare olistico. Le esigenze delle istituzioni sanitarie e la domanda di salute della popolazione e delle persone richiedono adattamenti del sistema formativo con l’inserimento, tra l’altro, della bioetica nel curriculum degli studi delle professioni sanitarie”.

Comitato Nazionale di Bioetica:

Bioetica e Formazione nel sistema sanitario

Documento del 7.9.91

1. Il modello naturalistico

Il primo dei fili che intessono la tradizione della medicina occidentale si sviluppa a partire da una posizione di riserva, o addirittura negativa, rispetto all’obbligo di fornire cure mediche a determinati gruppi di malati. Secondo questo modello, esistono dei limiti stabiliti dalla natura stessa all’azione terapeutica. L’ampia categoria dei “fragili” può essere utilizzata per designare coloro che si trovano al di fuori dell’ambito in cui le cure sono giustificabili. Al terapeuta si domanda di discernere tra l’una e l’altra categoria, perché rivolgere le cure alle categorie che dovrebbero esserne escluse è sbagliato, dal punto di vista medico o secondo le esigenze dell’etica.

La posizione è rappresentata in modo evidente dall’antica medicina greca, nata dallo sforzo sistematico di riportare sia la spiegazione dei fenomeni patologici, sia la risposta terapeutica della medicina dalla dimensione religiosa al piano delle cause naturali. La conseguenza di questa decisa collocazione che demarca la medicina come scienza naturale dalle pratiche religiose e magiche è il carattere “naturalistico” che connota l’arte del guarire. Ciò vuol dire che il medico si colloca a fianco del malato, come suo alleato, per combattere i fatti patologici ― secondo il celebre aforisma ippocratico: «L’arte ha tre momenti: la malattia, il malato e il medico. Il medico è il ministro dell’arte: si opponga al male il malato insieme al medico» ― ma sempre entro il vincolo costituito dal rispetto della “physis ”, cioè della natura.

Nella concezione naturalistica la vera forza terapeutica è la “vis sanatrix naturae”. Il medico possiede solo una potenza che gli viene prestata, per breve tempo, per porsi a servizio della natura stessa. Egli è un medico tanto più bravo, quanto più si piega all’insight dell’inevitabile. La “physis

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costituiva la base dell’etica, la norma della moralità essendo data dall’applicazione del logos (ragione) alla conoscenza dell’ordine della physis. In altre parole: è buono ciò che segue l’ordine della natura, è cattivo ciò che altera questo ordine.

Caratteristica della tecnica moderna, a differenza di quella greca e medievale, è di produrre “artificialmente degli esseri naturali” (per usare una formula del filosofo spagnolo Xavier Zubiri). Non produce più solo degli “arte-fatti”, contrapposti alle realtà naturali, ma interviene in zone sempre più ampie dell’essere vivente, producendo le stesse cose della natura e dotate della stessa attività naturale. L’“artificialità” non è più, in sé, un criterio negativo di valutazione morale. La medicina, di conseguenza, non si sente più impegnata a intervenire nell’ambito circoscritto dalla natura, ma considera lecito ― anzi doveroso ― andare oltre la naturalità.

Tabella - Stagioni dell'etica in Medicina

Epoca Premoderna

Etica medica

Epoca moderna Bioetica

Epoca Postmoderna

Etica

dell'organizzazione

La buona

medicina

Quale trattamento

porta maggior

beneficio al paziente?

Quale trattamento

rispetta il malato nei

suoi valori e

nell’autonomia

delle sue scelte

Quale trattamento

ottimizza l’uso delle

risorse e produce un

paziente/cliente

soddisfatto?

L’ideale

medico

Paternalismo benevolo

(scienza e coscienza)

Autorità

democraticamente condivisa

Leadership morale,

scientifica,

organizzativa

Il buon

paziente

Obbediente

(compliance)

Partecipante

(consenso informato)

Cliente giustamente

soddisfatto e consolidato

Il buon

rapporto

Alleanza terapeutica

(il dottore

con il suo paziente)

Partnership

(professionista-

utente)

Stewardship (fornitore di servizi-cliente)

Contratto di assistenza:

Azienda/popolazione

Il buon

infermiere

Paramedico”

Esecutore delle decisioni

mediche.

Supporto emotivo

del paziente

Facilitatore della

comunicazione,

a beneficio di un

paziente autonomo

Manager

responsabile della qualità

dei servizi o forniti

Il prolungamento della vita illustra le possibili conseguenze che ha l’atteggiamento moderno verso la natura. La riemergenza del problema dei limiti è dovuto alla riflessione sistematica su questo tema che da circa dieci anni sta svolgendo il filosofo della medicina Daniel Callahan, nell’ambito dello Hastings Center di New York, di cui è stato direttore.

