Il personale sanitario tra presente e futuro

Book Cover: Il personale sanitario tra presente e futuro

Sandro Spinsanti

IL PERSONALE SANITARIO TRA PRESENTE E FUTURO

in E. Arduini, A. Cambieri, C. Catananti, M. Liubich, C. Sile, S. Spinsanti, M. Vairano, Il nuovo ruolo del farmacista ospedaliero. Farmacia clinica, economia, management

Medicom Italia, Milano 1998

pp. 149-187

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1. La formazione nel quadro di riferimento normativo

Nell’ampio ambito della formazione del personale sanitario si possono individuare due aree: la formazione dei profili professionali di interesse del sistema sanitario e la formazione permanente del personale, come aggiornamento tecnico-scientifico delle diverse professionalità, per lo sviluppo dei servizi. La prima possiamo chiamarla formazione al lavoro, la

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seconda formazione sul lavoro.

I D.lg. 502/1992 e 517/1993 nel riordinare il Ssn dedicano la loro attenzione alla formazione dei profili professionali, ampiamente trattata nell’art. 6: Rapporti tra Ssn e università.Alle Regioni viene demandato il compito di stipulare specifici protocolli d’intesa per disciplinare la collaborazione con le università in vista della formazione degli specializzandi, considerando le particolari esigenze del Ssn. L’accento viene posto sul bisogno di creare una rete formativa tra i sistemi del Ssn e quelli dell’università.

Il cambiamento più rilevante nella formazione al lavoro riguarda il personale infermieristico. I decreti di riordino disponevano che la formazione degli infermieri avvenisse in ambito universitario. Negli anni seguenti le scuole regionali sono state progressivamente portate all’estinzione, a vantaggio dei Diplomi universitari in scienze infermieristiche. Nel 1994 il provvedimento sui profili professionali individuava la sfera di competenza e di responsabilità dell'infermiere, dando un ulteriore contributo alla trasformazione della professione (D.M. 14/09/1994, n. 739: Profilo professionale infermieristico ― art. 1: «È individuata la figura professionale dell’infermiere con il seguente profilo: l’infermiere è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, è responsabile

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dell’assistenza generale infermieristica»).

Per la professione dell’infermiere si apriva un periodo travagliato di transizione. Resistendo alle spinte verso una frammentazione della professione, gli infermieri si sono opposti alla creazione di separazioni artificiali tra infermieri diplomati nei corsi universitari e diplomati nelle scuole regionali. La fine del doppio canale formativo ― vecchie scuole e diplomi universitari di nuova istituzione ― prevista entro il 1996, ha accelerato il processo di transizione, ma ha anche evidenziato differenze locali di notevole entità: mentre alcune Regioni hanno provveduto per tempo a stipulare protocolli di intesa con le università, procedendo a chiudere o a trasformare le scuole per infermieri preesistenti, altre si sono trovate del tutto impreparate alla scadenza. Là dove i diplomi universitari sono stati attivati, il dibattito si è spostato sulle norme relative agli ordinamenti didattici dei corsi universitari e sulla questione della loro direzione (se dovrà essere affidata a medici o a infermieri). La professione infermieristica nel suo insieme ha dimostrato di saper cogliere il significato della formazione universitaria per una qualificazione del ruolo, che in altri Paesi europei è già stato raggiunto.

Un altro documento di indirizzo che contiene indicazioni importanti circa la formazione del personale sanitario è il Piano sanitario nazionale per il triennio

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1994-96. Tutto il capitolo 7 formula indirizzi relativi alla formazione del personale. Le priorità nel triennio in questione sono indicate dal documento nel recepimento di due direttive della Comunità europea relative ai neolaureati in medicina: la preparazione mediante un tirocinio teorico-pratico dei medici indirizzati alla pratica della medicina generale e la riduzione della pletora delle specializzazioni, tipica dell’Italia, che è chiamata ad adeguarsi alla tipologia riconosciuta a livello comunitario. Ambedue le innovazioni sono state introdotte. Per quanto riguarda la seconda, il Ssn ha potuto contribuire positivamente, mediante le sue strutture e il suo personale, allo svolgimento di attività didattico-formativa per i medici specializzandi, che sono stati integrati nell’attività assistenziale. La professionalizzazione degli specializzandi all’interno delle strutture del Ssn è stata una scelta che ha contrapposto università e Ministero della sanità. Il conflitto è stato risolto a favore di un itinerario formativo all’interno delle strutture del servizio sanitario pubblico, nelle quali il futuro specialista è destinato a operare.

La seconda novità del piano nazionale nell’ambito della formazione del personale sanitario è l’attivazione dei corsi per il rilascio dei diplomi universitari. La formazione universitaria, anche nella forma abbreviata, è destinata ad avere un grande impatto sulle figure professionali

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che vi accedono per la prima volta, nonché sull’attività del Servizio nazionale, che può integrare degli impegni professionali più qualificati.

Una fonte importante dei riferimenti normativi è costituita dai Piani sanitari regionali. Molte politiche regionali si dichiarano sensibili al fatto che, in linea generale, la formazione e l’aggiornamento costituiscono uno strumento strategico per lo sviluppo delle aziende sanitarie. Tutti i piani sanitari regionali contengono un capitolo, talvolta molto ampio, relativo alla formazione del personale. La temativa viene abitualmente suddivisa in diverse aree:

● la formazione di base dei profili professionali di interesse del sistema sanitario regionale, gestita con azione integrata (protocolli regionali di intesa e specifici accordi tra aziende Usi e aziende ospedaliere e università, Irccs ed enti di ricerca);

● la formazione permanente del personale, come aggiornamento tecnico-scientifico delle diverse professionalità e formazione per lo sviluppo dei servizi;

● l’educazione sanitaria (programmi di educazione alla salute connessi alle specificità locali);

● area manageriale (formazione degli operatori apicali con responsabilità dirigenziale nei diversi servizi sanitari e amministrativi delle aziende sanitarie e ospedaliere).

In molti piani regionali si sottolinea la necessità di un

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approccio sistematico ai problemi della formazione permanente da parte della Regione, cui compete la programmazione della spesa. Viene anche auspicata una strategia di attuazione che superi la situazione attuale di frammentarietà ed episodicità. Tra i problemi più ricorrenti nell’articolato dei piani sanitari regionali c’è quello dei controlli di qualità dei programmi di formazione. Le cronache ― anche giudiziarie ― possono documentare le perplessità circa la corretta gestione e conduzione di corsi di formazione a responsabilità regionale (fondi stornati, contenuti dei programmi insufficienti, formazione al di sotto dello standard professionale...). Anche per quanta riguarda le iniziative formative di ampio respiro rivolte a quadri intermedi e di vertice del Ssn, di competenza delle Regioni, il bilancio è piuttosto deludente 1.

