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Sandro Spinsanti
VERSO UNA MEDICINA DELLA PERSONA
in Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, a cura di Raffaele Prodomo, Seconda Università degli Studi di Napoli
G. Giappichelli Editore, Torino 2004
pp. 37-47
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1. La richiesta di “umanizzazione” della medicina
La bioetica come movimento culturale, prima, e come disciplina specifica, poi, si è sviluppata su un terreno preparato da una diffusa accusa di “disumanizzazione” rivolta alla medicina e di una parallela richiesta di “umanizzazione”. Sia l’una che l’altra hanno diversi significati. Quello più corrente ha a che fare con la sensazione che, parallelamente all’accrescersi delle potenzialità terapeutiche della medicina, si è andata atrofizzando la capacità degli operatori sanitari di essere presenti, in quanto persone umane dotate di sensibilità ed emozioni, alla persona del malato. In breve, si rimprovera ai professionisti della sanità di saper “curare”, ma di non saper “prendersi cura”.
Questo discorso sulla disumanizzazione/umanizzazione della medicina si svolge sul piano della “morale”. Nel linguaggio comune con questo termine non si intende la disciplina filosofica che considera il comportamento umano alla luce dei valori (bene/male, giusto/ingiusto, utile/dannoso) bensì, in senso più riduttivo, si giudica il comportamento altrui in base a delle attese. Accusando medici e personale sanitario di disumanizzazione, in pratica “si fa loro la morale”. Si rimprovera ai medici e agli infermieri di non ispirarsi agli ideali sanitari e filantropici tradizionalmente connessi con le professioni terapeutiche. Anche l’esaltazione della professione del medico e dell’infermiere come “missione” conduce allo stesso risultato: il sanitario, confrontato con un modello troppo idealizzato — qualcuno si spinge fino a considerare le professioni sanitarie come una specie di sacerdozio della salute, e quindi
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si aspetta da chi le esercita la stessa dedizione altruistica propria dei sacerdoti ― tende a ripiegare sulla rassegnazione o sul cinismo.
Simili campagne di moralizzazione, che accompagnano oggi come un controcanto l’enfatizzazione delle notizie di “malasanità”, non danno i risultati attesi da chi le conduce. Rischiano invece di essere controproducenti: i sanitari, sentendosi sotto accusa, si chiudono in se stessi corporativisticamente, oppure rispondono alle critiche, percepite come aggressioni ostili, con altrettanta ostilità. Sulla base di tale reciproca incomprensione non si può costruire nessun progetto per innalzare la qualità della pratica medica. Si scava, piuttosto, un fossato sempre più ampio di diffidenza, proprio in un ambito in cui la fiducia è il valore principale.
Per una questione di giustizia, e non per una tattica di captatio benevolentiae, a coloro che lavorano nell’ambito della sanità bisogna anzitutto tributare il riconoscimento che non svolgono un lavoro come gli altri: per la particolare situazione del malato — talvolta in lotta drammatica per la vita e la salute, in stato di particolare tensione emotiva sempre ― i sanitari sono coinvolti e sollecitati a una partecipazione umana che supera quella di qualsiasi altro lavoro. Quando i discorsi sull’umanizzazione della medicina pigiano esclusivamente il pedale dei sentimenti, colpevolizzando al tempo stesso i sanitari di non mettere abbastanza cuore in quello che fanno, la morale, da terreno saldo di consenso sulla base della condivisione degli stessi valori, rischia di tramutarsi in sabbie mobili.
Una particolare insidia è insita nelle argomentazioni moraleggianti di tipo religioso. Quando, ad esempio, si presenta unilateralmente il lavoro sanitario sotto la metafora del Buon samaritano e a medici e infermieri viene richiesto un comportamento tutto modulato sull’oblatività, l’abnegazione e l’amore per il prossimo, si incrementa inevitabilmente il senso di inadeguatezza. Di qui è poi facile scivolare in cronici sensi di colpa. Ciò che ne consegue é per lo più una brusca interruzione di contatto con la proposta di un ideale così manifestamente lontano dal poter essere tradotto in atto. Da questo punto di vista, gli operatori che non vogliono più sentir parlare di “umanizzazione” esprimono piuttosto un giustificato rifiuto delle “prediche”, nel senso angustiante e oppressivo del termine.
