Incontro con Jean Bernard

Sandro Spinsanti

Incontro con Jean Bernard

in L'Arco di Giano, n. 2, 1993, pp. 217-229

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L’attualità dei maestri

La rubrica è dedicata a mettere in evidenza la personalità di studiosi che con la loro opera hanno contribuito ad ampliare l’orizzonte delle medical humanities.

INCONTRO CON JEAN BERNARD

Possiamo immaginare Jean Bernard in diversi scenari. Il professore, l’illustre ematologo, lo collochiamo idealmente nell’istituto di ricerche sulla leucemia, che ha diretto con successo per tanti anni. L’accademico di Francia, ce lo rappresentiamo nel consesso degli Immortali, sotto la bianca Coupole neoclassica del Quais de Conti, la sede più prestigiosa della cultura francese. Oppure, come presidente del Comitato nazionale di etica per le scienze della vita, nel quadro della Sorbona, a presiedere una di quelle “Giornate nazionali di bioetica” che tanto hanno contribuito a rendere popolare la nuova disciplina. Sono tutti quadri attendibili, che colgono un aspetto di una personalità poliedrica e di una attività molteplice.

Ma se cerchiamo il Jean Bernard più intimo, se non il più vero, c’è un solo scenario in cui lo possiamo collocare: il giardino parigino del Luxembourg. “Il più bel giardino del mondo”, afferma il professore con una sicurezza che non ammette contraddittorio. Attorno a quel giardino si è svolta la sua infanzia e la sua adolescenza. Ai margini di quell’oasi di verde, intessuta di tanta parte della cultura della Ville Lumière, è tornato a vivere verso la metà della sua vita adulta.

La grande vetrata del suo studio si affaccia, dal quarto piano, direttamente sul giardino che è il cuore di Parigi. Una continuità ideale unisce le opere di medicina e i classici della letteratura che troneggiano sulle pareti della libreria e gli alberi che si colorano della luce del tramonto. La foto di copertina del volume recente che raccoglie scritti diversi, disseminati in sessant'anni di attività, lo ritrae su una sedia, al sole, sullo sfondo del giardino del Luxembourg, con la cupola del Pantheon sulla linea dell’orizzonte.

Circonstances ha intitolato il volume: circostanze distinte accuratamente in celebrazioni solenni (come lezioni inaugurali e discorsi ufficiali all’Académie Fran§aise), circostanze biologiche e mediche, circostanze

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poetiche e letterarie; circostanze funebri, infine, quali occasioni per panegirici e commemorazioni. “Il mio editore ― racconta con un lampo ironico negli occhi ― mi ha ricordato che sono anziano e che prevedibilmente morirò presto, per cui era meglio raccogliere gli scritti dispersi o non pubblicati in volume ....”.

Jean Bernard è nato nel 1907. L’età non appare su di lui come un peso, ma come un filtro che ha distillato il meglio di una lunga esistenza passata al servizio della scienza biologica e della medicina clinica. Alle ricerche di Jean Bernard si deve la dimostrazione della natura neoplastica della leucemia. Egli ha anche riprodotto sperimentalmente le leucemie, iniettando carburi cancerogeni nel midollo osseo dei ratti. Sul piano dei trattamenti ematologici, nel 1947 scoprì il primo trattamento efficace contro le leucemie acute. A lui si devono anche i primi studi di combinazione di chemioterapia e la messa a punto del metodo della reintroduzione ematica, che permette lunghe remissioni delle leucemie acute. Suo è anche il primo caso di guarigione della leucemia acuta. I suoi meriti scientifici comprendono anche la prima descrizione di radioterapia ad alto dosaggio nel trattamento della malattia di Hodgkin, nel 1932, e la fondazione, insieme a Jacques Ruffié, di una nuova disciplina: la ematologia geografica, che studia la correlazione tra l’ambiente e i fattori genetici.

Prof. Bernard, come è avvenuto il suo orientamento verso l’ematologia, a cui ha dato un apporto decisivo come ricercatore e come medico?