Un’attenzione particolare meritano quei piani regionali che non si limitano a specificare gli interventi di formazione, ma che affrontano anche il contesto culturale che caratterizza la formazione in sanità. Ad esempio, il documento L’azione programmata della formazione nel II Piano sanitario della Regione ― con riferimento alla Regione Emilia-Romagna ― parte dalla constatazione che è necessario inserire la formazione in un piano più ampio di «iniziative volte a decodificare il tema dell’umanizzazione della medicina e a responsabilizzare gli amministratori e gli operatori dei servizi». L’orizzonte

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della personalizzazione e umanizzazione dell’assistenza ― individuato anche dalle linee di indirizzo del riordino nazionale quale articolazione della partecipazione e tutela dei diritti dei cittadini: D.lg. 502/1992, tit. IV ― attribuisce alla formazione non solo un ordine di priorità, ma anche una specificazione contenutistica.

Tra gli obiettivi generali di piano dell’Emilia-Romagna afferenti alla nuova filosofia del servizio sanitario troviamo anche una modifica del rapporto utente-istituzione: «Tale modifica deve orientarsi nel senso di porre nel tempo un’attenzione crescente sull’importanza della centralità delle domande espresse dall’utente rispetto alla centralità che l’attuale modello pone sugli obiettivi organizzativi. La soddisfazione dei bisogni del cittadino connessi con la salute fisica, psichica e relazionale dovrà costituire quindi il criterio primario di valutazione del miglioramento del livello qualitativo e dell’efficacia delle prestazioni del Servizio sanitario, garantendo nel contempo il rispetto dei fini istituzionali. L’obiettivo indicato comporta l’assimilazione graduale, da parte degli operatori, di valori professionali di riferimento che considerino i bisogni dell’utente insieme con le necessità di un sistema integrato e interagente. Occorre quindi preliminarmente mettere in grado gli operatori del Servizio sanitario di operare un’efficace mediazione tra l’utente e le strutture, sviluppando la capacità di effettuare corrette

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letture dei reali bisogni e di fornire le risposte adeguate».

Le indicazioni del piano sanitario colgono un punto nevralgico del cambiamento da introdurre nella sanità italiana: un diverso rapporto dei sanitari con i cittadini- utenti e dei professionisti che lavorano in sanità con le istituzioni con le quali operano. Il cambio di rotta, che verrà formalizzato agli inizi degli anni Novanta con i D.lg. 502 e 527, era già avvertito come una necessità imprescindibile a metà del decennio precedente. Nella ricostruzione che ne fa lo storico della sanità italiana Giorgio Cosmacini, la discussione non riguardava solo la validità della legge di riforma che aveva istituito il Servizio sanitario nazionale (la 833 del 1978) e il contrasto tra chi ribadiva l’esigenza del monopolio pubblico su un servizio sociale com’è quello sanitario e chi proponeva un libero mercato della salute {meno stato e più mercato) con largo spazio al mercato. Sottostante alle problematiche reali della compatibilità economica di un servizio sanitario confrontato con una domanda incontenibilmente in crescita, esisteva un malessere originato dal degrado dei rapporti all’interno delle strutture che erogano i servizi, in particolare i grandi ospedali. Opportunamente Cosmacini attribuisce un particolare valore simbolico, quale espressione del bisogno di una riforma della riforma, al documento elaborato nel 1985 da sei medici milanesi, etichettato dalla stampa come

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Manifesto bianco. Si legge nel manifesto: «Il grande ospedale, indiscusso presidio di alta specialità e qualità della medicina e bene prezioso di ogni cittadino, è diventato simbolo di inefficienza, disumanità e scadente qualità (...). In controtendenza rispetto al boom tecnologico, è cominciato negli anni Settanta un altrettanto esplosivo processo di imbarbarimento (...). La barbarie ospedaliera ha varie manifestazioni: la disaffezione del personale al proprio lavoro, talora un vero e proprio rancore per la struttura che dà loro da vivere, un’indifferenza assoluta per i bisogni del malato, un’ansia irragionevole di avere sempre di più dando sempre di meno» 2.

Da questo humus nasceva la proposta di aziendalizzare la sanità italiana, quale iniezione di nuove competenze e rapporti necessari per la sopravvivenza stessa del servizio pubblico. L’introduzione delle logiche economiche e gestionali delle aziende era solo la parte hard del progetto. Quella soft ― ma di non minore importanza ― consisteva nel ricorrere alla concezione aziendalistica per modificare i rapporti tra erogatori di servizi e cittadini che ne beneficiano e per intervenire sul legame e senso di appartenenza degli operatori nei confronti delle istituzioni sanitarie. È quanto dire che il cambiamento da introdurre in sanità appariva sostanzialmente come una questione di formazione del personale sanitario.

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2. La formazione manageriale: progetto e realtà

Il Piano sanitario nazionale 1994-96 ha dato una grande evidenza alla formazione manageriale, quale strumento destinato a traghettare la sanità italiana sulla sponda del nuovo modello organizzativo: «La priorità deve essere data alle esigenze formative della dirigenza e dei quadri intermedi di tutti i ruoli. La transizione da un sistema centralistico ad uno nuovo fondato su responsabilità distinte, ma coordinate, tra l’autorità centrale e i governi regionali, l’adozione di nuovi compiti e responsabilità gestionali, il passaggio dalla remunerazione dei fattori di produzione alla remunerazione del prodotto richiedono un’autentica riconversione delle risorse umane».

Il documento programmatico si limita a individuare i grandi obiettivi che devono dare omogeneità al processo di formazione manageriale:

● un approccio alla gestione orientata al raggiungimento di obiettivi più che alla esecuzione di compiti;

● una padronanza nella conduzione di strutture aziendali fondata su criteri della gestione economica;

● una competenza nell’impiego di risorse umane e strumentali e di metodologie e tecniche organizzative supportate dalle nuove tecnologie telematiche e informatiche;

● una capacità di valutazione della qualità dei servizi

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resi e dell’efficienza del sistema.