Callahan è interessato ai cambiamenti che la medicina introduce nella società, nel nostro modo di considerare la vita, nella cultura di cui facciamo parte. Una di tali trasformazioni critiche è la conquista della vecchiaia da parte della medicina, a partire dalla acquisita capacità di prolungare la vita umana. Tentar di procurare cure sanitarie sempre più efficaci per gli anziani è diventata la più estesa delle frontiere della medicina. Un ideale anche di natura morale: si rifiuta come una discriminazione indegna della medicina l’idea che l’età del paziente possa essere una variabile da prendere in considerazione, qualora ci siano i mezzi tecnici di potergli portare i benefici (gli standard di trattamento vogliono essere programmaticamente ciechi nei confronti dell’età).

In questo quadro vanno lette le considerazioni di Callahan sulla necessità di “porre dei limiti”. La sua proposta non si riduce a un razionamento delle scarse risorse sanitarie, ma fondamentalmente richiede di considerare la vita umana come limitata. Callahan parla di “natural life span”: la vita si sviluppa “naturalmente” entro un arco temporale, che comprende un inizio, una crescita, una decadenza e una fine, con la morte come suo correlato naturale. Siamo incapaci, e lo saremo inevitabilmente anche in futuro, di fare felici gli anziani spendendo sempre più per la loro sanità. L’incapacità è connaturata a una cultura che non sa pensare la vita umana nell’orizzonte del limite. Anche se, per ipotesi, le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite ― aiutando sempre più persone a vivere sempre più a lungo ―, non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada.

La direzione in cui Callahan propone di muoverci presuppone una distinzione tra gli interventi medici destinati a curare le malattie e quelli rivolti a prendersi cura del malato. Come società, non possiamo permetterci di curare ognuno, ma dobbiamo invece sentirci obbligati a prenderci cura di tutti. Compito della società è di migliorare il carattere della vita nel suo insieme, di contenere il periodo di morbilità che affligge l’ultima parte della nostra vita, di prevenire morti premature. Parallelamente, siamo chiamati a favorire il cambiamento che ci permette di trasformare il nostro modo di comprendere la malattia, la vita, la salute

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e la morte: in definitiva, di rimediare a una pericolosa mancanza di direzione morale.

L’argomentazione antropologica di Callahan sui limiti “naturali” da rispettare sfuma in una perorazione per il recupero di un atteggiamento rispetto alla vita ispirato alla saggezza: «La medicina moderna è stata la beneficiaria della fede nel progresso e della volontà di perdonare i fallimenti della tecnologia ― e questo è abbastanza insolito ―, forse perché abbiamo lasciato che la nostra fede e la nostra speranza si allontanassero dal senso comune. È ancora tempo di fermarsi e di capire che siamo ancora creature finite e limitate». Il modello naturalistisco, quindi, tanto nelle forme tradizionali come in quelle contemporanee, tende a escludere dagli interventi terapeutici coloro che la natura ha avviato verso la fine.

2. Il modello messianico

          Forse alcuni hanno introdotto nella sfera pubblica i cosiddetti valori della efficienza e del profitto al punto di incrinare sia il servizio che intendevano offrire sia la disponibilità della gente a dedicargli il proprio impegno. Occorre trovare un nuovo equilibrio. Con ogni probabilità terreno esemplare di questa ricerca sarà l’assistenza medica, in considerazione della sua importanza per gli individui, dei suoi costi e della sua collocazione al confine tra vincoli globali e opportunità locali

Ralf Dahrendorf

Quadrare il cerchio

Il mondo classico è arrivato indubbiamente a formulare l’ideale a cui il medico deve aspirare e gli obblighi che acquisisce nei confronti del malato in termini di misericordia, di solidarietà, di fratellanza universale: in una parola, come “etica della filantropia”. È legittimo chiedersi se l’ideale etico del medico formulato dal cristianesimo delle origini si collochi in posizione di continuità o di rottura con il modello di umanesimo medico espresso dal mondo pagano.

Possiamo individuare due linee di orientamento, che identifichiamo rispettivamente come sincretistica e apologetica. La prima ha “cristianizzato” l'ethos medico che si era coagulato intorno al giuramento ippocratico, considerando quell’etica come naturaliter cristiana. L’alta considerazione del medico in ambiente cristiano, in quanto la sua attività lo fa assomigliare al Cristo terapeuta, ha favorito l’assimilazione dell’ideale stoico del medico filantropo, che esercita la professione con amore disinteressato nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno della sua opera.