J.B. Potrei riassumere questa scelta, che ha strutturato buona parte della mia vita, con una formula: è stato il risultato congiunto di un’esitazione, di un caso e di una necessità. Al momento di scegliere la professione ho esitato a lungo tra la letteratura e le scienze. Appartenevo a una famiglia che contava matematici e ingegneri. All’ultimo anno del liceo ero risultato primo in matematica: tutto sembrava orientarmi, dunque, verso le discipline scientifiche. Ma avevo una grande passione per la letteratura.

Fin da giovanissimo avevo scritto poesie e altre composizioni letterarie. Da adolescente, poi, verso i 13 o 14 anni, una mattina andando a scuola sono passato davanti a una libreria in via dell’Odéon. Sono entrato ed è cominciata una stagione appassionante per la mia vita. La libreria era gestita da Adrienne Monnier, una donna che era entrata in letteratura così come si entra in religione. La sua libreria è stata in Francia un centro culturale di prim’ ordine. Accanto a lei si potevano

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incontrare Paul Valéry, André Gide, Paul Claudel, James Joyce.

La libreria prestava i libri, a un prezzo irrisorio. Si potevano scambiare i libri: anche tutti i giorni, se si voleva. Andavo ad ascoltare la traduzione, o piuttosto le traduzioni successive dell’Ulisse di Joyce. Leggevo enormemente. Ricordo il tavolo delle novità, dietro a cui solitamente sedeva M.me Monnier, austeramente vestita di grigio. Quegli anni sono stati una delle più grandi stagioni della letteratura francese. E io venivo introdotto dalla guida discreta di Adrienne Monnier, che mi consigliava le letture, mi orientava.

Ma verso i 16 anni, nell’epoca in cui si prendono le decisioni che determinano il corso della vita, esitavo. Ricordo distintamente come sono giunto a decidermi. Tra gli amici dei miei genitori c’era uno scrittore che aveva scritto un bel libro durante la prima Guerra mondiale. Poi, più niente di importante: era diventato uno scrittore di terz’ordine. A sedici anni si è pieni di orgoglio. Non potevo sopportare la prospettiva di diventare uno scrittore mediocre. Mi sono detto che un medico, anche se mediocre, può sempre essere utile. E così mi sono orientato verso la medicina.

I rapporti di Jean Bernard con la letteratura non sono però finiti con la decisione giovanile di diventare medico. Nella raccolta di scritti che abbiamo già ricordato, Circonstances, troviamo alcune recensioni di opere letterarie, apparse nel 1932 nel giornale Le Soir. Tra queste spicca La montagna incantata di Thomas Mann, che era appena stata tradotta in francese. Dietro quelle recensioni amatoriali c’è una storia simpatica. La signora che faceva la critica letteraria nel giornale era caduta malata di tubercolosi e doveva ritirarsi per un anno in un sanatorio. Per non farle perdere il posto, Jean Bernard accettò di scrivere le recensioni a nome suo, finché non fosse tornata.

Nella bibliografia del professore spiccano anche volumi di poesia, come Survivance (1945) e Mon Beau Navire (1980).

Che significato bisogna dare alle sue opere di letteratura? Sono solo spazi di evasione che si concede lo scienziato?

J.B. No, sono molto di più. Non voglio dire con questo di nutrire ambizioni letterarie. Si è trattato piuttosto, come dice il titolo di una mia raccolta, di un espediente per “sopravvivere”. Nel 1943, sotto l’occupazione nazista della Francia, sono stato rinchiuso per diversi mesi nella prigione di Fresnes. È difficile rendere l’idea delle condizioni di

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detenzione: la claustrazione, l’igiene difettosa, l’insufficiente assistenza medica, i disturbi fisici e psichici cui erano soggetti i prigionieri. A chi si lamenta delle prigioni di oggi dico che bisogna aver conosciuto le prigioni tedesche..,! Per sopravvivere, mi sono dedicato a comporre. E poiché è difficile ritenere a memoria la prosa (in prigione non avevamo né carta, né penna), ho composto poesie.

Ma, più in generale, penso che la letteratura faccia parte della formazione umanistica in senso ampio che è necessaria al medico, oggi come in passato.

