Incontro con Mark Siegler

Sandro Spinsanti

Incontro con Mark Siegler

in L'Arco di Giano, n. 17, 1998, pp. 213-220

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INCONTRO CON MARK SIEGLER

Tra le numerose etichette in circolazione per designare la disciplina che si occupa di applicare la filosofia morale al progresso della biologia e della medicina menta attenzione quella che la presenta come “bioetica clinica”. Qualcuno si domanderà se l’aggettivo “clinica” apposto alla bioetica sia pleonastico, oppure delimiti un ambito specifico. L’interrogativo è stato posto esplicitamente già qualche anno fa dalla rivista Medicina e Morale. Un editoriale proponeva una definizione di bioetica clinica, differenziandola dalla bioetica tout court e descrivendo la prima come bioetica con la minuscola, mentre la seconda sarebbe una Bioetica con la maiuscola. Secondo questa distinzione, la Bioetica stabilisce i principi, sviluppa le argomentazioni e determina le norme comportamentali alle quali è tenuta a conformarsi un’azione in ambito biomedico per qualificarsi come etica; a sua volta la bioetica clinica ― come bioetica con la minuscola! ― si occupa di applicare tutto ciò al letto del malato. In risposta all’editoriale, un illustre medico internista, Costantino Iandolo si opponeva a questa definizione, rivendicando per la bioetica clinica un ruolo più attivo, non di semplice esecutore di quanto è stato stabilito da un’istanza accademica posta più in alto. Dopo un paio di scambi, il dibattito si arenò, senza alcun visibile cambiamento delle posizioni iniziali.

È bene tener presente questa vicenda mentre ci disponiamo a incontrare

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Mark Siegler. Pur con tutta la diversità del contesto culturale in cui nasce il suo contributo a riflettere sulla nuova medicina, le coordinate principali presentano una notevole somiglianza con lo scenario precedente evocato: da una parte il gruppetto, dapprima timido e poi sempre più sicuro, degli speculativi dell’etica, che dettano le regole; dall’altra i clinici, talvolta desiderosi di lasciarsi indottrinare, talaltra insofferenti rispetto a un ruolo subalterno e desiderosi di rivendicare la loro autonomia. Ai cimici chiamati a prendere posizione rispetto ai teorici della bioetica appartiene Mark Siegler, dell’università di Chicago. L’occasione per incontrarlo è fornita dal simposio “Medical bioethics applied to biotechnologies”, organizzato nel giugno 1997 a Santa Margherita di Pula (Cagliari) dall’Accademia nazionale di medicina, che ha instaurato un rapporto privilegiato con il Center for clinical medical ethics della Pritzker School of medicine, di Chicago, diretto da Mark Siegler. In occasione del simposio lo abbiamo pregato di precisare, dal suo punto di vista, il rapporto tra bioetica e bioetica clinica.

Come si è sviluppato il rapporto tra la bioetica formale, in quanto disciplina filosofica, e il mondo dei clinici nel contesto culturale americano?

Quando, da circa una ventina d’anni, dall’etica applicata si è evidenziato e ha preso sempre più rilievo il settore che si occupa della biologia e della medicina, la leadership in breve volger di tempo è passata dai teologi ai filosofi. L’impegno umanistico in nome della fede religiosa ha svolto un ruolo importante nel movimento volto a riportare i valori umani all’interno della pratica della medicina e delle scienze della vita.

Basti pensare al contributo della Society for Health and Human Values, particolarmente sostenuta dalla chiesa presbiteriana. Figure di teologi di prima grandezza appartengono alla prima generazione di studiosi che si sono occupati di bioetica. Basti pensare a Bernhard Häring e Richard McCormick tra i cattolici e a Paul Ramsey, James Gustafson, Stanley Hauerwas e James Childress tra i protestanti. Ma la disciplina è andata sempre più sviluppandosi all’insegna della filosofia morale, mentre l’articolazione religiosa del discorso è stata relegata nell’ambito privato dell’esperienza morale. Negli Stati Uniti non abbiamo un fenomeno come la contrapposizione tra bioetica laica e bioetica religiosa, che ho imparato a conoscere in Italia. La bioetica si è collocata nelle facoltà di filosofia e ha cominciato a essere coltivata, con successo, da un numero crescente di filosofi di professione.

