Incontro con Mirko Grmek

Sandro Spinsanti

Incontro con Mirko Grmek

in L'Arco di Giano, n. 9, 1995, pp. 131-140

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L'attualità dei maestri

La rubrica è dedicata a mettere in evidenza la personalità di studiosi che con la loro opera hanno contribuito ad ampliare l’orizzonte delle medical humanities.

INCONTRO CON MIRKO GRMEK

Chi si avvicina a Mirko Grmek deve essere disposto a lasciarsi prendere in un turbine in cui universale e particolare si confrontano continuamente, confondendo quelle distinzioni con cui siamo soliti introdurre un ordine nella realtà. Tutte le etichette gli vanno strette. A cominciare da quelle nazionali e linguistiche. Nato a Krapina, nell’attuale Croazia, è però naturalizzato francese. Ha studiato in diversi paesi (ha frequentato i politecnici di Torino e di Lucca, si è laureato in medicina a Zagabria e in lettere e filosofia a Parigi), così da rappresentare l’intellettuale europeo, dalla formazione cosmopolita. Solo di recente ha ammesso di aver scoperto di essere più legato al travagliato paese a cui deve le sue origini di quello che avrebbe amato concedere. Dal 1973 ha la cattedra di storia delle scienze biologiche e mediche all’Ecole pratique des hautes études a Parigi ed è professore onorario all’università di Zagabria. Ha insegnato a Berkeley, Los Angeles, Ginevra e Losanna. Parla disinvoltamente più lingue, è di casa in numerose accademie e istituzioni di ricerca, passa con disinvoltura da un sapere specialistico all’altro, costituendo l’interlocutore ideale sia degli scienziati che degli umanisti. Nelle medical humanities europee occupa incontestabilmente un posto da maestro.

Grmek è frequentemente in Italia, dove ha ammiratori e discepoli. Lo abbiamo incontrato a Firenze, nel contesto del simposio «‘Pensare’ in medicina», organizzato congiuntamente dal Centro fiorentino di storia e filosofia della scienza e da L’Arco di Giano (la relazione tenuta da Grmek in quella occasione è apparsa sul n. 6 della rivista, con il titolo «Le antinomie del pensiero medico»). Lo abbiamo pregato di ripercorrere con noi le tappe della sua autobiografia intellettuale che possono meglio lumeggiare il significato e la funzione delle medical humanities.

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Secondo un’immagine proposta da Isaiah Berlin, i ricercatori si modellano su due categorie principali: quelli che si comportano come il riccio e quelli che assomigliano alla volpe. I primi rimangono sempre aderenti all’idea da cui sono partiti, mentre i secondi si lasciano condurre da interessi sempre nuovi, aprendo a ventaglio le proprie ricerche. Il suo percorso nella storia della medicina si modella sul comportamento del riccio o su quello della volpe?

M.G. Certamente esiste una differenza tra le persone che hanno un’idea precisa di quello che vogliono trovare e cercano sempre in una determinata direzione e quelli che invece si muovono in modo più casuale. Claude Bernard nei suoi appunti ha un’annotazione su Pasteur, che secondo lui trovava solo quello che cercava. Con ciò voleva sottolineare la differenza con il suo proprio metodo, che invece lo portava a trovare quello che non cercava. Personalmente penso di appartenere a questa seconda categoria di ricercatori. Mi incammino in una direzione, ma non so dove la ricerca mi conduce. Sono molto contento se alla fine trovo qualcosa del tutto differente, anche opposto, da ciò che mi ero proposto. Le ipotesi di lavoro sono buone per essere scompaginate.

Come è nato il suo interesse per la storia della medicina?