La formazione manageriale deve essere rivolta a tutti coloro che hanno una responsabilità di decisioni relative all'allocazione delle risorse: non, quindi, soltanto ai responsabili della gestione, ma anche ai medici, agli infermieri e alle altre professioni. In una prospettiva di lungo periodo, dovranno essere coinvolti nella formazione manageriale non solo i ruoli dirigenziali, ma «la generalità delle categorie professionali e dei livelli decisionali operanti nell’ambito del Ssn».

La formazione della dirigenza del Ssn era, agli occhi del legislatore, di «straordinaria necessità ed urgenza»: così, infatti, il D.lg. n. 419 del 30 giugno 1994 definiva il progetto di istituire dei «corsi di alta formazione di dirigenti amministrativi e sanitari del Ssn, di durata biennale» (art. 9). Il D.lg. stabiliva anche la data di inizio dei corsi: il 1° novembre 1994. Il programma formativo e l’organizzazione dei corsi sarebbero stati oggetto di «specifiche convenzioni tra il Ministero della sanità e la Scuola superiore della pubblica amministrazione, istituzioni universitarie o idonee istituzioni private». Anche a questo proposito una data: il 30 settembre 1994, entro la quale stipulare le convenzioni. Un paragrafo del D.lg. esplicitava anche gli oneri del progetto di formazione, quantificati con 1 miliardo di lire per anno. Ma tali fondi riposano tranquilli: il decreto non è stato convertito in

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legge, né i corsi di formazione sono stati riproposti in sede di reiterazione del D.lg.

La finalità esplicita del decreto che intendeva istituire corsi di formazione manageriale per i dirigenti della sanità pubblica era quella di «promuovere la diffusione delle metodologie e degli strumenti necessari ad attuare il nuovo modello gestionale dei servizi sanitari»: in altre parole, rendere possibile l’auspicata riforma della riforma agendo sulle persone che avrebbero dovuto attuarla. Secondariamente, l’attuazione del decreto avrebbe permesso di dare omogeneità di contenuti e uniformità di standard al mercato della formazione manageriale. Nella sanità, infatti, si sono andate sviluppando negli ultimi anni iniziative molteplici per fornire ai dirigenti quelle competenze manageriali che non trovano spazio nei curricoli universitari.

I nuovi bisogni formativi, rispecchiati solo in parte dall’evoluzione dei corsi di laurea del personale amministrativo e del tutto ignorati nel corso degli studi di medicina, sono stati in parte suppliti da proposte che facevano appello agli interessi personali dei destinatari, attirati dal prestigio professionale che un master di questo genere avrebbe potuto fornire. Sul versante dell’offerta, va segnalato l’interesse delle università e delle istituzioni formative di cercare sul mercato nuove fonti di finanziamento. Il risultato è stato un pullulare di iniziative

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spontaneistiche di formazione manageriale, di qualità spesso discutibile: «Corsi e corsetti tra i quali districarsi non è facile, difficilissimo poi discernere quei prodotti effettivamente di valore e soprattutto utili non solo ai fini notarili di una graduatoria di titoli nel curriculum vitae, ma soprattutto come strumenti di valorizzazione del lavoro quotidiano» 3. L’organizzazione della formazione manageriale per i dirigenti del Ssn avrebbe potuto introdurre una certa regulation in un settore cresciuto in maniera anarchica. Purtroppo questa opportunità non si è realizzata.

A fronte delle inadempienze dei vertici statali nell’offrire alla sanità pubblica la formazione di cui hanno bisogno i suoi dirigenti, spiccano iniziative di gruppi professionali di specialisti, rivolte a offrire ai propri soci le conoscenze necessarie per la transizione. Segnaliamo, a titolo esemplificativo, i corsi di economia e management organizzati dai cardiologi ospedalieri (Anmco), dei gastroenterologi (iniziativa congiunta delle tre società Sige, Aigo e Sied: Progetto Giano), degli anestesisti e rianimatori (sindacato Aaroi). Tutti questi corsi si sono svolti nel 1995-96, grazie alla sponsorizzazione di aziende farmaceutiche.

Non esistono dati ufficiali sull’estensione di iniziative formative nell’ambito della formazione manageriale in Italia. Una preziosa ricerca è quella condotta da Andrea

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Cambieri, analizzando l’offerta. Dalla sua indagine ricaviamo che numerose istituzioni ― pubbliche e private, accademiche e aziendali ― sono presenti sul mercato, con un’offerta molto differenziata rispetto al target, all’impegno richiesto, all’offerta di contenuti e ai costi.

Riportiamo da Cambieri la Tabella delle istituzioni che hanno risposto alla rilevazione effettuata, quale mappa non esaustiva, ma certamente molto rappresentativa delle agenzie di formazione manageriale in sanità:

1. Accademia nazionale di medicina, Forum per la formazione biomedica (Roma, Genova)

2. Scuola di direzione aziendale, università Bocconi (Milano)

3. Università degli studi di Roma Tor Vergata, facoltà di Medicina e Chirurgia

4. Università degli studi di Genova, facoltà di Medicina e Chirurgia

5. Università degli studi di Bari

6. Cresa (Centro di ricerca per l’economia, l’organizzazione e l’amministrazione della sanità), Torino

7. Libera università internazionale degli studi sociali (Luiss), scuola di Management, Roma

8. Usl 12, Ancona

9. Università degli studi di Bologna

10. Istituto superiore di studi sanitari (Roma)

11. Università degli studi di Roma La Sapienza, facoltà di Medicina e Chirurgia

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12. Cours Universitaires d’Eté (Sezione sanitaria), Bellinzona, Svizzera

13. Università degli studi di Firenze, facoltà di Medicina e Chirurgia

14. Sago, Firenze

15. Pontificia università Gregoriana, Istituto dermopatico dell’Immacolata, Roma

16. Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e degli odontoiatri

17. Istituto superiore di sanità

18. Ceida, Roma

19. Università cattolica del Sacro Cuore, Roma, facoltà di Medicina e Chirurgia.

L’indagine di Cambieri analizza tutti gli aspetti più significativi delle proposte formative rivolte ai dirigenti sanitari:

● il corpo docente (ruolo predominante delle università, ma con presenze non irrilevanti di docenti provenienti dal mondo delle istituzioni sanitarie o dalla pubblica amministrazione; supporto ai discenti attraverso il meccanismo del tutoring come guida dell’apprendimento individuale);

● contenuti dei corsi (elementi di economia sanitaria, legislazione sanitaria, scienza dell’organizzazione, programmazione sanitaria, gestione delle risorse umane,

