Incontro con Albert Jonsen

Sandro Spinsanti

Incontro con Albert Jonsen

in L'Arco di Giano, n. 6, 1994, pp. 205-220

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L’attualità dei maestri

La rubrica è dedicata a mettere in evidenza la personalità di studiosi che con la loro opera hanno contribuito ad ampliare l'orizzonte delle medical humanities.

INCONTRO CON ALBERT JONSEN DI SANDRO SPINSANTI

La città di Seattle occupa un posto privilegiato nell’immaginario collettivo americano. Capitale dello stato di Washington ― lo stato che chiude nell’estremo nord-ovest l’immenso scacchiere degli Stati Uniti ― è diventata simbolo di sviluppo abbinato a rispetto dell’ambiente. Vi si rispecchia un’America che vorrebbe aver incorporato la cultura dei nativi indiani, invece di averla annientata. L’ultima variante di Seattle come sogno è attribuirle la funzione di ponte verso l’oriente e la sua spiritualità. Nessun altro posto dell’occidente avrebbe potuto essere più indicato per farvi incarnare il “piccolo Buddha”, come nel film di successo di Bernardo Bertolucci.

Seattle ha legato il suo nome anche all’immaginario che ruota attorno alla nuova medicina e ai suoi problemi. La città si è guadagnata questo titolo per uno degli eventi che a buon diritto possono essere considerati simbolo della nuova èra: il 9 marzo 1960 a Seattle il dottor Belding Scribner iniziava a dializzare Clyde Schields, una paziente affetta da insufficienza renale cronica, introducendo uno shunt arterio-venoso che rendeva la dialisi una pratica ripetitiva. Possiamo considerare questo fatto come l’inaugurazione della medicina delle macchine, chiamate a sostituire le funzioni organiche vitali. La candidatura di Seattle a rappresentare la nuova epoca è rafforzata anche dalla invenzione, avvenuta nella stessa città, del defibrillatore, da parte del dottor Edmark.

Ma la medicina dei miracoli è anche la medicina di laceranti conflitti sociali ed etici. Anche da questo punto di vista Seattle avanza la sua candidatura a proporsi come simbolo. Nel 1962, a seguito di un articolo di Shama Alexander apparso su Life («They decide who lives, who dies»), si accendeva in tutta l’America un appassionato dibattito intorno ai cosiddetti “comitati di Dio”. Per selezionare i pazienti che aspiravano all’emodialisi ― protesi vitale rara, costosa, perennemente

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insufficiente rispetto alla domanda ― era stato costituito un comitato di etica, con il compito di valutare le candidature a questa tecnologia salvavita. Il comitato, composto per la maggioranza di non medici, si era trovato nella necessità di introdurre criteri di scelta basati su motivi non solo clinici, che si estendevano anche ai menti personali e al valore sociale delle persone.

In pratica, questi comitati decidevano al posto di Dio chi potesse continuare a vivere e chi invece doveva morire. Come in pochi altri casi, il comitato di etica di Seattle riuscì a mobilitare l’opinione pubblica sulla necessità di una bioetica, cioè di un consenso sociale intorno a pratiche mediche innovative che non potevano essere regolate con i criteri che hanno presieduto sull’esercizio etico della medicina nel passato. L’episodio ha una tale rilevanza simbolica che nel 1992, a trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo su Life, si è tenuto a Seattle un convegno riservato ai “pionieri della bioetica”, per celebrare la nascita della disciplina.

Con queste premesse, non stupisce che bisogna andare proprio a Seattle per incontrare una della figure di maggior spicco nelle medical humanities americane: Albert Jonsen. È necessaria una buona guida per trovare, nel dedalo degli edifici della facoltà di medicina dell’Università di Washington, il Dipartimento di storia della medicina e di etica. Nato originariamente come Dipartimento di storia biomedica, il Dipartimento ha cambiato nome e ampliato i suoi interessi quando Jonsen ne è diventato direttore, nel 1987. Proveniva dall’Università della California, a San Francisco, dove aveva assunto l’insegnamento della bioetica nella facoltà di medicina nel 1972: indubbiamente un iniziatore della nuova disciplina e uno dei maestri più ascoltati.

La sua formazione è stata quella di un docente di teologia morale. Ha studiato con i gesuiti e ha conseguito un dottorato a Yale con una dissertazione sulla «responsabilità nell’etica religiosa contemporanea» (pubblicata nel 1971: Responsability in Christian Ethics). Ha iniziato a insegnare teologia e filosofia nell’Università di San Francisco, per passare poi all’Università della California. La cesura è stata segnata da un evento importante per la sua formazione: invitato dal cancelliere del Medicai Center di quella università, trascorse un anno nel presidio sanitario in qualità di visitatore. Seguiva i corsi degli studenti di medicina, partecipava alle visite, alle discussioni dei casi e anche alle autopsie; ma soprattutto sedeva e ascoltava.