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Un altro portale d’ingresso alla richiesta di “umanizzazione” della medicina è costituito dalle accuse di distanza dai bisogni emotivi del malato a causa della crescente tecnicizzazione degli interventi diagnostico/ terapeutici. E diventato un luogo comune contrapporre la medicina altamente tecnologica (high tech) a quella con contenuti molto umani e coinvolgenti (high touch). Il tema è presente, da più di un decennio, soprattutto nelle pubblicazioni infermieristiche.
La risposta alle nuove tecnologie biomediche, con il loro pericolo intrinseco di freddo distacco, viene individuata in una vicinanza che ha funzione di compensazione. Il ruolo di “contatto” è affidato per lo più alla professione infermieristica, con il risultato globale di una maggiore concentrazione del medico sulle dimensioni tecniche della cura. La pratica medica, tutta rivolta all’efficacia della prestazione, si sente autorizzata in tal modo a essere sempre più fredda, in quanto la calda presenza dell’infermiere compensa le sue carenze. Tra curare e prendersi cura viene così a instaurarsi una dicotomia, che giunge a immaginare un “curare” (come impresa eroica, hard) dispensato dal “prendersi cura” (attività lasciata a professioni più soft, dedite alla dimensione relazionale). Anche l’umanizzazione della medicina che accettasse la separazione sistematica tra l'high tech e l'high touch, puntando solo su quest’ultimo per rispondere al senso di estraneità crescente dei pazienti, finirebbe per costituire un tradimento della causa.
2. Il recupero antropologico del soggetto
La richiesta di “umanizzazione della medicina” può essere intesa, in una seconda accezione, come la richiesta di un punto di vista sull’uomo, sano o malato, diversa da quella propria delle scienze naturali, che la medicina ha assunto da quando si è andata strutturando come scienza, a partire dalla metà del XIX secolo. Il ripensamento della medicina è legato al superamento del positivismo come modello più alto del sapere.
Il positivismo è una teoria filosofica elaborata nel XIX secolo, ma che ha influenzato anche il secolo successivo. Inteso come rispetto dei fatti osservati, il positivismo costituisce una delle acquisizioni della filosofia della scienza a cui non si può rinunciare. Ma l’uomo di scienza, legandosi
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al positivismo, aveva creato situazioni parziali e tendenziose, illudendosi sulla professata obiettività impersonale dei fatti. Ciò si verifica soprattutto quando oggetto della scienza è l’uomo.
Lo spirito del positivismo è reso letterariamente dalla dichiarazione di fede che Charles Dickens nel romanzo Tempi moderni mette in bocca a un personaggio, Thomas Gradgrind, un direttore di scuola che si compiace di essere un uomo “eminentemente pratico”. Il romanziere immagina che, rivolgendosi a un gruppo di signore presenti in una scuola, il personaggio, campione del positivismo, rivolga loro questo discorsetto:
Ora quello che voglio sono Fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro. Solo di Fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo coi Fatti si può plasmare la mente degli animali che ragionano: il resto non servirà mai loro assolutamente nulla. Questo è il principio su cui ho allevato i miei figli, e questo è il principio su cui ho allevato questi fanciulli. Tenetevi ai Fatti, signore!
Applicato alla medicina, il positivismo tendeva a concepirla come scienza pura, fondata su fatti, su nudi fatti. La medicina si proponeva di essere neutra o indifferente rispetto alle questioni collegate ai valori; la scienza medica, nella sua purezza, si riteneva collocata al di là del bene e del male.
Assumendo il modo di conoscere proprio delle scienze naturali, la medicina ha cercato di adeguarsi a quella forma particolare di conoscenza che è fondata sulla razionalità e si acquisisce con l’osservazione e l’esperimento, secondo una particolare metodologia “critica”. In quanto scienza naturale, la medicina procede empiricamente. La sua base è costituita da fisiologia e patologia; disfunzione e malattia sono considerate come conseguenze di disturbi di processi materiali — organici. In questa prospettiva, la malattia non è più qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma qualcosa che succede ai suoi organi. Lo studio delle cause della malattia si restringe alla ricerca di mutamenti locali nei tessuti, nelle strutture cellulari e nella stessa costituzione delle molecole biochimiche fondamentali. Il fatto morboso si ritiene compreso quando si
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può spiegare stabilendo il rapporto causa effetto, sulla base delle leggi che regolano i fatti fisico-chimici.
