La bioetica – Biografie per una disciplina

Sandro Spinsanti

LA BIOETICA

Biografie per una disciplina

Franco Angeli, Milano 1995

pp. 287

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INDICE

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7        Introduzione - La bioetica al tempo dei pionieri

21      1. Francese Abel: l’etica religiosa, senza la vocazione del gendarme

31      2. Jean Bernard: la bioetica per opporsi all’immoralità razionale

42      3. Daniel Callahan: pensare il limite

52      4. Ronald Carson: educarsi all’immaginazione morale

62      5. Maurice De Wachter: a scuola di spirito di tolleranza

70      6. Dietrich von Engelhardt: una bioetica in dialogo con le arti

80      7. H. Tristam Engelhardt: se tutto il mondo fosse la repubblica del Texas

92      8. John Flechter: il posto dell’etica in un centro ospedaliero di ricerca

100    9. Diego Gracia: dall’“olfatto morale” alla ricerca di un metodo

111    10. Albert Jonsen: l’etica nata “guardando i dottori”

125    11. George Kanoti: la bioetica in camice bianco

133    12. Rihito Kimura: l’Estremo Oriente affacciato sull’Occidente

140    13. Pedro Laín Entralgo: l’antropologia medica come via alla bioetica

150    14. Nicole Léry: l’etica, al quotidiano

159    15. Robert Levine: nuove regole per la ricerca

167    16. José Alberto Mainetti: simboli dell’antichità classica in America Latina

177    17. Jean-François Malherbe: un filosofo tra i medici

186    18. Thomas Murray: scelte personali, responsabilità comunitarie

197    19. Edmund Pellegrino: nella tradizione del medico-filosofo

208    20. Van Rensselaer Potter: bioetica globale, ovvero: la saggezza per sopravvivere

219    21. Ruth Purtilo: una nuova professione di aiuto

220    22. Warren Reich: l’architetto dell’Enciclopedia

238    23. David Roy: l’etica di casa nella ricerca clinica

247    24. Peter Singer: segno di contraddizione

257    25. Patrick Verspieren: l’etica medica non è l’etica dei medici

267    Indice degli argomenti

269    Indice dei nomi

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Introduzione

LA BIOETICA AL TEMPO DEI PIONIERI

Perché un’esplorazione biografica della bioetica

La bioetica è un movimento di idee. Nasce dal sommovimento che i progressi della biologia e della medicina hanno provocato nelle professioni sanitarie e nei rapporti che intercorrono tra i professionisti, i pazienti e la società intera; esprime le preoccupazioni, il bisogno di delimitare i comportamenti socialmente accettabili e di ridefinire le regole del gioco; avanza proposte di valori ideali come guida e di norme condivise. Il dibattito sulle idee coinvolge un numero crescente di studiosi, straripa nei mass media, appassiona l’opinione pubblica. All’inizio degli anni ’70 bioetica era solo un neologismo. Nel giro di pochi anni la parola si è imposta come contenitore di questa vasta revisione delle certezze, dei comportamenti, delle regole nell’ambito della cura della salute e dei rapporti dell’uomo con la vita nel suo insieme.

La bioetica ha poco più di vent’anni: almeno se ci basiamo sulla storia della parola, che è stata coniata nel 1971. L’indicazione cronologica potrebbe offrire una metafora per numerose variazioni retoriche. Di questa creatura ventenne si potrebbero rintracciare i genitori e descrivere le crisi di crescita; dopo aver individuato le malattie infantili e adolescenziali, si potrebbero indicare le condizioni per il passaggio alla maggiore età. Con meno enfasi, ci limitiamo a osservare che la bioetica sta diventando adulta. Il torrente magmatico degli inizi tende già a solidificarsi in sistema.

Il periodo carismatico sta cedendo il primato all’istituzione. Per analogia, possiamo estendere alla bioetica quanto la danzatrice e coreografa Martha Graham diceva del teatro: era un verbo, prima di diventare un nome. Anche la bioetica sta attraversando la transizione da verbo a nome. Al periodo del farsi, alla fluidità del movimento in statu nascenti, sta subentrando la struttura che si perpetua.

Il senso di transizione si coglie anche nel profilo generale di coloro

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che si occupano della disciplina: sta nascendo una seconda generazione di studiosi ed esperti di bioetica. La prima generazione è quella di coloro che la bioetica l’hanno creata. Non dal nulla, s’intende. Gli studiosi degli inizi hanno trasformato l’etica medica tradizionale, la deontologia delle professioni sanitarie, la base fornita dalle morali confessionali e dai sistemi etici teorizzati dalla filosofia morale. I pionieri della bioetica erano all'origine inquadrati in discipline come la filosofia, la teologia, il diritto, la storia della medicina, la medicina legale, la psicologia, l’antropologia. La bioetica è cresciuta perché gli studiosi si sono mossi dalla loro nicchia culturale e sono diventati altra cosa rispetto a ciò che erano per formazione e per collocazione accademica.

Oggi si sta formando invece una seconda generazione di esperti di bioetica che ha il vantaggio, rispetto alla precedente, di trovare la disciplina già strutturata. Nessuno dei pionieri avrebbe potuto dire, nel periodo dei fervori giovanili, che da grande si sarebbe dedicato alla bioetica! La seconda generazione si rivolge alla prima avanzando richieste relative a progetti personali: vogliono formarsi per la carriera accademica in bioetica o per la professione di “bioeticista”. Corsi, master e specializzazioni rendono già oggi possibile dedicarsi in modo specifico alla bioetica. La disciplina è diventata una concreta possibilità di lavoro.

Questo libro si colloca deliberatamente nel segmento di transizione dalla prima alla seconda generazione in bioetica. Senza la pretesa di tracciare un profilo storico della disciplina, e tanto meno di presentarla in modo sistematico, vuol fissare nella memoria il fervore delle origini. Riannodando con lo slancio e l’euforia degli inizi, intende consegnare alla generazione successiva, che si dedica professionalmente alla bioetica, un riflesso dell’epoca pionieristica della bioetica. E lo vuol fare mantenendosi il più possibile vicino alla narrazione del vissuto. Il tempo dei pionieri rivive in una galleria di ritratti, che riflettono altrettanti percorsi singolari alla scoperta di una terra che non aveva ancora contorni, e neppure un nome.

Abbiamo rivolto la nostra attenzione a un gruppo di studiosi che col loro impegno hanno reso possibile la nascita della nuova disciplina. Attraverso il filtro delle loro esperienze personali, abbiamo cercato di far emergere la sostanza stessa della bioetica da quel coagulo di attese, progetti, emozioni che solo la biografia può cogliere.

Nella redazione finale del libro non sono i pionieri della bioetica che raccontano la loro storia in prima persona. L’autore lo fa per loro. E mescola le loro idee ai fatti. Raramente agli aneddoti (non vuol entrare nella bioetica passando per la porta di servizio...).

L’approccio biografico ci permette di non limitare l’esposizione a

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una rassegna ordinata delle idee. Proponendosi di restituire il sapore della vita che ha prodotto le idee, il libro spera di attirare l’attenzione anche di quanti non si sentirebbero incoraggiati a prendere in mano un volume di bioetica con la prospettiva di una esigente lettura filosofica. Gli esperti di bioetica sono già familiarizzati con i volumi, le riviste, le enciclopedie che trattano la disciplina. Questo libro vuol aprire uno spiraglio sulla bioetica non a chi se ne occupa per professione, ma al lettore colto e curioso. I riferimenti bibliografici alla fine di ogni ritratto permettono, a chi lo desideri, il tradizionale percorso attraverso le pubblicazioni in cui si è espresso il pensiero dello studioso.

L’approccio biografico alla bioetica ha il vantaggio di farci cogliere che dietro le idee ci sono uomini come protagonisti. Esso è anche adatto a far emergere le conflittualità che convivono all’interno delle persone stesse, talvolta ben più profonde di quelle che determinano gli scontri tra sistemi ideologici. E se qualcuno prova una certa irritazione nei confronti degli esperti di bioetica, che il linguaggio dei media tende a far passare per maestri piuttosto saccenti di valori universali, può forse trovare una più profonda conciliazione attraverso il racconto del loro percorso personale, che comprende anche difficoltà, ostacoli, realizzazioni parziali, errori.

L’approccio biografico sottolinea anche, indirettamente, il ruolo di personaggi pubblici che gli studiosi di bioetica sono andati acquisendo. I media hanno attribuito loro la funzione di opinionisti. Prima che emergessero questi personaggi, quando un evento biomedico poneva dei punti interrogativi i giornalisti si accontentavano di sollecitare un commento da un teologo o da un pastore. Ora molto probabilmente vorranno sentire un “bioeticista”, identificato come il competente per questo tipo di problemi. Il bioeticista all’altro capo del telefono potrà essere tentato di fornire una citazione veloce e stampabile, del genere che sollecitano i giornalisti ― quelle risposte che assomigliano allo “sparare dalla fondina” proprio dei più abili cowboy... ―. Ma qualunque sia il pericolo di indebita semplificazione e di riduzionismi, la nascita degli esperti di bioetica come personaggi pubblici rimanda a un cambiamento fondamentale intercorso con la nascita della disciplina: i problemi etici riferiti ai poteri sulla vita non sono più trattati nel segreto dei confessionali o tra circoli accademici ristretti, ma in pubblico.

Gli inclusi e gli esclusi

Per mettere qualche elemento autobiografico in un libro che si occupa di biografie, vorrei riferire che l’abbozzo iniziale del progetto

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ha preso forma negli Stati Uniti. Un periodo sabbatico, libero da impegni istituzionali, trascorso per la maggior parte del tempo alla Cleveland Clinic Foundation di Cleveland e in parte allo Hastings Center, ha fornito il contesto. La relativa vicinanza di tanti studiosi di bioetica e di centri specializzati incitava all’audacia: il progetto di un libro sui pionieri della bioetica avrebbe fornito un buon motivo per una visita e una conoscenza diretta. Tra le difficoltà da mettere in conto c’era quella di coinvolgere nel progetto gli studiosi di bioetica identificati come pionieri, chiedendo loro di mettere a disposizione del tempo per un incontro.