Il confronto fra l’‘ethos’ del medico dell’antichità greco-romana e quello che si è venuto gradualmente formulando all’interno della comunità cristiana ci permette di individuare l’elemento che specifica l’etica medica ispirata alla sequela messianica. Il principio formale dell’etica delle primitive comunità cristiane e l’azione modellata su quella del Cristo storico. In questa prospettiva il malato diventa un luogo privilegiato della prassi messianica e l’attività terapeutica acquista, secondo il significato etimologico originario di therapeuein, il valore di un ‘servizio’. Per riprendere una espressione del cristianesimo medievale, che si riferiva agli infermi chiamandoli “i signori malati”, questi non sono oggetto di assistenza, ma piuttosto dei “signori” da servire. Questo ideale etico si demarca da quello naturalistico, in misura analoga a quanto le virtù teologali si differenziano dall’intenzione filantropica.

Il protagonista di questo tipo di ‘medicina messianica’ è meno il medico in prima persona, quanto la comunità nelle sue diverse articolazioni. L’intervento della realtà comunitaria è decisivo per tutte quelle cure nelle quali il sintomo non è una disfunzione passeggera che va rimossa, ma piuttosto l’indice di un malessere profondo. La terapia messianica elimina i sintomi e guarisce gli affetti, apre all’azione di Dio e reintegra i rapporti comunitari. Si tratta di un’azione risanante totale, che supera quella che la scienza e la società riconoscono come specifica all’opera sanitaria organizzata dalle professioni e in un sistema ufficiale di cure. Secondo questo modello, nessuno va privato di cure e assistenza: ogni vita, ogni frammento di vita, è prezioso e anche il massimo dello sforzo, pur in presenza di un risultato minimo, è giustificato.

3. Tradizione liberale, giustizia e medicina

Il movimento liberale, che crebbe in Europa nel XVIII e XIX secolo, ebbe una profonda ripercussione anche sull’organizzazione delle cure sanitarie. Il pilastro centrale del liberalismo è una concezione antropologica che privilegia l’individuo quale artefice del proprio destino; l’accento è posto sulle libertà politiche e culturali, con una diffidenza marcata verso lo Stato e il suo ruolo intrusivo, quand’anche i suoi interventi fossero pensati a beneficio dei più deboli. Nella tradizione liberale lo strumento più efficace per la distribuzione dei beni è considerato il sistema economico del libero scambio, o mercato.

La teoria libertaria dei diritti individuali rivendica solo il diritto negativo alla salute (in altre parole: lo Stato deve impedire che qualcuno attenti alla mia integrità fisica), non il diritto

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positivo all’assistenza sanitaria. Per la tradizione liberale ― e per il neoliberalismo economico del nostro tempo ― il diritto all’assistenza sanitaria non esiste, almeno come un capitolo della giustizia (dove finisce la giustizia si apre il terreno di altre virtù: per quanto la giustizia affermi che non siamo obbligati a contribuire al benessere degli altri, la carità ci ordina di aiutare coloro che non possono rivendicare il diritto al nostro aiuto).

La filosofia liberale ha avuto una ripercussione importante nell’organizzazione delle cure sanitarie. Secondo la concezione della “medicina liberale”, il mercato sanitario si sarebbe dovuto reggere secondo le leggi del libero scambio, senza intervento di terzi; l’intervento dello Stato nei rapporti tra medico e paziente è considerato come una ingerenza indebita. Per i poveri, che non potevano accedere al sistema liberale di prestazioni sanitarie, era previsto il ricorso alla “beneficienza”: carità individuate o di istituzioni religiose, grandi ospizi o istituti per “pauperes infirmi” («Tra i due si realizzava uno scambio reciproco di significati, facendo dell’uno e dell’altro, alternativamente, un attributo e un sostantivo: l’infermo povero e il povero infermo. Essi esprimevano una categoria composita, senza troppa distinzione tra indigenza economica ed emergenza sanitaria: la folla ― in una parola ― dei malati inguaribili»: G. Cosmacini: “Medicina e inguaribilità. Una prospettiva storica” in L’Arco di Giano, n. 16, 1998). Ma anche la risorsa della beneficienza fu avversata in nome del liberalismo. È così che l’economia politica si guadagno, nell’ambito linguistico inglese, l’appellativo di “dismal science” ― scienza spietata.