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Dalla sua descrizione mi sembra di capire che questa evoluzione non è stata salutata con entusiasmo dai clinici.

Forse ad alcuni l’evoluzione è risultata gradita. Io mi colloco, invece, tra coloro che si sono opposti al prevalere di un'etica basata su direttive, comprese quelle elaborate da organismi molto qualificati ― basti pensare per gli Stati Uniti alla validissima produzione di linee guida per diversi ambiti ad opera sia della Commissione Nazionale (1974-1978) sia della Commissione Presidenziale (1980-1983) ― e da studiosi di bioetica di indiscussa competenza. Sono per un’etica governata da decisioni prese in base alla situazione. Ciò rispecchia più fedelmente l’esperienza propria del medico. L’etica basata sulle direttive, inoltre, rischia di deformare il profilo dei doveri del medico. Si pensi ai dilemmi e conflitti in cui si trovano i medici che assistono i morenti. L’enorme complessità morale del prendersi cura dei pazienti in queste condizioni, combinata con i meccanismi burocratici che tendono a mettere sotto accusa i medici, può produrre un sistema in cui i medici che agiscono a vantaggio dei loro pazienti ― o che rispettano i loro desideri ― si possono trovare incriminati di assassinio, mentre i medici che agiscono per evitare sanzioni legali e amministrative lo fanno a spese del loro giudizio professionale e del benessere del paziente.

In diverse occasioni lei ha espresso il rammarico per il fatto che i teologi non hanno più un ruolo centrale nell’ambito dell’etica medica (almeno se ci si riferisce alla situazione attuale americana). La sua è forse una nostalgia da credente, che vorrebbe vedere la guida dei comportamenti umani affidata a mani ecclesiastiche?

Niente affatto: è in nome dell’etica medica che esprimo le mie preoccupazioni nel vedere la disciplina affidata a giuristi e a filosofi. L’etica medica formulata dai teologi tende a sottolineare il senso di appartenenza dell’individuo alla comunità e le responsabilità dei medici sia nei confronti degli individui, sia verso la comunità. Il principio morale di responsabilità di impronta teologica si esprime in un’etica che comprende il dare e il ricevere, il prendersi cura e offrire aiuto. In ciò la religione differisce dall’ordine morale proposto dalla filosofia e dal diritto. Benché la religione parli in modo allegorico, lirico ed emotivo, parla spesso proprio di ciò che è più reale. E ciò contrasta con le espressioni usate dagli avvocati e dai filosofi di professione, che hanno sviluppato un discorso secolare e freddamente analitico. Il linguaggio morale della bioetica si è allontanato dai modi espressivi usati dai

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pazienti e dalle famiglie, e che sembrano più appropriati alle decisioni cruciali che hanno a che fare con la vita e con la morte. Non sto suggerendo di sostituire l’etica medica con la religione, ma che l’etica medica ― e la pratica stessa della medicina ― dovrebbero essere capaci di capire e di sentirsi a proprio agio con modi espressivi simili a quelli religiosi, oltre che con il modo razionale e analitico.

La medicina ha bisogno della religione per essere capace di rispondere a certe discussioni dell’esperienza vissuta? Oppure c’è nella tradizione stessa della medicina qualche elemento simpatetico con questa esperienza?