Gli esperti di bioetica sono tra i professionisti più occupati, ai nostri giorni. Non solo agli occhi delle loro segretarie che, per espletare la loro opera di schermatura nei confronti degli importuni, sono pronte a scoraggiare ogni contatto, assicurando che il professore è “very busy”... Indaffarati lo sono davvero. Ancora relativamente scarsi di numero, riescono con difficoltà a far fronte a una domanda crescente. I mass media se li contendono; le facoltà di medicina e le altre sedi di insegnamento rivolgono loro richieste pressanti; i comitati di etica, che crescono come funghi negli ospedali e nelle istituzioni di ricerca, li sollecitano senza posa. Bisogna poi considerare i convegni: non c’è centro o associazione culturale che non si ritenga obbligata a organizzare il suo convegno, simposio o seminario sulla bioetica. A livello locale, nazionale o internazionale. Senza dimenticare le riviste, che chiedono di collaborare a numeri unici o dossier sulla tematica, diventata di moda. E le pressioni delle case editrici, che intendono sfruttare un filone caldo, buttando sul mercato tempestivamente libri di bioetica.

Ed ecco i nostri esperti di bioetica presi in un vortice che assomiglia a un moto perpetuo: rilasciano dichiarazioni e interviste, tengono lezioni, partecipano a tavole rotonde, scrivono articoli e libri, presiedono comitati. Chi chiede loro del tempo inevitabilmente si sente in colpa. E non si meraviglia se le richieste non ricevono risposta. Una candida eccezione è costituita da un giapponese che pubblica una Newsletter a nome di un “Eubios Ethics Institute”. In un recente numero del bollettino si domandava “quanto (bio)etici fossero i bioeticisti”. Come principale atto di accusa riferiva di aver compilato un elenco dei bioeticisti che, negli ultimi cinque anni, non avevano risposto a lettere e libri omaggio da lui inviati. A suo avviso, chi non risponde non solo manca di educazione, ma non merita fiducia per la validità del suo pensiero in bioetica...

Personalmente, non ero ottimista sulle risposte a una lettera circolare con cui esponevo il progetto e chiedevo un incontro. Con mia sorpresa, invece, tutti gli studiosi contattati si sono dichiarati disponibili. Lusingati alcuni di essere considerati pionieri della bioetica; schermendosi con humor altri (“Veramente non mi sembrava di essere poi così

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vecchio...!”). È iniziato così un lungo periodo di viaggi attraverso gli Stati Uniti, completato successivamente da altri in Europa. Tutti gli studiosi compresi nel progetto sono stati incontrati personalmente. Gli incontri sono durati da poche ore ad alcuni giorni. Il materiale bibliografico è stato completato da informazioni dirette, raccolte nel corso di un approfondito colloquio.

Scorrendo la lista dei 25 ritratti, attira l’attenzione il numero degli studiosi di bioetica nordamericani, che costituiscono circa la metà dei pionieri considerati. L’origine del progetto dà ragione, in parte, di questo eccesso. L’altro motivo, più sostanziale, è costituito dal fatto che la bioetica, senza essere un prodotto americano, si è formata e diffusa soprattutto negli Stati Uniti. È ovvio che qui si trovi il maggior numero di pionieri.

L’altra metà dei ritratti ci permette di fare il giro del mondo. Oltre ai numerosi europei, troviamo studiosi originali di bioetica in Giappone, in Australia, in Canada, in Sud America.

Sia i criteri di inclusione che quelli di esclusione hanno una buona percentuale di soggettività, i cui meriti e demeriti l’autore si assume con piena consapevolezza. Un criterio oggettivo di esclusione è stato quello di parlare solo degli studiosi viventi. Per quanto giovane sia la bioetica, alcuni dei suoi pionieri più celebri sono deceduti. È un obbligo di riconoscenza ricordare almeno quelli cui la bioetica deve di più. André Hellegers, in primo luogo.

Tracciandone un ritratto sulla base di una intervista, Maurice de Wachter riassumeva il cammino di Hellegers con un titolo deamicisiano: “Dalle Ande alla bioetica”. Si riferiva alle ricerche che il ginecologo olandese aveva condotto sulle alte montagne del Perù per studiare, mediante la fisiologia comparativa, le condizioni di sviluppo del feto, sottoposto in utero a una forma di ipossemia analoga a quella delle grandi altezze. Aveva scoperto che il feto sceglie, in ogni circostanza, “il male minore”: comincia con l’adattarsi; ma, una volta arrivato al limite della sua capacità di adattamento, seleziona tra i mali presenti quello meno nocivo. È un principio metodico che Hellegers amava applicare, per contrasto, alla bioetica.

A lui la disciplina deve la creazione del Kennedy Institute di Washington. Nel 1966 Hellegers era passato dalla Johns Hopkins University di Baltimora a Georgetown, nella prestigiosa università retta dai gesuiti. L’ostetrico olandese godeva di una buona fama tanto sul versante della scienza quanto su quello della religione, tanto che nel 1964 Paolo VI lo aveva chiamato a far parte della commissione pontificia sul controllo delle nascite. La famiglia Kennedy si lasciò convincere

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da Hellegers a finanziare una iniziativa che studiasse la biologia della riproduzione dal punto di vista etico.

La nascita del Kennedy Institute è dovuta a uno di quei felici intrecci che talvolta il caso e la necessità sanno provvedere. Nel 1969 era successo al Johns Hopkins Hospital un fatto riconducibile al problema della legittimità di trattamenti e astensione da trattamenti in medicina: un bambino con sindrome di Down non era stato sottoposto, per espresso desiderio dei genitori, a un’operazione chirurgica necessaria, cosicché era deceduto. Sulla vicenda venne girato un documentario, che fu proiettato nel corso di un simposio tenuto alla Georgetown University nell’ottobre del 1971 su “Human rights, retardation and research”. Il simposio era sponsorizzato da una fondazione creata dai Kennedy.

Il film fece un certo scalpore. Era riuscito a imporre all’attenzione pubblica il nuovo tipo di problemi morali che i progressi della medicina stavano creando. Al caso faceva riscontro la necessità di riflettere sistematicamente sulla dimensione etica dei nuovi poteri sulla vita. In occasione del simposio la Georgetown University annunciò la creazione di un Istituto che collegasse la biologia con l’etica, in quella che sarà ormai chiamata bioetica. Nasceva così il “Joseph and Rose Kennedy Institute for the study of human reproduction and bioethics”. Hellegers ne fu nominato direttore.

Il progetto messo in moto da Hellegers andava ben al di là delle aspirazioni della cattolica famiglia Kennedy, che mirava a conciliare ricerca scientifica e morale. Anche quando il Kennedy Institute si era sviluppato come il primo centro di riferimento per la bioetica, i membri della famiglia Kennedy in visita continuavano a domandare al dott. Hellegers dove fossero i laboratori: nei loro intenti l’istituto avrebbe dovuto favorire il matrimonio tra la ricerca biologica di punta e la morale cattolica. Di fatto, dietro il suo impulso, l’istituto doveva diventare un “laboratorio” di nuovo genere, destinato a produrre una ricerca tutta particolare: la bioetica, appunto. Hellegers è deceduto, prematuramente, nel 1979, durante un viaggio in Europa.

Il ruolo di pioniere della bioetica spetta indubbiamente anche al teologo Joseph Fletcher, morto nell’ottobre 1991. Il suo libro Medicine and morals, apparso nel 1954, è riconosciuto come un frutto della nuova stagione dell’etica medica, maturato con notevole anticipo. Ma soprattutto influì sulla bioetica come movimento il libro apparso un decennio dopo: Situation ethics: The new morality (1966). Alla nuova etica Fletcher fornì l’etichetta che le permetteva, pur sganciandosi dal legalismo che fa dipendere la moralità dalla conformità a regole e

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norme, di non cadere in un rifiuto totale delle norme stesse, per affidarsi nelle decisioni morali solo alla soggettività.

Per Fletcher, teologo cristiano, l’etica della situazione, di cui si fece paladino, era riconducibile al comandamento dell’amore. L’autentica etica della situazione non nega i valori, ma li subordina sempre all’imperativo categorico dell’amore. La proposta di Fletcher non si riduceva a una vaga esortazione, ma equivaleva a un metodo di risoluzione dei conflitti tra i valori. Il metodo proposto produceva i migliori risultati proprio quando era applicato alle situazioni biomediche. E soprattutto rivelava profonde affinità con i procedimenti che sono familiari ai medici nella pratica clinica.

Nell’articolo sull’“Etica della situazione” che Fletcher scrisse per l'Enciclopedia di Bioetica(1978) curata da Warren Reich, l’analogia è spinta fino al punto da fare del medico un “situazionista” nato.

I medici parlano a volte dell’etica della situazione come ‘clinica’, nel senso di analizzare ogni caso secondo le proprie caratteristiche. Grazie alla loro formazione e alla pratica quotidiana, sono abituati a considerare l’importanza della diagnosi e del trattamento caso per caso. Sanno anche che le ‘leggi’ della scienza medica non si possono applicare categoricamente a tutti i pazienti con una determinata malattia; sono abituati a giudicare ciò che è meglio non tanto riferendosi a principi generali, quanto piuttosto traendo da essi illuminazioni per la loro azione. Centrati sui casi, i clinici respingono l’idea che la medicina debba essere praticata secondo regole morali. Le raccomandazioni sono ben accolte, non lo sono invece le regole morali categoriche.

