Implicazioni etiche dell’obiezione di coscienza nella professione medica

Book Cover: Implicazioni etiche dell'obiezione di coscienza nella professione medica
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

Implicazioni etiche dell’obiezione di coscienza nella professione medica

in Medicina e Morale

fasc. 1-2, 1977, pp. 144-165

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IMPLICAZIONI ETICHE DELL’OBIEZIONE DI COSCIENZA

NELLA PROFESSIONE MEDICA

Quando qualcuno nell’esercizio della sua professione si appella alla coscienza suscita istintivamente rispetto. La coscienza individuale nella gerarchia di valori del nostro universo culturale occupa il posto più alto. Ad essa si attribuisce la decisione ultima. Dalla coscienza dipende la qualità etica del comportamento: ciò che è in accordo con essa ha un valore morale positivo; l’infrazione del dettato della coscienza inquina la moralità anche di un atto in sé buono. Il ricorso alla coscienza è circonfuso da un’aura ancor più sacrale quando si tratta della professione medica, dal momento che il medico ha il potere sulla vita di altri esseri umani.

La coscienza è, per sua natura, un’istanza insindacabile. Ciò non la sottrae però a qualsiasi forma di critica. In particolare, non può essere elusa la questione fondamentale: c’è veramente la coscienza dietro gli appelli alla coscienza? I «maestri del sospetto» ci hanno fatto aprire gli occhi sull’abisso esistente tra il linguaggio e la realtà. Non sempre siamo soggettivamente coscienti delle mistificazioni. Talvolta ci limitiamo a considerare le relazioni sociali apparenti, senza avvertire la realtà sociale di sopraffazione che nascondono. Oppure ci accontentiamo di ciò che le difese del pensiero cosciente lasciano filtrare, ignorando la realtà psichica repressa. Non soltanto chi è andato a scuola dal marxismo e dalla psicoanalisi è stato educato al sospetto sistematico. Anche l’uomo della strada ha imparato a diffidare delle parole altisonanti, a distinguere tra ciò che il linguaggio rivela e ciò che nasconde.

Le mistificazioni possono essere involontarie; per questo sono così pericolose. Specialmente quando coinvolgono la coscienza, il

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frutto più sublime e più fragile che l’educazione etica dell’umanità ha prodotto. Corruptio optimi pessima: lo sapevano anche gli antichi.

Poiché dunque l’appello alla coscienza può dar adito a mistificazioni, grossolane o raffinate che siano, è opportuno sottoporre l’obiezione di coscienza in campo medico a una riflessione critica. Non al fine di screditare l’obiezione, o per scoraggiare il ricorso ad essa, ma piuttosto per mettere in evidenza le condizioni che la rendono autentica e credibile; dunque, in sostanza, per promuovere un’obiezione di coscienza di qualità etica ineccepibile.

Il nostro interesse non va alla casistica, bensì al processo psicologico-morale-sociale dell’obiezione di coscienza in quanto tale. L’appellarsi alla coscienza è come un sasso gettato in acque stagnanti, una provocazione alla prassi comune. Lasciando le nostre riflessioni estendersi come il gioco dei centri concentrici sull’acqua, entreremo in un complesso di interrogativi inquietanti che concernono l’esercizio della professione, le motivazioni del comportamento, l’esperienza religiosa. In sostanza, sottoporremo l’obiezione di coscienza a una progressiva chiarificazione semantica a un triplice livello: deontologico, etico e religioso.

Il ricorso alla coscienza professionale

Quando un medico dichiara: «Questo, in coscienza, non lo posso fare», oppure: «La coscienza me lo vieta», si riferisce per lo più all’«ethos» che caratterizza la professione medica; la coscienza a cui fa appello è detta, più comunemente, «coscienza professionale» 1.

A un’analisi ulteriore l’ethos connesso a una professione appare dotato di una duplice rilevanza, giuridica ed etica. Il primo punto di vista costituisce il diritto professionale, strutturato come un insieme di prescrizioni di legge legate a una determinata professione. Esso specifica le obbligazioni di chi la esercita. Le infrazioni di tale normativa sono perseguibili penalmente. Ma l'ethos professionale non è ristretto a quanto può portare di fronte al giudice. C’è anche un

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insieme di doveri che dipende da un’altra fonte, quella che abbiamo chiamato l’istanza etica. Sono i doveri che costituiscono la deontologia di una professione (deontologia significa, letteralmente, «scienza dei doveri»).

In senso lato ogni professione impone dei doveri, quindi ha una deontologia 2. Quando la professione si organizza, tende a darsi uno statuto codificato, o almeno delle usanze che precisano i doveri dei membri. Le formulazioni deontologiche codificate, emanate dagli organi ufficiali della professione, godono di autorevolezza. È considerato legittimo il ricorso alle sanzioni (che possono andare dalle censure puramente morali fino alla sospensione o esclusione del professionista dal gruppo), affinché i membri del gruppo rispettino i doveri che hanno accettato con la loro adesione. Tali formulazioni deontologiche sono regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune. Sono, dunque, più che un semplice regolamento; piuttosto uno spirito che deriva da una percezione collettiva dell’attività socialmente svolta e del senso di questa attività. La deontologia non si definisce però riferendosi a concetti astratti. Essa tende a concretizzarsi, mira ai casi incontrati dal professionista nella pratica quotidiana. Con riferimento a simili casi le prescrizioni deontologiche danno imperativamente soluzioni pratiche e precise, che definiscono i doveri del professionista. Nella forma di codici deontologici la deontologia assomiglia così un po' a una casistica.

Ricorrendo a un’immagine, potremmo dire che la deontologia è analoga ai consigli che i fabbricanti pongono alla fine del depliant allegato alle macchine che si vendono. Quando questi foglietti sono ben fatti, vi si trova, dopo l’inventario dei pezzi della macchina e l’enunciato dei principi del suo funzionamento, un insieme di regole per l’uso, seguite dagli accorgimenti per la migliore utilizzazione possibile della macchina. Con ciò il produttore non fa altro che indicare come rispettare la natura della macchina, sulla base di esperienze e osservazioni del passato fornite dagli utenti stessi.