La posizione liberista è riapparsa con vivacità nell’orizzonte culturale contemporaneo con il neoliberismo economico. Non si tratta solo di un dibattito culturale: stagioni intere di politica economica e sociale ne sono state influenzate, come l’epoca di Reagan negli Stati Uniti e quella della Thatcher in Inghilterra. Anche sul riordino del nostro Servizio sanitario nazionale, avviato negli anni ’90, spira un vento neoliberista, in particolare per il ruolo attribuito al mercato nel produrre l’efficienza dei servizi.

La bioetica ha sentito l’influenza del pensiero liberale, soprattutto con riferimento al dibattito sull’assicurazione sanitaria obbligatoria. Il pensiero contrattualista, influenzato dalle posizioni di Rawls e Nozik sulla giustizia, ha portato alcuni studiosi a negare il diritto all’assistenza sanitaria. «Un diritto umano fondamentale ― afferma il bioeticista americano Tristam Engelhardt ― a fornire l’assistenza sanitaria, anche se limitata a un minimo decente di assistenza sanitaria, non esiste». A suo avviso, ogni tentativo di giustificazione di una prestazione sanitaria, deve fondarsi sul principio di beneficità, non su quello di giustizia (la necessità dell’assistenza ― in altre parole ― si può giustificare solo con il dovere di fare del bene, non con la rivendicazione di diritti economici, sociali e culturali).

Una versione più mite del liberalismo, ma non priva di conseguenze nel sistema delle cure rivolte ai più fragili, è quella che propone il passaggio dalla copertura universalistica all’assegnazione di un “bonus” ai cittadini, affidando a loro la responsabilità delle scelte assicurative. È noto che la proposta di un “bonus” è stata originariamente avanzata nel 1955 dall’economista Milton Friedman, in un’ottica neo-liberale, per dare efficienza al sistema scolastico: i cittadini, dotati di un voucher, o buono di acquisto a destinazione vincolata, avrebbero deciso di spenderlo nelle strutture scolastiche, pubbliche o private, che avessero trovato più adeguate. Questo sistema è finalizzato a innescare una competizione tra i fornitori di servizi, che condurrebbe a un miglioramento della qualità dei servizi erogati.

L’estensione di tale idea all’ambito sanitario è stata sostenuta dall’Institute of Economic Affairs di Londra. In Italia la proposta è stata fatta propria da Mario Timio: con il “bonus” i fondi statali andrebbero non alle strutture sanitarie, pubbliche o private, ma ai singoli cittadini, che pagherebbero con esso il premio di un’assicurazione sanitaria o di un piano assicurativo di propria scelta. Questa versione moderna della vecchia ricetta liberista, che preferisce la distribuzione in denaro alla distribuzione in natura dei servizi, è vista come sinonimo di libertà di scelta per tutti i cittadini e vuol coniugare mercato, concorrenza e solidarietà. Ma non sono irrilevanti le preoccupazioni di chi teme che anche in questa forma moderata di medicina liberale i più fragili avrebbero una condizione svantaggiata e si dovrebbe riscoprire per loro qualcosa che assomiglia da vicino alla pubblica beneficienza. La proposta ha tuttavia il merito di costringerci a confrontarci con il modello di welfare sanitario che vogliamo scegliere.

4. Fragilità e “welfare community”

Il quarto modello entro cui pensare le decisioni relative a chi e come curare è quello che le affida all’intervento attivo della pubblica amministrazione. Il contesto è in questo caso quello dello “stato sociale”. Una progressiva estensione dei compiti dello stato ha portato alla prevalenza del modello universalistico di tutela della salute. Un pregiudizio favorevole cade sui più fragili, quando si accetta il principio ― politico e morale insieme ―che nessuno deve essere escluso dalla rete della solidarietà allargata che gli fornisce le cure di cui ha bisogno: se tutti sono uguali, il debole è “più uguale degli altri”! Il “favor iuris” cade a favore del più fragile.

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L’orientamento universalistico, per quanto nobile, ha dovuto confrontarsi con una realtà sociale ed economica avara nei confronti dei progetti più generosi di assistenza misurata sui bisogni. Così è avvenuto, in particolare, per la sanità italiana estesa a tutti, secondo il Servizio sanitario nazionale del 1978. Come si è espresso il Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-96, «la prima caratteristica di una prospettiva contemporanea è quella di presentarsi come un orizzonte di risorse limitate. Non esiste più il sogno utopistico di uno stato che si proponga di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini; in sanità sarà sempre più pesante la divaricazione tra domanda e offerta, perché la società invecchia ed è sempre più affetta da malattie degenerative. Questi cambiamenti di scenario impongono la dura necessità di fare delle scelte, sia a livello macro sia a livello microeconomico».