Professor Jonsen, un docente di etica silenzioso è una figura piuttosto insolita nella nostra tradizione, dove invece i ruoli sono invertiti:

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l’esperto di etica parla ― più spesso sentenzia ― e gli altri ascoltano. In seguito lei stesso ha riassunto l’intera sua carriera di bioeticista sotto il motto programmatico: “Watching the doctor” (guardare i medici). È un’esperienza solo individuale o può essere generalizzata ?

A.J. Può sembrare provocatorio dire che lo sviluppo culturale dell’etica intorno all’esercizio della medicina non è altro che l’amplificazione dello stare a guardare i medici, che è una pratica molto arcaica. La possiamo considerare quasi un archetipo tra i comportamenti umani. Mi riferisco alle scene di villaggio che l’etnografia ci ha reso familiari: l’affollarsi della gente intorno al guaritore e al paziente, ascoltando la loro conversazione e osservando le loro azioni. Nella nostra cultura le pratiche mediche sono difese dalla privacy, che ci toglie il piacere di fare da spettatori: pochissime persone hanno l’autorizzazione di avvicinarsi a quello che viene enfaticamente chiamato “l’intimo rapporto medico-paziente”. Potremmo sintetizzare lo sviluppo avvenuto negli ultimi 20-30 anni dicendo che alcuni intellettuali ― per lo più sociologi, antropologo economisti, e anche filosofi ― sono riusciti a organizzare le cose in modo da poter osservare da vicino la scena terapeutica.

Ufficialmente non hanno l’autorizzazione di guardare e ascoltare. Si giustificano assicurando che la loro disciplina aiuterà a migliorare quel rapporto. Così guardano da una posizione un po’ discosta ― talvolta guardano solo con gli occhi della loro mente... ― e scrivono articoli e libri che descrivono, criticano, spiegano e qualche volta biasimano quello che si fa in medicina. La nostra cultura ha trasformato l’affascinante passatempo di guardare il dottore in una scienza. Abbiamo promosso la folla che sbircia in uno stuolo di professori. Abbiamo orchestrato gli “oh” e gli “ah” in una letteratura critica.

Io non mi lamento di questa situazione, perché sono uno di questi osservatori per professione. Munito di laurea in teologia e in filosofia, sono emigrato in ambiente sanitario, dove esercito l’etica medica da più di vent’anni.

Dal suo curriculum risulta che è stato assunto dal Medicai center dell’Università della California nel 1972: probabilmente è stato il primo esperto di etica a entrare nell’organico di una grande istituzione clinica con l’esplicita funzione di consulenza (“to be a consultant”). Che cosa ha comportato fare il pioniere in questo campo?

A.J. La professione dell’esperto di etica in medicina vent’anni fa

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era tutta da inventare. Bisogna considerare che, all’inizio degli anni ’70, non c’era ancora letteratura sul tema, eccetto qualche manuale di teologia morale cattolica classica. Anche il libro del teologo metodista Paul Ramsey. The patient as person, apparso nel 1970 e spesso citato come una pietra miliare nello sviluppo della moderna bioetica, non si discostava dal progetto che è tipico del moralismo: voler portare ordine nel mondo caotico della scienza medica contemporanea. E Ramsey stesso, del resto, era più a suo agio con la vecchia qualifica di “moralista” che con quella di “eticista”, che vent’anni fa cominciava a circolare.

Guardando e ascoltando i medici al lavoro, io mi sono reso conto che bisognava inventare un nuovo modo di fare etica, rispetto a quello che avevamo imparato nelle facoltà di filosofia o di teologia. Sono stato subito impressionato da qualcosa che avrebbe poi svolto un ruolo centrale nel mio pensiero: i medici trattano dei casi, e in questi sono le circostanze ad avere un’importanza decisiva. Le discussioni speculative e astratte non corrispondono al modo in cui medici e altri professionisti sanitari parlano dei problemi. L’insight che ho avuto è che l’etica, per svolgere un compito nella cura della salute, doveva discostarsi dal modello che la caratterizza come disciplina accademica, diventando capace di parlare dei casi concreti.