Tradizionalmente c’è stata una stretta associazione tra il pensiero religioso e il pensiero medico. La separazione tra la religione e la medicina è cominciata, a mio avviso, con la bioetica americana e la relativa influenza degli avvocati, dei filosofi e delle modalità di pensiero razionale e analitico, che hanno accelerato la burocratizzazione della medicina. Un’analisi storica più completa non può mancare di rilevare che da almeno tre secoli si stava andando in questa direzione, con la scelta progressiva delle funzioni tecniche di cura e il parallelo declino del ruolo umanitario della medicina, che si esprime nel prendersi cura del malato nell’insieme dei suoi bisogni. La tradizione del prendersi cura, in quanto opposta alla preoccupazione scientifica e curativa, esisteva anche in medicina. Essa si esprime sinteticamente nella categoria di “alleanza” tra il medico e il malato e implica giustizia e correttezza, fedeltà e lealtà, sacralità della vita e carità: tutti concetti di derivazione religiosa.

Più o meno in epoca illuminista questi ruoli cominciarono a cambiare e il medico assume una funzione esclusiva di cura. Il modello è stato ulteriormente rinforzato dalla cultura nata dalla rivoluzione scientifica nei secoli XIX e XX, così che il modello dominante nel sistema sanitario odierno è quello del medico come scienziato o tecnico, impegnato nella battaglia contro la malattia. Un aspetto secondario non previsto di questo sviluppo della medicina curativa è stato l’indebolimento della tradizione del prendersi cura. Malgrado 25-30 anni di dichiarazioni e di sforzi da parte di educatori e di umanisti medici, non si vede ancora un ritorno a una medicina centrata sul paziente.

Il problema centrale può essere esposto con una alternativa: stiamo andando verso una medicina di amici o verso una medicina di estranei ? Se la medicina è concepita come una attività tra estranei, se suscita sospetto e sfiducia da parte dei pazienti e dei medici, sarà regolata con uno sforzo di

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assicurare gli standard minimi per il tipo di fiducia e confidenza che esisteva m passato. Ma sarebbe più auspicabile riportare l’etica medica al modello teologico di “ alleanza ” e incoraggiare lo sviluppo di una relazione che includa elementi di amicizia, fiducia e fedeltà alle persone

È possibile, senza snaturare il rapporto clinico, renderlo più aperto ai valori del paziente, che includono quelli religiosi, ma non si limitano ad essi?

Basterebbe che, nel raccogliere l’anamnesi, si aggiungessero delle domande che inducano i pazienti, in modo non intrusivo, a parlare delle loro credenze e tradizioni. Fin troppo spesso scopriamo che non comprendiamo realmente 1 valori e le tradizioni dei pazienti finché la situazione non diventa critica, talvolta finché il paziente non è capace di farceli conoscere. Non si tratta solo della religione. Ignoriamo molti aspetti degli individui, tutto ciò che identifica il paziente come una persona, piuttosto che come un corpo.

A questo proposito ci spettano diversi compiti. Dobbiamo dimostrare che una medicina centrata sul paziente è più efficace; dobbiamo definire il ventaglio dei valori che permettono una piena comprensione della persona e mostrare che per molti pazienti le credenze religiose, le tradizioni e i valori sono una componente importante del quadro nel suo insieme. Poi dobbiamo sviluppare delle strategie che permettono ai nostri colleghi, più orientati nel senso della scienza medica, di prendere in considerazione quei valori al letto del malato.

L’insoddisfazione per la bioetica standard, basata sui principi, e l’esigenza di un metodo alternativo, più vicino alla pratica clinica, hanno prodotto qualche risultato che possa essere considerato un primo passo in un’altra direzione?

La ricerca di un metodo per la bioetica clinica mi ha portato ad associarmi a due altri studiosi che, pur muovendo da orizzonti diversi dal mio, sentivano alla stessa maniera l’esigenza del cambiamento. Insieme a William Winslade, un giurista e psichiatra della facoltà di medicina di Galveston, in Texas, e Albert Jonsen, teologo e storico della medicina dell’università di Seattle, abbiamo messo a punto un metodo, che abbiamo presentato come un “ approccio pratico alle decisioni etiche in medicina clinica ”. Il libro ― Clinical Ethics ― è apparso nel 1982 e ha avuto successo, tanto che nel gennaio di quest’anno è apparsa la quarta edizione.