Ritiene che questa esigenza sia rispettata nella formazione che ricevono attualmente i medici?

J.B. La questione si può porre, più concretamente, sotto l’angolatura della selezione: con quali criteri dobbiamo scegliere i candidati agli studi di medicina? Voglio chiarire che io sono assolutamente favorevole alla selezione, contrariamente a quello che pensava il movimento studentesco del ‘68. In Francia la selezione è una conquista della Rivoluzione del 1789. Prima si poteva accedere agli studi superiori solo se si era figli di duchi o di marchesi, o nipoti di un arcivescovo. La selezione per merito è una conquista della democrazia.

Ma a chi dare la preferenza: allo scienziato o all’umanista? C’è la tendenza a pensare che esistano due specie di medici: il buon uomo, che è ignorante ma umano, e il medico-scienziato. Io ritengo che sia una falsa alternativa. La formazione culturale ampia, in tutto l’arco che si estende dalla letteratura all’etica, è necessaria quanto la conoscenza della matematica, che è il fondamento degli studi biologici.

Mi ha colpito l’affermazione del preside della facoltà di medicina di Sherbrooke, in Canada: ‘La medicina del futuro è l’alleanza della biologia molecolare e deH’umanesimo’. Vi vedo la continuazione ideale di ciò che Paracelso ha fatto incidere sulla sua tomba, a Salisburgo: ‘Tutta la medicina è amore’. Ma oggi in Francia ― come suppongo avvenga anche in molti altri paesi ― si insegna solo la biologica molecolare. Ciò che hanno da dire i grandi scrittori e i grandi filosofi è considerato irrilevante.

Uno degli ostacoli a introdurre un diverso itinerario formativo è la vanità dei professori di medicina. Quando in Francia abbiamo cercato di modificare il piano di studi, introducendo l’insegnamento dell’etica, un mio collega, medico eminente, mi ha detto: ‘Ma perché insegnare l’etica? Basta guardare come si fa: è sufficiente!’.

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Torniamo al suo orientamento alla medicina. Lo ha descritto come il risultato congiunto di un’esitazione, di un caso e di una necessità. L’esitazione era quella tra il sapere scientifico e quello umanistico. Come si sono espressi il caso e la necessità?

J.B. La formazione che riceve il medico in Francia è suddivisa in due parti. Dopo gli studi in Facoltà, si deve passare il concorso ospedaliero. Ottenere un posto da interno all’ospedale è sempre molto difficile. Quando ho fatto io il concorso da interno, eravamo 1200 candidati per 80 posti, Quasi mai si è ammessi la prima volta. A me mancavano 3/4 di punto: proprio una sciocchezza, ma tanto bastava per essere escluso.

A quel punto ero “interno provvisorio”: il posto era assicurato, ma dovevo aspettare. Mi consigliarono di frequentare nel frattempo un consultorio ospedaliero, perché aveva luogo solo il mattino e mi lasciava tempo il pomeriggio. Mi sono guardato intorno e ho trovato, non lontano da casa, il consultorio di ematologia diretto dal prof. Chevallier, il solo in Francia all’epoca.

Il prof. Chevallier, di cui sono stato dapprima l’“interno provvisorio” e poi l’assistente, ha giocato un ruolo importante nella mia vita. In un’epoca in cui le malattie del sangue erano disprezzate e l’ematologia considerata una disciplina minore, lui ne ha capito l’importanza e mi ha ispirato la sua fiducia. Così si è deciso l’orientamento di tutta la mia vita dedicata allo studio del sangue: da quel quarto di punto mancante, che mi ha impedito di diventare interno al primo concorso...