Dalla mia frequentazione diretta del contesto clinico ho imparato, in secondo luogo, che i problemi etici in medicina hanno una dimensione temporale, che non emerge quando si riflette su di essi in astratto. Col tempo le circostanze cambiano in maniera significativa. Quando i medici dicono: «Aspettiamo e vediamo», non cercano una scusa, rimandando per evitare di affrontare i problemi; semplicemente riconoscono che domani il problema si potrà presentare in maniera diversa. Anche questa dimensione temporale non è familiare al professore di etica che si è formato nelle facoltà universitarie.

Guardando i dottori”, ha osservato anche qualche aspetto della loro professione che sfugge a chi fa ricorso alla medicina da paziente, o studia i problemi sanitari da intellettuale?

A.J. Mi è sembrato di riconoscere l’asse centrale che permette di tenere insieme oggetti, figure e movimenti, come in certi quadri del Rinascimento costruiti secondo le leggi della prospettiva. In medicina l’asse centrale è costituito dal punto in cui si incontrano due linee perpendicolari: l’altruismo e l’interesse. In quella intersezione un profondo paradosso morale pervade la medicina. A ogni essere umano succede

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di tanto in tanto, nella vita personale o nella professione, di sentirsi preso nel conflitto tra queste due spinte che vanno m senso opposto. Ma a me pare che in medicina questa contrapposizione sia più radicale: è immanente alla struttura stessa della cura medica, è il tessuto di cui è fatta la vita del medico. La medicina ― come istituzione, come pratica, come professione ― è dominata da questo paradosso in misura estrema.

Il conflitto, di per sé, non è una novità. Accompagna da sempre l’evoluzione della medicina. Il poeta Pindaro lo ha iscritto, come un mito di fondazione, all’inizio dell’arte medica. In un’ode ― la Pitica terza ― racconta la storia di Asclepio, l’eroe primordiale della medicina, iniziato dal centauro Chirone all’arte di “guarire i morbi dolorosi degli uomini”. Asclepio, secondo Pindaro, sarebbe morto fulminato da Giove per aver accettato, per denaro, di procedere a un atto terapeutico illecito, salvando dalla morte un uomo destinato dalla natura a morire:

Ma lega il lucro saggezza

talora. E con ricca mercede

l’oro nelle mani lucente

anche lui torse a rapire da morte

un uomo ormai catturato.

Probabilmente ha un significato permanente il fatto che il primo caso noto di etica medica abbia per protagonista un medico che, a scopo di guadagno, fornisce un servizio medico proibito. Il conflitto tra l’altruismo ― chi è malato si aspetta dal medico che questi faccia di tutto, incondizionatamente, per salvargli la vita e procurare un beneficio alla sua salute; e in questo senso si è espressa, da sempre, l’etica medica ― e l’interesse ha raggiunto nella medicina dei nostri giorni una tensione mai vista in passato.

Il conflitto tra altruismo e interesse è esclusivo della medicina, oppure è una costante di ogni esistenza umana? E se davvero la vita morale di ogni uomo ne è segnata, non vedo come potremmo schierarci totalmente da una parte o dall’altra.

A.J. Nella vita quotidiana i due principi non si escludono reciprocamente. L’interesse regola la maggior parte delle nostre azioni e decisioni, ma occasionalmente la generosità ci induce ad atti di vero sacrificio. Ci sono persone che si prendono cura profondamente degli altri, a proprie spese, eppure anch’essi hanno momenti in cui sono ispirati

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dall’interesse. Le più grandi vite morali sono una specie di opera artistica, che riesce ad armonizzare creativamente questi due principi. Oggi, tuttavia, la bilancia è più difficile da mantenere in medicina, a causa di una estremizzazione del conflitto tra altruismo ed interesse. La pratica della medicina è diventata un luogo di dura competizione.

La competizione ha molti volti. C’è la competizione tra medici e chirurghi tra di loro per ottenere i pazienti. Questa forma non era ignota anche in passato; regole deontologiche ed indicazioni di etichetta miravano a mantenere i comportamenti nella correttezza. Assolutamente nuova è invece la competizione tra i pazienti stessi per assicurarsi un accesso alle cure, in epoca di risorse sanitarie insufficienti rispetto alla domanda.

Il problema della selezione tra i candidati alla dialisi, che si è creato proprio qui a Seattle per la prima volta, è emblematico di questo giro di vite nella competizione per la sopravvivenza. Ed è significativo che la professione medica, per la prima volta, ha passato la mano: istituendo un comitato di etica, composto per lo più da non medici, per stabilire un ordine di priorità tra le richieste, ha riconosciuto la propria fondamentale incompetenza per risolvere questo conflitto.