Forse la rivendicazione della sostanziale identità tra il metodo clinico e il metodo proprio dell’etica della situazione non è ineccepibile dal punto di vista intellettuale. Ciò non toglie che l’etica della situazione sia diventata uno dei metodi preferiti dagli studiosi di bioetica americani e che Fletcher abbia contribuito come pochi a far cadere il rifiuto pregiudiziale da parte dei medici nei confronti dell’etica.

A giudizio unanime, va riconosciuto tra i fondatori della disciplina anche Paul Ramsey (1913-1988). Teologo morale di grande levatura, era tuttavia insofferente dei limiti imposti dalla suddivisione accademica delle aree disciplinari. L’interdisciplinarietà, che diventerà la caratteristica metodologica della bioetica, è stata per Ramsey anzitutto esperienza vissuta. Chiamato a tenere un corso di etica medica all’università di Yale, si preparò al compito trascorrendo un lungo periodo di tempo nel 1968 e 1969, su invito e con i fondi offerti da André Hellegers, nella facoltà di medicina della Georgetown University a Washington. A suo avviso, il teologo non era legittimato a parlare di

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medicina se non condivideva con i professionisti della sanità i percorsi tortuosi delle decisioni cliniche ed etiche.

L’opera che ne nacque, The patient as person, pubblicata nel 1970, conteneva tutti i fermenti del nuovo indirizzo che spostava l’accento dal paternalismo medico al rispetto dei diritti della persona. Anche la sua opera successiva, Ethics at the edges of life, del 1978, coglieva perfettamente i nuovi problemi che la possibilità tecnologica di prolungare la vita poneva alla coscienza.

Anche se Ramsey non etichettava la sua ricerca come bioetica, a buon diritto può essere considerato tra i fondatori della disciplina. L’orizzonte in cui si muoveva era più ampio di quello di una qualsiasi etica religiosa confessionale. Grazie alla sua generosa collaborazione con il Kennedy Institute e con lo Hastings Center, ha contribuito attivamente a dar volto agli inizi della bioetica.

Anche l’Europa può allineare un pioniere della bioetica nel manipolo dei deceduti: l’olandese Paul Sporken (1927-1992). Teologo morale di formazione, ha vissuto consapevolmente la trasformazione che l’ha portato ad articolare il discorso etico diversamente da un moralista di orientamento confessionale. Il suo libro pubblicato nel 1969, Voorlopige diagnose (“Diagnosi provvisoria”) riflette la svolta verso l’etica medica moderna. Rifiuta l’etica come sistema statico e definitivo, da cui dedurre delle norme. La riflessione etico-medica è in continuo sviluppo perché dipende dalla crescita ininterrotta della scienza medica e dalle nuove applicazioni della tecnologia. Per questo, è semplicemente impossibile dare la risposta finale ai problemi presenti in sanità. La risposta morale deve essere, perciò, provvisoria e preliminare.

Il motivo ultimo dell’opposizione all’etica come sistema statico di assiomi e principi è, comunque, l’immagine dell’uomo: l’etica dovrebbe essere centrata sulla persona umana, sul particolare individuo dotato di coscienza che è il responsabile ultimo delle proprie decisioni. Optando per l’accentuazione della responsabilità dell’individuo per le scelte che lo riguardano, Sporken è giunto a rivalutare il rapporto medico-paziente come il dato fondamentale dell’etica medica. Tutti i problemi morali sorgono qui e devono essere risolti nelle interazioni tra il medico e il paziente (purché precedentemente l’interazione paternalistica si sia trasformata in una interazione tra individui uguali e responsabili).

Sporken si è trovato su un fronte di continuo dibattito con la chiesa cattolica, a cui peraltro non ha mai rinunciato di appartenere. Questa, infatti, da una parte opera con un sistema rigido e deduttivo di norme morali; dall’altra ― specialmente nello spirito del concilio Vaticano II ― rivendica l’importanza della coscienza individuale e della responsabilità

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personale. L’etica medica proposta da Sporken riceveva quindi dal sistema dottrinale cattolico contemporaneamente conferme e smentite.

Attraverso una ventina di libri e centinaia di articoli Sporken ha esercitato un’influenza di largo raggio, soprattutto nel mondo culturale tedesco, in cui le sue opere sono state tradotte e molto lette. Ha continuato il suo magistero fino al suo ultimo libro De weg terug (Tornare indietro), apparso nel 1991, in cui ha descritto come riusciva a sopravvivere nella grave malattia cronica che l’aveva colpito e come trovava un significato alla vita malgrado le continue difficoltà respiratorie. Anche per il grande coinvolgimento personale nelle tematiche dell’etica medica molti lo hanno vissuto come un maestro, più che come un docente.

Oltre agli esclusi per necessità, altri indiscussi pionieri della bioetica hanno dovuto essere tralasciati per ragioni contingenti. A cominciare da quella di voler contenere l’ampiezza del volume, per non farlo assomigliare a un Who is Who della bioetica. Una pubblicazione di questo genere, almeno per l’Europa, esiste ed è a disposizione di chi voglia consultarla. Si tratta dell'Annuario europeo di bioetica, pubblicato a cura dell’Associazione Descartes. Vi sono passate in rassegna persone e organismi che, nei paesi appartenenti al Consiglio d’Europa, si occupano di bioetica.

Alla carenza di un’opera di riferimento di questo genere a livello mondiale non poteva e non voleva supplire questo libro. Il quale intende limitarsi a proporre il profilo biografico di 25 pionieri della bioetica internazionalmente riconosciuti. Essendo il numero di coloro cui spetta questo riconoscimento molto maggiore di quello previsto, è stato necessario escludere alcuni studiosi che pur a tale gruppo appartengono di diritto.

A titolo di parziale riparazione, voglio nominare almeno gli studiosi che sono stati originariamente contattati. Tra di essi, alcuni mi hanno dedicato tempo prezioso per una approfondita intervista e mi hanno fornito materiale documentario. La loro esclusione dal libro, per poterlo contenere entro un limite che non scoraggi la lettura, è per questo tanto più dolorosa. Intendo riferirmi a Robert Veatch, attuale direttore del Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University; a James Childress, dell’università della Virginia; a Mark Siegler, dell’università di Chicago, che ha svolto un ruolo pionieristico nello sviluppo dell’etica clinica; a Lawrence O’Connell, direttore del Park Ridge Center di Chicago. Ad Henk ten Have, dell’università Cattolica di Nimega, devo le informazioni relative all’opera di Paul Sporken.

Tra gli studiosi contattati, disponibili a collaborare al libro, voglio menzionare almeno Alexander Capron, condirettore del Pacific Center

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for Health Policy and Ethics, nell’università della California a Los Angeles; Baruch Brody, direttore del Center for Ethics, Medicine and Public Issues, nel Baylor College of Medicine a Houston; Raanan Gillon, direttore dell'Institute of Medical Ethics di Londra e direttore del Journal of Medical Ethics; David Thomasma, professore di etica medica e direttore del programma di medical humanities alla Loyola University di Chicago; Richard McCormick, professore di etica medica all’università di Notre Dame, a South Bend, nell’indiana; Howard Brody, direttore del Center for Ethics and Humanities in the Life Sciences, nella Michigan State University a East Lansing; Eduard Seidler, direttore dell’istituto di storia della medicina a Freiburg in Breisgau. Quanto dire, in pratica, che i pionieri della bioetica rimasti esclusi dal progetto possono fornire una introduzione biografica alla bioetica di altrettanto peso specifico quanto la presente.

Tra le disfunzioni macroscopiche che una scelta casuale di questo genere ha provocato va denunciato anche il grave sbilanciamento nella distribuzione di genere. Potrebbe sembrare che la bioetica sia una occupazione esclusivamente maschile. Se questo è vero per l’Europa, non rispecchia invece la realtà americana. L’inclusione della sola Ruth Purtilo nella galleria dei pionieri americani della bioetica non rende giustizia al fatto che negli Stati Uniti le donne occupano posti di notevole rilievo nella disciplina e hanno contribuito soprattutto a dar volto alla dimensione di consulenza clinica della bioetica. Basti pensare, tra le escluse, ad Haavi Morrein, uno dei primi consulenti di formazione filosofica ad essere stati assunti da un ospedale, e a Ruth Macklin, la dinamica bioeticista clinica newyorkese.

Una parola, infine, circa l’ordine in cui disporre i 25 ritratti biografici. Tra tutti gli ordini possibili ― per aree geografiche o linguistiche, per discipline di origine, per affinità di orientamento ― è stato scelto il più rassicurante e il più innocuo, il più neutrale e il più candidamente soddisfatto della sua palese ingiustizia: l’ordine alfabetico. In pratica, volendo evitare il sospetto di una qualsiasi scala di merito, il migliore degli ordini possibili.

Le questioni aperte

Un libro assolutamente non sistematico, costituito di ritratti biografici, non ha come intento quello di definire i problemi e di pervenire a dei punti fermi. Può, semmai, aiutare a far l’inventario delle tante questioni che rimangono aperte. A cominciare da quelle terminologiche.

Il neologismo “bioetica” è lungi dall’essere universalmente accettato.

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Molti lo rifiutano per principio: in Francia, per esempio, forse per chauvinismo culturale. Ma anche in Inghilterra bioethics suona come un americanismo offensivo per l’orecchio britannico. Altri rifiuti sono sostanziati da ragioni di maggior peso, riferite alla definizione e all’ambito della nuova disciplina.

Rimane la sensazione sgradevole che “bioetica” sia una parola attaccapanni, su cui ognuno appende quello che vuole. Alcuni studiosi piantano paletti e tirano recinzioni del territorio che altri trovano assolutamente arbitrarie. L’immagine dei pionieri non autorizza a pensare a una situazione analoga a quella del Far West: non si tratta di espandersi su una terra di nessuno, o presunta tale, ma di strappare territori ad antiche discipline, come l’etica medica e la morale religiosa, che sono tutt’altro che disposte a lasciarsi espropriare.