La necessità è stata invece quella di trovare una risposta terapeutica alla falcidie che la leucemia stava mietendo tra i bambini. Dopo la seconda guerra mondiale, sono stato nominato primario all’ospedale Saint-Louis. Dirigevo un reparto pediatrico. A quell’epoca c’erano già i sulfamidici, c’era la penicillina. La maggior parte delle grandi malattie dei bambini ormai guarivano, mentre prima i piccoli malati morivano in massa. Tutti potevano guarire, salvo i bambini leucemici. La loro situazione era tragica. Mi dicevo: ‘Non è possibile accettare questo stato di cose. La morte di un anziano è normale, ma la morte di un ragazzo di 14 anni non è accettabile’. Da questo obbligo morale di lottare contro la leucemia, dalla necessità di trovare un rimedio è nato tutto il mio impegno in questa direzione.

Allo stato attuale della medicina, che proprio nella lotta contro le leucemie registra uno dei suoi successi più incontrovertibili, è difficile rendersi conto della situazione in cui lei ha lavorato, insieme al prof. Chevallier e ai ricercatori che poi lo hanno coadiuvato. Ci può ricostruire le tappe principali di questa battaglia?

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J.B. Devo anzitutto collocarla cronologicamente tra le due rivoluzioni che abbiamo vissuto e che hanno cambiato il nostro modo di far medicina. La prima è la rivoluzione terapeutica, iniziata nel 1937 con l’impiego dei sulfamidici. Essa ha dato all’uomo, dopo millenni d’impotenza, il potere di trionfare su malattie per lungo tempo fatali, come la tubercolosi, la sifilide, le grandi setticemie, le affezioni delle ghiandole endocrine. Prima di allora la medicina era per lo più impotente: al medico non restava che tenere la mano del malato che si spegneva.

La seconda rivoluzione, quella biologica, è più recente. Si ispira al concetto di biologia molecolare, che governa oggi tutta la medicina. È illustrata dalla scoperta del codice genetico e delle leggi semplici e grandiose che presiedono alla formazione della vita.

All’epoca in cui abbiamo iniziato la nostra battaglia contro le leucemie infantili, queste, come la meningite tubercolosa o l’endocardite maligna, erano malattie fatali. Si riteneva che fossero destinate a rimanere sempre irrimediabili. Noi abbiamo rifiutato questo dogma e ci siamo accinti a trattare questi pazienti.

Nel 1947 abbiamo ottenuto il primo caso mondiale di remissione temporanea di leucemia in un bambino di sei anni. La prima guarigione è stata registrata nel 1968-70, dopo vent’anni di duro combattimento. Ora i tre quarti dei bambini con leucemia guariscono.

A lei si attribuisce anche il primo ricorso sistematico all’aiuto della psicologia nel trattamento di questi piccoli pazienti. Oltre alla formazione letteraria, anche questo sussidio fa dunque parte delle medicai humanities di cui deve disporre il medico d’oggi?

J.B. Nel trattare i bambini leucemici mi sono reso subito conto che, oltre all’aspetto biologico-medico, influivano forti componenti psicologiche. Ho ancora davanti agli occhi due scene. Un giorno stavo facendo quella che in Francia si chiama la “controvisita” del pomeriggio. In una stanza c’erano due bambini, rispettivamente di 5 e 6 anni. Il medico che si occupava del reparto al mattino aveva imprudentemente lasciato nella stanza i grafici. Al momento di entrare sento uno che dice all’altro: ‘Tu sei messo proprio male, con la tua quantità di globuli bianchi!’. Un’altra volta una bambina di 5 anni mi dice: ‘Bisogna che sia proprio molto malata, dal momento che i miei genitori sono così gentili con me’.

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Ci siamo resi conto che senza l’aiuto di una psicologa non saremmo venuti a capo dei problemi emotivi di quei bambini. Di fatto, credo di essere stato il primo al mondo a introdurre una psichiatra e una psicologa nel reparto, per occuparsi dei bambini. Non mi attribuisco, invece, la paternità della “psiconcologia” come è stata sviluppata da alcuni psichiatri, nel senso di derivare le gravi malattie da disordini psichici. Credo che, allo stato attuale delle conoscenze, non si possano fare affermazioni del genere. Noi abbiamo considerato lo studio psicologico dei nostri piccoli malati ― e, non meno importante, dei loro genitori ― alla stregua di un sussidio di cui avevamo bisogno per fare il nostro mestiere di medici: come gli esami radiografici, per esempio.