L’analogia ha certo bisogno di correzioni. Soprattutto va precisato

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che la deontologia non deriva da uno spirito di efficienza utilitaristica. Essa si sviluppa nel campo delle professioni liberali, che hanno per oggetto l’uomo e i suoi valori; nel campo della medicina in primo luogo, per lunga tradizione umanistica. Nell’insieme tuttavia l’analogia con le «istruzioni per l’uso» è convincente. Essa evidenzia il carattere empirico delle norme deontologiche. Queste non equivalgono a una morale professionale, vale a dire a un insieme di precetti elaborati per deduzione da un’etica generale, considerando l’incidenza in un’attività professionale dei valori etici ai quali ci si riferisce. Sono piuttosto il frutto di una riflessione collettiva, stimolata dai problemi suscitati dalla professione e che superano l’ambito dei regolamenti e dalla routine. Protagonisti della riflessione deontologica sono professionisti coscienti e critici, che hanno di mira una prassi professionale efficiente e socialmente ineccepibile.

Quest’ultimo punto merita uno sviluppo; esso ci aiuta a identificare la funzione propria delle norme deontologiche. Queste mirano alla salvaguardia di certi valori, specialmente necessaria nelle attività che fanno appello alla fiducia del cliente verso la persona del professionista. Per questo le professioni liberali sono così sensibili all’onore e alla dignità professionali. L’osservanza delle norme deontologiche è destinata a mantenere la fiducia nel corpo professionale, salvaguardandone la reputazione; si tratta, in ultima analisi, di una forma di autodifesa del corpo professionale. La deontologia, quindi, non è una morale. Le regole della morale vigente possono, in modo contingente, essere incorporate alla deontologia professionale, dal momento che atti valutati come immorali dalla sensibilità etica dominante possono essere pregiudizievoli al professionista. Tuttavia la deontologia non è, in sé, una specie di morale laica, quel minimo comun denominatore etico che fornirebbe un luogo di incontro comune a tutti i membri della professione.

Questo equivoco si verifica spesso a proposito della deontologia medica. Si vuol vedere in essa una sintesi di quei principi etici che tutti i medici riconoscerebbero come obbliganti, qualunque siano le ulteriori specificazioni confessionali e personali 3. In questo senso è

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anche diffusa la concezione che vede nel giuramento di Ippocrate il simbolo di un ethos perenne, soggiacente a tutte le trasformazioni culturali ed etiche, al quale il corpo medico si sarebbe sempre attenuto. Esso sarebbe espressione di una convergenza unanime sull’obiettivo etico della professione medica: la difesa o restaurazione della salute 4. Sotto il vestito alla greca si vuol ritrovare lo stesso medico che cura in camice bianco.

Il riferimento costante al giuramento di Ippocrate come simbolo di un’etica medica sovratemporale rende necessaria una rettifica. Generazioni di medici hanno assunto il giuramento come magna charta della deontologia medica. Ma già H.E. Sigerist, il fondatore della moderna storia della medicina, appurava che il suo significato originale non sarebbe quello attribuitogli dalla venerazione successiva che lo ha considerato come la fissazione dei principi etici a cui tutti i medici si attenevano 5. La letteratura medica, da Ippocrate a Galeno, è tutt’altro che unanime circa le ingiunzioni del giuramento. Si sa, in

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particolare, che i medici erano soliti prestare il loro aiuto per il suicidio e per l’aborto; e Galeno, che si voleva così ippocratico, criticò i suoi maestri e praticò la chirurgia. Il senso del giuramento va piuttosto cercato nella direzione indicata dall’unico voto positivo contenuto nel giuramento («Conserverò santa e pura la mia vita e la mia arte»), rafforzato dalla clausola finale: «Se mantengo fedelmente questo giuramento ...possa essere stimato da tutti in ogni tempo». La sua funzione era proprio quella di garantire al medico il buon nome, il credito, la reputazione («doxa»). In una società, infatti, in cui non veniva concessa un’approvazione formale per l’esercizio della medicina, il buon nome del medico era la sua unica legittimazione. Tanto più là dove la medicina «laica» doveva vincere la forte concorrenza della terapeutica sacrale praticata nei santuari di Esculapio.

Ricondotto al suo senso originario, il giuramento viene a trovarsi sorprendentemente vicino alla deontologia medica nel significato che abbiamo sopra stabilito. Esso equivale a una misura di autodifesa della categoria medica in vista di quella credibilità e quella fiducia necessaria per l’esercizio della professione. È superfluo forzare il giuramento di Ippocrate, caricandolo di un significato che né storicamente, né obiettivamente può avere. Parimenti è ingiusto partire lancia in resta contro il giuramento, come fosse il principale responsabile di una falsa autocomprensione della medicina dal punto di vista sociale, in quanto giuramento corporativistico che intrattiene una mentalità settaria 6. La sua funzione storica è comprensibile e giustificabile. Oggi una corretta deontologia svolge il compito originariamente affidato al giuramento.

Il bisogno di validazione sociale della professione medica mediante un riferimento deontologico è vivo ai nostri giorni più che mai. Nel contesto odierno, che vede i medici da stregoni in camice

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bianco diventare imputati di incompetenza e malafede, una severa deontologia contribuisce alla credibilità della classe medica e alla fiducia degli utenti verso di essa. Per svolgere questa funzione la deontologia deve rimanere entro il proprio ambito. Non ha bisogno di svilirsi a «galateo medico» 7, né di maggiorarsi a morale laica capace di riscuotere il consenso unanime della classe medica, in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini.

A livello deontologico l’obiezione di coscienza del medico ha un preciso significato: vuol dire adesione a quella normativa casistica che la prudenza dei più seri professionisti considera necessaria per garantire un rapporto fiducioso con la clientela. I medici hanno diritto di obiettare che certi interventi loro richiesti, a prescindere dalla valutazione etica dell’intervento stesso che personalmente il medico possa dare, compromettono la loro credibilità in quanto operatori sanitari. Quando obietta in nome della coscienza professionale, il medico non salvaguardia un valore eterno o un principio etico, ma la «doxa» della propria categoria. Ciò non equivale alla difesa di un meschino interesse corporativistico; serve piuttosto alla tutela di quel tacito patto sociale che giustifica l’esercizio della medicina. Questo patto non è fatto di clausole giuridiche; la fiducia di chi affida se stesso al medico è la parte essenziale. Di qui la sua fragilità e la necessità di prevenire le possibili incrinature.