Il consenso su una definizione unitaria di bioetica è lungi dall’essere acquisito. Non ci si può risparmiare la fatica di tracciare ogni volta i contorni dell’oggetto. Una fatica produttiva, peraltro, perché evita il pericolo delle sclerotizzazioni.

Sempre a livello terminologico, una accettazione ancor più fredda è stata riservata alla italianizzazione di “bioethicist”, come “bioeticista”. Il rifiuto non dipende solo dalla sgradevolezza fonetica, ma dalle implicazioni che l’adozione del termine comporta: parlando di bioeticisti, infatti, si assume, senza adeguatamente problematizzarla, l’esistenza di una professione specifica nata dalla bioetica, non riconducibile a qualcuna di quelle già esistenti. È un’ipotesi che va quantomeno verificata.

In questo libro si è cercato, per quanto possibile, di non legittimare il termine “bioeticista”, rendendolo preferibilmente con perifrasi, quali cultore o esperto di bioetica. Adottare senz’altro la dizione di “bioeticista” sarebbe stato più spiccio; ma ci ha trattenuto il timore di proporre un termine che potrebbe non essere destinato a imporsi nell’uso linguistico.

Nel periodo di transizione tra la prima e la seconda generazione di esperti di bioetica si pone con acutezza il problema irrisolto di chi possa legittimamente fregiarsi di tale titolo. In America soprattutto questo problema viene discusso come problema della “certificazione”. Si tratta, metaforicamente, di una “patente” che autorizzi a qualificarsi come esperto di bioetica e a proporsi per l’esercizio professionale. Forse in futuro si creerà una risposta a questo problema, in quanto ci saranno strutture accademiche abilitate a conferire il titolo, dopo aver verificato che siano state espletate le condizioni di formazione richieste; ma oggi, a cavallo tra la prima generazione che ha creato se stessa e la seconda che sta cercando una nicchia accademica e uno sbocco professionale, la situazione è ancora molto fluida.

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L’attuale “deregulation” potrebbe far decadere la bioetica tra le cose che ognuno immagina di saper fare, senza aver ricevuto una formazione specifica (come il giornalismo e l’equitazione, secondo la vecchia battuta; la quale aggiunge che, purtroppo, solo il cavallo si sa difendere...). Il problema della certificazione è trasversale a tutte le professioni di aiuto. La medicina lo conosce sotto forma di demarcazione di terapeuti legittimati a esercitare da altri bollati come ciarlatani; la psicoterapia ― professione di recente costituzione ― si deve confrontare con i criteri per differenziare gli psicoterapeuti legittimi dai “selvaggi”.

Con l’emergere di consulenti morali nell’ambito clinico, non legati a specifiche denominazioni religiose, il rischio di intrusioni indebite, improvvisazioni e manipolazioni maldestre aumenta in modo esponenziale. Consapevoli che la regolamentazione delle “patenti” è ancora lontana, ci accontentiamo di registrare l’esistenza del problema, che ci induce a tenere alta la vigilanza.

La proliferazione di esperti di bioetica è un fatto che suscita reazioni ambivalenti. Accanto a quelli che valutano positivamente l’esplosione di interesse per la bioetica e il suo utilizzo pratico come aiuto per le difficili decisioni a cui siamo confrontati in ambito bio-medico, non mancano coloro che esprimono scetticismo nei confronti della bioetica e delle sue istituzioni: comitati, èsperti e consulenti. Le riserve aumentano soprattutto quando la bioetica si delinea come professione. Quando si crea una professione, rivendicando per i suoi membri una competenza specifica e necessaria, inevitabilmente si creano dei non-professionisti incompetenti e dipendenti. Gli esperti di bioetica si propongono pretendendo di saper pensare con chiarezza ai problemi delle scelte cliniche; ciò insinua indirettamente che i non professionisti di bioetica non sappiano pensare abbastanza chiaramente o non sappiamo individuare le vie di soluzione.

Il pericolo è quello di espropriare doppiamente i pazienti: la professione medica li espropria del sapere relativo alla cura della salute, la professione bioetica del sapere morale. Se così dovesse avvenire, sia i medici che i malati dovrebbero cercare di difendere le loro libertà dal nuovo potere che gli esperti di bioetica stanno creando per la loro professione. Quando i mondi delle scelte morali sono colonizzati da una sottodisciplina accademica, ciò può finire per indebolire quella vera comunicazione tra professionisti e non professionisti che costituisce una garanzia per la vita morale delle persone.

Un altro problema di fondo che emerge nella situazione attuale di transizione è quello relativo alla possibilità di parlare di bioetica al singolare.

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Forse è più appropriato parlare di bioetiche. Soprattutto se la nostra considerazione non si restringe ai soli Stati Uniti, ma include la diffusione mondiale del movimento. Il comune denominatore costituito dalla volontà di far fronte ai poteri tremendi e affascinanti della biomedicina dell’èra tecnologica si frastaglia in risposte diverse e non riconducibili all’unità.

Quelle sviluppatesi in Europa non assomigliano alle risposte che ha prodotto l’America. È comune a tutti la sfida insita nel creare etiche normative in una società pluralista; tutti condividono la crescente complessità delle scelte di vita e di morte; tutti sono confrontati con i problemi della scarsità delle risorse per la sanità, della demografia e della qualità della vita. Ma l’Europa sembra più intenzionata ad attingere alla continuità della tradizione, a evitare le trappole del legalismo, a privilegiare nell’etica valori comunitari rispetto a quelli individualistici.

Non sembra incombere il pericolo che le bioetiche che attualmente stanno spuntando con diverse fisionomie e accentuazioni siano “normalizzate” in un’unica disciplina. Il fruttuoso permanere della diversità lo dobbiamo al fatto che il tempo dei pionieri della bioetica non è concluso. La presenza attiva tra di noi degli studiosi della prima generazione è garanzia del permanere del fervore degli inizi. Ci sentiamo autorizzati a sperare che la bioetica sia capace di riservarci ancora molte piacevoli sorprese.

Riferimenti bibliografici

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Paul SporkenVoorlopige diagnose, Ambo, Bilthoven, 1969.

Paul SporkenDe weg terug, Ambo, Boarn, 1991.

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1. Francese Abel: Vetica religiosa, senza la vocazione del gendarme

Ostetrico e gesuita: una conciliazione possibile?

Ciò che impressiona di più nella vita di Francese Abel in quanto studioso di bioetica, è che lo si trova sempre là dove nascono le cose. C’è una specie di affinità segreta tra la sua professione originaria ― ostetrico e neonatologo ― e la predilezione per gli inizi delle istituzioni. Semplice coincidenza? L’intreccio tra la sua esistenza e gli esordi di importanti iniziative si realizza con una frequenza maggiore di quanto la semplice casualità farebbe supporre. Si impone con forza l’ipotesi che Abel abbia fa'virtù di catalizzare gli elementi che danno origine al nuovo.

Abel si affaccia alla bioetica in uno dei laboratori di pensiero originari della nuova disciplina: il Kennedy Institute di Washington. Il giovane medico catalano aveva sentito molto presto una vocazione religiosa. Appena specializzato in ostetricia e ginecologia, era entrato nella Compagnia di Gesù. Noviziato, studi teologici, ordinazione sacerdotale: prendeva forma, negli anni Sessanta, un orientamento esistenziale che non sostituiva semplicemente quello che cronologicamente lo aveva preceduto, ma chiedeva uno sforzo di creatività per una conciliazione apparentemente impossibile.

Nel 1970 parte per gli Stati Uniti. Destinazione: Georgetown University, il centro di studi superiori diretto dai gesuiti. Intende lavorare a una tesi dottorale ed esita tra la teologia e la medicina. Vorrebbe fare, idealmente, un discorso che fosse rilevante per tutt’e due le discipline. Sentiva la pratica medica ginecologica, che aveva conosciuto dal di dentro, molto distante dalle categorie antropologiche e dalle norme etiche elaborate dai moralisti. In quel periodo di gestazione della bioetica il bisogno più avvertito era quello di persone che gettassero ponti tra discipline che si sviluppavano nella reciproca estraneità. Il giovane ginecologo diventato gesuita era in posizione privilegiata per mettere in comunicazione quei mondi che si ignoravano.

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A Georgetown Abel incontra uno degli esempi più rappresentativi di questa volontà di scavalcare gli steccati tra gli orticelli disciplinari e ibridare i saperi: Paul Ramsey. Il celebre teologo era stato invitato a tenere delle conferenze sull’etica medica alla facoltà di medicina di Yale. Resosi conto che non aveva dell’argomento una conoscenza diretta, aveva chiesto di trascorrere un semestre come ospite nel policlinico annesso alla scuola di medicina della Georgetown University. Aveva osservato e ascoltato, parlato con i medici, si era confrontato con filosofi e teologi della stessa università. Il risultato era stato un corso memorabile, tenuto a Yale nel 1969. Quelle lezioni, pubblicate in volume ― The patient as person (1970) ―, costituiscono un punto di riferimento obbligato nel passaggio dell’etica medica tradizionale alla bioetica contemporanea.

Ramsey aveva intuito che i cambiamenti in corso nella pratica della medicina obbligavano ad abbandonare il paradigma del paternalismo medico. Bisogna riconoscere al paziente il diritto di partecipare alle decisioni che riguardano la terapia, il prolungamento della vita, il modo di affrontare la morte. La categoria filosofico-teologica di “persona” era più adeguata a tracciare i contorni etici della pratica medica di quanto lo fosse il riferimento tradizionale a orientare l’azione del medico al “bene” del malato.