In seguito c’è stato un avvenimento più interessante e molto più felice che ci ha indotto a far ricorso alla psicologia: lo studio dei bambini guariti. Per un lungo, drammatico periodo questo non era neppure pensabile, in quanto tutti i nostri pazienti erano condannati.

Studiando i bambini guariti, ci siamo resi conto che si possono suddividere in almeno tre categorie. Ci sono i bambini che si rassicurano dicendo: ‘Non è che sia guarito io, ma sono i medici che si erano sbagliati. La mia non era leucemia’. La seconda categoria è quella dei bambini che prendono un atteggiamento sportivo. Gonfiano i bicipiti e proclamano: ‘Io ho vinto la leucemia’, come se si trattasse di una partita di calcio o di un incontro di boxe. La terza categoria è la più insidiosa. Abbiamo scoperto che ci sono dei bambini che continuano a prendere le medicine di nascosto, perché non credono a quello che viene detto loro. Ciò dimostra come siano stati profondamente traumatizzati dalla malattia.

Per noi, quindi, l’aiuto dello psicologo non è un lusso, ma una stretta necessità per un buon trattamento medico. È l’alleanza così difficile della biologia e della clinica che definisce la medicina di questa seconda metà del XX secolo. Essa va assolutamente completata con il coinvolgimento delle scienze umane e delle pratiche correlate.

La notorietà internazionale di Jean Bernard è legata soprattutto al ruolo da lui giocato nello sviluppo della bioetica in Francia, nel quadro istituzionale del Comitato consultivo nazionale delle scienze della vita e della salute, istituito nel 1983. Fin dall’inizio, e per più di nove anni, il prof. Bernard ne è stato il presidente. Ha ceduto di recente la presidenza al neurobiologo Changeux, pur continuando a svolgere all’interno del Comitato funzioni di primo piano, quale presidente onorario.

Al ruolo di esperto di etica Jean Bernard non è giunto impreparato. Oltre alla sensibilizzazione ai problemi dell’etica connessi con l’esercizio

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della medicina nell’ambito dell’ematologia (basterebbe pensare ai problemi della comunicazione della diagnosi e della prognosi ai bambini affetti da malattie mortali e ai loro genitori, nonché a quello del rischio terapeutico: fin dove ha diritto di spingersi il terapeuta nel tentare il tutto per tutto?), Jean Bernard ha dedicato una costante attenzione alle conseguenze filosofiche ed economiche dei progressi della medicina. Lo documentano tre importanti volumi, apparsi già negli anni settanta: Grandeur et tentations de la médicine (1973), L’homme changé par l’homme (1975), L’espérance ou le nouvel état de la médicine (1978). L’esplosione dell’interesse sociale per la bioetica ha portato J. Bernard a un confronto con l’etica non da studioso privato, ma nella funzione di presidente del Comitato nazionale.

Che cosa ha significato per lei occuparsi di etica della medicina e della biologica a partire da una istituzione sulla quale sono puntati gli occhi di tutti?

J.B. Devo dire che quanto ha intrapreso il presidente Mitterand creando nel 1983 il Comitato nazionale è stato una novità a livello mondiale. La storia dei comitati di etica è recente, e tuttavia abbastanza confusa. La confusione è legata alla imprecisione delle definizioni. Tutte le riunioni episodiche, tutti i colloqui, tutte le commissioni governative effimere che studiano un problema di bioetica (commissioni ad hoc) non sono comitati di etica.

Riferendomi alla mia esperienza personale, devo dire che sono passato attraverso diverse approssimazioni. Ricordo un episodio. Dirigevo un grande istituto di ricerca sulle malattie del sangue e le leucemie. Un ricercatore fa una ricerca importante e decide di farla conoscere al mondo scientifico anglosassone mediante un articolo in inglese. Mandiamo l’articolo a una rivista americana che, dopo averlo sottoposto ai referees, lo accetta per la pubblicazione. Ma richiede obbligatoriamente il parere del comitato di etica che approva la ricerca. Ho convocato allora i due vicedirettori dell’Istituto. Seduta stante, abbiamo formato un comitato di etica e mandato il parere favorevole alla rivista... Comitati di etica di compiacenza di questo genere ce n’è un certo numero. Non hanno alcun senso.