Le considerazioni precedenti ci costringono a prendere coscienza che l’obiezione in nome della coscienza professionale ha implicazioni di vasta portata sociale. L’obiezione deontologica ha riferimento alla prassi professionale dell’intera categoria e al patto sociale che la mantiene in essere. Per quanto riguarda specificamente la deontologia medica, la prospettiva sociale fa emergere la difficoltà capitale di tutta la questione. Ci troviamo infatti in un periodo di transizione che rimette in discussione proprio la collocazione sociale della classe medica e la funzione della medicina. Riaffermare la legittimità, anzi la necessità, di una deontologia professionale e dell’obiezione di coscienza per motivi deontologici non tocca ancora il nocciolo del

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problema. Il quale può essere riassunto in questi termini essenziali: c’è ancora posto per la medicina liberale nella nostra società? La deontologia tradizionale è infatti funzionale alla medicina liberale 8. Ora, appunto, la medicina liberale è attualmente sotto accusa; le si rimproverano carenze che la rendono inadeguata per un’organizzazione sociale che va verso una maggiore socializzazione dei servizi. La deontologia tradizionale, quella che si basa sui pilastri della libertà terapeutica del medico, del segreto medico e dell’accordo personale sulla retribuzione, non risponde alle esigenze di una politica sanitaria 9. Uno dei limiti più vistosi di tale deontologia è quello di considerare unicamente i doveri del medico nei confronti del singolo malato che lo consulta, mentre ignora i compiti profilattici della medicina e la sua organizzazione sociale.

Una medicina politicizzata sarà l’alternativa futura alla deontologia? L’interrogativo è inquietante. L’accento sul sociale non garantisce infatti automaticamente l’umanizzazione della medicina. Questo orizzonte di problemi doveva però essere almeno menzionato per spiegare perché oggi la sensibilità comune non accetta che l’appello alla coscienza in senso deontologico costituisca l’ultima parola nelle questioni che sorgono nell’esercizio della professione medica.

La coscienza come istanza etica

Per situarci d’emblée nell’ordine della coscienza etica pensiamo alla situazione che evoca l’accorata domanda: «Dottore, che decisione prenderebbe se si trattasse di sua figlia o di sua moglie?». La domanda presuppone che esista un’istanza diversa da quella della coscienza professionale. Se il medico è interpellato in quanto medico può lasciarsi guidare dall’ethos deontologico; ma, interpellato in quanto uomo, e dovendo prendere una decisione «in coscienza», dovrà ispirarsi a un altro ordine di valori.

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La domanda da cui partiamo evidenzia alcuni tratti che connotano la coscienza morale. Questa è una relazione intrinseca dell’uomo con se stesso, grazie alla quale l’individuo può conoscersi in modo immediato e privilegiato, e perciò giudicarsi con sicurezza. L’accesso alla coscienza di un altro non può essere forzato; la coscienza non si apre dall’esterno ma solo dall’interno, per libera automanifestazione del singolo all’altro uomo. La sfera d’interiorità costituita dalla coscienza è avvertita come realtà superiore e privilegiata. In quanto organo per la veracità e l’onestà, conferisce alle azioni caratteristiche peculiari: le rende libere, responsabili; in una parola: morali.

In questa sommaria descrizione della coscienza si sarà riconosciuta la concezione che, dall’illuminismo in poi, rappresenta l’ideale più alto di civiltà nell’ambito della cultura occidentale. L’uomo emancipato è quello che ha superato l’«etoronomia» — sia quella parentale del bambino che quella sociale del primitivo — per accedere all’«autonomia», vale a dire a una condotta guidata dalla coscienza. Un’azione compiuta secondo coscienza suscita un rispetto che confina con la venerazione. Si può addirittura parlare di una «religione della coscienza» come caratteristica della cultura illuministica di cui siamo figli.

Nessuno si sognerebbe oggi di contestare il ruolo preminente attribuito alla coscienza nella gerarchia di valori. Prima però che la coscienza possa rivendicare i suoi privilegi di istanza inappellabile e suprema, deve rispondere ad alcune questioni della massima importanza. Quali sono le decisioni che vengono veramente prese in coscienza? Esistono validazioni in grado di accreditare o inficiare gli appelli alla coscienza? Come si forma e come si evolve la coscienza?

Iniziamo dall’ultima questione. Parlare di formazione della coscienza implica una prospettiva dinamica ed evolutiva, secondo la quale la coscienza non esiste come un elemento immutabile, simile ai tratti trasmessi tramite il meccanismo dell’eredità genetica. La coscienza esiste, piuttosto, in potenza; spetta all’educazione creare le condizioni per il suo sviluppo. La coscienza del bambino non si lascia comparare con quella dell’adulto. Gli adulti sono così lontani dal continente perduto dell’infanzia che stentano a rendersi conto che persino la nozione di «intenzionalità» è acquisita. Per l’adulto la

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presenza di un’intenzione, pur non essendo sempre un fatto percettibile, è però un dato di cui occorre sempre tener conto per valutare la qualità di un’azione. Non così, invece, per il bambino. Gli studi di J. Piaget 10 hanno dimostrato che il pensiero infantile è per lungo tempo permeato di realismo, che comporta il primato dei dati percettivi su quelli rappresentativi. Il bambino deve percorrere un lungo cammino prima di giungere a scindere la presenza di un’intenzione dal risultato concreto dell’azione che essa suscita o guida, e a rendersi così conto che a una stessa intenzione possono corrispondere risultati diversi o, viceversa, che può verificarsi uno stesso risultato benché le intenzioni siano diverse. A Piaget dobbiamo l’ipotesi dell’esistenza di due moralità: una eteronoma o di costrizione, l’altra autonoma e fondata sulla cooperazione. Secondo la prima, che si ritrova nei bambini più piccoli, ciò che la regola o l’adulto comandano deve essere fatto e la disobbedienza è comunque un atto riprovevole; secondo la morale autonoma, che si impone più tardi sostituendosi — talvolta non interamente — alla prima, una regola ha quel valore che concordemente si decide di darle.