A Georgetown Abel incontra Ramsey e rimane segnato dall’approccio innovativo dato alla riflessione etica in medicina. Ma la presenza destinata a incidere in modo decisivo sul suo orientamento è stata quella di André Hellegers. Olandese di origine, studioso originale e abile organizzatore, è stato l’artefice della nascita del Kennedy Institute, prima istituzione dedicata esplicitamente allo studio della bioetica. Hellegers era l’interlocutore ideale per Abel. Per la formazione di base, anzitutto: erano ambedue medici specialisti in ostetricia e ginecologia. Nonché per il comune interesse a considerare i problemi della vita a scala macrosociale, oltre che clinica.

Hellegers aveva inizialmente orientato la Fondazione Kennedy allo studio dei problemi demografici. Anche Abel conseguiva il master in demografia e si orientava a sensibilizzare la riflessione bioetica all’accelerazione storica tremenda, in quantità e qualità, che i progressi medico-biologici relativi alla cura della vita nella sua fase iniziale ricevevano su scala mondiale. Non si trattava più solo dei classici dilemmi ai quali poteva venir confrontato il medico (accedere o no alla richiesta di interruzione volontaria della gravidanza? in caso di parto difficile, a chi dare la priorità: alla madre o al bambino? Accettare o rifiutare i nuovi sistemi di regolazione delle nascite, rappresentati in primo luogo dalla pillola contraccettiva?). I problemi etici della esplosione demografica

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obbligavano a puntare lo sguardo verso l’Asia e l’india; e domandavano un diverso equipaggiamento concettuale rispetto a quello familiare al teologo moralista.

Sia Hellegers che Abel conservavano, tuttavia, il contatto con la ricerca di base. Hellegers era affascinato dallo studio del feto. Seguendo l’intuizione che la condizione del feto nell’utero assomiglia a quella dell’organismo in alta montagna, aveva condotto delle ricerche sulle Ande. Anche Abel seguì questa linea di ricerca e, sotto la guida di Hellegers, studiò la fisiologia del feto.

Quando nel 1975, conseguito il master, Abel tornò in Spagna, era un altro uomo rispetto a quando aveva lasciato il vecchio continente. Era stato coinvolto direttamente nel fermento che aveva contrassegnato gli inizi del Kennedy Institute. Le fitte discussioni con Paul Ramsey, Richard McCormick, Charles Curran e con gli altri studiosi di diverso orientamento religioso e disciplinare, ma ugualmente tesi a far emergere la base antropologica necessaria per il nuovo approccio ai problemi della vita sotto il dominio della tecnologia biomedica, sono state la più efficace iniziazione alla bioetica.

Rientrato nel suo paese di origine, diresse le sue energie a creare qualcosa di analogo al Kennedy Institute: un centro dedicato esplicitamente allo studio della bioetica, non lontano da Barcellona, a San Gugat del Vallès. Un maestoso edificio isolato, ex scuola della Compagnia di Gesù, diventa così il primo istituto di bioetica in Europa. Ha il nome inquietante dei Borgia: non per evocare i fastosi ― e nefasti ― papi e cardinali rinascimentali, ma un prodotto della famiglia di alta qualità spirituale: Francesco Borja, terzo generale della Compagnia di Gesù, proclamato santo dalla chiesa cattolica.

Nessuna confusione, tuttavia, circa la fisionomia dell’istituzione: non nasce come un prolungamento della morale medica, coltivata nell’ambito della chiesa con la preoccupazione di controllare che le pratiche dei fedeli fossero in armonia con gli insegnamenti morali ufficiali. Il nuovo Istituto è un riflesso del Kennedy. In un paese in cui la riflessione sui comportamenti medici era avvenuta esclusivamente sotto il segno della teologia morale o delle prescrizioni deontologiche, introduce la bioetica quale intersezione della prassi biomedica e del pensiero filosofico, mirando ad avere come interlocutore la società nel suo insieme.

Fin dall’inizio l’istituto di bioetica si colloca in un orizzonte di pluralismo confessionale e si propone di superare le strutture deontologiche basate sul rapporto medico-paziente, per affrontare l’analisi logica e interdisciplinare dei problemi che i progressi medico-biologici e i diversi modelli sanitari pongono ai sistemi etici del mondo occidentale.

Dotato di una solida biblioteca specializzata e di un centro di documentazione,

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l’Istituto si è consolidato negli anni. Organizza corsi intensivi di bioetica, promuove simposi e conferenze interdisciplinari, e soprattutto organizza la ricerca. Abel lo dirige, fin dalla fondazione.

Un riflesso fedele dello stato della ricerca condotta all’istituto Borja si trova nella sua pubblicazione ufficiale, che esce con il nome Horitzons de Bioètica. Finora un volume è stato dedicato agli «Aspetti etici del progresso biomedico» (1985), uno a «Sessualità, matrimonio e famiglia» (1986) e un terzo a «Eutanasia e diritto a morire con dignità» (1990).

L’Istituto non è mai entrato in rotta di collisione con il Vaticano, che pur tende a controllare da vicino l’ambito dottrinale della bioetica. Abilità diplomatica della dirigenza dell’istituto nell’evitare i temi più conflittuali? Oppure la Catalogna è, semplicemente, molto lontana da Roma?

Le università cattoliche si interrogano sulla bioetica

Abel ha goduto e gode di alta considerazione presso i vertici della Compagnia di Gesù. Nel 1980 ha ricevuto un mandato di fiducia da parte del Generale della Compagnia di Gesù, P. Arrupe. Convinto che fosse compito dei gesuiti essere attivamente presenti su questa frontiera avanzata della cultura contemporanea, conferì ad Abel l’incarico di costituire un gruppo di riflessione sulle tematiche bioetiche all’interno della Federazione internazionale delle università cattoliche (Fiuc). Nell’iniziativa Abel coinvolse Falise (Francia), Harvey (Stati Uniti, Università di Georgetown), Stuyt (università Cattolica di Maastricht, in Olanda) e il confratello gesuita Boné, dell’università Cattolica di Lovanio, che all’epoca era segretario generale della Fiuc.

Fin dall’inizio il gruppo internazionale ha funzionato con regole del gioco piuttosto singolari. Le riunioni miravano a far incontrare e dialogare scienziati di prima categoria, da una parte, e filosofi e teologi, dall’altra. Le questioni scelte per il dibattito erano strettamente interdisciplinari. Ai temi erano dedicate solitamente due riunioni, estese per un fine-settimana: una rivolta in modo prevalente alle questioni di portata scientifica, l’altra alle dimensioni filosofiche del dibattito.

Una illustrazione chiara di questa scansione è offerta dagli incontri svoltisi nel 1989, dedicati a «Dignità e solidarietà ai confini della vita», vale a dire ai problemi scientifici ed etici dello stadio terminale. La prima sessione, a carattere prevalentemente scientifico, ha preso in considerazione i problemi clinici dei neonati gravemente malformati, dei malati in fase terminale per patologie incurabili, dei pazienti in coma vegetativo permanente, dei malati di Aids, nonché dell’impatto di tali situazioni sui curanti, sulle famiglie e sulla società in generale.

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Nella seconda sessione l’accompagnamento in questi stati-limite della vita è stato analizzato dal punto di vista della riflessione filosofica ed etica necessaria per trovare risposte socialmente condivise.

Le indicazioni offerte ai relatori di quelle riunioni comprendevano l’invito a cercare soprattutto i punti di divergenza, piuttosto che forzate convergenze. La massima cura doveva essere rivolta a mettere in evidenza il ragionamento di cui si è debitori a persone che affrontano il tema da altre prospettive pratiche e teoriche.

Le riunioni del gruppo internazionale sono iniziate quasi nella clandestinità. Il primo a offrire ospitalità fu il prof. Giuseppe Lazzati, rettore dell’università Cattolica di Milano. In un primo tempo i promotori avevano difficoltà a raccogliere la trentina di persone, ritenute il numero ideale per colloqui di tal genere. Nel breve volger degli anni la preoccupazione si rovesciò: fu necessario contenere il numero delle persone che desideravano parteciparvi.

Nei primi anni di lavoro del gruppo non c’era alcuna preoccupazione di pubblicare i risultati dei colloqui. I promotori dell’iniziativa, sempre presieduti da Abel, si limitavano a individuare i problemi etici più importanti emersi dai colloqui, riassumendoli in prese di posizione informative per la gerarchia delle università cattoliche: non era intento 4pl gruppo di ricerca prescrivere autorevolmente soluzioni o unificare i comportamenti.

La politica del gruppo di bioetica della Fiuc cambiò nel 1987.1 partecipanti ritennero opportuno far conoscere al numero più ampio possibile di persone lo stato della riflessione maturata nell’ambito di docenti delle università cattoliche. Tanto più che il tema aveva una importanza cruciale per la società: gli inizi e gli sviluppi della vita umana. Sullo sfondo, i poteri acquisiti di intervento sul feto e sul suo patrimonio genetico. I risultati dei colloqui furono questa volta pubblicati, e in tre lingue: spagnolo, inglese e francese.

I materiali del colloquio di Bruxelles sugli stati-limite della vita, che abbiamo sopra ricordato, sono confluiti invece in un volume della prestigiosa collezione “Philosophy and Medicine” dell’editore Kluwer, dove inaugura una serie dedicata a studi che riflettono il punto di vista cattolico.