Il suo punto di vista sui fattori che hanno promosso l’ingresso degli esperti di etica in medicina si discosta dalle interpretazioni più usuali, che vedono nell’etica una istanza di controllo nei confronti degli abusi contro la dignità della persona ad opera del progresso biomedico. A suo parere, l’etica deve essere invocata come un aiuto per risolvere i paradossi che l’acuirsi della tensione tra interessi diversi provoca in sanità?

A.J. Riconosco che io stesso devo la mia assunzione tra i docenti della facoltà di medicina nell’Università della California, nel 1972, proprio ad un problema di conflitti di interessi: sono stato invitato da un illustre chirurgo di quell’università, Englebert Dunphy, a coinvolgermi con i problemi etici creati dal trapianto di rene, che comprendevano la spinosa questione dei criteri con cui procedere all’allocazione degli organi. Di lì è cominciata la mia carriera nell’etica medica. E stata soprattutto la crescita di problemi di questo genere che ha fatto sì che in questi ultimi venti anni nascesse la domanda di persone qualificate che si dedicassero esplicitamente all’etica medica.

Più di recente la competizione in medicina si è ulteriormente radica- lizzata. Essa è incoraggiata come una misura di politica sanitaria per controllare l’esplosione dei costi della sanità. Quando diventa pervasiva,

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la competizione porta a percepire i pazienti come un mercato: certe persone ― o classi di persone ― sono viste come un mercato povero per i propri servizi, altre invece come un mercato da promuovere; medici e ospedale impegnati nella competizione eviteranno i mercati poveri, indipendentemente dai bisogni, e punteranno sul mercato potenziale. La competizione porterà una crescente esclusione di quelle persone che non sono pazienti vantaggiosi e una maggiore sollecitazione rivolta a coloro che possono diventare pazienti; i primi saranno privati di interventi medici necessari, i secondi sono candidati a diventare vittime di interventi alla moda.

Chi sta nella competizione non può avere il cuore tenero: il mercato non lascia spazio per la compassione. La competizione, se diventa il clima in cui si svolge la cura della salute, erode la compassione, che è stata sempre la più alta virtù del medico. È chiaro che non sto semplicemente proponendo il ritorno alla pratica di accettare pazienti non solventi, per motivi di beneficenza. La beneficenza oggi ha un profilo nuovo: richiede la vigorosa partecipazione alla formazione di politiche sanitarie che assicurino l’accesso di tutti alle cure di cui hanno bisogno.

Queste esigenze della giustizia non erano prioritarie vent’anni fa, quando ho cominciato a occuparmi dei problemi etici della nuova medicina. Lo sono però oggi, e tutto lascia credere che lo saranno ancor più domani: negli Stati Uniti come in ogni altro paese del mondo sviluppato.

Torniamo alla professione del filosofo che è chiamato a coinvolgersi nel vissuto della medicina pratica. Mi sembra di capire che questa professione richiede un cambiamento vistoso, rispetto a quanto è solito fare l’esperto di etica che lavora in ambito accademico. In che cosa consiste il cambiamento?

A.J. La differenza tra le persone che esercitano una professione sanitaria e coloro che si dedicano a scienze speculative sta nel management del caso. Ogni intervento del sanitario ― penso alla high tech dei grandi macchinari, ma anche alla semplice prescrizione di un farmaco ― cambia il caso; comporta dei rischi; richiede la valutazione comparativa dei benefici. La gestione del caso può avvenire anche semplicemente guardando lo sviluppo del caso nel tempo, come dicevo prima. Un pensatore speculativo, invece, non è un manager della realtà: non è chiamato a intervenire nella gestione del caso.

L’esperto di etica che accetta di coinvolgersi nella clinica ha una

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posizione intermedia tra le due. È sensibile ai problemi di management del caso in un modo che esula dagli interessi del pensatore speculativo. Questi può individuare un problema interessante e invitare ad esplorarlo; può percepire che ci sono delle decisioni da prendere e che qualcuno le prenderà; può anche arrivare a dire: «Questo è quello che va fatto». Mentre invece il bioeticista clinico è molto più interessato alla gestione del caso concreto. Deve perciò imparare a parlare quella sorta di linguaggio che parlano i clinici al fianco dei quali lavora.

Passando in rassegna gli studiosi che si sono fatti un nome nella bioetica, si vede subito la differenza tra i filosofi e i teologi che sono passati, con armi e bagagli speculativi, al nuovo campo senza affrontare un cambiamento, e quelli che invece hanno maturato ― attraverso un approccio pastorale o di counseling ― una sensibilità analoga a quella che ha il clinico per il paziente individuale. Il bioeticista clinico sa che deve evitare certe cose, come la discussione astratta dei problemi o le lunghe spiegazioni dei principi, per cogliere invece le particolarità significative e le circostanze caratteristiche che specificano il concreto caso presente.