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principi di amministrazione ― contabilità, controllo di gestione, budgeting ―, valutazione del prodotto e della qualità in sanità, tecniche decisionali, statistica sanitaria, informatica sanitaria; sporadicamente vengono inseriti anche elementi di etica, di sociologia, di marketing sanitario);

● durata e articolazione interna degli interventi formativi (da alcuni giorni, per i corsi più brevi, ad anni per quelli di maggior ampiezza e impegno; il meccanismo di articolazione più comune ― che ha il vantaggio di permettere la regolare prosecuzione delle attività professionali ― è quello dei moduli, spesso di durata settimanale e con cadenza mensile);

● costi (tra i formatori privati di tipo profit, di norma non agganciati a meccanismi di sovvenzionamento pubblico, il prezzo medio di una singola giornata di corso si aggira sulle 300.000 lire; i prezzi dei corsi offerti dalle università statali appaiono dimezzati rispetto a quelli della formazione privata; per tutti i corsi, inoltre, vanno aggiunti gli oneri economici costituiti dalla logistica per i corsi fuori sede e il valore delle ore lavorative non effettuate).

Mentre rinviamo alla documentata ricerca di Cambieri per altri aspetti relativi ai corsi di formazione manageriale rivolta ai sanitari (accessibilità per profili professionali, metodologia didattica utilizzata, valutazione

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critica dell’apprendimento e del conseguimento degli obiettivi della formazione manageriale), ci limitiamo a riportare le sue conclusioni circa un quadro di estrema disomogeneità delle iniziative di formazione manageriale in campo sanitario attualmente presenti nel nostro Paese. Talune esperienze hanno ormai superato i quindici anni di vita, nel corso dei quali i meccanismi operativi e i contenuti formativi dei corsi sono stati progressivamente adeguati alle esigenze e ai vincoli del contesto sanitario esterno. Altre esperienze sono nate con specifiche e nuove connotazioni (affiancare, ad esempio, la formazione manageriale sanitaria a una più ampia formazione in campo etico, ovvero preparare manager sanitari per il settore dell’assistenza agli anziani o per l’organizzazione sanitaria dei Paesi in via di sviluppo). In altri casi, invece, si coglie soprattutto una certa fretta organizzativa, dalla quale traspare come dominante la finalità di coprire specifici vuoti di mercato.

L’analisi dell’offerta, con le sue luci e le sue ombre, conferma l’opportunità di un approfondimento teorico sulla fisionomia che dovrebbe assumere la formazione, quale elemento strategico centrale del cambiamento in sanità. In questa direzione si muovono le osservazioni che seguiranno: lasciando la descrizione dell’esistente, ci avventureremo a delineare i tratti salienti della formazione possibile.

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3. Formazione per il cambiamento in sanità

Il processo di cambiamento nella sanità italiana: rischi e opportunità

Gli slogan che riassumono presso il grande pubblico il riordino in atto nel nostro sistema sanitario ruotano intorno all'aziendalizzazione e al ruolo attivo svolto dai manager nella conduzione delle aziende sanitarie. Ospedali-aziende e medici-manager: due fantasmi più adatti a creare equivoci che a ricondurre il riordino in corso a quella solida progettazione normativa che sta alla sua base. La conduzione aziendale delle istituzioni che erogano servizi sanitari viene così associata a una ricerca di profitti a ogni costo. È naturale sollevare obiezioni in nome dell’etica: la salute non può essere trattata come una merce, né i servizi sanitari sottoposti alle leggi del mercato, regolato dalla domanda e dall’offerta.

Avviene molto raramente, invece, che il termine azienda applicato all’organizzazione del servizio sanitario, invece che al profitto e all’interesse della proprietà, induca associazioni mentali positive, quali: una sana attenzione ai vincoli economici, che porti a identificare ed eliminare gli sprechi; un senso di appartenenza tra tutti coloro che operano nell’azienda, nato dalla consapevolezza che l’obiettivo (in questo caso: servizi efficaci alla salute, che producano dei pazienti-clienti soddisfatti)

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richiede l’interdipendenza di tutti coloro che lavorano nell’azienda; lo sviluppo di una missioncomune (quella che la Carta dei servizi pubblici sanitari formula come: «Fornire un servizio di buona qualità ai cittadini-utenti»); una nuova cultura organizzativa, che premi la creatività nella ricerca di soluzioni che abbinino economia ed etica, efficacia, efficienza e qualità percepita; nuove regole tra strutture che erogano servizi sanitari e popolazione, tra professionisti e dirigenza; un nuovo equilibrio ― in breve ― tra diritti e doveri di tutti. Finché l’evocazione dell’azienda non ci porterà ad associare questi obiettivi al lavoro che si svolge intorno al malato, l’aziendalizzazione della sanità sarà osteggiata da coloro che vedano nel progetto una minaccia per i valori sui quali la medicina tradizionalmente si regge.

Il cambiamento della cultura medica che ciò implica non è di poco conto. La produttività ― termine bandito dall’orizzonte delle preoccupazioni dei sanitari, perché considerato contrario al rispetto dovuto al malato ― dovrà entrare nel linguaggio quotidiano di chi lavora in sanità. Anche l’etica, intesa come rispetto per la soggettività del paziente e come attenzione per la qualità del servizio prestato e per la soddisfazione del paziente, deve avere nella pratica quotidiana della medicina uno spazio non marginale. E di tale etica i sanitari devono essere i soggetti attivi: non darla semplicemente in appalto

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a filosofi, teologi, bioeticisti ed altri esperti, per limitarsi al consumo di prescrizioni comportamentali elaborate da altri.

La conquista di un ruolo attivo nell’elaborazione di una riflessione etica, nella gestione delle risorse e nella promozione della qualità si rivela anche come la via regia per la rimotivazione dei professionisti. Della svolta verso l'aziendalizzazione della sanità non si deve sottovalutare un elemento fondamentale dell’organizzazione del lavoro richiesto dall’azienda: la condivisione di obiettivi comuni, allineando tutte le forze in un piano strategico comune. Il coinvolgimento di tutti gli operatori nelle logiche organizzative dell’azienda appare come il punto centrale che qualifica un’azienda organizzata secondo la logica della Qualità totale.