La razionalizzazione di tipo naturalistico porta a spogliare il fatto morboso di ogni carattere storico e personale. Esso è significativo per la medicina solo in quanto è un caso “tipico”. La stessa organizzazione della clinica riposa sul modello organicistico: le malattie vengono suddivise per reparti, come le merci di un supermercato; e i medici, passando di letto in letto come tecnici a una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto, per riparare l’organo malato. Questa medicina è la medicina dei pezzi; e, con la specializzazione crescente, di pezzi sempre più piccoli.
Da quando la medicina si è organizzata come scienza della natura, è cominciato per l’arte di guarire un periodo di splendore, sotto l’egida dell’efficacia e di realizzazioni mai raggiunte in precedenza. I progressi della chirurgia, della batteriologia, della farmacologia non sarebbero stati ottenuti, se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. Proprio questi successi, fungendo da rinforzo positivo, portano a consolidare la convinzione che la strada imboccata fosse quella giusta, impedendo di rendersi conto dei pericoli insiti in essa. Senza misconoscere i momenti positivi della concezione natural-scientifica (in particolare il principio della ricerca empirica esatta e il significato fondamentale del lavoro di indagine di tipo fisiologico e biochimico), si deve però convenire che, quando l’uomo è considerato semplicemente come un pezzo di natura tra gli altri, si opera una violenta mutilazione antropologica.
La crisi nella medicina non sarà superata finché non avremo rifiutato di considerare come esclusivo il punto di vista delle scienze della natura. L’“umanizzazione” da introdurre nella pratica dell’arte sanitaria è più radicale del semplice recupero degli aspetti filantropici o umanitari — nel senso che abbiamo analizzato sopra — da includere, oltre a quelli di competenza professionale, nel rapporto con il malato. La disposizione interiore dell’oblatività e le virtù personali sono ovviamente necessarie per l’esercizio dell’arte sanitaria: vir bonus, sanandi peritus, definiva il medico la tradizione ippocratica (dove “bonus” indica una costellazione di qualità che si aggiungono alla perizia professionale). Le stesse esigenze valgono per chiunque — infermiere, tecnico, ausiliare ― avvicini il malato. Ma la “bontà” dell’operatore non basta, da sola, a umanizzare la
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medicina, se questa non recupera la prospettiva della totalità dell’essere umano.
Ciò vuol dire, in pratica, che il sapere mutuato dalle scienze della natura deve essere abbinato a quello che è specifico delle cosiddette “scienze umane”: la storia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, il diritto, la filosofia, la teologia, solo per menzionare le più importanti. Esse meritano il nome di “umane” perché considerano nell’uomo la formalità che lo specifica, ciò per cui l’uomo si differenzia dagli altri esseri animati: la sua storicità, interiorità, individualità, spiritualità. In una parola, l’uomo come soggetto. Mentre invece è procedimento tipico delle scienze della natura evacuare il soggetto, per considerare l’uomo come un pezzo di natura tra gli altri.
Questo è un esito particolarmente infausto in medicina, dove si fa più evidente che l’uomo considerato in questo modo diventa una caricatura. Nel suo linguaggio codificato, il malato scompare; la sua presenza è puramente oggettuale. Com’è stato detto efficacemente, per essere più scienza, la medicina perde il malato. Con altra formula a effetto, qualcuno ha denunciato che la medicina rischia di morire di obesità scientifica.
Finché l’uomo malato non sarà considerato anche secondo il punto di vista delle scienze della natura, sarà sempre “mal-trattato”, anche se, per ipotesi, il trattamento fosse irreprensibile dal punto di vista di ciò che prescrive la scienza medica. La congiuntura culturale sembra oggi favorevole a una medicina che voglia ricucire lo strappo creatosi tra scienza della natura e scienze umane, le quali non danno più segno di nutrire quel complesso di inferiorità che le ha tradizionalmente caratterizzate nei riguardi delle prime.
Un secondo elemento congiunturale è la crisi in atto nelle scienze naturali: crisi non di disgregazione, ma di crescita. Secondo l’analisi di Thomas Kuhn, si sta registrando nelle scienze un tipico periodo di transizione dalla “scienza normale” al caos che precede il cambiamento di paradigma. La filosofia della scienza ― o epistemologia — contemporanea ci ha reso consapevoli che le scienze non procedono per accumulo lineare di conoscenze, ma per rivoluzioni, nel corso delle quali ha luogo un cambiamento di paradigma. Si pensi al passaggio dalla fisica di Aristotele a quella di Newton, e da questa alla fisica di Einstein; al passaggio dal sistema geocentrico di Tolomeo all’astronomia di Copernico
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e di Galileo; alla transizione dalla teoria del flogisto alla chimica di Lavoisier: sono tutti esempi di una ristrutturazione del sapere sulla base di un “nuovo paradigma” che emerge dal caos. Lo stesso clima si può cogliere oggi nelle scienze biomediche.