Anche i comitati ad hoc sono una cosa diversa dal Comitato nazionale. Ho fatto parte di un comitato di questo genere che è stato costituito per lo studio dei problemi posti dall’ingegneria genetica, all’indomani della conferenza di Asilomar che aveva richiesto una moratoria della sperimentazione. Al comitato partecipavano grandi scienziati come

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Jacob e Monod. Abbiamo lavorato per sei mesi: dopo di che il comitato ha esaurito il suo compito. Il Comitato nazionale è invece un’altra cosa. Intanto perché è permanente. E poi per la sua composizione e i suoi compiti. È composto per metà da medici-biologi e per metà da umanisti (sociologi, filosofi, teologi, giuristi). Si occupa esclusivamente della ricerca scientifica e non dell’esercizio quotidiano della medicina, che è di competenza dell’Ordine dei medici e di analoghi organismi professionali.

Inoltre, non ha alcun potere. Credo che la genialità di chi ha immaginato questo comitato sia stata di mettere nella sua denominazione l’aggettivo “consultivo”. Tutto quello che è obbligatorio suscita un movimento di rifiuto. Questo comitato dà dei pareri, non crea obblighi. Ma proprio perché è solo consultivo viene molto ascoltato.

Dieci anni di esperienza nel Comitato nazionale sono una cifra tonda, che si presta bene ai bilanci. Che cosa ha imparato in quanto presidente del Comitato?

J.B. Per quanto mi fossi già interessato all’etica, il Comitato è stato qualcosa di nuovo. Ho dovuto imparare il mestiere. Anzitutto ho capito l’importanza della mediazione in un organismo che rappresenta competenze e posizioni ideologiche così diverse. Credo che uno dei successi più spettacolari in questo senso sia stato il rapporto sulla persona. È stato redatto insieme da un padre gesuita e da un membro del comitato centrale del partito comunista! La mediazione non è però compromesso, nel senso politico di “governare al centro”, ma la volontà di trarre profitto del meglio che esiste nelle diverse posizioni.

Per questa crescita comune ci vuole tempo. L’etica non può essere una questione di risposte immediate. Qualche anno fa sono stato chiamato al telefono alle tre del mattino. Era un giornalista sudafricano che mi esponeva il caso di una donna che aveva appena partorito il bambino concepito con l’ovocita della figlia. Voleva sapere cosa ne pensasse il Comitato francese di bioetica. Gli ho risposto che ci volevano almeno tre mesi per dare un parere. Il giornalista ha riappeso, deluso. Noi abbiamo imparato che bisogna procedere lentamente.

Progressivamente l’opinione pubblica francese si è sensibilizzata al dibattito sui problemi dell’etica. L’etica sta entrando nei costumi. E anche un fatto di semantica. La parola “morale” non interessa più a nessuno: appare polverosa, fuori moda. L’etica, invece, attira. Mi capita di andare a fare conferenze in piccole cittadine di provincia, di 70-80.000 abitanti.

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Ebbene, c’è un migliaio di persone ad ascoltare, con il vescovo, il sindaco e i rappresentanti dei sindacati in prima fila!

L’etica ha molta risonanza anche tra i giovani. Abbiamo chiesto che si introduca la bioetica nell’insegnamento secondario e ora in Francia si sta cominciando con classi sperimentali nei licei. Questa penetrazione dell’etica nei costumi esige tempo; non si realizza con pronunciamenti spettacolari.

La bioetica ci appare sempre di più come l’esercizio di un duplice rigore: quello della scienza e quello dell’etica. Ma anche, alleato a questi rigori, il calore della vita: il calore di una disciplina interamente ispirata alla speranza di limitare la sofferenza umana sempre presente attorno ai problemi che si pongono.

Nei dieci anni di riflessione bioetica che sta considerando, quali sono le linee di tendenza emergenti?