In questi termini presentava un manager giapponese, K. Matsushita, ai colleghi inglesi la differenza della nuova organizzazione aziendale rispetto a quella tradizionale: «Per voi l’essenza del management consiste nel tirar fuori le idee dalla testa del dirigente per metterle nelle mani degli operatori (uffici e reparti). Per noi l’essenza del management è precisamente l’arte di mobilitare le risorse intellettuali di tutto il personale, al servizio dell’azienda. Dato che noi abbiamo valutato meglio di voi le sfide economiche e tecnologiche, sappiamo che l’intelligenza di un gruppo di dirigenti, per quanto brillanti e capaci essi

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siano, non è più sufficiente per garantire il successo» 4.

Tutti i dipendenti di un’azienda sanitaria devono essere mobilitati perché ci sia qualche possibilità che la sfida della qualità possa essere affrontata con esiti positivi. L’impostazione efficientistica che predomina nella fase attuale dell’aziendalizzazione della sanità tende ad accentuare unilateralmente la produttività. Ma la catena di montaggio è contro la qualità dei prodotti, soprattutto se si tratta di atti medici. Tra qualità e quantità ― che sono due dimensioni necessarie e irrinunciabili di una pratica responsabile della medicina ― dovrà stabilirsi un equilibrioecologico (come avviene in quelle nicchie ambientali dove vivono specie interdipendenti: se le volpi ― per fare un esempio ― mangiano tutti i conigli, il loro successo si tramuta in una catastrofe, che porta alla loro stessa estinzione...). Il trionfo della quantità delle prestazioni, a danno della qualità, può essere visto come una catastrofe annunciata.

Tutti gli operatori dei servizi sanitari ― non solo i medici, ma anche coloro che svolgono ruoli più tecnici e complementari ― devono collaborare per poter fornire servizi che siano percepiti dai cittadini come servizi di qualità, pena la fuga dei pazienti dalle strutture che mirano solo alla quantità dei prodotti. Per questo la qualità non potrà essere ottenuta solo da qualcuno: dovrà essere l’impegno congiunto di tutti. Di qui l’importanza

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di rivolgere i progetti di formazione a tutti indistintamente i dipendenti dell’azienda sanitaria.

Non minori sono gli equivoci generati dal termine manager. A cominciare da quelli semantici. Come ci ricorda Beppe Severgnini, un italiano con la valigia che viaggiando ha imparato a conoscere gli strani destini delle parole: «Manager non vuol dire alto dirigente (che si diceexecutive); in Inghilterra si può essere manager di un negozio di bottoni» 5. Ma in Italia il manager, identificato con il non plus ultra del sapere organizzativo, viene per lo più sentito come lontano dal livello decisionale di chi, come medico, sta in prima linea sul fronte operativo. La sanità in mano ai manager suona come un’ulteriore espropriazione, mentre il senso del riordino in atto nella sanità è proprio il contrario: riportare l’accento sulla centralità dei decisori finali nelle scelte, per avere un sistema sanitario che garantisca non solo efficacia e qualità, ma anche efficienza ed equità distributiva.

Bisogna riconoscere che i fraintendimenti sono favoriti da espressioni poco meditate. Quando, ad esempio, capita di imbattersi in frasi quali: «Obiettivo fondamentale del progettomedico-manager deve essere quello di mettere il primario in condizione di gestire il propriobusiness»; oppure: «Il primo passo da compiere è quello di costruire un modello di riferimento ― basato su componenti

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sia di efficienza socio-sanitaria sia di efficienza economica ― il cui obiettivo sia rappresentato dall’equilibrio socio-economico» 6, la reazione di rifiuto dei medici più consapevoli del loro mandato ― «Medico-manager? No, grazie» ― appare pienamente giustificata.

Se invece di lasciarci guidare dagli slogan cerchiamo di ricostruire i grandi tratti della congiuntura culturale in cui nasce il progetto di riordino della nostra sanità, individuiamo in primo luogo la necessità di rendere più europea la nostra amministrazione, ponendo gli uffici pubblici al servizio degli utenti.

Secondo l’analisi autorevole di Sabino Cassese, il ministro della funzione pubblica che nel governo Ciampi ha coraggiosamente affrontato la questione amministrativa, «la sfiducia nelle istituzioni che ha aperto la quinta fase costituzionale dell’Italia unita, dopo quella oligarchica (dall’unità alla fine del secolo scorso), quella liberal-democratica (dall’inizio del secolo al 1922), quella fascista (1922-1943) e quella democratica (1943-1994), non si deve solo ai pessimi voti raccolti dai partiti che sono scomparsi, ma anche alla brutta pagella deH’amministrazione italiana»7. La questione amministrativa, fino all’aprile 1993, attirava scarsa attenzione. Non che l’inefficienza dell’amministrazione non fosse percepita dal pubblico, ma la politica mostrava disinteresse verso l’amministrazione: «Come tutto ciò che non

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interessa, il funzionamento dell'amministrazione rimaneva affidato alla buona volontà di poche persone. Si può dire che l’amministrazione era lasciata esistere (...). Proprio perché staccata dalla società, l’amministrazione era introflessa, poco attenta a quello che accadeva intorno, alle esigenze degli utenti».

L’inversione di tendenza consisteva nel puntare a un’amministrazione al servizio del cittadino e degli utenti, consumer oriented, operante non solo nell’interesse pubblico, ma nell’interesse del pubblico. L’impulso che il breve ma deciso ministero di Sabino Cassese imprimeva alla amministrazione pubblica in Italia intendeva far allineare il nostro Paese con le riforme amministrative già in atto negli Stati Uniti. Decisivo è stato, a questo proposito, il rapporto a cui è stato attribuito il programmatico Reinventare il governo. In che modo lo spirito aziendale sta trasformando il settore pubblico 8, nel Regno Unito (in particolare con i controlli di efficienza e laCarta dei cittadini) e in Francia 9. L’operazione di ridare sovranità agli utenti non poteva non coinvolgere in modo prioritario la sanità, uno dei pubblici servizi erogati dallo stato di maggiore importanza nella lista delle priorità.

Un secondo tratto del rivolgimento culturale nel quale va collocato il riordino della sanità in atto nella nostra società è la fine, voluta e prevista, di quella vistosa

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degenerazione che il sistema pubblico di erogazione delle cure ha subito progressivamente, dopo l’introduzione della riforma sanitaria nel 1978, ad opera dei partiti politici. Gli osservatori della sanità non avevano difficoltà a denunciare senza mezzi termini la situazione come patologica: «La politica ha prestato alla sanità i suoi uomini, il simbolismo della sua parola ― nella versione più fatua, quella caratterizzata da logorrea e vacuità ― e, purtroppo, il più importante dei suoi vizi: il clientelismo» 10. Il progetto originario sottostante alla riforma sanitaria e all’introduzione del Ssn è stato deviato, dando origine alla sanità dei partiti.