La necessità di fare delle scelte ― una condizione che, sul finire di un secolo che ha visto l’ampliamento progressivo della copertura sanitaria a tutti i cittadini, si impone a tutti i sistemi sanitari dell’area dello sviluppo ― fa emergere in medicina problemi etici che non hanno riscontro in nessuna altra epoca. Non solo quelli ormai ben identificati, che si è soliti catalogare come questioni di bioetica (in pratica, questioni relative alla necessità di porre dei limiti a quello che siamo in grado di fare con la potentissima medicina tecnologica che è la nostra). Oltre ai problemi di bioetica, si fanno oggi urgenti i dilemmi sociali circa l’estensione delle cure, nella prospettica delle risorse limitate.

Nulla è più necessario alla cultura che la meditazione, e nulla è meno adatto alla meditazione che la struttura interna di una società democratica. Come fermarsi a riflettere quando intorno tutto si agita? Oggi, quel che occorre fare è trattenere lo spirito umano nella teoria; già da solo corre verso la pratica e sarebbe bene distogliervelo per innalzarlo alla contemplazione delle cause prime

Alexis de Tocqueville

Scritti politici

All’inizio del nostro secolo i problemi etici delle scelte in sanità si ponevano ― quando si ponevano ― in una prospettiva individuale. Una rappresentazione letteraria è quella offerta da G.B. Shaw nella pièce Il dilemma del dottore (1906). Il dilemma si presenta come una questione di priorità, legata a un potere di vita o di morte: quando le risorse sono scarse e non bastano per curare tutti, è compito del medico decidere quale vita meriti di essere salvata?

Il “dilemma” del dottore ― che si trova a scegliere tra la vita di un giovane pittore geniale e quella di persone senza rilievo sociale ― offre materia caustica a Bernard Shaw, quanto mai scettico circa la capacità della professione medica di risolvere i suoi problemi secondo coscienza e determinato a mettere in guardia i possibili pazienti dall’affidarsi a essa. Novant’anni dopo la prima messa in scena della commedia, ci sentiamo autorizzati a vedervi un’anticipazione di dilemmi di ben altro spessore che si pongono oggi alle società industriali avanzate, in questo scorcio di secolo. Ci stiamo affacciando su scelte drammatiche che non riguardano più solo le “micro-allocazioni” (scegliere tra diversi candidati, che hanno bisogno di un trattamento disponibile in misura limitata, e quindi entrano in conflitto tra di loro), bensì le “macro-allocazioni”: quante e quali risorse la nostra società è disposta a destinare alle cure sanitarie? In che maniera garantire l’accesso ai servizi sanitari che la società decide di fornire a tutti i cittadini, indipendentemente delle loro capacità economiche? In questo più ampio scenario i dilemmi non sono più solo quelli del singolo dottore, ma della società intera.

La scelta delle priorità in sanità, indotta dalla pressione economica, può essere una occasione per ripensare gli scopi stessi della medicina: è quanto suggerisce la ricerca internazionale, promossa dallo Hastings Center di New York, Gli scopi della medicina: nuove priorità (1997). È la stessa direzione verso la quale indirizzava il Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-96, quando indicava l’inversione di rotta, cui il momento attuale costringe, come una opportunità per «un miglioramento che si sviluppa sotto il segno della qualità, più che della quantità» e invitava a un “cambiamento di paradigma” che consiste nell’immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione.

Abbiamo considerato i quattro modelli di risposta al “perché” e al “come” occuparci dei più fragili dal punto di vista sanitario in senso diacronico. Dovremo però tener presente che sono anche simultaneamente presenti, in senso sincronico, nel nostro orizzonte. Proprio come la trama di un tessuto è l’intreccio di fili disposti non nella stessa direzione, ma in direzioni opposte, così la trama delle cure con cui la nostra società avvolge le persone fragili è costituita da orientamenti diversi. Alcuni ― come il modello naturalista e quello liberale ― tendono piuttosto a limitare l’impegno, mentre altri ― il modello messianico e quello ispirato alla concezione sociale ― indirizzano in senso contrario. I modelli si limitano e si completano reciprocamente. La politica sanitaria e l’arte di tenerli insieme.