M.G. Nella nostra tradizione esiste una suddivisione consolidata tra scienze “dure” e scienze umane. Non penso che la divisione sia radicata nella natura delle cose, ma lo è sicuramente nella struttura della società. Non c’è dubbio che anche oggi, se in una discussione da salotto qualcuno dimostra di non sapere chi sia l’autore de Les fleurs du mal, sarà malvisto; nessun imbarazzo, invece, se non sa quale sia la somma del seno di alfa più il seno di beta. Non si vede perché la conoscenza letteraria debba essere considerata come cultura superiore rispetto a quella scientifica. Questa tensione tra le due culture io l’ho vissuta sulla mia pelle. Ho un forte amore per la cultura umanistica e un certo dono per la scrittura. D’altra parte, la mia curiosità prevalente era di tipo scientifico. Ho scelto di studiare medicina soprattutto per soddisfare questa curiosità di sapere. Tra i diversi oggetti di studio mi sembrava il più antropologico: avevo l’impressione che con la medicina si impara il massimo di quello che si può sapere dell’uomo.

Lei condividerà, allora, l’affermazione di Edmund Pellegrino, che

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considera la medicina come la più umana delle scienze e la più scientifica delle humanities...

M.G. Sì, credo proprio che la medicina faccia il ponte tra le due culture. All’interno della medicina, poi, la storia della medicina è la parte più umanistica della medicina stessa. Questo l’ho scoperto più tardi. Quando mi sono iscritto all’università non intendevo fare lo storico della medicina, ma il medico. Ho scelto come specialità l’endocrinologia, perché era al tempo stesso medicina di laboratorio e medicina clinica. Allora, negli anni ’50, l’endocrinologia era la punta più avanzata del sapere scientifico medico (se dovessi iniziare oggi, con gli stessi criteri sceglierei la neurologia...). Ben presto mi sono reso conto che la specializzazione era un passaggio necessario. Non solo per far carriera in senso universitario, ma proprio per procedere nella conoscenza. E specializzarsi vuol dire abbandonare. Per me fare storia della medicina era un modo per reagire a questa tendenza alla parcellizzazione.

Dal punto di vista strettamente biografico devo aggiungere un altro elemento che mi ha fatto inclinare verso la storia della medicina: la possibilità di diventare rapidamente indipendente. È un tratto di carattere: non sopporto le gerarchie, e quindi neppure quell’aspetto della medicina contemporanea che domanda un’organizzazione simile a quella dell’esercito.

Un momento determinante di questo cammino verso l’autonomia è stata la fondazione dell’istituto di storia delle scienze a Zagabria, nel 1960, di cui è stato per tre anni anche il primo direttore. Ha un particolare significato l’aver posto la storia della medicina nel contesto più generale della storia delle scienze?

M.G. Ci sono molti modi di fare storia della medicina. Alcuni di questi io li considero non solo personalmente non congeniali, ma francamente pericolosi, in quanto hanno screditato la disciplina agli occhi delle persone più serie. Mi riferisco, in particolare, a quella storia della medicina costruita su aneddoti o curiosità, concepita come un percorso lineare che, di progresso in progresso, ha portato allo stato attuale del sapere medico. Spesso gli specialisti delle varie discipline hanno la debolezza di fare, senza la strumentazione concettuale appropriata, la storia della propria disciplina. I risultati agli occhi dello storico della medicina sono patetici. Ricordo, in tal senso, un episodio.

A un convegno internazionale di storici dell’antichità e di archeologi un famoso ginecologo tenne il discorso di apertura e raccontò di un

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suo viaggio a Kos, dove vide un tempio dedicato a Esculapio, che gli fece una forte impressione. Mostrò delle diapositive, parlando del culto di Esculapio e delle ricerche fatte dagli storici in relazione a questa tradizione. Quando ebbe terminato, io mi alzai ed esposi il seguente ragionamento. Immaginate un congresso internazionale di ginecologia in cui un archeologo venga invitato a presentare una relazione e si rivolga ai partecipanti dicendo: «Vorrei raccontarvi una cosa molto interessante. Mia moglie ha avuto un bambino. Io ero presente al parto. È una cosa straordinaria. Esce prima la testa...». Ebbene ― dissi ― questa eventualità non si verificherà mai, mentre accade regolarmente quello di cui siamo stati poc’anzi testimoni.

