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Sandro Spinsanti
LE REGOLE DEL GIOCO
in Attive
anno XXVII, n. 1, maggio 2011, p. 22
22
Un’infermiera mi ha raccontato un episodio della sua vita professionale che è rimasto profondamente impresso nella sua memoria. È stata la prima volta che, completata la sua formazione, è entrata in sala operatoria. Doveva assistere le colleghe che stavano preparando una paziente per un intervento di asportazione del colon retto. Dopo l’operazione, la signora si sarebbe trovata con un ano preternaturale e la sua esistenza sarebbe stata condizionata dal sacchetto per le feci. La preparazione andava un po’ per le lunghe e la signora si è spazientita.
Ha esclamato: “Ma che cosa è tutta questa preparazione per delle emorroidi...!”. L’infermiera ricorda ancora lo sguardo che si sono scambiate le colleghe: evidentemente alla signora i medici non avevano detto quale era la sua patologia (un carcinoma, non delle banali emorroidi) e quanto sarebbe stato demolitivo l’intervento che le avrebbero fatto. Ma le infermiere non erano autorizzate a fornire le informazioni. Alla fine la paziente ha subito un rimbrotto da parte della caposala: “Ma signora: se il medico ha detto di fare così, non si discute!”. Vent’anni fa ― a tanto risale l’episodio ― questo modo di fare non era percepito come cattiva medicina. Al contrario: proteggere il malato dalle “cattive notizie” veniva considerato un dovere del medico, il quale, eventualmente, comunicava ai famigliari la vera diagnosi, riservando quella di comodo ― spesso delle vere e proprie menzogne, a fin di bene ― al malato. Il codice deontologico dei medici non parlava di un obbligo di informare il malato stesso, né presupponeva un diritto della persona malata di conoscere diagnosi e prognosi. Tantomeno prevedeva un obbligo del medico di chiedere il consenso del paziente a un intervento. Neppure in casi come quello a cui aveva assistito la giovane infermiera, che avrebbero modificato la vita della persona per sempre. Le decisioni le prendeva il medico “in scienza e coscienza”: non erano di competenza del malato.
Queste erano le regole in vigore fino alla revisione del codice deontologico dei medici del 1995.
A non più di 15 anni risale la formulazione esplicita dell’obbligo del medico di informare il malato (non il familiare di riferimento!) e di ottenere il suo consenso a qualsiasi intervento sul suo corpo.
Oggi, se un medico procedesse in questa maniera ― non informando il paziente e presupponendo il suo assenso all’intervento terapeutico egli ritenga più opportuno ― incorrerebbe in sanzioni legali.
E soprattutto sarebbe disapprovato dal punto di vista morale. Nel giro di pochi anni le norme di riferimento ― sia deontologiche che civili ― sono cambiate. La medicina, come qualsiasi altra interazione sociale tra più soggetti ha bisogno di regole condivise. Chiamiamole pure “regole del gioco”. Non si potrebbe giocare una partita se alcuni colpissero il pallone riferendosi alle regole del calcio e altri a quelle della pallacanestro. Allo stesso modo abbiamo bisogno di regole chiare e condivise in medicina. La partita che si gioca su questo campo ha per posta, infatti, la vita. E ― non meno importante ― la qualità della vita, ovvero ciò che ogni persona ritiene importante per se stessa.