L’invasione dei politici sulla scena della sanità è stata qualificata da voci autorevoli come una colonizzazione. Il processo correttivo per riportare la sanità alla sua originaria vocazione equivale, quindi, a una decolonizzazione. Il senso metaforico di questa parola esprime con sufficiente chiarezza il bisogno di fare piazza pulita con personaggi che nella sanità si sono comportati come funzionari coloniali nelle terre occupate. Ma il riferimento alla decolonizzazione, intesa come un processo culturale, può essere interpretato in modo molto più proprio di quanto è concesso a una metafora.

Sulla decolonizzazione si è dovuto riflettere intensamente quando, circa tre decenni fa, sono giunti al tramonto degli ultimi regimi coloniali. Agli inizi degli anni

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Sessanta il libro di Frantz Fanon I dannati della terra costituiva la lettura d’obbligo degli intellettuali progressisti. Fanon, psichiatra e politico, era arrivato alla conclusione che la colonizzazione non cessa automaticamente il giorno in cui si dichiara l’indipendenza politica di un Paese. Cambia il regime, ma le strutture più profonde che reggono il modo di pensare e di comportarsi rimangono le stesse. Con la sua solita abilità a fornire formule trasparenti, Jean Paul Sartre riconduceva il tema della decolonizzazione a una questione psicopatologica: «L’indigenato è una nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con il loro consenso» 11.

Non sembri sproporzionato mettere in rapporto questi processi con quello che avviene nella sanità in Italia. Se è vero che il sistema sanitario è stato colonizzato dal lato peggiore della politica, è ipotizzabile che nei sanitari si riscontrino le deformazioni tipiche dei coloni. Come tratti caratteristici della nevrosi del colonizzato si possono menzionare la propensione al lamento sterile, l’autodenigrazione, le recriminazioni velleitarie e l’impressione di essere straniero a casa propria. La decolonizzazione è effettiva solo quando i coloni si liberano dalle strutture mentali che hanno interiorizzato. Per i professionisti sanitari ciò implica l’abbandono di quella impotenza consensuale ― anche se opera a livello inconscio, come tutte le nevrosi - che porta ad attendere

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la soluzione dei problemi dal di fuori: dai politici e dagli amministratori. La quintessenza di questo processo di decolonizzazione è la rinuncia da parte di chi lavora professionalmente in medicina alla condizione psicologica di indigeno e la riappropriazione del ruolo che gli compete nella gestione quotidiana del sistema di somministrazione delle cure. Questa è, ricondotta all’istanza di fondo che la regge, la svolta verso la managerialità con cui si intende rispondere ai mali della nostra sanità.

Qualità, soddisfazione ed etica

Le tematiche attuali relative alla qualità delle prestazioni sanitarie, così come è percepita dal paziente, che è il loro destinatario, sono in parte nuove e in parte tradizionali. La novità risalta soprattutto se confrontiamo i diversi contesti in cui tali tematiche si collocano. Tradizionalmente la preoccupazione per la qualità è stata legata al dibattito sulla centralità del paziente nel sistema delle cure. Un sinonimo di tale prospettiva era l'umanizzazione della medicina. Fino a poco tempo fa l’umanizzazione dell’ospedale e della sanità è stata una tematica prevalentemente religiosa. Nasceva dalla preoccupazione di riversare nel sistema delle cure quel coinvolgimento profondo tra due esseri umani che è proprio di chi vede nell’assistenza al fratello malato una delle realizzazioni più trasparenti

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dell’ideale evangelico. In questa prospettiva le cure più umanizzate erano quelle che maggiormente si avvicinavano al modello del buon samaritano.

Ma l’ispirazione religiosa non era esclusiva. Anche la medicina sviluppatasi nel solco della tradizione ippocratica conosceva e intendeva promuovere un'alleanza terapeutica tra medico e paziente. Il significato dei richiami all’umanizzazione della medicina, nati in questo orizzonte, era soprattutto quello di opporre una barriera alla spersonalizzazione dei rapporti, al prevalere della dimensione tecnica e burocratica, a scapito della calda corrente di sentimenti tra i professionisti dell’arte terapeutica e i pazienti. Rimaneva, tuttavia, proprio di questa impostazione, un riferimento alle intenzioni e motivazioni dell’operatore sanitario, quale caratteristica di una medicina umanizzata.

Al momento attuale il discorso sull’umanizzazione in sanità è al centro del dibattito, ma promosso da altre istanze. Intanto c’è da segnalare che per la prima volta il disegno normativo dello Stato ha introdotto esplicitamente la personalizzazione e l'umanizzazione dell’assistenza, nonché il diritto all’informazione e alle prestazioni alberghiere, tra gli obiettivi del servizio sanitario offerto ai cittadini (D.lg. 517/1993, art. 14). Negli ultimi anni è andata inoltre crescendo l’attenzione al fatto che i servizi sanitari si iscrivono dentro la logica di un servizio

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pubblico e devono perciò essere ispirati ai valori che sono costitutivi della buona amministrazione.

È significativo che il primo documento ufficiale di questa nuova stagione del servizio pubblico sia proprio la Carta dei servizi pubblici sanitari, destinata a tracciare le nuove regole per i rapporti tra i cittadini e le amministrazioni. L’idea ispiratrice è che i servizi sanitari, se vogliono orientare la loro attività verso la mission che è loro propria, devono assegnare un ruolo forte ai cittadini nell'orientare le loro scelte. La qualità ― in altre parole ― presuppone l’ascolto del paziente, in modo che questi sia messo in grado di partecipare alle decisioni medico-sanitarie che lo riguardano non solo in base ai suoi bisogni somatici, ma anche delle sue aspettative, preferenze morali, orientamenti di vita.

L’attenzione alla qualità, cosi come la percepisce e la valuta il paziente, si modifica passando dal contesto del- l’umanizzazione a quello della buona gestione. Da mobilitazione di buoni sentimenti o mozione degli affetti diventa una strategia gestionale che la sanità deve adottare, se vuole assumere lo stile di un’azienda (L’Arco di Giano, 1995; n. 7: Lo stile azienda in sanità). Se il malato, in una concezione moderna della sanità, è un cittadino che rivendica l’assistenza in forza di diritti acquisiti, e non in nome della carità o della filantropia degli operatori, nell’epoca post-moderna deve essere considerato

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come un cliente. Oltre ad avere diritti da rivendicare, vuole anche essere soddisfatto.