Può fare un esempio che mi aiuti a cogliere la diversità dell’approccio?

A.J. Posso raccontarle un episodio autobiografico. Dopo il mio arrivo all’Università della California, nel 1972, l’arcivescovo di San Francisco mi chiese di entrare in un comitato di etica chiamato a intervenire quando sorgessero problemi morali negli ospedali cattolici. Un grave caso fu presentato da una giovane donna, alla quale era stato diagnosticato un feto anencefalico. La diagnosi prenatale era stata introdotta da poco; io ero a stretto contatto con coloro che avevano sviluppato questa tecnologia nell’Università della California.

La donna, ricoverata in un ospedale cattolico, chiedeva un aborto. Il comitato di etica, ragionando astrattamente e sulla base dei principi della morale cattolica, negava la liceità dell’aborto e chiedeva alla donna di portare avanti la gravidanza per i prossimi tre mesi, sapendo che poi il neonato senza encefalo sarebbe deceduto nel giro di ore o di giorni. La mia posizione era diversa. Data la conoscenza sicura dell’anencefalia, sostenevo che questa circostanza rende il caso diverso da quello di un aborto usuale (oltre al fatto che ci sono seri dubbi sul fatto che un feto in questa condizione possa essere considerato persona umana). L’arcivescovo fu molto offeso dalla mia posizione e mi domandò di dimettermi dal comitato.

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Quell’episodio contribuì a rendermi evidente che la via per la quale mi ero avviato ― quella dell’etica clinica ― aveva in se indicazioni di contenuto ed esigenze di metodo che la rendevano diversa da quella elaborata a partire da principi astratti, anche se di elevato profilo ideale, come la morale cattolica, nella quale peraltro mi riconosco.

Ritiene che questa resistenza a sintonizzarsi sulla dimensione clinica sia esclusiva delle morali a carattere religioso?

A.J. Credo che la difficoltà provenga, più che dalla morale, dal moralismo; e questo prospera tanto dentro la religione che al di fuori. L’inizio di quel movimento che ha preso il nome di bioetica, a partire dalla decade tra il 1965 e il 1975, e il suo successivo crescente sviluppo mi hanno convinto che il successo della bioetica è dovuto in misura determinante al fatto che è una variante del “moralismo” americano. Non è facile districare la matassa del moralismo, che attraversa tutta la cultura americana. Si tratta di un certo modo di pensare e di sentire la vita morale, nel quale sono confluiti sia il calvinismo dei puritani che si sono originariamente installati nella Nuova Inghilterra, sia il latente giansenismo degli immigrati irlandesi.

Questa morale è caratterizzata da un fondamentalismo, per il quale è importante l’insistenza su principi morali chiari e non ambigui, conoscibili da tutte le persone in buona fede. Non ammette la possibilità del paradosso morale ― per intenderci, pensiamo all’etica cristiana di Kierkegaard ― e il conflitto inconciliabile tra i principi. Per il moralismo, le verità morali sono chiare, riconoscibili da tutti i cuori puri. L’etica deve affermare l’esistenza di principi morali assoluti, dai quali non è lecito discostarsi. I principi sono corretti in se stessi e devono essere affermati; le eccezioni e le scuse non meritano considerazione, perché potrebbero indebolire i principi.

Il moralismo americano vede il mondo costruito da categorie antitetiche e cerca sistemi di confine e modelli di controllo che difendano l’ordine contro il disordine. Uno degli argomenti etici favoriti dall’uso corrente, quello del “piano inclinato” (the slippery slope) ― vale a dire: se accettiamo questo, poi ci troveremo ad accettare quest’altro e quest’altro ancora...; per questo il caso attuale deve essere proibito ― è profondamente impregnato di moralismo. Al fondo di questo argomento troviamo non un collegamento logico tra i diversi casi, ma un atteggiamento ispirato alla diffidenza verso la debolezza di volontà delle persone, sospettate di non resistere alla tentazione di fare ciò che è inaccettabile, se si permette loro di fare ciò che è accettabile.

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La bioetica che si è sviluppata in America in questo ventennio assomiglia molto a una variante secolare di questo fondamentalismo. Riposa sulla convinzione che esistano principi chiari e non ambigui, che toccano tutti gli ambiti della vita. Sono profondamente personali, benché siano aperti a tutte le persone dotate di coscienza nella comunità morale.

