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Sandro Spinsanti
QUALE ETICA PER LA MEDICINA?
in Manuale di medical humanities, a cura di Roberto Bucci
Zadigroma editore, Roma 2006
pp. 135-157
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In un numero recente della rivista La Professione, mensile della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurgici e odontoiatri, troviamo diversi indizi del malessere che circola tra i medici italiani. Una lettera (“Fango sui medici legali”) protesta sul discredito gettato sui medici che si occupano dei casi di responsabilità professionale, accusati di aver indotto un aumento dei costi assicurativi. Un articolo dedicato alla crisi del rapporto medico-paziente oscilla tra difesa e autocritica («Forse ci siamo distratti e non abbiamo seguito abbastanza l’evolversi della società, cosicché altri hanno preso il timone e ci hanno relegato solo ai remi»). A documentazione della crisi vengono citati tre articoli recenti su tre diversi giornali: la copertina dell’Espresso, con la foto di un medico e la didascalia «Ci possiamo ancora fidare di loro?»; l’articolo del Bisturi che riporta un’indagine del Tribunale dei diritti del malato: «I cittadini non si fidano dei medici specialisti del Ssn»; un articolo su un numero precedente della Professione dal titolo: “Il malessere di una categoria”. Illustra la crisi anche la notizia della costituzione di Amami, acronimo di Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente (raramente un acronimo è stato più efficace: sintetizza un percorso secolare in cui il rapporto tra professionisti e pazienti, che gravitava intorno a una richiesta reciproca di amore, è diventato una ricerca di tutela gli uni dagli altri). Potremmo continuare,
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citando dallo stesso numero della Professione a cui ci stiamo riferendo un altro ampio articolo dal titolo eloquente: “Il medico ‘aggredito’. Come difendersi”, che culmina con l’esortazione rivolta ai medici a «riappropriarsi dei propri atti», rifiutando la subalternità alle logiche di tipo efficientistico-finanziario che predominano oggi nelle aziende sanitarie. Ci fermiamo qui: quanto abbiamo spigolato è sufficiente a tracciare le coordinate della crisi, così come la vivono i medici.
Sull’altro versante, quello dei cittadini e dell’opinione pubblica sull’operato dei medici, il malessere si traduce spesso in accuse di sapore moralistico. Il principale capo di imputazione sembra nascere da una delusione: come dall’aver scoperto che quei professionisti, idealizzati come missionari della salute, in realtà siano dei mercanti, e che dietro le grandi parole ― filantropia, scienza, bene dell’umanità, stato sociale ― si nascondano interessi molto meschini. E se non tutti sono attrezzati per rilevare le carenze scientifiche nelle decisioni mediche prese “in scienza e coscienza”, cresce il numero di coloro che si ritengono autorizzati a sospettare della coscienza dei medici, quasi che tutti i professionisti della sanità, caduti dal piedistallo di un’etica superiore, fossero motivati da intenti quanto meno equivoci.
È molto arduo trovare una via d’uscita da un confronto articolato in termini di accuse e difese. L’impasse appare ancora più grave quando ci rendiamo conto che mancano chiarezza e consenso riguardo al rapporto medico-paziente così come dovrebbe essere. La linearità di parametri etici unitari e condivisi da tutti i protagonisti, professionisti e cittadini, è venuta meno. In una situazione caratterizzata dalla complessità è inevitabile che sorgano malintesi, quando la qualità morale dei comportamenti viene misurata con criteri diversi. Perché l’etica medica unitaria del passato si è moltiplicata in etiche diversificate, ovvero in punti di vista diversi su ciò che è giusto e appropriato nei rapporti di cura.
L’indicazione di un punto di vista va assunta in senso letterale, applicando all’etica le scoperte che Jean Piaget ha fatto nell’ambito dell’epistemologia genetica. Studiando lo sviluppo cognitivo dell’essere umano, Piaget ha analizzato come si forma la rappresentazione dello spazio nel bambino. Ha individuato una soglia che costituisce il passaggio dal pensiero concreto (che chiama “realismo intellettuale”) al pensiero astratto. Soltanto dopo aver passato quella soglia, collocabile cronologicamente intorno ai 7-8 anni, il bambino giunge a riconoscere l’esistenza di molteplici punti di vista spaziali, e soprattutto a comprendere che i rapporti spaziali fenomenici fra gli oggetti possono mutare cambiando punti di vista. Prima di allora il bambino, pur osservando le cosa da un punto di vista spaziale, ignora per lungo tempo l’esistenza contemporanea di altri punti di vista possibili; non
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è dunque in grado di rendersi conto che il suo è un punto di vista tra altri, e che quindi persone diverse vedono cose diverse, se la prospettiva che assumono cambia.