Affermando che la persona adulta e matura è solo quella che si lascia guidare nel suo agire da motivazioni di coscienza, si ottiene senza difficoltà il consenso generale. Non esiste invece un modello di sviluppo della coscienza che si imponga in modo indiscutibile. A titolo orientativo ci riferiamo a quello proposto da Charles Hampden-Turner, che si ispira alle teorie della personalità proposte dalla corrente nota come «psicologia umanistica» 11. Secondo questo modello, prima di giungere all’azione orientata alla coscienza si passa per numerose fasi, che possono essere così schematizzate:

― Orientamento di obbedienza (analogo alla moralità eteronoma di Piaget). L’azione è motivata dalla volontà di evitare punizioni o fastidi. Deferenza somma verso il potere; concezione oggettiva e non ancora soggettiva della responsabilità (Piaget lo chiama «realismo morale»: convinzione che commettere certi atti è cosa in sé

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cattiva e costituisce una colpa, indipendentemente da ogni considerazione del contesto psicologico che precede o accompagna il loro svolgersi).

― Orientamento egoistico strumentale. L’azione è orientata al soggetto stesso e ai propri bisogni: è giusta quella che li soddisfa. Questo atteggiamento non esclude eventualmente l’orientamento a bisogni degli altri. Determinante di questa fase è la concezione che non esistano valori assoluti: ogni valore è relativo ai bisogni e alle prospettive del singolo agente.

― Orientamento al ruolo. La formazione della personalità individuale passa attraverso l’accettazione di un ruolo. Questa accettazione permette di prevedere le azioni degli altri e di adattarvi la propria condotta. Una condotta orientata al ruolo implica la conformazione alle immagini stereotipate della maggioranza e l’intenzione di adattarsi al giudizio sociale su ciò che è naturale per un certo ruolo. Prototipo di questo atteggiamento è il bambino adattato che, pur di piacere, compiace. In ognuno che sia passato attraverso il processo di socializzazione è presente il «bravo ragazzo», teso a riscuotere l’approvazione altrui.

― Orientamento alla legge. È l’orientamento a mantenere l’autorità e l’ordine sociale come fine a se stesso. Ispira il comportamento di coloro che «fanno il proprio dovere», ne sono fieri e appagati. La concordanza personale con quanto si presenta con le caratteristiche di «ordine» esaurisce le esigenze morali presenti a questo livello.

― Orientamento al contratto sociale. Il dovere è qui definito in termini di contratto. È presupposto che ci si sia resi conto che nelle norme e nei ruoli c’è un elemento arbitrario, che dipende da un accordo sociale. L’azione ispirata ad esso intende evitare di violare il volere o i diritti degli altri e vuol favorire la volontà e il benessere della maggioranza.

― Orientamento ai principi o alla coscienza. È il comportamento di chi, al di là dell’orientamento alle regole sociali effettivamente ordinate, si ispira a principi di libera scelta personale. A questo livello il principio direttivo delle azioni è la coscienza. Il giudizio che si basa sui principi e sulla coscienza è la forma più

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elevata di giudizio morale. È proprio della persona matura, che ha completato la formazione della propria coscienza.

L’obiezione di coscienza è un caso particolare, di origine conflittuale, del comportamento morale adulto, ispirato ai principi etici. Prima però di considerare questo caso particolare, completiamo il quadro della personalità dell’uomo eticamente maturo.

La persona matura, che si ispira ai principi, non equivale al «dogmatico». Utilizzando la distinzione messa in uso da Rokeach 12, diremo che, a differenza del dogmatico, è dotato di un quadro mentale «aperto», non «chiuso». Ciò vuol dire che la sua percezione abbraccia tutta la realtà, compresa l’intera gamma dei dilemmi. La sua è una percezione decentrata, capace di cogliere i bisogni degli altri, anche quelli che contraddicono i propri.

Grazie a una personalità tanto forte da non conformarsi alle aspettative di ruolo imposte alla persona dall’ambiente culturale, la coscienza adulta può affrontare la drammatica eventualità della situazione di conflitto. Può avvenire infatti che il soggetto etico si trovi nella situazione in cui l’orientamento ai principi e alla coscienza si oppone alle altre istanze. Non è una eventualità da presumere con troppa facilità. Normalmente le varie istanze si integrano abbastanza armonicamente, o quanto meno convivono; e solo una minima parte dei nostri atti morali fa appello diretto alla coscienza. Ma il caso eccezionale in cui l’orientamento alla coscienza si opponga agli altri orientamenti può darsi. Allora la struttura etica è messa alla prova e il soggetto si trova di fronte a un dilemma: o sacrifica il riferimento alla coscienza, appoggiandosi a una delle altre motivazioni (secondo lo schema gerarchico che abbiamo proposto: esegue il comando che gli evita la punizione, si orienta secondo i propri bisogni, fa ciò che ci si aspetta da lui, ciò che prescrive la legge, agisce secondo gli impegni che si è assunto verso la società); oppure investe tutto il suo potenziale morale sui principi affrontando le conseguenze del conflitto. Le quali possono essere, in una tragica escalation, la soppressione del

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contratto sociale, lo scontro con il rigore delle leggi vigenti, la disapprovazione sociale per il non adempimento delle aspettative di ruolo, il disagio personale e, infine, la punizione. Due esempi luminosi di opposizione per motivo di coscienza, con la morte inflitta come epilogo, sono le vicende di Socrate e di Tommaso Moro.