Soddisfare i pazienti diventa un’esigenza strategica per la sopravvivenza dell’azienda sanitaria. Il paziente, infatti, spostandosi da una struttura aH’altra, si porta dietro la sua capacità di spesa, rappresentata dalla sua quota capitaria. Quindi è importante una gestione oculata dell’azienda: se perde i pazienti, perché questi preferiscono un’altra struttura, l’azienda esce dal mercato. Se i sanitari non trattano bene i pazienti per la ragione che è loro diritto in quanto cittadini avere una buona assistenza, devono farlo almeno per interesse dell’azienda (che viene poi a coincidere con l’interesse a conservare il proprio posto di lavoro).

Il modello della qualità della prestazione medica che si impone in epoca di ottimizzazione nell’uso delle risorse proprio di una sanità che si prefigge uno stile aziendale, è particolarmente insidioso. Quando portiamo nella sanità lo stile azienda e consideriamo il rapporto con il paziente come cliente, dobbiamo essere consapevoli che mettiamo le premesse per affossare valori importantissimi che ci sono stati trasmessi in 25 secoli di medicina, come l’orientamento dell’azione sanitaria al bene del paziente 12. Promuovendo il paziente-cliente, non dobbiamo dimenticare che la soddisfazione del paziente non è un imperativo assoluto, sciolto cioè da

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vincoli morali. Qualsiasi azienda, ma soprattutto l’azienda sanitaria, deve essere sottoposta alle esigenze dell’etica. Il paziente non va soddisfatto in qualsiasi modo, ma solo in modo giusto. Un supporto per visualizzare i problemi della soddisfazione in rapporto con le esigenze dell’etica può essere fornito dalla seguente Tabella:

IL QUADRILATERO DELLA SODDISFAZIONE

giustamente soddisfatto

giustamente insoddisfatto

ingiustamente soddisfatto

ingiustamente insoddisfatto

Le ragioni dell’insoddisfazione possono avere diverso significato e diverso peso. È ovviamente insoddisfatto il paziente a cui, per incuria o incompetenza, non sia stato diagnosticato e trattato il suo male: egli ha diritto che, secondo il modello dell’etica medica, sia messo in atto tutto ciò che gli procura il beneficio che è autorizzato ad aspettarsi. Ma sarà insoddisfatto anche il paziente diabetico ― per fare un esempio ― che venga messo a insulina d’autorità, senza che gli sia spiegato il significato e la necessità della decisione terapeutica, i vantaggi che ne ricava e le esigenze di compliance.

Lo stile autoritario o paternalistico non è più accettabile in epoca moderna e lascia i malati insoddisfatti, quand’anche le decisioni prese mirassero al loro bene

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oggettivo. La soddisfazione del paziente non può diventare un assoluto, ma va confrontata con alcune esigenze imprescindibili, in base alle quali possiamo dire che il paziente è giustamente soddisfatto. La prima e più fondamentale condizione per stabilire se la soddisfazione soggettiva del paziente sia giusta o ingiusta è che questa sia giustificabile dal punto vista del sapere che è proprio del professionista. La soddisfazione del paziente si deve misurare, se vogliamo che si realizzi una giusta soddisfazione, con i criteri della scientificità. La coscienza del sanitario deve vigilare perché sia rispettato il primo imperativo etico dell’arte medica: Primum non nocere. Non si può e non si deve arrecare un danno, anche se questo, paradossalmente, comportasse la soddisfazione del paziente.

I modi di ottenere una soddisfazione ingiusta possono essere molti. Alcuni a danno del paziente (si può arrivare anche a dargli delle informazioni inesatte, fino al vero e proprio imbroglio), altri a danno di terzi. È chiaro che il paziente a cui, per privilegio, si fa saltare la lista d’attesa è soddisfatto; ma è ingiustamente soddisfatto se consideriamo le esigenze di equità che chiedono il rispetto di tutti coloro che si trovano in un uguale stato di bisogno. In questo caso è danneggiato chi è in lista d’attesa per ottenere la stessa prestazione sanitaria. Ma il danno può ricadere su tutta la comunità: pensiamo,

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per esempio, ai falsi certificati di invalidità (che pure hanno prodotto molta soddisfazione in coloro che li hanno ricevuti).

Se la soddisfazione non è l’ultimo criterio di qualità, ma va piuttosto misurata con le esigenze dell’etica, la stessa cosa possiamo dire dell’insoddisfazione. Ci sono casi in cui il paziente è ingiustamente insoddisfatto. Questo è il caso del paziente che va dal medico di medicina generale con la sua richiesta di un farmaco (magari quello che ha fatto tanto bene al vicino o di cui si parla di più), oppure vuole un trattamento di compiacenza. Se questo paziente non viene soddisfatto, cioè gli si nega ciò che richiede in modo illegittimo, allora è ingiustamente insoddisfatto.

La prospettiva interessante che apre il quadrilatero della soddisfazione è quella di proporre una visione dinamica dell’etica. Troppo spesso identifichiamo l’etica con un’istanza che giudica i comportamenti ― buono o cattivo, giusto o ingiusto, appropriato o non appropriato ― ma meno adatta a ottenere delle trasformazioni significative dei comportamenti. Il nostro modo di vedere l’etica cambia se, tenendo a mente il quadrilatero della soddisfazione, ci domandiamo: «Quale intervento dobbiamo mettere in atto affinché un paziente, che nel grafico si trova in un quadrante inferiore, passi in uno superiore?».

L’obiettivo ideale è che si collochi nel primo a sinistra,

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tra coloro che sono giustamente soddisfatti; ma se ciò non è possibile, almeno nel secondo, vale a dire che il paziente sia giustamente insoddisfatto (questa possibilità di una insoddisfazione insanabile ci libera da un complesso di onnipotenza: non possiamo far sì che tutti siano soddisfatti, ma possiamo evitare almeno che lo siano ingiustamente).