Il latente moralismo americano, in vesti secolari, ha dato un impulso decisivo alla bioetica, al fine di riportare il caos della medicina scientifica entro l’ordine dei principi morali. Da quando la bioetica ha cominciato a formarsi come disciplina, gli studiosi hanno adottato un approccio tipicamente americano di analisi etica, cioè l’applicazione di pochi e chiari principi ai problemi etici. Autonomia, beneficità, non-maleficità e giustizia sono diventati i principi classici della bioetica standard, declinati come lontana eco di un decalogo calvinista.

Credere che la moralità sia strutturata come comandamenti in funzione di leggi, regole e principi, piuttosto che come un tessuto fatto di massime, circostanze, motivazioni, intenzioni e abiti morali, rende difficile passare dal piano generale al caso particolare, con tutta la sua serietà morale. Tutti imparano rapidamente ad affermare il principio di autonomia, che è il principio più chiaro e quello preferito dalla maggior parte degli studenti; molto pochi sono quelli che imparano a modulare questo principio in rapporto alla beneficità e alla giustizia, e a metterlo in relazione con virtù quali la compassione.

Lei è noto per non essere mai stato un caloroso sostenitore della bioetica standard, basata sui principi (ovvero, per riprendere una sua espressione colorita, della bioetica che si limita alla recitazione dei principi come una “mantra”...). Ma l’approccio etico alternativo non può essere lasciato solo all’intuizione o alle preferenze personali. È necessario che diventi un metodo, giustificabile con argomenti razionali e anche trasmissibile attraverso l’insegnamento. Quali sono stati i suoi passi in questa direzione?

A.J. Di fatto la ricerca di un metodo per trasmettere quel modo di risolvere i casi che io ho imparato “guardando i dottori” è stata una costante nella mia vita dedicata all’etica medica. I migliori risultati li ho raggiunti associandomi a due altri studiosi: un medico internista dell’Università di Chicago, Mark Siegler, e un giurista e psichiatra dell’Università della California: William Winslade. Insieme abbiamo pubblicato nel 1982 un libro: Clinical ethics, presentandolo come un “approccio pratico alle decisioni etiche in medicina clinica”. Il libro ha

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avuto successo: è attualmente alla terza edizione. Ma soprattutto ha riscosso consenso la via proposta di un metodo alternativo a quello fondato sui principi.

Nella nostra proposta i casi hanno una importanza centrale. Non il caso interessante o spettacolare, che può essere occasionalmente utilizzato come illustrazione di un problema, ma il caso come matrice del problema e della sua soluzione. L’etica clinica, nella nostra prospettiva, consiste nella identificazione, nell’analisi e nella soluzione di problemi morali che sorgono nella cura di un particolare paziente. Queste preoccupazioni morali sono inseparabili dalle preoccupazioni mediche circa la corretta diagnosi e il trattamento del paziente: in generale, una buona medicina clinica è una medicina etica.

Invece di seguire l’istinto filosofico che porta a lavorare di pialla sui problemi che nascono da un concreto caso clinico fino a ridurli a un chiaro conflitto di principi, noi abbiamo proposto un metodo che aiutasse a far emergere il complesso intreccio di elementi emotivi, sociali ed economici che molti casi contengono. Il metodo di Clinical ethics affronta ogni caso analizzando i fatti che costituiscono quattro tratti essenziali di ogni situazione clinica: le indicazioni mediche, le preferenze del paziente, la qualità della vita e i fattori socioeconomici esterni.

Le tre diverse competenze di un clinico, di un avvocato e di un esperto di etica sono state unite per cercare di riportare l’etica nel contesto che le è proprio. Volevamo reagire a chi aveva canalizzato il movimento della bioetica verso massicci trattati filosofici e teorizzazioni astruse. Il nostro manuale affronta i problemi etici in medicina in modo diverso. Per esempio: come dovrebbe il medico trattare un paziente che ha un arresto respiratorio, diventa anossico e non si risveglia più dal coma? Quale dovrebbe essere il ruolo della famiglia rispetto a questa decisione? La presenza o l’assenza di una malattia soggiacente influenza questo processo decisionale? Oppure: a un diabetico obeso che rifiuta di prendere l’insulina, di attenersi alla dieta e di curare le ulcere del piede si deve offrire la dialisi cronica, in caso di blocco renale? Noi abbiamo proposto un metodo per considerare le varie opzioni nella gestione di simili problemi, che presentano difficoltà dal punto di vista sia clinico che etico.

Abbiamo tenuto costantemente presente che il medico è lì non per fare discussioni filosofiche, ma per prendere decisioni. L’etica clinica non si limita a discutere o analizzare i problemi etici, ma offre consigli per le decisioni, nella tradizione del consulto medico. Il consulente porta al medico non solo una informazione più ampia, ma un’altra prospettiva.

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Oltre alla tradizione che è propria della medicina, si possono individuare anche altre influenze sul suo approccio clinico all’etica medica?