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Nel metodo che abbiamo proposto i casi hanno una importanza centrale. Non ii caso interessante o spettacolare, clic può essere occasionalmente utilizzato come illustrazione di un problema, bensì il caso come matrice del problema e della sua soluzione. L’etica clinica m questa prospettiva consiste nella identificazione, nell’analisi e nella soluzione di problemi morali che sorgono nella cura di un determinato paziente: in generale, una buona medicina clinica è una medicina etica. Invece di seguire l’istinto filosofico che porta a lavorare di pialla sui problemi particolari che nascono da un concreto caso clinico fino a ridurli a un chiaro conflitto di principi, il nostro metodo aiuta a far emergere il complesso intreccio di elementi emotivi, sociali ed economici che molti casi contengono. Clinical Ethics affronta, infatti, ogni caso analizzando i fatti che costituiscono i quattro tratti essenziali di ogni situazione clinica: le indicazioni mediche, le preferenze del paziente, la qualità della vita e i fattori socioeconomici esterni.

Abbiamo cercato di reagire a chi ha canalizzato il movimento della bioetica verso teorizzazioni astratte, fornendo un metodo per risolvere i problemi etici in medicina in modo concreto. Per esempio: come dovrebbe un medico trattare un paziente che ha un arresto respiratorio, diventa anossico e non si risveglia più dal coma? Quale dovrebbe essere il ruolo della famiglia in questa decisione? La presenza o l’assenza di una malattia soggiacente influenza questo processo decisionale? Oppure: a un diabetico obeso che rifiuta di prendere l’insulina, di attenersi alla dieta e di curare le ulcere del piede, si deve offrire la dialisi cronica, in caso di blocco renale? Clinical Ethics propone una metodologia per considerare le vane opzioni nella gestione di simili problemi, che presentano difficoltà dal punto di vista sia clinico che etico.

Il metodo presuppone che il medico sia lì non per fare discussioni filosofiche ma per prendere decisioni. L’etica clinica non si limita a discutere o analizzare problemi etici, ma offre consigli per la decisione, nella tradizione del consulto medico. Il consulente porta al medico non solo una informazione più ampia, ma un’altra prospettiva.

In uno studio già dell’inizio degli anni ’80, lei proponeva due diversi modelli per concettualizzare il rapporto medico-paziente, che riportava, rispettivamente, a una medicina tra estranei e a una tra intimi. Guardando retrospettivamente l’evoluzione della pratica medica negli Stati Uniti, quale ritiene abbia avuto il sopravvento?

La distinzione si riferiva, in generale, a due modalità di rapporto che

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riscontriamo in diversi ambiti. Quando abbiamo a che fare con degli estranei, le regole e le procedure diventano molto importanti, e il controllo ha il primato rispetto alla fiducia. In assenza di una conoscenza reciproca e di valori condivisi, gli estranei si affidano alle procedure per mantenere il controllo. Quando invece siamo di fronte a rapporti di intimità, le parti sanno quali valori condividono e quali no. Le regole formali, sostenute da sanzioni, possono non essere necessarie; anzi, rischiano di essere dannose per la relazione. Invece del controllo abbiamo la fiducia che l’altro agirà in accordo con i principi morali condivisi.

Ebbene, se applichiamo questo schema al rapporto medico-paziente, temo che quello che chiamiamo etica medica sia focalizzato sul modello della relazione tra estranei, nel quale non si presuppone mai che i pazienti, le famiglie e i professionisti sanitari condividano gli stessi obiettivi. Almeno questo mi sembra il caso della medicina americana.