Ciò che vale per lo spazio si può applicare anche ai valori, e quindi all’etica. Anche l’etica medica è chiamata a uscire dall’infanzia epistemologica entrando nell’età adulta, caratterizzata dalla convivenza di molteplici prospettive, non riducibili le une alle altre. Si tratta di superare la fase di “realismo intellettuale”, che porta ad assolutizzare il proprio punto di vista, escludendo la possibilità che la qualità etica di comportamenti, buona o cattiva pratica della medicina, possa essere valutata diversamente a seconda dei punti di vista. In pratica, questo equivale alla piena acquisizione dello spazio tridimensionale, anche nell’etica. «L’etica è un’ottica»: il gioco di parole proposto dal filosofo francese Emmanuel Lévinas (lituano di nascita) muove nella stessa direzione: l’etica è condizionata dallo sguardo, da ciò che vediamo. L’accettazione della complessità richiede il passaggio dalla dimensione che è familiare a ciascuno, soprattutto se interiorizzata attraverso il processo di socializzazione in un determinato gruppo professionale, ad altre dimensioni. Con grande umorismo e insuperabile virtuosismo immaginativo, lo scrittore inglese Edwin Abbott ha tentato di realizzare qualcosa di questo genere nel racconto fantastico Flatlandia. Ha immaginato che cosa significhi passare da Flatlandia (Paese del piano), mondo bidimensionale, abitato da esseri totalmente piatti (segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli), alla Spacelandia, o Paese a tre dimensioni. La sfida per noi, abituati alla tridimensionalità, va nel senso contrario, ovvero immaginarci che cosa significhi vivere in Flatlandia:
Posate una monetina nel mezzo di uno dei vostri tavolini nello Spazio, e chinatavi a guardarla dall’alto. Essa vi apparirà come un cerchio. Ma ora, ritraendovi verso il bordo del tavolo, abbassate gradatamente l’occhio (avvicinandovi così sempre più alle condizioni degli abitanti della Flatlandia), e vedrete che la monetina diverrà sempre più ovale: finché da ultimo, quando avrete l’occhio precisamente all’altezza del piano del tavolino (cioè, come se foste un autentico abitante della Flatlandia), la moneta avrà cessato di apparire ovale, e sarà divenuta, per quanto potrete vederla, una linea retta.
Solo apparentemente ci siamo allontanati dalla rivisitazione del rapporto medico-paziente. In realtà, ci siamo collocati al centro del problema: la pluralità dei punti di vista su ciò che significano oggi il buon esercizio della medicina e la difficoltà di passare da una prospettiva piatta a una multidimensionale.
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I malesseri, tanto dei medici quanto dei cittadini, dai quali abbiamo preso le mosse sono un sintomo di crescita: il passaggio da Flatlandia a Spacelandia in medicina. È quanto cercheremo di vedere, sottoponendo a una disamina analitica i contenuti dei vari modelli etici che hanno corso oggi in sanità.
Stagioni dell’etica in medicina
Il superamento dell’etica medica
Parlare di etica medica presuppone concezioni di fondo, per lo più non esplicite, che abbiamo presenti quando esprimiamo un giudizio su ciò che intercorre tra medico (o altri professionisti sanitari) e paziente, attribuendogli un carattere morale positivo (buono) o negativo (cattivo). Le norme in questione determinano come devono comportarsi i diversi protagonisti del sistema delle cure: i medici, i malati, i professionisti della sanità, i familiari del malato, la società nel suo insieme.
Tradizionalmente l’insieme dei comportamenti auspicati seguiva questo schema:
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Epoca premoderna Etica medica
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La buona medicina |
«Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente»?
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L’ideale medico |
Paternalismo benevolo
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Il buon paziente |
Obbediente (compliance)
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Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente)
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Il buon infermiere |
“Paramedico”. Esecutore delle decisioni mediche; supporto emotivo del paziente
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Chi prende le decisioni
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Il medico, in "scienza e coscienza”
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Principio-guida |
Beneficità
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È un modello antico e di forte tenuta nel tempo. La sua antichità è indiscussa, e in Occidente risale alla medicina greca (etica ippocratica). Ma anche la sua forza è notevole: non esiste in tutta la tradizione occidentale un modello culturale che abbia resistito tanto a lungo. L’Occidente, dall’antichità greco-romana a oggi, ha cambiato molti aspetti dell’organizzazione sociale: l’economia, la famiglia, la religione, il diritto, la politica. La medicina stessa si è profondamente modificata nel corso del tempo, sia nei modelli teorici che nel modo di fornire aiuto ai malati. Tra il medico seguace di Galeno, che interpreta le malattie secondo la teoria degli umori, il medico scienziato dell’Ottocento, che ricorre al metodo della scienza sperimentale per spiegare come funziona l’organismo sano o malato e il medico della nostra epoca, che è in grado di ricondurre le malattie a un difetto del corredo genetico, così da prevederne l’insorgenza con anni di anticipo, le differenze sono enormi. La stessa cosa si può dire sul versante dell’arsenale terapeutico, che dal ricorso dai salassi è passato ai vaccini, agli antibiotici e all’ingegneria genetica. La diversità tra questi mezzi terapeutici, quanto a efficacia ed efficienza, è abissale.
L’etica, invece, non ha vissuto questo percorso: le convinzioni su ciò che è bene o male fare in medicina e sui comportamenti giusti o ingiusti nei confronti del malato sono rimaste relativamente stabili per secoli. Praticamente si tratta di una tradizione ininterrotta che in Occidente è durata per più di 25 secoli, dall’antichità greco-romana fino ai nostri giorni: in tutto questo tempo non abbiamo mai sentito il bisogno di modificare il concetto, condiviso dai medici e dai pazienti, di quelle pratiche di cura della salute a cui attribuire un valore morale positivo.
Quest’insieme di regole morali valeva nella stagione premoderna dell’etica in medicina, e si può chiamare sinteticamente etica medica: l’etica a cui ci riferiamo, infatti, è sostanzialmente l’etica del medico. La dominanza della figura del medico descritta efficacemente da Eliot Freidson si esprime anche nell’etica, oltre che nell’organizzazione del lavoro. È il medico che determina i criteri della buona medicina, e la professione medica se ne fa garante. In quest’etica sono prescritti comportamenti per i malati, per i familiari e per gli operatori sanitari. Tutti svolgono, tuttavia, funzioni subordinate e sono chiamati a modellarsi sulle richieste che provengono dai medici, che hanno un ruolo esclusivo e decisivo nello stabilire che cosa sia la buona medicina in senso clinico ed etico. La qualifica di paramedico attribuita a chi esercita una professione sanitaria non medica rispecchia bene questa centralità del medico. Possiamo dire che anche l’etica dei non medici in questa stagione è un’etica paramedica.
La domanda fondamentale a cui risponde la medicina di qualità dell’epoca premoderna è: “Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente?”.