È a causa di questo modo di fare storia della medicina che la disciplina non ha una sua dignità nel mondo universitario. È rimasta una specie di feuilleton, un passatempo. O, più spesso, il luogo accademico dove collocare ricercatori falliti o incapaci, ma ai quali non si può negare un premio per la fedeltà dimostrata verso qualcuno dei potenti nella facoltà.

A differenza di questa storia della medicina “vulgata ”, qual è il profilo della disciplina a cui lei ha dedicato una lunga e feconda vita da studioso?

M.G. Due sono i più importanti indirizzi di storia della medicina. Uno è la storia della medicina in quanto storia del pensiero medico; il secondo è la storia della salute. Personalmente ho privilegiato la prima, praticandola in quanto storia della scienza. La medicina non è né scienza, né arte, né tecnica: è un campo di lavoro. In questo campo di lavoro esistono delle scienze (l’anatomia, la fisiologia, la patologia: per menzionarne alcune), delle tecniche (ad esempio, la chirurgia) e anche degli aspetti che possono far qualificare la medicina come un’arte. In questo vasto campo dell’attività medica io mi sono occupato del pensiero.

Intendo sottolinearlo. Anche la recente vasta sintesi in tre volumi che ho curato non si presenta come storia della medicina, ma come Storia del pensiero medico occidentale. Invece di collezionare i “fatti”, io e i miei collaboratori abbiamo voluto isolare le idee-guida che marcano la storia dell’arte medica. All’interno di una visione globale del passato dell’uomo civilizzato, abbiamo cercato di determinare tanto le influenze più diverse esercitate nello sviluppo del pensiero medico, quanto l’impatto di questo pensiero sugli altri settori del sapere e sul comportamento umano nelle varie epoche storiche.

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Questa divisione della storia della medicina in due porti, una che si interessa delle condizioni sociali e una che si occupa delle idee, non ha un carattere artificiale? Non si può fare, ad esempio, la storia delle epidemie di colera a Napoli nel XIX secolo senza conoscere le idee diffuse; ma, d’altra parte, non si può ricostruire le idee senza conoscere le istituzioni...

M.G. Condivido la preoccupazione di tenere uniti i due aspetti. Tuttavia sottolineo che è il legame con la storia della scienza dal punto di vista del pensiero scientifico che costituisce la specificità della storia della medicina. Per quanto interessante sia la storia degli ospedali, questa è una parte della storia generale. Non c’è una differenza di fondo fra la storia degli ospedali e la storia delle università, o di qualsiasi altra istituzione. Ciò che è proprio della storia della medicina è la storia del pensiero medico, la struttura delle teorie scientifiche e la loro trasformazione storica. La storia della scienza è il laboratorio dell’epistemologia. Per questo ci interessiamo al passato non solo perché è stato, ma perché ha un’utilità diretta, in quanto la storia della scienza fatta in un certo modo conferma o falsifica, nel senso proposto da Popper, le teorie epistemologiche. È la prospettiva che ho sostenuto in un articolo del primo numero della rivista History of philosophy and life sciences, di cui sono direttore.

La sua presentazione della storia della medicina quale storia del pensiero medico è avvincente. Ma non potrebbe essere proprio l’elevatezza di questo modello una delle cause del poco rilievo che la storia della medicina in quanto insegnamento ha nella vita dell’università?

M.G. Riconosco che soffriamo per la mancanza di bravi storici della medicina. Il guaio è che lo storico della medicina dovrebbe avere un’intelligenza così penetrante e una tale erudizione che di solito le persone tanto generosamente dotate preferiscono emigrare verso campi di studio più remunerativi. È difficile immaginare che qualcuno, potendo essere il direttore di una grande clinica o preside di un importante istituto scientifico e, in alternativa, storico della medicina, preferisca quest’ultima possibilità. Mi vergogno un po’ di ammettere che la selezione per fare lo storico della medicina è piuttosto quella negativa. Perché, tra l’altro, è una professione particolarmente mal retribuita.