La semplice menzione dei due simboli più noti, nella nostra cultura, della trascendenza della coscienza ci fa intravvedere quale straordinaria efficacia possa avere l’obiezione di coscienza. Il principio per amore del quale si è disposti a mettere in gioco ogni cosa sollecita negli altri una reazione di conferma, che travolge i contratti sociali, le leggi e le aspettative di ruolo; tale principio può diventare una nuova base per la convivenza civile, una nuova legge, un nuovo modello di ruolo. Non è retorica affermare che i progressi etici dell’umanità non sono avvenuti per accumulazione progressiva, come quelli scientifici, ma per salti qualitativi dovuti a coscienze singolari, come appunto quelle di Socrate e di Tommaso Moro (se i due esempi sembrano eccessivamente patetici per la tragica fine degli obiettori, si pensi a Francesco di Assisi, nudo di fronte al padre: è anche questa un’immagine fortemente espressiva della radicalità cui può portare la motivazione di coscienza).

La descrizione fenomenologica della motivazione di coscienza che abbiamo sviluppato come risposta alla domanda iniziale sulla formazione della coscienza ci offre gli elementi per discernere un’obiezione di coscienza da ciò che non lo è. Non è sufficiente che ci sia un atto di ribellione alle leggi e al contratto sociale perché si abbia obiezione di coscienza. La ribellione può manifestarsi tanto nella fase più formalmente etica quanto nelle fasi precedenti, in cui il comportamento si orienta ad altro che ai principi etici. Se la persona non si è maturata moralmente fino a raggiungere la capacità di un’azione orientata ai principi, non si può parlare di obiezione di coscienza. Quante persone raggiungono questo stadio? Il nostro narcisismo culturale, avvezzo a mettere il comportamento dell’homo sapiens su un piedistallo tanto più elevato di quello dell’animale, vorrebbe lasciarsi illudere che la motivazione di coscienza è l’atmosfera etica in cui si muove abitualmente l’umanità. Probabilmente la realtà è ben diversa. Pensiamo all’anestesia delle coscienze, al conformismo e all’adattamento

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generalizzato che costituiscono la triste base su cui poggiano tutti i regimi totalitari. Motivo di riflessioni non meno deprimenti ci offrono i risultati dell’esperimento di Stanley Milgram sull’acquiescenza all’autorità. I soggetti sperimentali ai quali fu ordinato di somministrare scariche elettriche a cavie umane (benché in realtà, all’insaputa dei protagonisti dell’esperimento, si trattasse di attori abili nel mimare il dolore), elevarono il voltaggio, su comando, fino a livelli mortali per la cavia. Soltanto pochissimi soggetti rifiutarono le direttive degli sperimentatori. Evitiamo di sollecitare conclusioni troppo ampie dall’esperimento, anche se è stato confermato da esperimenti analoghi condotti in Italia; una cosa, tuttavia, appare certa: non tutti, forse addirittura poche persone, sono capaci di ribellarsi. Se la capacità di opporre resistenza per motivo di coscienza fosse così diffusa come la fede nel valore della vita umana, i risultati degli esperimenti sull’acquiescenza agli ordini immorali sarebbero ben diversi (e non ci sarebbero stati né Auschwitz né l’arcipelago Gulag).

È facile passare da queste considerazioni al campo specificamente sanitario. I suoi operatori professano il principio dell’intangibilità della vita e svolgono un’attività volta a fini terapeutici; eppure si trovano spesso, di fatto, al centro di un campo di forze contrarie alla vita. Contrariamente alle attese, le obiezioni di coscienza non sono frequenti. Se consideriamo con realismo quanto raramente il comportamento umano si orienti ai principi e alla coscienza, non troveremo nel fatto un motivo per stracciarsi le vesti. Del resto, in base alle osservazioni precedenti sappiamo di non essere in grado di inferire con certezza dal fatto in sé della ribellione ad attese di ruolo o a prescrizioni legali un’obiezione di coscienza. Per definizione la coscienza è autoevidente ed autoriferentesi: essa esclude perciò qualsiasi forma di diretta verifica dall’esterno. Un comportamento di ribellione potrebbe essere orientato a tutt’altro che alla coscienza. A livello sociale le questioni di coscienza sono circondate da un velo di agnosticismo: «ignoramus et ignorabimus». La società infatti, pur considerando la motivazione di coscienza come il vertice supremo della moralità umana, si regge non sulla coscienza, bensì sugli altri ordini di moralità. Non sarebbe possibile una convivenza civile se

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l’unico ordine di riferimento fosse il dettato della coscienza individuale. Ciò ci permette di capire il carattere irritante che ha, a livello sociale, l’obiezione di coscienza. L’appello alla coscienza è un fatto anomalo che sembra sospendere le altre forme di moralità che garantiscono la convivenza civile, in particolare l’ordinamento giuridico e il contratto sociale. Tanto più che la coscienza individuale è un’istanza che sfugge a qualsiasi controllo sociale (di cui le riserve nei confronti della disposizione che accompagna la legge del 1973 circa il diritto di obiezione di coscienza al servizio militare, secondo cui una commissione deve giudicare le motivazioni di coscienza; la dispos- zione contraddice il concetto stesso di obiezione di coscienza).

Quali risorse restano alla società per difendere se stessa dalle obiezioni di coscienza spurie? La possibilità delle verifiche indirette. Il gruppo sociale, il quale non può rinunciare alla collaborazione dei suoi membri, per evitare che l’obiezione di coscienza sia solo la copertura di un disimpegno di comodo, può avanzare richieste di un impegno compensatorio. Così nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare la comunità dovrà richiedere una equivalente e impegnativa prestazione civile (purché non diventi in pratica una forma di penalità). Quando poi l’obiezione cada su alcuni punti che il gruppo ritiene di valore sostanziale per la convivenza civile, la società, pur non potendo richiedere un’esecuzione contro coscienza, potrà esigere che si subisca la pena o si esca dal gruppo 13. È un’eventualità che, come abbiamo illustrato sopra, è insita nella nozione stessa di obiezione di coscienza.