Siccome abbiamo concepito la medicina come una pratica tra estranei, abbiamo scelto di controllarla e regolarla mediante regole legali ed etiche che cercano di fornire almeno degli standard minimi. Questi hanno sostituito la fiducia che guidava prima i rapporti con il medico. Si innesca così una spirale verso il basso: la diffidenza incoraggia regole e norme, che invece di ispirare più fiducia portano al sospetto reciproco e a recriminazioni tra medici e pazienti.

Lei ritiene che i cultori di bioetica ― che sempre più spesso vengono ormai chiamati bioeticisti ― siano i responsabili di tale sviluppo negativo?

Sarebbe un’affermazione eccessiva. Vorrei dire che, in generale, dipende da come sono raccontate le storie. Ora, è vero che lo scenario dei rapporti medico-paziente si è modificato sostanzialmente sotto la spinta di storie esemplari, che hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica. Una di queste storie è quella di Karen Ann Quilan (che peraltro ha ampiamente superato i confini nazionali degli Stati Uniti). A seconda delle parti della stona che si decide di mettere in risalto, se ne possono ricavare diversi significati.

Una versione della storia è quella che evidenzia le procedure giudiziarie, che hanno il loro vertice nella decisione della Corte suprema del New Jersey di riconoscere che il diritto, costituzionalmente protetto, alla “privacy” include il diritto di rinunciare ai trattamenti medici, in certe circostanze. Parte

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integrante di questa versione della storia è la ricaduta del diritto riconosciuto alla “privacy" sulla pratica clinica, con l’uso di giudizi sostitutivi per pazienti in stato di incapacità, il ricorso ai testamenti biologici (living will) e altre forme di direttive anticipate, le procedure relative all’interruzione dei trattamenti medici. Bisogna riconoscere che, dopo il 1976, il dibattito sulle decisioni cliniche relative ai pazienti incapaci di intendere e di volere è uscito dagli ambiti accademici per diventare un discorso pubblico.

Il lato legale della storia Quinlan non è, tuttavia, tutta la storia. Esiste un’altra parte, che non è fatta oggetto di solito di analisi mediche, legali o etiche. Mi riferisco al fatto che, dopo la decisione dei coniugi Quinlan di staccare Mary Ann dal respiratore, la ragazza sopravvisse una decina d’anni. Durante questo tempo continuò ad avere cure infermieristiche accurate e un amoroso sostegno da parte della famiglia.

Mentre la prima storia, quella dei procedimenti legali, sottolinea i diritti individuali, la storia non raccontata dei dieci anni di assistenza ci parla del prendersi cura degli handicappati, dei malati cronici, dei ritardati mentali e, nei casi estremi come quello di Mary Ann, delle persone in stato vegetativo permanente, quali funzioni dell’assistenza medica e infermieristica. Anche quando non si può guarire o produrre miglioramenti funzionali, il prendersi cura e la compassione sono parte costitutiva dei fini e degli ideali tradizionali della medicina.

Sarebbe auspicabile raccontare tutt’e due le versioni della storia Quinlan, imparare da tutt’e due e integrarle nella nostra pratica clinica. Purtroppo l’anno delle dispute legali ― pur importanti, perché costituiscono una pietra miliare nell’evoluzione dei nostri diritti ― è l’unico che è rimasto nella nostra memoria, e nei libri di bioetica. A mio avviso non è meno importante ciò che è avvenuto nei dieci anni successivi, cioè come ci si è presi cura del corpo di Mary Ann e del ruolo che hanno avuto in questa parte nascosta della stona la famiglia, i professionisti sanitari, le istituzioni che hanno assicurato l’assistenza.

In conclusione, mi rattrista pensare che l’eredità di Karen Ann Quinlan sia stata limitata a stabilire i precedenti legali o le regole etiche per interrompere i trattamenti vitali a pazienti in condizioni estreme. La sua eredità completa include anche il ruolo della famiglia e della comunità, i valori umani e sociali e gli standard medici che permettono di continuare ad assicurare l’assistenza alle persone, per quanto grave sia il loro handicap.