J.B. La prima è la crescita della complessità dei problemi. Le faccio due esempi che stiamo vivendo: uno è quello di un bambino con due madri, l’altro di un bambino con due padri. Nel primo caso, una ragazza quindicenne è stata curata nel nostro reparto per un linfoma addominale di grandi dimensioni. L’applicazione della radioterapia ha portato alla guarigione, ma con la distruzione delle ovaie. L’utero è stato conservato. Alcuni anni dopo si è sposata. Una amica ha accettato di donarle un ovulo. È stato fecondato con lo sperma del marito e poi introdotto nell’utero. Da pochi mesi il bambino è nato e ha due madri: una ovulare e una uterina: una ha trasmesso il patrimonio genetico e l’ereditarietà, l’altra le informazioni della vita intrauterina.

Nell’altro caso, abbiamo a che fare con un uomo sterile. Si sottopone a un trattamento e in seguito ha un figlio. Come talvolta succede, c’è un grande attaccamento tra questo padre e questo bambino. Ma dopo alcun anni subentra la discordia nella coppia e i due genitori divorziano. La madre sposa un altro. A questo punto fa fare uno studio dei cromosomi del bambino, il quale risulta figlio non del primo marito, ma del secondo, che era amante della donna prima del secondo matrimonio. Qual è il vero padre del bambino: quello affettivo o quello biologico?

La complessità delle situazioni create dall’applicazione della tecnologia alla medicina è tale che per coglierla rende più servizio la fantasia letteraria che le fredde conoscenze scientifiche. Di recente ho scritto un libro — Le syndróme du Colonel Chabert ou le vivant mort —, che

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è una raccolta di novelle fondate su avventure di questo genere. Immagino, per esempio, che una ragazza nata per procreazione artificiale si innamori del suo fratello ovulare, senza conoscerne l’identità, e altre situazioni analoghe.

La complessità è creata anche dall’intreccio e sovrapposizione di diverse tradizioni culturali, e quindi di diverse concezioni etiche. Qualche anno fa ho avuto l’onore di essere invitato in Giappone per inaugurare il primo congresso giapponese di bioetica. L’oratore che ha parlato dopo di me era un sacerdote buddista. Ha esordito dicendo: ‘Ho ascoltato il collega francese parlare dei problemi etici della procreazione artificiale. Ma io, buddista, non conosco il giorno della mia prima nascita, della seconda, della terza...; non so le forme animali che ho rivestito nel corso di metempsicosi successive. Tutte queste storie di ingegneria genetica e di procreazione medicalmente assistita non hanno alcuna importanza per me’.

Un altro esempio. Faccio parte dell’Accademia del Marocco, i cui membri per la metà non sono marocchini. Un anno venne scelto come argomento della sessione annuale la procreazione medicalmente assistita. Il segretario viene a trovarmi per progettare il programma. Io propongo una serie di interventi articolati intorno agli aspetti biologici, etici, legali e religiosi. Ma il segretario mi interrompe: ‘Non è possibile. Nell'Islam la religione governa tutto: non ci sono un diritto e una morale indipendenti da Dio’.

Questa impostazione nei nostri paesi occidentali non è accettabile. Non c’è una bioetica di Stato. La bioetica non appartiene neppure ai comitati di etica: è compito dei cittadini, ampiamente e lealmente istruiti, formarsi la loro opinione ed esprimerla. I comitati permanenti di etica sono utili durante il periodo di organizzazione di questa informazione dei cittadini. Quando questo compito sarà compiuto, i comitati dovranno sparire. Altrimenti potremmo avere il paradosso di comitati che enfatizzano le problematiche bioetiche per poter mantenere in vita se stessi....

Se dovesse immaginare lo scenario degli sviluppi prossimi dei problemi che ci pone oggi la bioetica, come se lo rappresenterebbe?