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Troviamo questa preoccupazione già nel giuramento di Ippocrate, nella cosiddetta clausola terapeutica:
Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa.
L’operato del medico ha lo scopo di procurare un beneficio al paziente, in quanto mira a risolvere i problemi posti dalla patologia. Le risorse che il medico utilizzerà sono ovviamente quelle che la scienza del tempo gli mette a disposizione: per il medico dell’antichità era la “dieta” (cioè il regime terapeutico che tendeva a ristabilire nella vita del malato l’equilibrio turbato); per il medico dei nostri giorni i trattamenti appropriati potranno essere gli antibiotici o i trapianti di organo. Indipendentemente dal contesto scientifico di riferimento, il modello rimane tuttavia lo stesso: il medico si impegna a fare il bene del paziente, utilizzando le risorse terapeutiche che ha a disposizione. I principi alla base di quest’etica, riconducibili al precetto di procurare un beneficio alla salute del paziente, presuppongono un modello ideale del medico, fondamentalmente paternalista: il medico è colui che sa qual è il bene del paziente e vuole realizzarlo, con tutto il suo impegno e con assoluta dedizione. La scienza, in continuo progresso, lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di trarre profitto dalla debolezza del paziente (per esempio, strumentalizzandolo ai fini di ingiusto lucro o di fama). Questa doppia impostazione è riassunta da una formula molto amata e citata dai medici: il loro onere e onore è di prendere le decisioni “in scienza e coscienza”. Nel linguaggio della bioetica americana, si parla a questo proposito di una medicina ispirata al principio di “beneficità”. In inglese il termine utilizzato è beneficence, che bisognerà accuratamente evitare di tradurre, a orecchio, con “beneficenza”: il medico non fa beneficenza, ma procura al paziente il beneficio che la sua scienza gli permette di conoscere.
In quest’ottica il ruolo del malato si limita all’essere docile e osservante delle prescrizioni, in un rapporto di affidamento fiduciale. Egli non ha, di per sé, nulla da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a quanto il medico stabilisce per il suo bene. Tutto quello che il malato ha da fare è di diventare paziente, in tutti i significati del termine (anche in senso morale, perché la pazienza è la principale virtù che è chiamato a esercitare).
Il buon paziente è quello osservante. Gli si richiede di collaborare al trattamento prescritto con il comportamento chiamato compliance. Come sentenziava l’illustre medico e scrittore spagnolo Gregorio Marañón, che ha rappresentato nella prima metà del XX secolo la conservazione dell’ideale
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ippocratico, «il malato che non sa essere paziente diminuisce le sue possibilità di guarire. Obbedire al medico è incominciare a guarire».
Il buon rapporto medico-paziente è quindi l’alleanza terapeutica tra chi si dedica all’opera della guarigione e chi riceve questo servizio. Il termine "alleanza” fa parte della tradizione religiosa, e il rapporto medico-paziente ha effettivamente una connotazione fortemente religiosa in senso ampio: proprio come l’alleanza che è il pilastro centrale della religione ebraico-cristiana, mette in relazione due fondamentali disuguaglianze. Nell’alleanza religiosa, si tratta del legame che si instaura tra la divinità, in quanto fonte della potenza che produce la salvezza, e la situazione di necessità propria del popolo che ha bisogno di redenzione. L’unione dei due mediante l’alleanza salva dalla condizione di bisogno (schiavitù, peccato, ecc). Analogamente, la guarigione in medicina, nel modello tradizionale, si ottiene mediante l’unione tra la scienza-coscienza del medico (che include il suo sapere, la filantropia, la volontà di fare il bene del paziente) e la volontà del paziente di mantenersi all’interno di questo rapporto di alleanza.
La corretta osservanza della prescrizione medica è la condizione essenziale perché l’alleanza possa esplicare i suoi effetti benefici, e quindi procurare la guarigione. Il contraente dell’alleanza, che è il malato, si deve affidare al medico e accettare le condizioni che gli pone per la guarigione. Il medico, che concede l’alleanza, lo guida verso la salvezza, identificata con la guarigione. Dai collaboratori del medico, in quanto paramedici, ci si attende che collaborino anche a indurre i malati a essere osservanti. L’informazione fornita al paziente non entra come un elemento costitutivo della buona medicina secondo il modello premoderno. Tutt’al più può essere utile, strumentalmente, per ottenere una maggiore collaborazione da parte del paziente (compliance), ma non si può in alcun modo parlare di un diritto del paziente a essere informato, né di un corrispettivo dovere del medico di informare. Questo schema costituisce ancora oggi la struttura alla base dei nostri comportamenti sociali, sia come medici che come pazienti. Soltanto quando diventiamo “moderni” il modello entra in crisi.
La modernizzazione dell’etica, ovvero la bioetica
Qual è la data d’inizio dell’epoca moderna? Secondo i manuali di filosofia e di storia la modernità comincia tipicamente con l’Illuminismo, nel XVIII secolo. Nella cultura dell’Occidente è avvenuto un cambiamento profondo, una di quelle fratture che hanno ripercussioni generalizzate su tutta la struttura dell’esistenza, e i valori della modernità hanno progressivamente modificato l’insieme della vita politica e sociale. Solo un ambito è rimasto
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tenacemente premoderno: la medicina. Solo negli ultimi due decenni si sono fatti visibili i segni di una frattura che indica la modernizzazione della medicina. Di conseguenza sono cambiati tutti i parametri che costituiscono il modello di buona medicina caratteristico dell’epoca premoderna. Per evidenziare il cambiamento del paradigma etico, indichiamo la transizione come il passaggio dall’epoca dell’etica medica a quello della bioetica.
Epoca premoderna Etica medica |
Epoca moderna Bioetica
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La buona medicina |
«Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente»?