Una fedeltà non acritica

Abel si è accostato alla bioetica da teologo cattolico e da gesuita. Le sue radici religiose non le ha mai lasciate nell’ombra. E tuttavia non si può dire che l’etichetta di “cattolico” aderisca al suo pensiero bioetico

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in senso riduttivo. Si può indovinare la fierezza di appartenere a un grande organismo che nelle problematiche create dalla frontiera mobile del progresso bio-medico si orienta in un modo che gli è caratteristico. Lo avverte anche chi non condivide la fede in un magistero divinamente ispirato. Anche il teologo protestante Paul Ramsey, che Abel frequentò durante il suo soggiorno alla Georgetown University, espresse l’apprezzamento per la saggezza superiore che ispira l’orientamento della morale cattolica in bioetica:

«Non è facile giudicare se la prominenza del Vaticano e la sua lunga memoria istituzionale conferiscono al sommo Pontefice una prescienza per percepire le più profonde e perniciose conseguenze nelle linee di orientamento di eventi recenti, mentre altri mortali sono sempre disposti a valorizzarli e ad approvarli per i loro apparenti benefici immediati».

Tuttavia Abel non è un trionfalista, propenso a trasporre in regole di bioetica le certezze che attinge dalla fede. Quando nutre dei dubbi, anche in rapporto a pronunciamenti ufficiali della chiesa cattolica, li esprime. Così, riguardo alla Istruzione Donum Vitae della S. Congregazione per la dottrina della fede in merito alla procreazione assistita (1988), avanza riserve sulle argomentazioni con cui viene dichiarato come moralmente illecito ogni intervento tecnico sostitutivo dell’atto coniugale: come ostetrico, è sconcertato dall’approvazione ― implicita ― del solo metodo della Gift (trasferimento intratubarico di gameti) e dalla condanna della fecondazione artificiale omologa (quella eseguita con i gameti dei coniugi).

Soprattutto è perplesso di fronte al presupposto dell’argomentazione, che lascia trasparire una subordinazione alla natura biologica, come se questa fosse normativa dal punto di vista morale. Pur aderendo ai valori su cui l’istruzione è costruita, allo studioso rimane difficile capire per quale motivo la separazione della dimensione unitiva da quella procreatrice di un solo atto coniugale, finalizzata a ottenere ciò che quest’ultimo non è riuscito a realizzare, supponga una separazione dei beni del matrimonio. Controargomenta Abel: è come se ciò che è proprio del rapporto sessuale ― dialogo, tenerezza, accoglienza, dono, relazione ― fosse ridotto al semplice coito.

La cadenza tipica del pensiero di Abel implica sempre anche un confronto con le esperienze concrete degli esseri umani che fanno ricorso alle risorse della medicina. Per quanto riguarda la fecondazione artificiale, l’occhio rivolto all’insegnamento autoritativo della sua comunità morale di appartenenza domanda, contemporaneamente, che l’orecchio sia aperto al vissuto delle coppie sterili che si avventurano per la strada della riproduzione medicalmente assistita. Abel è sensibile alla sofferenza di molte coppie che, entrate in un programma di fecondazione

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“in vitro”, si sono trovate ingannate. La mancanza di informazione corretta e trasparente, in particolare relativamente alla scarsa percentuale di rispondenza delle tecniche ai risultati attesi ― un figlio vivo e sano in braccio ―, diventa occasione per una patologia maggiore di quella a cui si tenta di porre rimedio.

Senza rinunciare alla sua qualifica di pensatore cattolico, Abel non cessa di rimanere problematico. Chi cerca posizioni assiomatiche, rigidamente dedotte da valori o princìpi, rimarrà deluso nell’accostarsi alla sua opera. Una esemplificazione della sua capacità di considerare, contemporaneamente, l’assoluto dei princìpi e il contingente della vita concreta ci è offerto dalla sua posizione relativa allo spinoso problema della sterilizzazione delle adolescenti con ritardo mentale.

Molte persone ritardate, in età puberale o adulta, rispondono in modo sproporzionato all’affetto e hanno difficoltà a controllare i propri impulsi. Le donne in particolare, quando non sono in grado di riconoscere le conseguenze dei propri atti, risultano particolarmente vulnerabili nella nostra società. La preoccupazione dei genitori e l’allarme di altri educatori moltiplicano le richieste di sterilizzazione delle ragazze, al fine di evitare gravidanze indesiderate, frutto della violenza o dell’irresponsabilità che rende vittima l’innocente con ritardo mentale.

Dal punto di vista dei princìpi, la morale cattolica lascia spazio solo per interventi di tipo educativo: la sterilizzazione a scopo contraccettivo non può essere presa in considerazione. Per Abel la sterilizzazione del ritardato mentale non è solo un problema di posizioni contrapposte, a seconda che si ponga l’accento su gli uni o gli altri valori etici e beni giuridici in gioco (rispettare l’autonomia delle persone con capacità limitata di giudizio, ovvero proteggerle dall’abuso e dallo sfruttamento; ridurre i diritti delle persone con ritardo mentale nell’esercizio della loro sessualità, ovvero incrementare la loro libertà, facilitando rapporti interpersonali più ampi). Bisogna introdurre nel quadro un altro elemento importante: la sofferenza di molti genitori di minorate mentali, che si vedono impotenti di fronte al comportamento delle figlie e sollecitano una sterilizzazione a loro beneficio.

Non è facile tracciare la linea divisoria tra la tutela dei diritti umani e la necessità di proteggere le persone con ritardo mentale da conseguenze delle quali non potrebbero farsi responsabili. Il consenso su questo problema non esiste. Pur rimanendo fedele alla sua identità di esperto di etica che riflette e agisce nell’alveo della tradizione cattolica, Abel giunge alla conclusione che esistono casi in cui, dopo aver valutato tutti i pro e i contro, la sterilizzazione di donne ritardate mentali possa essere giustificata.

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La consulenza etica in un ospedale cattolico

Più che la curiosità aneddotica della singola posizione dottrinale, interessa la modalità con cui Abel si accosta ai problemi di bioetica. Si avverte subito che la sua bioetica richiama più il letto di ospedale che la cattedra universitaria. Di fatto, per conferire la fisionomia caratteristica al pensiero di Abel è stato decisivo il ruolo di consulente di etica all’interno di un ospedale. La maggior parte del suo lavoro, dopo il ritorno dal periodo di formazione negli Stati Uniti, si è svolto in un grande ospedale pediatrico di Barcellona: l’ospedale San Joan de Déu (San Giovanni di Dio), di proprietà dei religiosi che in Italia sono noti col nome di “Fatebenefratelli”.

Questo ospedale è stato il laboratorio della bioetica di Francese Abel. Della consulenza etica ha difeso l’autonomia, differenziandola dall’assistenza religiosa o pastorale. Di questo nuovo servizio ha soprattutto delineato la metodologia, a cominciare dalla modalità di lavoro costituita dal comitato.

L’ospedale San Giovanni di Dio è una istituzione cattolica. Ciò vuol dire che, pur mirando come ogni altro ospedale a curare i malati, intende farlo in armonia con la visione dell’uomo e gli orientamenti etici che sono propri del cattolicesimo. Un documento elaborato dalla Commissione Ospedali della chiesa cattolica, Configuración del hospital católico, prevede che, per ridurre al minimo i casi di conflitto tra l’identità dell’istituzione e la libertà di coscienza, si debba promuovere il dialogo serio e continuo tra gli esperti nelle scienze mediche e i filosofi o teologi specializzati in questioni etiche, e favorire la costituzione di un comitato di etica.

A questa istituzione viene affidata la funzione di prestare un’attenzione primaria “ai princìpi che definiscono l’identità cattolica dell’ospedale”. Il pericolo che i comitati di etica siano realizzati in funzione strumentale, a servizio di una morale particolare, è grande. I comitati di etica degli ospedali cattolici camminano sul filo del rasoio: basta poco, perché dall’orizzonte della bioetica si ripieghi su quello dell’etica confessionale.

Il comitato che Abel ha creato e coltivato all’interno dell’ospedale San Giovanni di Dio vale come modello per istituzioni analoghe. Ha identificato ed evitato i pericoli del confessionalismo. Il rodaggio è stato lungo. All’inizio il comitato si riuniva solo per dibattere singoli casi difficili. In seguito le riunioni hanno cominciato ad avere luogo con regolarità e l’attenzione si è spostata sulla elaborazione di protocolli di comportamento per classi di casi analoghi.

Una delle situazioni più angoscianti in un ospedale pediatrico di alta

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specializzazione è quella di neonati con gravi malformazioni, in particolare quelli affetti da mielomeningocele (è la patologia che sorge dalla mancata chiusura del canale neuronale: ne derivano ai bambini serissimi handicap). Situazioni molto problematiche si presentano, in generale, nel caso di feti nati molto prematuri e di basso peso. È necessario trovare dei criteri condivisi per decidere quando è sensato e benefico ricorrere al trattamento intensivo, e quando invece corrisponde alle esigenze dell’etica assumere un atteggiamento passivo, lasciando che la vita si spenga. Il Protocollo di assistenza immediata al bambino con mielomeningocele, nato dall’esperienza personale dei membri del gruppo e dal dibattito in seno al comitato di etica, guida i sanitari a orientarsi, scegliendo i neonati da trattare o non trattare, secondo criteri coerenti.

Il documento relativo alla Diagnosi prenatale dei difetti congeniti mette a fuoco lo scarto tra le grandi possibilità diagnostiche e prognostiche e le scarse capacità terapeutiche. Ha senso istituire un Servizio di diagnostica prenatale, quando il carattere confessionale dell’istituzione preclude la possibilità di ricorrere all’aborto? Su questo ultimo punto il documento è esplicito:

Anche nei casi più gravi, data la confessionalità del nostro ospedale, non si realizzerà l’aborto selettivo; l’ospedale deve cercare di mobilitare tutti gli aiuti possibili ed efficaci affinché nessuna decisione di abortire sia conseguenza détta mancanza di solidarietà o di aiuto da parte dell’ospedale stesso. In nessun momento possiamo dimenticare che l’atteggiamento cristiano in difesa dei più deboli, che obbliga a un’amorosa accoglienza e decisa protezione, include l’obbligatorietà di portare a termine la gestazione di un feto gravemente malformato, anche con rischio elevato di morte intrauterina o poco dopo il parto.