J.B. Come conclusione al mio libro recente De la biologìe à l’éthique ho immaginato che un esperto di bioetica faccia una lezione nel 2090 spiegando agli ascoltatori lo sviluppo della disciplina negli ultimi cento anni. Gli ho fatto dividere il secolo in tre parti. Nel periodo che va dal 1990 al 2020 si alternano inquietudini e speranze. Cresce la

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consapevolezza che ai nuovi poteri della scienza corrispondono nuovi doveri dell’uomo. I danni vengono limitati, parzialmente e temporaneamente, dal diffondersi di comitati e risoluzioni internazionali. Ma la semplificazione delle tecniche le rende accessibili a moltissimi laboratori di numerosi paesi. E il controllo sfugge di mano.

Ho immaginato un secondo periodo ― i quarant'anni che si estendono dal 2020 al 2060 ― sotto l’insegna dell’alleanza perniciosa tra il denaro e la biologia, il lucro e la scienza. Concepimento, gestazione, nascita, sviluppo del sistema nervoso, vita e morte: tutto appartiene a questa bio-tecnologia, governata da potenti società multinazionali. La banca e la borsa regolano ormai il mercato dell’uomo e di parti del suo corpo. Al culmine di questa ascesa di una immoralità razionale, il potere politico utilizza indiscriminatamente il progresso biologico e ha cancellato il nome stesso dell’etica e il ricordo dei valori morali del passato.

La mia ricostruzione della storia futura termina però con una nota di speranza. Nel terzo periodo, che inizia nel 2060, sia avrà un Rinascimento spirituale, intellettuale ed etico, con il recupero dei valori fondamentali che il periodo precedente aveva affossato. Questa prospettiva di lungo periodo mi permette di mettere evidenza che il problema cruciale del nostro tempo è la discordanza tra i progressi della scienza e della tecnica e la mancanza di progresso della saggezza. Da Archimede a Einstein la scienza si è trasformata. Da Platone ai filosofi nostri contemporanei la saggezza è restata la stessa. O, piuttosto, dovremmo dire che ha fatto qualche passo indietro. Questa discordanza ci minaccia e rende frequentemente impotente la bioetica della nostra epoca.

Dove fondo la mia speranza? Su una affermazione di Spinoza, che condivido profondamente: ‘Le anime non sono vinte dalle armi, ma dall’amore e dalla generosità’.

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Scheda bibliografica

Per orientarsi nell’arcipelago della generosa e fortunata produzione di Jean Bernard, è necessaria una carta geografica. Su questa si distinguono anzitutto le pubblicazioni più tecniche, dedicate all’ematologia e al trattamento delle malattie del sangue:

Maladie de Hodgkin (con Paul Chevallier), Masson, Paris, 1932.

Polyglobulies et leucémies provoquées par des injections intramédullaires de goudron, Doin, Paris, 1936.

Hématologie clinique (con M. Bessis), Masson, Paris, 1958.

Hématologie géographique, 2 voll. (con J. Ruffié), Masson, Paris, 1966-1972.

Historie illustrée de l’hématologie (con M. Bessis e J.L. Binet), Da Costa, Paris, 1992.

Un secondo gruppo di pubblicazioni riguarda l’analisi delle conseguenze filosofiche ed economiche dei progressi della medicina. Tra le opere principali segnaliamo:

Grandeur et tentations de la médicine, Buchet Chastel, Paris, 1973; tr. it. Grandezza e tentazioni della medicina, Garzanti, Milano, 1974.

L’homme chang épar l’homme, Buchet Chastel, Paris, 1975.

L’espérance ou le nouvel état de la médecine, Buchet Chastel, Paris, 1978.

L’enfant, le sang et l’espoir, Buchet Chastel, Paris, 1984.

Et l'âme? demanda Brigitte, Buchet Chastel, Paris, 1987.

De la biologie à l’éthique, Buchet Chastel, Paris, 1990.

Di non secondaria importanza, infine, sono le opere di natura letteraria:

Survivance (poesie), Buchet Chastel, Paris, 1945.

Mon beau navire, Buchet Chastel, Paris, 1980.

C’est de l’homme qu’il s’agit, O. Jacob, Paris, 1988.

Circonstances, Buchet Chastel, Paris, 1991.

Le syndrome du Colonel Chabert ou le vivant mort, Buchet Chastel, Paris, 1992.