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«Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte?» |
L’ideale medico |
Paternalismo benevolo
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Autorità democraticamente condivisa
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Il buon paziente |
Obbediente (compliance)
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Partecipante (consenso informato) |
Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente)
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Contratto di prestazione d'opera (partnership professionista-utente) |
Chi prende le decisioni |
Il medico, in “scienza e coscienza”
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Il medico e il malato insieme (decisione consensuale) |
Principi-guida |
Beneficità
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Autonomia |
Osservando sinotticamente le voci principali della struttura portante dell’etica medica, notiamo che nessuno dei suoi parametri è stato risparmiato dal cambiamento. Lo scopo generale della medicina non è più soltanto quello di portare il maggior beneficio al paziente: perché un trattamento medico abbia un carattere di qualità, ci dobbiamo anche domandare se tratta il malato da adulto, rispettandolo nei suoi valori e nell’autonomia delle sue scelte. Il beneficio procurato non è l’unico indicatore della buona medicina: nell’epoca moderna, infatti, il malato va fondamentalmente considerato come una persona autonoma, capace di autodeterminare le proprie scelte. Il concetto dell’autonomia della persona è un pilastro fondamentale della modernità. Così lo ha espresso Immanuel Kant nel famoso saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?: l’Illuminismo comincia quando si decide di uscire dallo stato di minorità imputabile all'uomo stesso, intendendo per minorità «l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Il primo paragrafo del saggio, che sintetizza il programma
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di vita dell’uomo moderno, termina con l’esortazione «Sapere aude»: abbi il coraggio di servirti dell’intelletto come guida.
In medicina l’epoca moderna ha inizio quando il programma generale dell’emancipazione si estende anche a quella “minorità non dovuta” (in quanto non dipende dalla condizione di minorenne per età cronologica o dalla mancanza di capacità di intendere e di volere) del paziente rispetto al medico, secondo il modello paternalistico tradizionale.
Il buon malato dell’epoca moderna è quello che ha la capacità e il coraggio di non farsi trattare come una persona eterodeterminata, ma si assume in prima persona il peso e la responsabilità delle decisioni che lo riguardano.
Questo mette in crisi il modello dell’etica medica, secondo cui il malato è per definizione in condizione di minorità, perché non può determinare da solo i fini e i mezzi per conseguirli. È la concezione antica, espressa già da Aristotele quando affermava che il malato, proprio per la sua condizione, non è capace di dare giudizi razionali, in quanto è turbato dalle passioni, come per esempio la paura per la propria vita. Nello stato di malattia deve quindi subentrare la struttura paternalistica di contenimento: qualcun altro prende le decisioni per il bene del malato, dal momento che lui non lo può fare. Dire che la medicina entra nell’epoca moderna significa prima di tutto rimettere in discussione questo paradigma profondo, che presuppone una fondamentale disuguaglianza tra le persone autonome e quelle che non lo sono (le scelte di queste ultime essendo determinate dalle prime), e assume che il malato, per il solo fatto di essere malato, perda il privilegio dell’autonomia.
Nell’epoca moderna un’attività sanitaria eticamente giustificabile non può prescindere dai valori del malato, cioè dal sistema di riferimento che guida le sue scelte in modo congruente con la “buona vita” che intende condurre. La potente ed efficace medicina che la scienza, abbinata alla tecnologia, ci mette oggi a disposizione non assomiglia per niente alla medicina del passato, povera di risposte terapeutiche. L’arsenale medico è abbondante e vario e ci mette di fronte ad alternative create dai valori soggettivi. A seconda del concetto personale di buona vita, ovvero di ciò che individualmente corrisponde a un’esistenza riuscita o fallita, un intervento medico può essere appropriato o meno.
La buona medicina non si può più limitare a rispondere alla domanda “Questo intervento porta oggettivamente un beneficio al paziente?”. Non basta stabilire, per esempio, che l’azione del medico ha di fatto prolungato la vita del paziente: se va contro i suoi valori e le sue decisioni, l’intervento non è eticamente giustificabile, anche se è rivolto a tutelare la salute o la vita stessa. L’autodeterminazione del paziente è espressione dei suoi diritti (per capire la differenza con il modello tradizionale basti pensare che lì si
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parla solo di doveri del medico e non di diritti del paziente), e pertanto diventa un criterio di qualità. L’intervento sanitario non può più essere deciso unilateralmente dal medico che si basa sul suo sapere professionale, ma deve essere determinato insieme al paziente, spesso con un faticoso processo di negoziazione.
L’epoca moderna comporta una profonda modifica del modello ideale di autorità. Al potere assoluto (un medico del XVII secolo, Rodrigo de Castro, nell’opera Medicus politicus sosteneva che «il medico ha potere sul corpo umano così come il sovrano ha potere sullo Stato e Dio sul mondo») si sostituisce una condivisione di potere e di responsabilità. Con il superamento del paternalismo benevolo, l’ideale medico nel modello della bioetica diventa un’autorità democraticamente condivisa: il buon paziente è un paziente che prende parte alla decisione. Questa nuova posizione non è solo di privilegio, ma può costituire anche una scomoda responsabilità. Ai nuovi diritti del paziente si accompagnano anche dei nuovi doveri e all’antico dovere di esercitare la pazienza ed essere obbediente si sostituisce quello, più impegnativo, di partecipare al processo decisionale.
Non si può escludere che a volte il paziente potrebbe preferire, piuttosto, di delegare la decisione al medico («Faccia quello che è necessario: il dottore è lei, non io!»). Il paziente partecipante nelle scelte ha il compito di essere un “buon paziente”, e per diventarlo non basta che si limiti a non creare difficoltà ai sanitari, non porre troppe domande, essere docile e seguire le prescrizioni mediche. Ha anche un compito etico, deve accettare il coinvolgimento nelle scelte che lo riguardano, condividendo l’orizzonte di incertezza che è proprio delle decisioni cliniche. Il buon rapporto è una partnership, che si instaura tra professionista e utente.