Lo stesso documento individua l’obbligo dell’ospedale di «offrire, insieme a una corretta informazione genetica, un buon sostegno psicologico alla donna o alla coppia, in modo che possano prendere le decisioni che credano procedere dal fondo della loro coscienza e che siano le più libere possibili». Il paradosso di una consulenza etica che esclude programmaticamente una delle possibili alternative non potrebbe essere formulato con maggior chiarezza.

L’aborto è il caso cruciale dove appare, in modo inconfondibile, il profilo di una bioetica che intende essere conciliabile con la dottrina cattolica. La non disponibilità della vita umana concepita, qualunque sia la sua qualità, pone un vincolo non superabile. Abel ha condiviso, fin dall’inizio del dibattito bioetico, l’impostazione data dal suo maestro e amico André Hellegers. In un articolo pubblicato già nel 1970 sullo sviluppo dell’embrione, lo studioso aveva individuato il dilemma fondamentale: attribuire meno valore alla vita umana nelle sue fasi iniziali,

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giudicandola puramente vegetativa e senza diritto alla protezione, oppure attribuire qualità umana al prodotto del concepimento fin dalla fecondazione, e difenderne il diritto alla vita. Abel è rimasto sempre schierato, senza esitazioni, per la seconda alternativa.

La fedeltà di Abel ai punti essenziali dell’agenda dei lavori in tema di bioetica stabilita fin dagli inizi degli anni ’70 non gli impedisce, tuttavia, di vedere i problemi ben più grandi che si sono andati profilando man mano che il secolo XX andava procedendo verso la fine. Quelli della giustizia sociale e della distribuzione delle risorse di salute limitate, in primo luogo.

Gli orizzonti glieli ha spalancati l’Asia. Negli ultimi anni, infatti, il centro dei suoi interessi si è spostato nel continente asiatico. Ha dato un apporto decisivo alla creazione di centri di bioetica a Manila, nelle Filippine, e a Giacarta, in Indonesia. Ancora una volta, fedele a un modello che si ripete nella sua vita, Abel si trova là dove le cose iniziano. Con le stesse profonde convinzioni che hanno guidato tutto il suo cammino nella bioetica: essere compassionevoli con ogni genere di dolore; critici di fronte al rigorismo o rigidezza delle strutture e delle mentalità legaliste; comprensivi con l’armonizzazione di valori che nella società pluralista rendono necessarie delle leggi; severi nei confronti di ogni ipocrisia.

Riferimenti bibliografici

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2. Jean Bernard: la bioetica per opporsi all'immoralità razionale

Le “circostanze” di una vita

Possiamo immaginare Jean Bernard in diversi scenari. Il professore ― l’illustre ematologo ― lo collochiamo idealmente nell’istituto di ricerche sulla leucemia, che ha diretto con successo per tanti anni. L’accademico di Francia, ce lo rappresentiamo nel consesso degli Immortali, sotto la bianca Coupole neoclassica del Quai de Conti, la sede più prestigiosa della cultura francese. Oppure, come presidente del Comitato nazionale di etica per le scienze della vita, nel quadro della Sorbona, a presiedere una di quelle “Giornate nazionali di bioetica” che tanto hanno contribuito a rendere popolare la nuova disciplina. Son tutti quadri attendibili, che colgono un aspetto di una personalità poliedrica e di un’attività molteplice.

Ma se cerchiamo il Jean Bernard più intimo, se non il più vero, c’è un solo scenario in cui lo possiamo collocare: il giardino parigino del Luxembourg. «Il più bel giardino del mondo», afferma il professore con una sicurezza che non ammette contraddittorio. Attorno a quel giardino si è svolta la sua infanzia e la sua adolescenza. Ai margini di quell’oasi di verde, intessuta di tanta parte della cultura della Ville Lumière, è tornato a vivere verso la metà della sua vita adulta.

La grande vetrata del suo studio si affaccia, dal quarto piano, direttamente sul giardino che è il cuore di Parigi. Una continuità ideale unisce le opere di medicina e i classici della letteratura che troneggiano sulle pareti della libreria con gli alberi che si colorano della luce del tramonto. La foto di copertina del volume recente che raccoglie suoi scritti diversi, disseminati in sessant’anni di attività, lo ritrae su una sedia, al sole, sullo sfondo del giardino del Luxembourg, con la cupola del Pantheon sulla linea dell’orizzonte.

Circonstances è il titolo che ha dato al volume: circostanze distinte accuratamente in celebrazioni solenni (come lezioni inaugurali e

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discorsi ufficiali all’Académie Française), circostanze biologiche e mediche, circostanze poetiche e letterarie; circostanze funebri, infine, quali occasioni per panegirici e commemorazioni. «Il mio editore ― racconta con un lampo ironico negli occhi ― mi ha ricordato che sono anziano e che prevedibilmente morirò presto, per cui era meglio raccogliere gli scritti dispersi o non pubblicati in volume...».

Jean Bernard è nato nel 1907. L’età non appare su di lui come un peso, ma come un filtro che ha distillato il meglio di una lunga esistenza passata al servizio della scienza biologica e della medicina clinica. Alle ricerche di Jean Bernard si deve la dimostrazione della natura neoplastica della leucemia. Egli ha anche riprodotto sperimentalmente le leucemie, iniettando carburi cancerogeni nel midollo osseo dei ratti. Sul piano dei trattamenti ematologici, nel 1947 scoprì il primo trattamento efficace contro le leucemie acute. A lui si devono anche i primi studi di combinazione di chemioterapia e la messa a punto del metodo della reintroduzione ematica, che permette lunghe remissioni delle leucemie acute. Suo è anche il primo caso di guarigione della leucemia acuta. I suoi meriti scientifici comprendono inoltre la prima descrizione di radioterapia ad alto dosaggio nel trattamento della malattia di Hodgkin, nel 1932, e la fondazione, insieme a Jacques Ruffié, di una nuova disciplina: la ematologia geografica, che studia la correlazione tra l’ambiente e i fattori genetici.

L’orientamento di Jean Bernard verso l’ematologia, a cui ha dato un apporto decisivo come ricercatore e come medico, è stato il risultato congiunto di un’esitazione, di un caso e di una necessità. Al momento di scegliere la professione ha esitato a lungo tra la letteratura e le scienze. Apparteneva a una famiglia che contava matematici e ingegneri. All’ultimo anno del liceo era risultato primo in matematica: tutto sembrava orientarlo, dunque, verso le discipline scientifiche. Ma aveva una grande passione per la letteratura.

Fin da giovanissimo aveva scritto poesie e altre composizioni letterarie. Da adolescente, poi, verso i 13 o 14 anni, ha iniziato a frequentare una libreria in via dell’Odéon. La libreria era gestita da Adrienne Monnier, una donna che era entrata in letteratura così come si entra in religione. La sua libreria è stata in Francia un centro culturale di prim’ ordine. Accanto a lei si potevano incontrare Paul Valéry, André Gide, Paul Claudel, James Joyce.

La libreria prestava i libri, a un prezzo irrisorio. Si potevano scambiare i libri: anche tutti i giorni, se si voleva. Il giovane Bernard fu iniziato ai piaceri della lettura, sotto la guida discreta di M.me Monnier, che lo consigliava e lo orientava. Andava ad ascoltare la traduzione, o piuttosto le traduzioni successive, dell'Ulisse di Joyce. Quegli anni

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sono stati una delle più grandi stagioni della letteratura francese. Jean Bernard sembrava destinato al regno aereo delle lettere.

Ma verso i 16 anni, nell’epoca in cui si prendono le decisioni che determinano il corso della vita, ha esitato. La decisione è stata determinata da uno scatto di orgoglio da adolescente. Racconta che tra gli amici dei suoi genitori c’era uno scrittore che aveva scritto un bel libro durante la prima guerra mondiale. Poi, più niente di importante: era diventato uno scrittore di terz’ordine. Jean Bernard non poteva sopportare la prospettiva di diventare uno scrittore mediocre. Disse a se stesso che un medico, anche se mediocre, può sempre essere utile. E così si è orientato verso la medicina.

La letteratura nella vita di un medico

I rapporti di Jean Bernard con la letteratura non sono però finiti con la decisione giovanile di diventare medico. Nella raccolta di scritti che abbiamo già ricordato, Circonstances, troviamo alcune recensioni di opere letterarie, apparse nel 1932 nel giornale Le Soir. Tra queste spicca La montagna incantata di Thomas Mann, che era appena stata tradotta in francese. Dietro quelle recensioni amatoriali c’è una storia simpatica. La signora che faceva la critica letteraria nel giornale era caduta malata di tubercolosi e doveva ritirarsi per un anno in un sanatorio. Per non farle perdere il posto, Jean Bernard accettò di scrivere le recensioni a nome suo, finché non fosse tornata.

Nella bibliografia del professore spiccano anche volumi di poesia, come Survivance (1945) eMon Beau Navire (1980). Si potrebbe pensare a spazi di evasione che lo scienziato si concede. Sono invece molto di più: se non dal punto di vista letterario, almeno per il significato biografico.

Come dice il titolo della prima raccolta, si è trattato di un espediente per “sopravvivere”. Nel 1943, sotto l’occupazione nazista della Francia, fu rinchiuso per diversi mesi nella prigione di Fresnes. È difficile oggi farsi un’idea delle condizioni di detenzione: la claustrazione, l’igiene difettosa, l’insufficiente assistenza medica, i disturbi fisici e psichici cui erano soggetti i prigionieri. Per sopravvivere, Jean Bernard si è dedicato a comporre. E poiché è difficile ritenere a memoria la prosa (in prigione non aveva né carta, né penna), ha composto poesie.