È legittimo attendersi che nel nuovo paradigma emerga un’antropologia diversa da quella implicita nella medicina scientifica finora invalsa. Ciò comporta una rottura con il naturalismo, che considera l’uomo come un essere vivente in tutto e per tutto simile agli altri esseri viventi, e si attiene a una metodologia che esclude sistematicamente gli aspetti psichici, spirituali, storico-biografici e sociali dell’esistenza umana (o quanto meno non li ritiene rilevanti per il processo patologico e per quello terapeutico).
Il paziente lavoro di ricostruzione dell’immagine completa dell’uomo malato, compito delle scienze dell’uomo abbinate a quelle della natura, si completa con la riconquista del soggetto, che è il vero regista dei sintomi e il protagonista del processo di guarigione. Possiamo evocare il processo facendo ricorso a una felice immagine, uscita dalla fervida immaginazione del romanziere Salman Rushdie: l’immagine del lenzuolo bucato. Il romanzo I figli della mezzanotte ricostruisce la biografia del personaggio principale presentandoci suo nonno, che era medico in India all’inizio del XX secolo. Aziz è un giovane intraprendente, che ha studiato in Inghilterra e conosce bene l’arte medica. Viene chiamato da un possidente locale per effettuare una visita medica a sua figlia:
Dottor sahib, mia figlia, ovviamente, è una ragazza per bene. Non mostra il proprio corpo agli estranei. Lei capirà quindi che io non posso permetterle di vederla, per nessuna ragione.
“Ma Ghani sahib, vuoi dirmi come faccio a visitarla senza guardarla?”, obietta il dot-tore 1.
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L’espediente per visitare la ragazza è trovato ricorrendo a un lenzuolo, al cui centro era stato praticato un buco, un cerchio rudimentale di circa diciotto centimetri:
Lei sarà così gentile da specificare quale parte di mia figlia le è necessario ispe-zionare. Dopo di che io impartirò l’ordine di porre il segmento richiesto in corrispondenza di quel buco che lei vede. In questo modo la cosa sarà perfettamente possibile.
Nel corso di tre anni Naseen Ghani, la figlia del proprietario terriero, contrasse un numero veramente straordinario di piccole malattie. Le visite del medico divennero eventi quasi settimanali:
Ogni volta gli si concedeva di contemplare fugacemente attraverso il lenzuolo mutilato, un diverso cerchio di diciotto centimetri del corpo della ragazza (...). Così a poco a poco il dottor Aziz si costruì mentalmente un’immagine di Naseen, un collage mal combinato delle sue parti separatamente ispezionate. Questo fantasma di donna ripartita cominciò a ossessionarlo, e non soltanto nei suoi sogni.
A questo punto è fin troppo chiaro che le malattie erano un pretesto dietro cui si nascondeva un soggetto desiderante, e il lenzuolo perforato un espediente per far sorgere un desiderio corrispettivo nel medico. Paradossalmente, la medicina dei nostri giorni assomiglia in modo inquietante a quella praticata in un contesto culturale arcaico, quale quello della provincia indiana di un secolo fa. Ma la nostra, malgrado la sua sofisticatezza tecnologica, è ancora più grossolana quando ignora la presenza nascosta di un soggetto desiderante che si nasconde dietro la patologia. La medicina dei pezzi che noi mettiamo in pratica non è un astuto espediente poetico, ma solo una visione impoverita della realtà umana.
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3. La terza rivoluzione biomedica
Il cammino verso la medicina della persona non passa attraverso il rifiuto della scienza, ma piuttosto attraverso il superamento di visioni dell’uomo prodotte da una scienza parziale. In questo senso sono esemplari le prospettive che ci apre la ricerca genetica più recente. Gli osservatori più attenti dello scenario scientifico descrivono i progressi ai quali stiamo assistendo come “la terza rivoluzione biomedica”. Così titola un articolo, a firma dello storico della medicina Mirko Grmek, apparso nel supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore 2. L’importanza dell’articolo è duplice: per il nome dello studioso — uno dei più importanti storici del pensiero medico e delle scienze biologiche — e per la data. L’articolo è apparso infatti alla vigilia della morte dello storico, morte favorita dalla rinuncia volontaria al supporto respiratorio di cui aveva bisogno per la grave malattia che stava consumando la sua vita. Lo scritto ha perciò il valore di un lucido testamento spirituale.