Paulo maiora canamus. Torniamo ai suoi contributi alla storia della medicina. Le sue ricerche hanno spaziato per tutto l’arco dello sviluppo

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della medicina occidentale, dalle origini greche all’epoca moderna. Tuttavia, pur conoscendo la vastità dei suoi interessi, pochi erano preparati al fatto che lei si sarebbe occupato, da storico, dell’epidemia di Aids, vale a dire di quanto di più attuale si possa immaginare nello scenario della patologia. Che cosa ha determinato la sua decisione?

M.G. Il mio interesse per l’Aids è stato il risultato di un orientamento generale delle mie ricerche e di un problema particolare. Per quanto riguarda il primo aspetto, io ho sempre cercato di mettere le conoscenze culturali, derivanti dai progressi recenti della scienza ― la scienza in senso hard ― a servizio della storia. Ciò mi ha permesso di dare spesso una lettura nuova di testi dell’antichità o del medioevo. D’altra parte, ho anche cercato di utilizzare, per quanto possibile, le conoscenze storiche per risolvere problemi attuali (devo dire che, benché io sia uno storico della medicina, più della metà delle mie letture riguardano la scienza attuale: cerco di tenermi al corrente di ciò che c’è di nuovo nella ricerca).

Mi sono occupato delle malattie all’alba della civiltà occidentale, in un libro apparso nel 1983. Le malattie dell’antichità mi interessavano soprattutto nella misura in cui le nuove conoscenze della medicina, della biologia e della genetica mettevano in nuova luce la lettura dei testi antichi. Certi problemi di filologia posti da testi di Ippocrate, come Le epidemie, si possono risolvere con le conoscenze più recenti della scienza. In particolare, mi sono trovato di fronte al problema delle origini delle malattie: la lebbra, ad esempio, esisteva in tutti i tempi o è stata introdotta? Se è stata introdotta, da dove? La tubercolosi è una malattia da sempre?

Ero in pieno lavoro con i problemi dell’emergenza delle malattie quando ha cominciato a diffondersi l’Aids, una malattia sconosciuta fino ad allora. Sono rimasto profondamente sorpreso: quello che nei miei studi erano problemi che riguardavano il neolitico o la Grecia antica, stava succedendo proprio adesso. Il passo successivo è stato quello di applicare esattamente lo stesso metodo di ricerca con cui avevo studiato le malattie all’alba della civiltà occidentale. Ho lavorato rigorosamente da storico. Ho parlato personalmente con quasi tutti i protagonisti della ricerca sull’Aids, ma le interviste mi sono servite solo per trovare le fonti scritte.

Con questo metodo sono arrivato a proporre una spiegazione teorica sull’origine dell’Aids che successivamente è stata piuttosto confermata. È una spiegazione che non poteva essere data né solo da un biologo, né solo da uno storico. La caratteristica della mia spiegazione è

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che tiene conto allo stesso tempo dei fattori sociali e di quelli biologici; solo considerando le due dimensioni congiuntamente si arriva, secondo me, a una spiegazione attendibile. Solamente la prospettiva propria di uno storico della medicina permette di cogliere che le precedenti malattie infettive impedivano di fatto il manifestarsi dell’Aids in forma epidemica. L’espansione dell’Aids non era possibile prima che la medicina moderna, modificando il piano di morbilità caratteristico della popolazione umana, sopprimesse la barriera opposta da altre malattie infettive particolarmente frequenti.

Uno storico non è un filosofo e non costruisce sistemi. Ciò premesso, può rintracciare qualche elemento di maggior rilevanza in tema di rapporto uomo-malattia che emerge dalle sue ricerche?