Questi principi etici possono essere applicati ai casi di obiezione di coscienza che riguardano i medici nell’esercizio della loro professione; in particolare alla prestazione della loro opera per procurare l’aborto. Tutte le legislazioni dei paesi democratici che hanno varato normative in proposito hanno previsto la figura giuridica del medico obiettore di coscienza (alcune l’hanno estesa anche ad istituzioni sanitarie in quanto tali). Più che le concrete determinazioni di tali norme, ci interessa valorizzare il fatto in sé dell’obiezione prevista dal

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legislatore e la tensione tra la società legiferante e il medico obiettore che ciò presuppone. Si crea così uno spazio per l’inquietudine e l’interrogazione. Il gruppo sociale, ammettendo nella propria normativa, in maniera del tutto anomala, la possibilità dell’obiezione, confessa la propria insicurezza. Il patto sociale non è perfetto, se la coscienza di alcuni può essere prevedibilmente offesa da qualche norma e la legge stessa, che pur dovrebbe garantire l’armoniosa convivenza, si vede costretta a prevedere vistose deroghe. Ammettendo l’obiezione di coscienza, la società proclama implicitamente che si tratta di una situazione transitoria e di emergenza, che reclama di essere superata mediante una crescita qualitativa della moralità comune.

La tensione dialettica tra coscienza individuale obiettante e normative sociali apre inoltre uno spazio di interrogazione per colui che obietta. È la sua una vera obiezione di coscienza? Per essere tale non basta infatti che l’azione obbedisca a una qualsiasi convinzione, ma deve derivare da un principio fondamentale. Questo, a sua volta, non esiste isolato, ma fa corpo con tutto l'organismo etico dell’individuo. Non si può, se non a prezzo di una contraddizione insanabile, difendere un principio in una circostanza e poi rinnegarlo allegramente in tutto il resto della propria attività professionale. Oltre i casi di più smaccata ipocrisia, c’è tutta una gamma di incoerenze personali e istituzionali che attendono la seria verifica dell’obiezione di coscienza per essere messe in luce. Di fronte al tribunale della coscienza, si sa, ognuno è solo; ma l’essere il testimone della propria immoralità può essere una ben dura condanna, di quelle che si scontano a vita.

L’obiezione per motivi religiosi

L’obiezione di coscienza per motivi religiosi è uno dei casi in cui l’autorealizzazione etica dell’individuo tocca i vertici. È noto come storicamente sia stato il protestantesimo a rivalutare l’obiezione di coscienza come espressione dello spirito cristiano; con la protesta in nome del Vangelo stesso il libero esame, mediato dalla coscienza individuale, ha spezzato la monolitica unità garantita dall’istituzione ecclesiastica. In ambito cattolico si è fatto a lungo resistenza al

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principio della libertà di coscienza. Tanto la concezione protestante quanto quella illuministica erano giudicate come un’indebita semplificazione dell’organismo etico, di cui fa parte essenziale anche il riferimento all’autorità. Il concilio Vaticano II ha ratificato un processo di rivalutazione della coscienza individuale avvenuto anche tra i cattolici. Nella dichiarazione Dignitatis humanae l’istanza dottrinale di vertice, il magistero, ha preso ufficialmente posizione a favore della libertà religiosa; la dichiarazione, pur non richiamandosi all’obiezione di coscienza, afferma i principi dai quali deriva il diritto all’obiezione.

problemi suscitati dalla coscienza religiosa sono numerosi e delicati. Ciò che interessa il nostro assunto è la possibilità di un’obiezione di coscienza nella professione medica in nome di un’incompatibilità con i propri principi religiosi. Procederemo come abbiamo già fatto per le altre due istanze, quella deontologica e quella etica. Ciò che ne risulterà non sarà una casistica spicciola, ma piuttosto una specie di radiografia dell’obiezione stessa. Il nostro scopo è di mostrare quali sono le condizioni che garantiscono la consistenza interna e l’accettabilità sociale dell’obiezione religiosa.

Specifichiamo in primo luogo che l'appello alla propria coscienza religiosa può avere valenze diverse. In sé, esso dice riferimento alle istanze dottrinali e morali della comunità di fede religiosa a cui si appartiene (dal momento che una religione non è mai un fatto puramente individuale). Tuttavia il legame con la comunità e il suo apparato dottrinale-autoritario può essere di qualità molto diversa. L’autenticità e la profondità del legame ammettono una vasta gamma di possibilità. Per prendere gli estremi, si può andare dall’adesione nominale — a cui magari possono non essere estranei interessi materiali o vantaggi sociali —, all’identificazione sofferta (si pensi al caso di Galileo, preso nella morsa del contrasto tra la propria visione scientifica e la fedeltà all’autorità dottrinale della chiesa). Anche qui, come già nel caso dell’appello ai principi etici, la possibilità di una verifica obiettiva del grado di autenticità è esclusa a priori. La possibilità del «tartufismo» è purtroppo da mettere in conto, anche se non può essere una ragione sufficiente per accogliere con sospettoso pregiudizio qualsiasi riferimento a principi religiosi.

Solo il credente stesso può sapere se si riferisce unicamente alla

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struttura esterna del gruppo confessionale, oppure ne partecipa l’intima sostanza in modo personale; in altri termini: se la sua religiosità è pura appartenenza sociologica oppure si fonda su un’esperienza religiosa.

Quando l’appello alla coscienza attinge le profondità esistenziali dell'esperienza religiosa personale, viene a qualificarsi come un momento che ha la stessa tessitura etica del comportamento motivato da principi individuali. L’esperienza religiosa in quanto tale è difficile da definire. Fa parte di una di quelle esperienze psicologiche che Abraham Maslow ha definito peak experiences; vale a dire esperienze di ordine superiore che permettono all’individuo di compiere sintesi di coscienza improvvise, panoramiche e fuori dell’esperienza comune 14. Esperienze di questo tipo vengono sentite come auto-validanti, auto-giustificanti, recanti in sé il proprio intrinseco valore.

Secondo I.T. Ramsey, per intendere a quale tipo di situazioni fa riferimento l’esperienza religiosa bisogna unire insieme due fattori: «discernimento» e «impegno». Il primo può essere illustrato con quelle situazioni, familiari alla psicologia della Gestalt, in cui «qualcosa scatta», «il ghiaccio si spezza», una persona «prende vita»; l’impegno è una risposta incondizionata a qualcosa «che è al di fuori di noi» 15. Si tratta, in ogni caso, di approssimazioni. Non può esistere una descrizione che metta in grado di capire un’esperienza senza farne l’esperienza.