L’etica ci appare così uno strumento operativo: ci stimola a fare qualcosa per modificare una situazione. L’etica è essenzialmente un insieme di interventi dinamici, tesi a un risultato. La qualità dell’intervento sanitario, infine, sta nella sua capacità di integrare i diversi elementi: ciò che la scienza medica ritiene assodato e raccomandabile (da questo punto di vista non si potrà mai accettare in medicina una logica del cliente che ha sempre ragione), ciò che è conciliabile con le esigenze dei diritti umani e con l'autodeterminazione del paziente, e infine ciò che promana dall’orizzonte dell’ottimizzazione delle risorse che inaugura l’era delle aziende sanitarie.

Formazione ed educazione dello sguardo

Possiamo descrivere la sfida che la formazione rappresenta per la sanità servendoci di un’analogia, che desumiamo dalla epistemologia genetica di Jean Piaget. Secondo il celebre studioso dello sviluppo cognitivo

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dell'essere umano, nella rappresentazione dello spazio propria del bambino si può individuare una soglia che costituisce il passaggio dal pensiero concreto (nella terminologia di Piaget: realismo intellettuale) a quello del pensiero astratto. Soltanto dopo aver passato questa soglia ― che secondo le ricerche di Piaget va collocata intorno ai 7-8 anni ― il bambino giunge a riconoscere l’esistenza di molteplici punti di vista spaziali, e soprattutto a comprendere che i rapporti spaziali fenomenici fra gli oggetti possono mutare col mutare dei punti di vista. Prima di allora il bambino, pur osservando le cose da un punto di vista spaziale, ignora per lungo tempo l’esistenza contemporanea di altri punti di vista possibili; non è dunque in grado di rendersi conto che il suo stesso è un punto di vista.

Lo studio sperimentale che ha portato a individuare queste tappe evolutive 13 è stato condotto, tra gli altri espedienti, mediante un plastico che riproduceva delle montagne. Un pupazzetto era allocato, successivamente, accanto a ognuno dei quattro lati del plastico; al soggetto veniva chiesto di indicare in qual modo ogni volta il paesaggio era visto dal pupazzo-osservatore (Fig. 1).

Finché nei bambini predomina il pensiero concreto, essi risultano incapaci di differenziare la prospettiva relativa al punto in cui essi si trovano dalle altre prospettive

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possibili. I bambini non sono consapevoli che le posizioni relative delle tre montagne mutano col mutare del punto di osservazione. In altre parole: il bambino che ancora si muove nell’ambito del pensiero concreto non riesce a immaginare che altri possano vedere la realtà diversamente da come la vede lui, dalla sua prospettiva.

La formazione che è necessario introdurre in sanità può essere ricondotta a un’educazione dello sguardo, acquistando la capacità di cogliere altre dimensioni della qualità delle prestazioni sanitarie che sfuggono ai professionisti della salute che non sanno immaginare altri punti di vista oltre il proprio. Anche per il sanitario si tratta di superare una fase di realismo intellettuale che porta ad assolutizzare il proprio punto di vista. La qualità valutata dall’operatore è stata finora l’unico parametro di riferimento. A questa bisognerà affiancare la qualità valutata dal paziente e la qualità organizzativa, che permette a un’azienda sanitaria di onorare il contratto di assistenza

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che ha con l’insieme della popolazione. La nuova sanità ci costringe a muoverci in uno spazio tridimensionale.

Forse la priorità assoluta nella formazione va data all’arricchimento dell’immaginazione. Non è inopportuno ricordare che il Piano sanitario nazionale 1994-96 identifica come compito della nuova sanità la ridefinizione del progetto di civiltà sanitaria («La necessità di ripensare a fondo il profilo stesso di un programma sanitario per il Paese si presenta come una straordinaria opportunità per ridefinire il progetto di civiltà, che è l’obiettivo di una politica della salute») e sollecita l’immaginazione per dare contenuto a un miglioramento che si sviluppi sotto il segno della qualità, più che della quantità («La pressione della scarsità delle risorse orienta a immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione»).

La sfida all’immaginazione è costituita dal passaggio della dimensione che è familiare a ciascuno ― soprattutto se interiorizzata attraverso il processo della socializzazione in un determinato gruppo professionale, che induce ad assumere intuitivamente il punto di vista del medico, dell’infermiere, dell’amministratore ecc. ― a un’altra dimensione. 0 a diverse altre dimensioni. Anche per la sanità possiamo assumere il compito che con insuperabile humour ha fatto proprio Edwin Abbott 14 nel racconto fantastico Flatlandia: passare da un mondo

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bidimensionale, abitato da esseri totalmente piatti, quali segmenti, triangoli, quadrati, poligoni vari e sublimi circoli ― la Flatlandia, o Paese del Piano ― alla Spacelandia, o Paese a tre dimensioni. Possiamo assumere la sua dedica (Abbott, 1996) come un richiamo per il mondo della sanità a continuare a esplorare le sue dimensioni e quindi a reinventare la qualità delle prestazioni: «Agli abitanti dello spazio in generale è dedicata quest’opera da un umile nativo di Flatlandia nella speranza che, come egli fu iniziato ai misteri delle tre dimensioni avendone sino allora conosciutesoltanto due, così anche i cittadini di quella Regione Celeste possano aspirare sempre più in alto ai segreti delle quattro cinque o addirittura sei dimensioni».

BIBLIOGRAFIA

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2 Cosmacini G., Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1994.

3 Cambieri A., La formazione manageriale sanitaria in Italia: analisi dell’offerta. in L’Arco di Giano, 1995; n. 7, pp. 111-126.

4 Galgano A., La Qualità Totale, in Il Sole 24 Ore Libri, Milano 1990.

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7 Cassese S., La riforma amministrativa all’inizio della quinta Costituzione dell’Italia unita, in Il Foro italiano, maggio 1994, pp. 250-271.

8 Osborne D.-Gaebber T., Reinventing Government. How the entrepreneurial spirit is transforming the public sector, Haddies-Wesley, Reading Mass. 1992.

9 Cassese S., Aggiornamenti sulla riforma amministrativa negli Stati Uniti d’America, nel Regno Unito e in Francia, in Il Corriere Giuridico, 1994; n. 8, pp. 1029-1039.

10 Pellegrino E.-Thomasma D., Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell’etica medica, tr. it. Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1992.

11 Fanon F., I dannati della terra, introduzione di Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino, 1962.

12 Di Michele N., Politiche sociali, in L’Arco di Giano, 1993; n. 1, pp. 113-119.

13 Piaget J., La représentation de l’espace chez l’enfant, Genève 1948.

14 Abbot E., Flatlandia, Adelphi, Milano 1996.