M.G. Al primo posto metterei la convinzione che la malattia è un modo di esistenza. La salute in assoluto, quale equilibrio perfetto, non esiste: noi stiamo sempre vincendo piccole malattie. Inoltre tutte le malattie presenti in una popolazione sono interdipendenti. Le dipendenze reciproche possono essere studiate prendendo in esame la distribuzione degli stati patologici e analizzandone la frequenza in una determinata collettività e in un arco di tempo relativamente breve. Per cogliere la regolarità ho proposto nel 1969 il concetto di “patocenosi”.

Il termine è stato coniato sul modello di “biocenosi”. Si tratta di un’analogia profonda. Infatti lo studio della distribuzione delle malattie per frequenza pone un problema che corrisponde a quello della distribuzione delle specie animali e vegetali in funzione degli individui che vivono in una biocenosi. Per patocenosi intendo il complesso degli stati patologici, presenti in una data popolazione in un certo momento. Secondo la nostra proposta, la frequenza di ogni malattia e la sua distribuzione globale dipendono, oltre che da diversi fattori endogeni ed ecologici, dalla frequenza di tutte le altre malattie all’interno della stessa popolazione.

Agli occhi di uno storico, il XX secolo è senza dubbio il periodo della più profonda rottura patocenotica di tutta la storia dell’umanità. Se prendiamo come esempio gli abitanti della Grecia, le cui malattie sono conosciute dal tempo di Ippocrate, possiamo affermare che il loro modo di vita e la loro patocenosi sono mutati più profondamente durante l’ultimo mezzo secolo che durante i tremila anni precedenti. Nell’Europa occidentale la morbilità subisce ora stravolgimenti dovuti soprattutto al rimescolamento delle popolazioni, alla prevenzione e alla cura efficace di certe malattie, al rapido mutamento della piramide

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delle età e all’apparizione di fattori patogeni nuovi, legati allo sviluppo tecnologico e alle modificazioni sociali.

Il concetto di patocenesi può sembrare pessimistico, in quanto afferma che le malattie non si eliminano: quando si diminuisce un aspetto della patologia, arrivano altre malattie...

M.G. Non c’è adito al pessimismo quando si considera che le malattie non sono dello stesso tipo: una cosa è morire di tifo a vent’anni, un’altra avere difficoltà a camminare a ottanta! Effettivamente, noi abbiamo eliminato gran parte delle malattie infettive, abbiamo prolungato la vita e ne abbiamo migliorato la qualità. Ma non bisogna pensare che siamo in grado di rendere la vita umana perfettamente conforme alla norma. Questo ideale è irrealizzabile; soprattutto è falso. Si è avvicinato di più alla realtà Oscar Wilde quando ha detto, scherzando, che «la salute è uno stato precario che non predice nulla di buono»...

La malattia è una dura esperienza, ma personalmente ritengo che le malattie non siano completamente inutili. Oggi si sogna di poter distruggere il virus dell’Aids; ma quando questo virus sarà eliminato, ce ne saranno dieci altri che incombono. Se riuscissimo a eliminare tutti i virus e gli agenti patogeni, sarebbe la morte della nostra specie. Noi viviamo, infatti, in un insieme biologico estremamente ben equilibrato, perché è il risultato di un gioco durato milioni di anni.

Questa dimensione storica è importante anche per chi si occupa di bioetica. Non si può semplicemente bloccare la scienza, benché certe sue realizzazioni ci preoccupino. Piuttosto, bisognerà chiedere alla scienza di abbandonare il suo trionfalismo e di rendersi conto degli effetti negativi che accompagnano inevitabilmente il suo cammino. Alla scienza dobbiamo chiedere di impegnarsi anche a eliminare gli effetti perversi che produce.

Il lavoro dello storico della medicina, filtrato dalla sua esperienza personale, appare del tutto diverso dallo stereotipo che lo identifica con l’erudito un po’ pedante, sepolto tra vecchie carte, a occuparsi di cose che non interessano nessuno. Lei ne fa una disciplina attiva, anzi combattiva.