L’esperienza è la sostanza della fede. Questa ha come unico parametro interno di autenticità l’esperienza religiosa, in quanto nasce da essa o tende verso di essa. Ciò non esclude il momento comunitario e la conseguente tensione tra spontaneità e normatività delle istituzioni. Ma i due termini devono essere lasciati coesistere dialetticamente; un modo costruttivo di risolvere la tensione non potrebbe essere quello di sopprimere uno dei due.

In che senso l’esperienza religiosa ha un’incidenza nella questione

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dell’obiezione di coscienza? Ci pare di poterlo indicare nel fatto che l’esperienza religiosa costituisce una fonte di motivazione etica. In quanto espressione di somma autorealizzazione umana (una realizzazione che in alcune religioni storiche è esplicita come dono connesso all’incontro con il «Tu» divino), l’esperienza religiosa è percepita dal credente come un’esistenza nuova, da cui deriva un’esigenza morale nuova. Cambia il suo essere, cambia il suo agire. Lo sboccio della novità, elemento comune ai vissuti esistenziali culminanti, è esigente. Nell’esperienza si esprime un’autorità superiore alla quale il credente non può — non vuole sottrarsi, perché con essa si identifica. Il comportamento etico dell’uomo religioso si fonda sull’autorità di Dio, come istanza irriducibile alle altre. È difficile definire in termini antropologici come sia determinata la coscienza dell’uomo che l’esperienza religiosa ha aperto a una dimensione nuova dell’essere. Non si tratta di «autonomia», la conquista che l’individuo post-illuministico ha strappato alle determinazioni sociali e che difende come «libertà di coscienza»; neppure si tratta dell’«eteronomia» della coscienza non emancipata. Bisogna ricorrere a un termine proposto da alcuni teologi: «teonomia» della coscienza. Si tratta di un rapporto di «libera dipendenza» dall’istanza autoritaria suprema, un rapporto esperibile ma non descrivibile.

La descrizione delle coscienze normate dal loro rapporto con Dio ha un carattere astratto. Di fatto però noi abbiamo conosciuto l’esistenza di tali coscienze non per opera di speculazione; queste coscienze si sono storicamente mostrate. Pensiamo a Cristo di fronte a Pilato. Due universi etici polarmente opposti. Non è soltanto la qualità delle azioni che li fa divergere, ma, in radice, l’autorità etica a cui la loro coscienza fa riferimento. Cristo fa osservare a Pilato che non avrebbe autorità su di lui se non gli fosse stata data da chi gli sta sopra; il suo potere è mutuato da un organismo politico-sociale (nel caso, di oppressione imperialista!) che lo sostiene e lo giustifica. Di fronte a lui Gesù di Nazaret è uomo di un altro mondo non solo metafisico, ma etico. Il suo potere non dipende da un’istanza gerarchica esterna: lo ha dentro di sé, in quel centro di esperienza esistenziale in cui è uno con Dio. Pilato, il detentore del potere, è eteronomamente

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determinato come uno schiavo; Gesù, il suddito, è teonomamente libero.

Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in margine alla disputa tra Gesù e i sommi sacerdoti a proposito della sua autorità (cfr. Mc. 11, 27-33). I rappresentanti dell’istituzione religiosa, che avevano con l’autorità divina un rapporto basato sulla tradizione e sulla formalità legale e gerarchica, non potevano capire di dove venisse l’autorità di chi portava in sé la salvezza di Dio.

Gli ebrei, tuttavia, non escludevano a priori l’esistenza di esperienze di Dio che fondassero una nuova esigenza spirituale ed etica. Tutta la loro storia sacra, in particolare la vicenda dei profeti, stava a dimostrarlo. Per questo l’«obiezione di coscienza» dei primi discepoli di Gesù («Se sia giusto davanti agli occhi di Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo voi stessi. Quanto a noi, non possiamo non rendere pubblico quanto abbiamo visto e ascoltato», Atti 4, 19-20) fece particolare impressione sul sinedrio; e in seguito, dietro l’intervento di Gamaliele, espressione della saggezza spirituale del popolo di Dio (Atti 5, 34-39), rinunciarono a perseguirli con la forza.

La coscienza religiosa, dunque, si modella essenzialmente sull’evento dell’esperienza religiosa, più che sul precetto. Ha bisogno anche del precetto come pedagogo; ma il precetto da solo è uno scheletro senza vita, un’armatura opprimente. La legge è solo pallida memoria dell’evento. La coscienza che si riferisce esclusivamente alla legge non conosce la creatività. Un ultimo elemento: l’autorità morale radicata nell’esperienza religiosa costituisce l’individuo nella sua unicità, ma non lo isola dalla comunità. Non crea degli «illuminati», sganciati da qualsiasi riferimento al gruppo con cui condividono l’esperienza religiosa. La convinzione intima che si ha davanti a Dio è un diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto. Essa non è tuttavia l’ultima istanza. La carità fraterna è l’orizzonte più universale, che supera anche i diritti della coscienza. Paolo ha formalizzato questi principi intervenendo nella questione del diritto dei cristiani di mangiare la carne sacrificata agli idoli (I Cor. 8). Il cristiano che ha incontrato il Dio vivente sa che gli idoli sono un nulla; in coscienza è perciò libero di mangiare la carne loro sacrificata. «Badate però — continua l’Apostolo — che questa vostra

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libertà non diventi pietra d’inciampo per i deboli... Peccando in tal modo contro i fratelli e offendendo la loro debole coscienza, voi peccate contro Cristo. Perciò se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò carne in vita mia per non scandalizzare il mio fratello».