Ricostruendo le fasi attraverso le quali è passato il pensiero scientifico occidentale, Grmek individua tre rivoluzioni che hanno portato alla scienza biomedica dei nostri giorni. La prima, che gli storici sono soliti chiamare la “rivoluzione scientifica” per antonomasia, si colloca nel XVII secolo, il secolo di Galileo. La seconda è avvenuta nella seconda metà del XIX secolo: un insieme di idee nuove (pensiamo alla “medicina sperimentale” di Claude Bernard), di scoperte convergenti e di tecniche molto più efficaci di quelle del passato modificano profondamente il sapere e il saper fare sia delle scienze della natura non vivente, sia quelle della vita. La terza rivoluzione, quella che abbiamo sotto i nostri occhi e che è destinata a portare frutti soprattutto in futuro, è legata alla scoperta delle basi informazionali dell’organizzazione biologica.
Nei processi biologici c’è qualcosa non riducibile alle leggi della materia e dell’energia. Questa entità ― che in mancanza di meglio chiamiamo “informazione” ― è un processo di cui l’intera natura, e non soltanto la natura vivente, è intrisa. Il concetto di informazione codificata dà una spiegazione unitaria di fenomeni biologici diversi: «Nel collegare
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la biochimica delle macromolecole alla genetica e alla teoria dell’informazione, la biologia ha trovato un nuovo paradigma e conquistato un campo di applicazione particolarmente vasto e fecondo Questa padronanza inedita della creazione, del destino e della morte dell’individuo solleva delicati problemi etici e impone una riflessione su concetti metafisici fondamentali. In una situazione in cui a gravi rischi di deriva si accompagnano insperate promesse, la medicina predittiva, l’ingegneria genetica, i trapianti di organi e l’uso di protesi sofisticate aprono prospettive talmente nuove, così esaltanti e inquietanti allo stesso momento, che l’aggettivo rivoluzionario non sembra esagerato».
Un passo decisivo nella direzione indicata da Grmek è costituito dal concetto di “malattia molecolare”, che fa dipendere la patogenesi delle malattie da anomalie di molecole informazionali. «Con l’avvento della genetica molecolare il gene ha cercato di sostituire il microbo come supporto della concezione ontologica della malattia. Secondo la medicina predittiva basata sulla genetica molecolare, infatti, nel nostro patrimonio genetico risiede la causa ultima delle nostre malattie, e con il sequenziamento del DNA umano si spera di poter dare una base di certezza alla diagnosi precoce e di stabilire strategie di prevenzione e trattamento delle malattie» 3.
È assolutamente prematuro ogni tentativo di immaginare il volto che assumerà la medicina dopo che la “rivoluzione dell’informazione” si sarà completamente realizzata. Possiamo solo prevedere che solamente allora la causa di una medicina della persona sarà vinta. L’orizzonte di una medicina della persona in senso pieno include sia la prospettiva dell’“umanizzazione” (nel duplice significato di una pratica medica che faccia appello a quella disposizione interiore dell’operatore sanitario appropriata alla fragilità di chi a lui fa ricorso e di una medicina che sappia fare ricorso alle scienze umane, oltre che alle conoscenze biologiche), sia quella del recupero della soggettività del malato, adottando un approccio distico e non parcellizzato o centrato sugli organi bisognosi di un intervento terapeutico. Tuttavia la meta sarà raggiunta
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solo quando saremo in grado di considerare quella assoluta unicità della persona che può essere colta non con una credenza metafisica, bensì con la conoscenza del tessuto informativo che organizza a livello molecolare l’individuo.
NOTE
1 S. Rushdie, I figli della mezzanotte, Milano, 1984.
2 M. Grmek, La terza rivoluzione biomedica, in Il Sole 24 Ore del 5 marzo 2000.
3 G. Corbellini, Contare - replicare - misurare - correlare - determinare - modulare, in Kéiron, 2000, n. 3.