M.G. Il cambiamento di modello è nella forza delle cose, se è vero che l’arma più importante di cui disponiamo è l’informazione: un’arma scientifica, culturale e politica insieme. Lo storico della medicina

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è colui che in campo medico ha più informazioni degli altri. L’influenza degli storici e dei filosofi della medicina sui loro colleghi medici è molto più grande di ciò che si pensa abitualmente. Lo storico della medicina può avere sia un positivo ruolo pedagogico, sia un ruolo di manipolazione, così come avviene per chiunque abbia più informazioni degli altri.

Per questi motivi all’insegnamento della storia della medicina nel curricolo degli studi medici spetta una collocazione che faccia giustizia all’importanza della disciplina. Il valore educativo della storia della medicina è accresciuto oggi dal bisogno di un pensiero unificatore, in presenza delle forti spinte a spezzare la medicina in varie specialità. Un’altra ragione è la rapidità del cambiamento cui è soggetto il sapere medico. Se mio nonno fosse stato medico, cent’anni fa, avrebbe imparato all’università tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno nel resto della sua vita professionale. Oggi non è più così. Quello che si sapeva vent’anni fa, in senso operativo, è già scaduto. La scienza medica è soggetta a un continuo progresso, che non rende necessariamente falso il vecchio sapere, ma lo relativizza. Capire come avviene questa trasformazione è essenziale per un medico che voglia continuare a studiare.

Per queste ragioni ritengo che la storia della medicina sia uno strumento pedagogico indispensabile. In ogni facoltà dovrebbe essere costituito un istituto di storia della medicina per coltivare la disciplina come il suo metodo esige.

Lei si è già espresso contro la concezione riduttiva che, anche quando non fa della storia della medicina un passatempo innocuo, le assegna un ruolo di poco spessore: raccontare la storia della singola specialità (in una concezione positivistica di ascesa, lungo la scala monumentale del sapere, fino alle conoscenze attuali, viste come punto di approdo dopo tanti errori...). Come organizzerebbe, a partire da un profilo alto della disciplina, l’insegnamento della storia della medicina?

M.G. Penso a due corsi separati, con finalità diverse. Un corso di insegnamento propedeutico, concepito come «Introduzione alla medicina», dovrebbe presentare considerazioni sulla malattia e sulla medicina, sui metodi di cure sanitarie, sulle organizzazioni della salute pubblica. Tutti questi problemi generali, che di solito vengono trascurati, hanno un valore fondamentale per ragioni di imprinting. Le prime impressioni sono molto importanti. Lo studente di medicina al primo anno deve imparare formule matematiche e di statistica, studia chimica

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e fisica, vede le ossa e apprende l’anatomia. Tutto questo forma, in un modo che rimane nel tempo. È importante che ci sia una disciplina che mostri allo studente neofita anche il lato storico, filosofico e sociale della medicina. Anche di questo imprinting il futuro medico ha bisogno.

Il secondo livello andrebbe collocato, invece, verso la fine degli studi medici. Ciò perché a questo punto si presuppone che lo studente conosca già il contenuto delle scienze mediche. La storia dell’anatomia e della fisiologia ― ad esempio ― presuppone la conoscenza di queste due discipline. Solo allora si potrà proporre la storia della medicina non in funzione propedeutica di introduzione, ma di vera e propria formazione, secondo il modello che ho esposto.

Riferimenti bibliografici

Berlin I., Il riccio e la volpe, tr.it., Adelphi, Milano, 1986.

Corbellini G., «Mirko Grmek: elogio della storia della medicina», in Tempo Medico, 8 maggio 1991, pp. 8-9.

Grmek M., Psicologia ed epistemologia della ricerca scientifica. Le ricerche tossicologiche di Claude Bernard, tr. it., Episteme, Milano, 1976.

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Grmek M., Aids. Storia di una epidemia attuale, tr. it., Laterza, Roma-Bari, 1989.

Grmek M. (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale. I. Antichità e medioevo, tr. it., Laterza, Roma-Bari, 1993.

Grmek M., «Le antimonie del pensiero medico», in L’Arco di Giano, 6, 1994.