L’asimmetria nei rapporti di sapere e di potere resta, ma va contemperata con un uso consapevole e mirato dell’informazione. Il paziente si muove così verso la posizione di un utente. Il termine può suscitare delle associazioni che sembrano fuori luogo in sanità, ma per ricondurlo nell’ambito appropriato, basta pensare al senso etimologico della parola: l’utente è colui che usa la competenza del medico. In quanto utente, ha il dovere di usarla bene, responsabilmente, per fare insieme al professionista le scelte appropriate. Questo modello etico include il concetto di partecipazione. Il termine bioetica è un neologismo, adatto a un modello di qualità in medicina veramente inedito. È la buona medicina appropriata per la stagione dell’etica in medicina che abbiamo chiamato “moderna” (non nel senso di maggiore attualità, ma con riferimento alla novità culturale che si identifica con la rivoluzione liberale e il rispetto illuministico dell’autonomia personale). L’adozione del termine “bioetica” al posto dell’etica medica è motivata anche dal fatto che non ci troviamo più nell’ambito dell’etica concentrata
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sul medico, elaborata dalla professione medica a beneficio anche del malato. La bioetica implica uno spostamento dell’accento, per cui la qualità non è più determinata in maniera unica ed esclusiva dal sapere e dal potere del medico, ma viene stabilita in modo dialogico, insieme al paziente, che deve partecipare alle decisioni con i suoi valori nell’ambito del consenso sociale. Quindi nella bioetica entrano la società, l’etica civile, l’accordo ottenuto trasversalmente alle diverse comunità morali di appartenenza, includendo anche gli “stranieri morali”.
Il cardine pratico di questa nuova etica è il consenso informato, nel senso proposto dal Comitato nazionale per la bioetica, in quanto «si traduce in una maggiore partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano». L’idea di qualità dell’atto medico si arricchisce di una nuova componente: è buono l’intervento sanitario che ha anche una correttezza formale, vale a dire il rispetto delle procedure volte a far partecipare il paziente alle scelte diagnostiche e terapeutiche.
È da notare però che la diffusione di questo nuovo modello di qualità non è priva di difficoltà. Lo contrasta una profonda resistenza, sia da parte del mondo medico, sia da parte dei cittadini. Sia i professionisti della sanità sia i pazienti sono obbligati a cambiare modelli di riferimento che hanno una lunghissima tradizione. È un passaggio epocale; spostandosi da un modello all’altro si modificano i punti abituali di riferimento, tanto che possiamo affermare che stiamo assistendo all’inaugurazione di una nuova epoca della qualità e dell’etica nella medicina.
Per evitare malintesi e per smantellare almeno alcune riserve (quelle che nascono dal timore che si intenda abbandonare il modello dell’etica medica tradizionale) è necessario chiarire che i due modelli non sono diacronici, ma sincronici: in altre parole, non si susseguono nel tempo, sostituendo con il modello moderno i valori tradizionali, ma sono chiamati a convivere. Riferendoci ai punti di vista dell’epistemologia genetica di Piaget, non si tratta di scalzare la prospettiva dominante in passato con un’altra, ma di uscire dalla concezione ingenua secondo cui esiste un solo punto di vista e mettere insieme più dimensioni dell’etica. La buona medicina dal punto di vista della professione medica e dal punto di vista del paziente (cliente) è diversa: la qualità etica ha più dimensioni.
Quando la sanità si organizza come un’azienda di servizi
Mentre proviamo ancora tanta difficoltà a entrare nella stagione della medicina moderna, forti spinte ci stanno già indirizzando verso l’epoca post-moderna. Ci stiamo muovendo, infatti, secondo quanto prescrivono
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sia lo spirito che la lettera della riforma sanitaria, avviata in Italia dall’inizio degli anni Novanta, verso l’introduzione dello “stile azienda” in sanità. Il modello di qualità comporta un rapporto nuovo con il paziente. Sommariamente, possiamo dire che chi riceve servizi sanitari non solo deve essere informato e responsabilizzato per partecipare in modo autonomo alle decisioni terapeutiche, ma deve essere considerato come un cliente. Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.
Questa prospettiva caratterizza quel tipo di organizzazione sanitaria che è stata messa in moto con il riordino del Servizio sanitario nazionale e che si sintetizza nel concetto di azienda sanitaria. Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell'azienda stessa. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura all’altra, si porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda.
Il modello di qualità postmoderno comporta delle variazioni anche in tutte le altre articolazioni fondamentali del sistema di rapporti entro cui si svolge l’azione sanitaria. Innanzitutto l’interrogativo fondamentale che dovrà porsi chiunque abbia delle responsabilità nelle scelte ruoterà intorno a elementi della qualità di carattere gestionale: quale trattamento ottimizzerà l’uso delle risorse e produrrà un paziente-cliente soddisfatto? La fisionomia stessa dell’interrogativo etico viene modificata.
Nell’etica medica il registro per valutare la qualità è quello della bontà (l’azione è buona in quanto porta il beneficio della guarigione o lenisce i sintomi dolorosi); la bioetica si colloca entro la tradizione etica coltivata nel mondo anglosassone, che valuta se l’azione sia giusta o ingiusta, in rapporto ai diritti e nel rispetto delle procedure. La nuova stagione che si è aperta ci obbliga a interrogarci se l’azione sia appropriata rispetto agli obiettivi da conseguire, che comportano sia una più acuta sensibilità per il bene comune e l’equità sociale, sia l’acquisizione di un atteggiamento che abbini la soddisfazione del cittadino-cliente con l’attenzione agli interessi dell’azienda.