Anche se rinunciamo ad applicazioni concrete, è facile intuire quale incidenza possa avere il riferimento alla coscienza religiosa nella prassi professionale. Può, ad esempio, un medico trovare nel proprio vissuto religioso — nella sua esperienza religiosa come in quella della comunità di fede di cui è parte — un motivo per obiettare in coscienza contro prestazioni richiestegli? Certamente sì. Tuttavia l’articolazione delle considerazioni precedenti ci autorizza a dire che l'obiezione di coscienza per motivi religiosi deve essere trattata con estrema delicatezza. Essa mette in moto un insieme di gravi interrogativi circa la qualità e la profondità del vissuto religioso dell’individuo, il suo rapporto con l’istituzione religiosa, i diritti della verità e quelli della carità, le interferenze tra la coscienza del singolo e la legislazione sociale. La qualità etica e religiosa di un tale atto esige che sia trattato con il massimo rispetto, senza sollecitazioni subdole, senza pressioni indebite 16. Una delle acquisizioni etiche più indiscutibile su cui si basa la cultura umanistica è che l’uomo è fine, non mezzo. Questo principio acquista la sua massima forza quando è riferito a quell’atto che riconosciamo come più specificamente umano, vale a dire il comportamento motivato in coscienza, religiosa o laica che sia. L’obiezione di coscienza non deve essere strumentalizzata per qualsivoglia battaglia ideologica. Sarebbe una violenza fatta alla coscienza, un «peccato contro lo Spirito».

In conclusione, possiamo sintetizzare l’ampio sviluppo delle riflessioni affermando che l’obiezione di coscienza può essere tanto il più alto atto di moralità di una persona, quanto un atto situabile a livello pre-morale; l’obiezione di coscienza deve essere perciò il punto

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di partenza di un processo di discernimento soggettivo e di verifica indiretta da parte della società.

Con ciò non abbiamo dato una risposta diretta ai problemi concreti che si pongono. Ma un esame sereno e profondo delle implicazioni etiche dell’obiezione di coscienza, delle sue grandezze e delle sue miserie, è più costruttivo; è inoltre un bisogno urgente dell’ora presente, se vogliamo evitare che la passione di parte giunga a servirsi delle coscienze come mezzo. Nell’attuale crisi dei valori la coscienza va difesa come un bene assoluto: perché se il sale diventa scipito, con che gli si ridarà sapore?

1 Per le opportune distinzioni tra «ethos», codice etico, etica medica e moralità del medico cfr. B. Häring, (1973), Etica medica, Roma, pp. 47-73.

2 R. Savatier (1971), Déontologie, in Encycl. universalis, Paris, vol. V, pp. 436-439.

3 Per alcuni la deontologia medica è addirittura la morale religiosa secolarizzata. Valga come esempio la voce Deontologia professionale in Enciclopedia medica italiana, Firenze 1952, vol. III, 694, in cui si può leggere: «La materia (della d. pr.) viene estesamente considerata dai codici deontologici, reperibili presso gli Ordini dei medici. In sintesi si possono compendiare nelle due massime: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, e fà agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te. Con questa eccezione, tuttavia: che non sempre il medico si deve interessare del soddisfacimento della volontà attuale del paziente, ma del vantaggio futuro; onde deve con la propria autorità imporsi al malato in modo da vincere la sua capricciosa resistenza a prestazioni terapeutiche che gli possono essere utili o la sua richiesta di prestazioni che gli possono essere di danno».

4 Nel linguaggio di Gedda: «Come lo sportivo di Maratona aveva il dovere di portare e difendere la fiamma olimpica, così il medico ippocratico ha il dovere di difendere la fiamma della vita. Se anche nella casistica terapeutica Ippocrate non è aggiornato, sui principi necessari, oggi come allora, egli è di un’attualità morale sorprendente e imprescindibile: medico vuol dire sacerdote della vita; ad altri, se occorre, il compito, a volte il dovere, di limitare la vita. A noi quello di facilitarla, di difenderla e di salvarla»: L. Gedda, (1954), Il giuramento di Ippocrate oggi, Roma, p. 19.

5 H.E. Sigerist, Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954. L’analisi filologica e storica più esauriente del giuramento di Ippocrate è stata condotta da L. Edelstein, Der Hippokratische Eid, Zürich-Stuttgart 1969. Per Edelstein il giuramento sarebbe stato fissato dopo la morte di Ippocrate, nella seconda metà del IV sec. a. C. Fino a Galeno, Ippocrate fu considerato come una scuola di medicina tra le altre. Poi l’atteggiamento cambiò. I padri della chiesa lo citano con rispetto e per i medici diventò egli stesso ben presto un padre della chiesa.

6 È l’appunto che deve essere fatto al capitolo che dedica al giuramento il libro, peraltro pregevole, di P. LüthDie Leiden des Hippokrates, oder Medizin als Politik, Darmstadt 1975. Va notato che il bisogno di un giuramento che simbolizzi l’impegno etico che si assume il medico è presente anche nei paesi a configurazione sociale collettivista; cfr. il giuramento dei medici sovietici, in cui agli impegni assunti viene dato un senso chiaramente politico.

7 È la concezione presente nella voce Medico (di A. Tizzano) nell'Enciclopedia italiana, vol. XXII, p. 736.

8 G. Caro, (1974), La médecine en question, Paris 1974; soprattutto il capitolo dedicato al concetto di medicina liberale, pp. 7-61.

9 H. Cleempoel, (1971), De la déontologie médicale à une éthique de la santé, in Pour une politique de la santé, Bruxelles, pp. 101-105.

10 J. Piaget (1932), Le jugement moral chez l'enfant, Paris.

11 Hampden Turner (1970), The Radical Man, Cambridge (Mass.).

12 M. Rokeach, (1960), The Open and the Closed Mind, New York. Il dogmatismo per Rokeach compare sotto forma di «totalità cognitiva di idee e rappresentazioni, che son organizzate in sistemi relativamente chiusi».

13 G. Davanzo, (1973), Obiezione di coscienza, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma, pp. 676-681.

14 A.H. Maslow, (1971), Verso una psicologia dell’essere, Roma. Tutto il libro, costruito sulle esperienze e i momenti più sani nella vita della gente comune, vuol dimostrare che gli esseri umani possono essere nobili e creativi, che sono capaci di seguire i valori e le aspirazioni più elevate.

15 I.T. Ramsey, (1970), Il linguaggio religioso, Bologna; specialmente pp. 17-76.

16 A questo proposito va fatto rilevare che le norme attualmente in discussione in Italia sull’obiezione di coscienza del medico all’aborto vanno piuttosto in senso contrario a quello qui auspicato. Esse sembrano prestarsi a misure intimidatorie e discriminatorie.