A.J. Ne identificherei almeno due. Una è la metodologia casistica elaborata dalla Business School dell’Università di Harvard. Da molti anni questa scuola ha proposto un metodo di insegnamento centrato sullo studio dei casi. L’antecedente storico è costituito dai primi tentativi, introdotti proprio ad Harvard nella seconda metà del secolo scorso, di insegnare il diritto mediante i casi. Era una reazione a uno studio della legge diventato troppo speculativo. La Business School, fondata verso il 1920, si orientò in questo senso. Attualmente il suo prestigio ne fa un’autorità molto influente. Io stesso, quando ero presidente dell’università di San Francisco, ho frequentato i corsi estivi di Harvard, che offrivano programmi di amministrazione ed educazione. Dall’esperienza diretta ho tratto la convinzione che il metodo centrato sui casi fosse applicabile anche all’etica clinica.

L’altra fonte a cui mi sono ispirato mi era più familiare: si tratta della tradizione della casuistica, sviluppata dalla teologia morale cattolica. Conoscevo dai miei studi che la casuistica, sviluppata soprattutto dai gesuiti, era come caduta in discredito. Il colpo di grazia le era stato inferto dall’attacco polemico di Pascal, il quale, a metà del XVII secolo, l’aveva messa alla berlina con Le provinciali (il titolo dell’opera famosa suona, letteralmente: Lettere di Louis Montalte a un suo amico provinciale e ai Revv. PP. Gesuiti sulla morale e la politica di questi padri). La reputazione della casuistica sembrava rovinata per sempre. Casuistica è diventata sinonimo di un modo evasivo e sofistico di trattare l’etica, riducendo al minimo le esigenze del dovere morale. Il mio coinvolgimento con la bioetica mi ha portato, invece, a riscoprire il significato autentico e la funzione della casuistica.

Per molti anni sono stato membro del comitato dell’Università di San Francisco, al quale dovevano essere sottoposte le ricerche biomediche fatte con soggetti umani. Ogni settimana avevamo 20-30 progetti di ricerca da esaminare. Mi sono reso conto che non bastava avere dei chiari principi da applicare: bisognava esaminare accuratamente situazione per situazione, individuando le circostanze che rendevano ognuna moralmente diversa. Questa procedura era, in pratica, una casuistica.

Una convinzione analoga ho maturato all’interno delle due grandi commissioni nazionali americane, di cui sono stato membro: la Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani nella ricerca biomedica (1974-1978) e la Commissione presidenziale per lo

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studio dei problemi etici in medicina (1979-1982). Ricordo che un giorno, viaggiando in aereo con lo storico della filosofia Stephen Toulmin per andare a un incontro della Commissione, mi disse, commentando i nostri lavori: «Non è sorprendente che in Commissione non riusciamo a indurre nessuno a concordare sui principi, ma possiamo portare le persone a concordare sui casi?». Gli risposi che forse questo era il modo in cui funzionava la vecchia casuistica. Di qui nacque il progetto di una ricerca congiunta, che è sfociata nel nostro libro del 1988: The abuse of Casuistry. A history of moral reasoning.

Sono fiero di aver contribuito a un revival della casuistica. Attraverso questo approccio ho voluto sottolineare che il cuore dell’esperienza morale non consiste nella padronanza di regole generali e di principi tecnici, per quanto solidi e ben argomentati. Si trova, piuttosto, in quella saggezza che deriva dal vedere in che modo le idee che stanno dietro alle regole si sviluppano nella vita; in particolare, dal vedere i diversi assetti di circostanze che rafforzano o sospendono questa o quella regola. Solo un’esperienza di questo genere darà ai singoli quelle priorità pratiche di cui hanno bisogno nel valutare le considerazioni morali di diverso genere.

Lei ha intitolato un suo libro: New Medicine and the Old Ethics. Per rispondere alle crisi di crescita della nuova medicina, è sufficiente l’etica, per quanto rivisitata e adattata alle nuove esigenze?

A.J. Il titolo del mio libro è stato remotamente influenzato da quello che Sir William Osler diede alla lezione magistrale tenuta quando assunse la presidenza della British Classical Society, nel 1919. L’illustre medico parlò sul tema: «The old humanities and the new Science», illustrando i rapporti tra l’educazione scientifica e quella umanistica. Di quel discorso mi è rimasta impressa un’immagine, che a mia volta riprendo volentieri: «Le humanities sono per la società ciò che gli ormoni sono per il corpo».