La qualità, che include il valore etico di un intervento sanitario, oggi è molto più complessa. I criteri più recenti non devono sostituire quelli precedenti, ma integrarsi con essi. La buona medicina è sempre quella che deve mirare a «guarire in maniera rapida, efficace e duratura» (è il compito che Samuel Hahnemann affidava alla medicina omeopatica, ma che vale per la medicina tout court). Questo continua a essere l’obiettivo della medicina e il criterio con cui valutare la sua qualità, ma non è più sufficiente: per essere buona la medicina deve anche preoccuparsi di essere giusta, rispettando i
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diritti del malato e promuovendo la sua autonomia. A queste considerazioni si aggiungono, nell’ottica dell’organizzazione efficiente della sanità, anche quelle relative a ciò che si dimostra appropriato nell’orizzonte della giustizia, in considerazione dell’accesso ai servizi e dell’equa distribuzione delle risorse.
La buona medicina è quella che nasce dall’integrazione cumulativa delle esigenze che nascono dall’etica medica, da quelle della bioetica e delle esigenze, infine, di quella nuova stagione dell’etica in medicina che sentiamo incombere, sotto la spinta delle nuove condizioni sociali e della pressione dell’economia, e che possiamo chiamare etica dell’organizzazione. Le stagioni dell’etica in medicina, con le rispettive esigenze riguardo a ciò che è giusto e appropriato nell’assistenza sanitaria, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali. La qualità etica di un intervento sanitario prende forma mediante la sovrapposizione di dimensioni che si aggiungono le une alle altre. La prima dimensione è quella del bene del paziente, propria dell’etica medica tradizionale. Finché la qualità dell’intervento sanitario sul paziente si misurava esclusivamente con il metro del beneficio del paziente (epoca premoderna), maggiore era il beneficio che il malato riceveva da quello che si poteva fare per lui e maggiore era la qualità, anche etica, dell’atto medico.
La modernità, con l’introduzione dell’autonomia del paziente, ha introdotto un altro parametro: le preferenze del paziente stesso. La buona scelta medica dovrà tener conto temporaneamente di due fattori: il beneficio da procurare al paziente e il suo consenso a ciò che ha individuato e scelto come suo bene. La scelta si realizza sul piano orizzontale di una contrattazione, che non di rado produce un compromesso (non è detto, infatti, che ciò che costituisce dal punto di vista clinico il maggior beneficio per il paziente corrisponda alle sue preferenze; o inversamente: ciò che il paziente informato vuole per sé può non coincidere con quanto la medicina sarebbe in grado di fare per lui).
A queste due dimensioni oggi dobbiamo aggiungerne una terza, così che la decisione clinica ci appare collocata in uno spazio tridimensionale. Dobbiamo considerare, infatti, anche l’appropriatezza sociale degli interventi sanitari, in una prospettiva di uso ottimale di risorse limitate, solidarietà con i più fragili ed equità. Quello che possiamo fare per un malato, anche se valutabile con un punteggio alto sul parametro dell’appropriatezza clinica e su quello delle preferenze personali, potrebbe collocarsi molto in basso rispetto al criterio del buon uso delle risorse.
La buona medicina ci appare così come il frutto di una contrattazione molteplice, che deve tener conto di tre diversi parametri: l’indicazione clinica (il bene del paziente), le preferenze e i valori soggettivi del paziente (il consenso
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informato) e infine l’appropriatezza sociale. L’assistenza sanitaria ci appare più che mai un’arte, dovendo conciliare nelle sue scelte esigenze diverse e talvolta contrastanti, senza minimamente rinunciare ai requisiti di scientificità. L’ideale medico dell’epoca postmoderna è una leadership morale. Il modello paternalista non funziona più laddove si assume lo stile dell’azienda postmoderna: è necessario dotarlo di autorevolezza. Non ci possiamo più basare su una divisione dei compiti di tipo burocratico. Soltanto chi ha quella che la cultura del management chiama la vision, cioè la visione strategica degli obiettivi e dei mezzi, sviluppa una forza morale capace di trascinare gli altri membri dell’équipe.
Il buon paziente è il cliente soddisfatto e consolidato, ma l’obiettivo non può essere quello di un cliente in qualsiasi modo soddisfatto e consolidato, bensì solo di un cliente giustamente soddisfatto, escludendo l’ingiusta soddisfazione. Il buon rapporto è la stewardship, che implica un atteggiamento non centrato sul professionista, ma sugli standard di qualità del servizio, in un raffronto costante con la qualità offerta da altri erogatori (bench-marking).
Lo schema grafico completo delle dimensioni dell’etica in medicina assume quindi la seguente fisionomia:
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Epoca premoderna Etica medica
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Epoca moderna Bioetica |
Epoca post-moderna Etica dell'organizzazione |
La buona medicina |
«Quale trattamento porta maggior beneficio al paziente»?
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«Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nell'autonomia delle sue scelte?» |
«Quale trattamento ottimizza l'uso delle risorse e produce un paziente-cliente soddisfatto?» |
L’ideale medico
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Paternalismo benevolo |
Autorità democraticamente condivisa |
Leadership morale. scientifica, organizzativa
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Il buon paziente |
Obbediente (compliance)
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Partecipante (consenso informato) |
Cliente giustamente soddisfatto e consolidato |
Il buon rapporto |
Alleanza terapeutica (il dottore con il suo paziente)
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Contratto di prestazione d'opera (partnership professionista-utente) |
Stewardship (fornitore di servizi-cliente) Contratto di assistenza: Azienda-popolazione
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Chi prende le decisioni |
Il medico, in "scienza e coscienza” |
Il medico e il malato insieme (decisione consensuale) |
La direzione aziendale, insieme ai dirigenti delle unità operative (negoziazione)
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Principi-guida
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Beneficità
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Autonomia |
Giustizia |
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Verso l’empowerment del cittadino
La presenza contemporanea di tre modelli di buona medicina induce una modifica di fondo nei rapporti che intercorrono tra coloro che erogano le cure e i cittadini che le ricevono. Tutto il processo viene riassunto con un’espressione: empowerment del cittadino. La parola inglese contiene la nozione di potere (power), e l’aspetto più visibile è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte nella relazione. Il potere in questione non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano. Il potere entra inevitabilmente in gioco quando qualcuno si prende cura di persone a lui affidate. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere, utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: pensiamo al rapporto tra genitori e bambini, insegnanti e allievi, medici e malati, appunto. Questi rapporti sono di natura molto diversa, ma si basano tutti sulla differenza tra le posizioni coinvolte, e funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell’altro. Il modello che le rappresenta prevede due posizioni: una sovrastante (one up) e una di sottomissione (one down).
Sono invece di altro tipo le relazioni simmetriche, nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare, con Paul Watzlawick, l’uno di fronte all’altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce.
L'empowerment non vuol dire che il paziente debba essere in posizione one up e il medico in posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un’autorità indiscutibile e induce il paziente a essere osservante, o compliant). Non sarebbe un progresso se il medico diventasse l’esecutore nelle decisioni del paziente anzi, questo costituirebbe una minaccia per la salute, perché al paziente verrebbe a mancare il bagaglio di conoscenze proprie del sapere professionale del medico. L’empowerment è invece un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani. Lo schema grafico contempla cambiamenti significativi: sul piano sociale (o della cultura), nel rapporto clinico tra professionisti sanitari e pazienti, nell’ambito dei valori condivisi o dell’etica. Questo schema rispecchia la definizione di empowerment data dall’Enciclopedia della Gestione della Qualità in Sanità:
Termine entrato in uso e di difficile traduzione in italiano per indicare la tendenza a dare più potere, più coinvolgimento nelle decisioni ai pazienti, al di là del consenso informato.
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SCHEMA: EMPOWERMENT DEL CITTADINO NEL PROCESSO DI CURA
Dimensione culturale
― autogestione della salute contrapposta a «espropriazione della salute» (Ivan Illich), mediante «un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e migliorarla» (Carta di Ottawa)
― conoscenza dei propri diritti; rappresentanza attiva, anche organizzata (“rivoluzione liberale” in medicina)
― atteggiamento psicologico “adulto” verso medici, infermieri e altri professionisti sanitari
― coinvolgimento dei cittadini nel miglioramento dei servizi,
sollecitando suggerimenti, anche critici
Dimensione clinica
― raccolta sistematica di informazioni sui trattamenti proposti (ricerca; diagnosi; terapia) e sulle alternative
― promozione del parere complementare (second opinion)
― accesso consapevole alle prestazioni sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali,
rischi, complicazioni
― competenza nell’automedicazione semplice
― educazione all’autogestione delle patologie croniche
Dimensione etica
― l’autonomia come principio etico che bilancia il principio del bene del paziente stabilito unilateralmente dal medico
― più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano (decisioni consensuali)
― assumere la responsabilità per le scelte sanitarie e,
più in generale, per la propria vita
― autodeterminazione personale (l’individuo, non la famiglia,
come referente delle informazioni e soggetto delle decisioni) I
― promozione delle direttive anticipate;
living will o indicazione di persona delegata a decidere;
disposizioni per la donazione di organi.
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La cultura dell’empowerment prevede anzitutto l’adeguamento alla filosofia che ispira l’Oms è nota come “promozione della salute” (health promotion). La carta di Ottawa (1986) l’ha descritta come «un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla». L'autogestione è il contrario di quella «espropriazione della salute» che il classico saggio di Ivan Illich Nemesi medica imputava alla medicina, quando diventa un’impresa totalitaria che pretende di gestire la salute al posto del soggetto. La rivoluzione liberale, quando viene introdotta anche nell’ambito della medicina, comporta la nozione dei diritti nelle relazioni che si istaurano nell’ambito della cura: i diritti personali, in quanto i trattamenti non sono obbligatori, e i diritti civili, nel contesto dello stato sociale che garantisce livelli di assistenza sulla base del bisogno, non delle disponibilità economiche.
Per questo oggi si tende, visto anche il perdurare dell'asimmetria nei rapporti di potere, a dare importanza ai rappresentanti dei pazienti (per esempio gruppi organizzati di pazienti, di ex pazienti o di familiari) o a istituzioni di tutela dei diritti (tribunale dei diritti del malato, gruppi consultivi misti). Iniziative di questo genere hanno contribuito in modo determinante a modificare l’atteggiamento psicologico di sudditanza che i malati in passato tendevano ad assumere, promuovendo invece rapporti adulti.
Anche l’ottica postmoderna dell’aziendalizzazione ha la potenzialità di modificare socialmente i rapporti tra chi eroga i servizi sanitari e chi li riceve. Il concetto di cliente implica la considerazione della soddisfazione di chi riceve i servizi e il suo coinvolgimento attivo nella valutazione della qualità delle prestazioni erogate (almeno della dimensione soggettiva, che può essere percepita dall’utente). L’applicazione alla società dei principi del mercato è senza dubbio pericolosa, perché può stravolgere l’ethos ippocratico in cui tradizionalmente la medicina si è riconosciuta. Tuttavia può anche potenzialmente arricchire lo spessore sociale di chi riceve servizi sanitari, attribuendogli un ruolo critico e di promozione attiva della qualità.