Dobbiamo tener presente che gli ormoni erano una conquista recente per la medicina del tempo e l’endocrinologia viveva l’entusiasmante stagione dell’infanzia. Osler, con un’audace metafora, attribuisce agli studi umanistici la funzione di stimolare, di “lubrificare” ― per usare la sua espressione ― l’intelligenza della società, preservandola dall’inaridimento. Si riferiva in particolare all’ormone della tiroide ― uno dei pochi la cui azione era conosciuta in quel tempo ―, perché la sua carenza sembrava produrre un deficit nello sviluppo dell’intelligenza.

Bisogna riconoscere che, settant’anni dopo quella conferenza, gli

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studi umanistici non hanno più il primato nell’istruzione superiore. Neppure in medicina. Eppure la metafora di Osler è più che mai attuale: le humanities - in particolare la storia della medicina, la filosofia della medicina e l’etica medica - sono i messaggeri chimici che pervadono la complessa istituzione della medicina e la mettono in grado di rispondere all’ambiente scientifico, tecnologico, sociale ed economico, che cambia continuamente. Allo stesso modo delle secrezioni ormonali, le humanities sono presenti solo in quantità minime nel vasto corpo della medicina e il loro rilascio nell’organismo è stimolato dal bisogno, rappresentato dalle sfide ambientali. Le possiamo considerare come gli agenti dell'omeostasi in medicina.

Tra le humanities lei sembra attribuire un ruolo particolare alla storia della medicina e alla filosofia. Per quale motivo?

A.J. La storia e la filosofia sono due discipline con una lunga genealogia: è pericoloso fare affermazioni di carattere generale su di esse. Voglio osare, tuttavia, una generalizzazione: malgrado le tante teorie e definizioni, la storia è inevitabilmente preoccupata della memoria e la filosofia incessantemente assorbita dal significato. Quando queste scienze umane vivono nel mondo della medicina e delle scienze biomediche, diventano come parenti in una famiglia di idee, istituzioni e pratiche. Partecipano alla continua conversazione di quella famiglia. La narrazione storica e la riflessione filosofica, purché non siano vissute come puri diversivi, possono dirigere la conversazione verso una diversa direzione o elevarla a un piano superiore.

Riprendendo l’immagine degli ormoni, possiamo dire che queste humanities, quali messaggeri chimici, inviano messaggi a istituzioni della medicina e della scienza circa la memoria e il significato, per stimolare le attività mediche. Questi messaggeri da una fonte remota mantengono l’equilibrio tra le attività interne della medicina e della scienza e l’ambiente, costituito dalla società e dalla cultura.

Le secrezioni endocrine funzionano costantemente, ma sono stimolate solo quando il meccanismo di feed-back dell’organismo segnala uno squilibrio. Allo stesso modo, la memoria e il significato nella medicina si mobilitano quando appaiono forze esterne e squilibri interni. Allora la medicina deve rievocare le sue memorie e riflettere sui suoi valori: è il tempo delle humanities. Ed è proprio questo tempo che è suonato per la medicina dei nostri giorni.

È cambiato il suo scenario; la medicina è chiamata a interpretare nuovi ruoli nella diagnosi e nella terapia, ha una parte preminente

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nella prevenzione e ― ahimè ― nel razionamento delle risorse sanitarie. La medicina deve affrontare la sfida della commercializzazione, del potere insito nella manipolazione genetica, degli ostacoli che si frappongono alla prevenzione delle malattie. Ognuna di queste sfide costituisce un appello alle humanities, perché continuino a svolgere la loro funzione ormonale nella medicina.

Mi sembra paradossale che proprio lei, professor Jonsen, che ha dato uno dei contributi più apprezzati per conferire nuova vitalità all’etica medica, dia l’impressione di attribuire meno rilievo a questa disciplina rispetto ad altre medical humanities.

A.J. Se vogliamo seguire fino in fondo la via del paradosso, direi che noi stiamo per assistere alla fine dell’etica medica. Questa ha senso quando ci sono dei sanitari che hanno un ampio ambito di responsabilità; se si causa la scomparsa della responsabilità, non si ha più bisogno dell’etica. Ora, è proprio questo che sta avvenendo, attraverso due diverse vie. L’estremizzazione del principio di autonomia del paziente e il predominio di considerazioni di efficienza, in nome di una giusta allocazione delle risorse, stanno restringendo lo spazio delle responsabilità, e quindi dell’etica. La bioetica sta erodendo la propria base.

Uso deliberatamente un linguaggio paradossale, ma solo perché ho l’impressione che questo colga bene un senso di malessere che si va diffondendo nel mondo medico. Anche questa è una sfida che fa appello alla funzione riequilibratrice delle humanities.

Riferimenti bibliografici

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