Nei rapporti tra medici, infermieri e altri professionisti sanitari da una parte, e il paziente e i suoi familiari dall’altra, l'empowerment diventa effettivo solo attraverso un processo informativo sistematico. Il paziente dev'essere informato se ciò che gli viene proposto si inquadra in un progetto di ricerca (il consenso alla sperimentazione è diverso da quello che ha per oggetto un trattamento standard), in un’indagine diagnostica (a partire dall’ipotesi che guida il percorso diagnostico) o in un trattamento terapeutico. L’informazione non è completa se non include anche le alterative, i benefici attesi, gli effetti collaterali, i rischi e le complicazioni dei trattamenti proposti.
In questo senso acquista oggi un peso nuovo il parere complementare
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(second opinion), inteso come un diritto del paziente ad acquisire informazioni diverse presso altri professionisti (per esempio nel caso di un intervento chirurgico elettivo, oppure ascoltare il parere di un internista, dopo aver raccolto quello di un chirurgo). L'empowerment implica anche l’acquisizione delle conoscenze che permettono l’autogestione delle malattie croniche (le patologie dalle quali non si guarisce, qualunque cosa faccia il medico, sono oggi l’80 per cento, rispetto a un 20% per le quali si può sperare la restitutio ad integrum). L’Oms ha raggruppato sotto l’etichetta di educazione terapeutica questo tipo di interventi che favoriscono il controllo del paziente sulla propria malattia.
In tutto ciò va anche sottolineato che la maggior parte dei problemi di salute sono piccoli disturbi, curabili con i farmaci di automedicazione. Lo sviluppo di una cultura di automedicazione, fondata su un dialogo tra consumatore, farmacista e medico, aiuta il consumatore a orientare le sue scelte di cura. Secondo l’Anifa, l’associazione che raggruppa le industrie dei farmaci di automedicazione, in Italia è ancora poco diffuso l’uso dei farmaci che non richiedono la prescrizione medica (pur essendo sottoposti agli stessi controlli previsti per i farmaci da prescrizione). Sintetizzando, nell’ambito clinico l'empowerment può essere considerato equivalente a una maggiore padronanza della situazione, mentre dal punto di vista etico è legato al passaggio dal modello ideale dell’etica medica a quello della bioetica, che abbiamo descritto. Per evitare banali semplificazioni (del tipo «prima il potere era tutto del medico, ora è tutto del paziente») è utile ripetere che l’orientamento della medicina a fare il bene del paziente rimane ovviamente valido, ma si deve conciliare con quanto del proprio bene può e deve definire il paziente stesso. Il paziente non può essere solo passivo, ma deve essere chiamato a collaborare attivamente con il medico nella definizione degli obiettivi dell’intervento sanitario (compresa la decisione se privilegiare le azioni rivolte a salvare e prolungare la vita o quelle finalizzate a risparmiare inutili sofferenze). L'empowerment è strettamente collegato con la responsabilizzazione dell’individuo per le decisioni che lo riguardano.
In questa visione dei rapporti, il ruolo centrale spetta coerentemente al soggetto, anche nei confronti della sua famiglia. Per quanto i familiari possano essere ben intenzionati nei suoi confronti, nessuno meglio della persona stessa può interagire con i professionisti sanitari per giungere alla decisione che meglio salvaguardi tutti i valori in gioco. Nel caso in cui il soggetto sia incapace di esprimere la propria volontà, i familiari possono essere coinvolti, in quanto fonte privilegiata, per conoscere le preferenze della persona (living will o disposizioni di volontà anticipate), tanto più se c’è stata un’esplicita autorizzazione previa a consultare un familiare o un congiunto in caso di propria incapacità. Come nel caso dell’espressione di
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volontà per la donazione degli organi dopo la morte, l'empowerment tende a valorizzare le preferenze individuali e a rispettarle anche al di fuori del contesto in cui hanno un valore giuridico.
L'empowerment del cittadino è l’atto finale della rivisitazione del rapporto medico-paziente che la situazione attuale della complessità ci costringe a intraprendere. Per il mondo sanitario, chiamato a esplorare la pluralità delle dimensioni nelle quali si articola l’atto di cura, è quanto mai appropriata la dedica che Abbott prepone a Flatlandia: «Agli abitanti dello spazio in generale è dedicata quest’opera da un umile nativo di Flatlandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciute soltanto due, così anche i cittadini di questa Regione Celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro cinque o addirittura sei dimensioni».
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RISORSE
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Angelo Guerini e Associati
Viale Filippetti 28 - 20100 Milano
Tel: 02.48713103
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Tel: 06.30154960 Fax: 06.3051149
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Fondazione Lanza
Via Dante, 55 - 35139 Padova
Tel/Fax: 049.87.56.788
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Facoltà Teologica di Sicilia
Piazza S. Domenico - 95024 Acireale
Tel: 095.7631324 Fax: 095.7634931
i centri e le società
Centro di bioetica dell'Università cattolica del Sacro Cuore
Largo Francesco Vito, 1 - 00168 Roma
Tel: 06.3015.4205-4960
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Fondazione Lanza
Via Dante, 55 - 35139 Padova
Tel/Fax: 049.87.56.788
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Piazza S. Domenico - 95024 Acireale
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Facoltà di Bioetica dell’Ateneo pontificio Regina Apostolorum
www.upra.org/seccion.phtml?se=3
Via degli Aldobrandeschi 190 - 00163 Roma
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www.politeia-centrostudi.org
Via Cosimo del Fante 13 - 20122 Milano
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Via Cosimo del Fante 13 - 20123 Milano
Tel/Fax: 02.58300423
www.consultadibioetica.org
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Via Buonarroti 7 - 00185 Roma
Tel: 06.77250540
www.istitutogiano.it
Istituto italiano di bioetica Campania
Via Girolamo Santacroce 15 - Napoli (sede legale)
Istituto Nazionale Tumori - Fondazione “Pascale” (sede operativa)
i documenti
Tutti i documenti prodotti dal Comitato italiano di bioetica (pareri e mozioni) sono scaricabili dal sito www.palazzochigi.it/bioetica