Attraverso il filtro di questa vicenda personale J. Bernard ha maturato la convinzione che la letteratura faccia parte della formazione umanistica in senso ampio che è necessaria al medico, oggi come in passato. C’è la tendenza a pensare che esistano due specie di medici: il

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buon uomo, ignorante ma umano, e il medico-scienziato. Per l’umanista questa è una falsa alternativa. La formazione culturale ampia, in tutto l’arco che si estende dalla letteratura all’etica, è necessaria quanto la conoscenza della matematica, che è il fondamento degli studi biologici.

Jean Bernard sottoscrive pienamente l’affermazione del preside della facoltà di medicina di Sherbrooke, in Canada: «La medicina del futuro è l’alleanza della biologia molecolare e dell’umanesimo». Vi vede la continuazione ideale di ciò che Paracelso ha fatto incidere sulla sua tomba, a Salisburgo: «Tutta la medicina è amore». E si rattrista constatando che oggi in Francia ― così come avviene anche in molti altri paesi ― si insegna solo la biologia molecolare. Ciò che hanno da dire i grandi scrittori e i grandi filosofi è considerato irrilevante.

L’esitazione adolescenziale tra il sapere scientifico e quello umanistico non si è risolta, fortunatamente, con la rinuncia ad uno dei due, pur essendosi orientato alla medicina. Per il resto, la sua carriera nella ematologia è stata determinata dal caso e dalla necessità.

Il caso e la necessità

La formazione che riceve il medico in Francia è suddivisa in due parti. Dopo gli studi in facoltà, si deve passare il concorso ospedaliero. Ottenere un posto da interno o esterno all’ospedale è sempre molto difficile: quasi mai si è ammessi la prima volta. Quando il giovane Jean Bernard fece il concorso da interno, 1200 candidati concorrevano per 80 posti. Per essere ammesso gli mancavano 3/4 di punto: proprio una sciocchezza, ma tanto bastava per essere escluso.

Era dunque “interno provvisorio”: il posto era assicurato, ma doveva aspettare. Gli consigliarono di frequentare nel frattempo un ambulatorio ospedaliero, perché aveva luogo solo il mattino e gli lasciava tempo il pomeriggio. Non lontano dalla sua abitazione c’era l’ambulatorio di ematologia diretto dal prof. Chevallier, il solo in Francia all’epoca.

Il prof. Chevallier, di cui Jean Bernard è stato dapprima l’“interno provvisorio” e poi l’assistente, ha giocato un ruolo importante nella sua vita. In un’epoca in cui le malattie del sangue erano disprezzate e l’ematologia considerata una disciplina minore, Chevallier ne ha capito l’importanza ed è riuscito a ispirare la sua fiducia nel suo giovane assistente. Così si è deciso l’orientamento di tutta la sua vita dedicata allo studio del sangue: da quel quarto di punto mancante, che gli ha impedito di diventare interno al primo concorso...

La sua carriera si è svolta, oltre che sotto il segno del caso, anche

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sotto quello della necessità: bisognava cioè trovare una risposta terapeutica alla falcidie che la leucemia stava mietendo tra i bambini. Dopo la seconda guerra mondiale, Jean Bernard, nominato primario all’ospedale Saint-Louis, dirigeva un reparto pediatrico. A quell’epoca c’erano già i sulfamidici, c’era la penicillina. La maggior parte delle grandi malattie dei bambini ormai guarivano, mentre prima i piccoli malati morivano in massa.

Tutti potevano guarire, salvo i bambini leucemici. La loro situazione era tragica; e un medico convinto della missione terapeutica della medicina non poteva accettare questo stato di cose. Dall’obbligo morale di lottare contro la leucemia, dalla necessità di trovare un rimedio, è nato l’impegno appassionato di Jean Bernard nell’ematologia. Proprio nella battaglia contro le leucemie, specie quelle pediatriche, la medicina dei nostri giorni ha registrato uno dei suoi successi più incontrovertibili.

Dal punto di vista cronologico, la vittoria sulle leucemie si colloca tra le due rivoluzioni che hanno cambiato il nostro modo di far medicina. La prima è la rivoluzione terapeutica, iniziata nel 1937 con l’impiego dei sulfamidici. Essa ha dato all’uomo, dopo millenni d’impotenza, il potere di trionfare su malattie per lungo tempo fatali, come la tubercolosi, la sifilide, le grandi setticemie, le affezioni delle ghiandole endocrine. Prima di allora la medicina era per lo più impotente: al medico non restava che tenere la mano del malato che si spegneva.

La seconda rivoluzione, quella biologica, è più recente. Si ispira al concetto di biologia molecolare, che governa oggi tutta la medicina. È illustrata dalla scoperta del codice genetico e delle leggi semplici e grandiose che presiedono alla formazione della vita.

All’epoca in cui è iniziata la battaglia contro le leucemie infantili, queste, come la meningite tubercolosa o l’endocardite maligna, erano malattie fatali. Si riteneva che fossero destinate a rimanere sempre irrimediabili. Jean Bernard e i suoi collaboratori hanno rifiutato questo dogma e si sono accinti a trattare questi pazienti. Nel 1947 hanno ottenuto il primo caso mondiale di remissione temporanea di leucemia in un bambino di sei anni. La prima guarigione è stata registrata nel 1968- 70, dopo vent’anni di duro combattimento. Ora i tre quarti dei bambini con leucemia guariscono.

A Jean Bernard si attribuisce anche il primo ricorso sistematico all’aiuto della psicologia nel trattamento dei piccoli pazienti affetti da leucemia. I medici impegnati a dar scacco alla malattia si sono resi conto che senza l’aiuto di una psicologa non sarebbero venuti a capo dei problemi emotivi di quei bambini. Hanno considerato lo studio psicologico dei piccoli malati ― e, non meno importante, dei loro genitori ― alla stregua di un sussidio di cui avevano bisogno per fare il loro

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mestiere di medici: come gli esami radiografici, per esempio.

In seguito c’è stato un avvenimento più interessante e molto più felice che li ha indotti a far ricorso alla psicologia: lo studio dei bambini guariti. Per un lungo, drammatico periodo questo non era neppure pensabile, in quanto tutti i pazienti erano condannati.

Studiando i bambini guariti, ci si è resi conto che si possono suddividere in almeno tre categorie. Ci sono i bambini che si rassicurano dicendo: «Non è che sia guarito io, ma sono i medici che si erano sbagliati. La mia non era leucemia». La seconda categoria è quella dei bambini che prendono un atteggiamento sportivo. Gonfiano i bicipiti e proclamano: «Io ho vinto la leucemia», come se si trattasse di una partita di calcio o di un incontro di boxe. La terza categoria è la più insidiosa. Ci sono dei bambini che continuano a prendere le medicine di nascosto, perché non credono a quello che viene detto loro. Ciò dimostra come siano stati profondamente traumatizzati dalla malattia.

Per il lavoro nell’ambito dell’oncologia pediatrica, quindi, l’aiuto dello psicologo non è un lusso, ma una stretta necessità per un buon trattamento medico. E l’alleanza così difficile della biologia e della clinica che definisce la medicina di questa seconda metà del XX secolo. Essa va assolutamente completata con il coinvolgimento delle scienze umane e delle pratiche correlate.

La Francia si dà un Comitato nazionale di etica

La notorietà internazionale di Jean Bernard è legata soprattutto al ruolo da lui giocato nello sviluppo della bioetica in Francia, nel quadro istituzionale del Comitato consultivo nazionale delle scienze della vita e della salute, istituito nel 1983. Fin dall’inizio, e per più di nove anni, il prof. Bernard ne è stato il presidente. Ha ceduto di recente la presidenza al neurobiologo Jean Pierre Changeux, pur continuando a svolgere all’interno del Comitato funzioni di primo piano, quale presidente onorario.

Al ruolo di esperto di etica Jean Bernard non è giunto impreparato. Oltre alla sensibilizzazione ai problemi dell’etica connessi con l’esercizio della medicina nell’ambito dell’ematologia (basterebbe pensare ai problemi della comunicazione della diagnosi e della prognosi ai bambini affetti da malattie mortali e ai loro genitori, nonché a quello del rischio terapeutico: fin dove ha diritto di spingersi il terapeuta nel tentare il tutto per tutto?), Jean Bernard ha dedicato una costante attenzione alle conseguenze filosofiche ed economiche dei progressi della medicina. Lo documentano tre importanti volumi, apparsi già negli

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anni ’70: Grandeur et tentations de la médicine (1973), L’homme changé par l’homme (1975) eL’espérance ou le nouvel état de la médicine (1978). L’esplosione dell’interesse sociale per la bioetica nel decennio successivo ha portato J. Bernard a un confronto con l’etica non più da studioso privato, ma nella funzione di presidente del Comitato nazionale.

Quanto ha intrapreso il presidente Mitterand creando nel 1983 il Comitato nazionale è stato una novità a livello mondiale. I comitati di etica sono una istituzione recente, il cui sviluppo è abbastanza confuso. La confusione è legata alla imprecisione delle definizioni. Tutte le riunioni episodiche, tutti i colloqui, tutte le commissioni governative effimere che studiano un problema di bioetica (come commissioni ad hoc) non sono per ciò stesso comitati di etica.

Riferendosi alla sua esperienza personale, Jean Bernard ammette di aver dovuto depurare alcune concezioni piuttosto approssimative del comitato di etica e delle sue funzioni. Anzitutto ha dovuto distanziarsi dai comitati di comodo, creati per l’autolegittimazione delle istituzioni di ricerca.

Jean Bernard ricorda un episodio. Dirigeva un grande istituto di ricerca sulle malattie del sangue e le leucemie. Un ricercatore fece uno studio importante e decise di farlo conoscere al mondo scientifico anglosassone mediante un articolo in inglese. In qualità di direttore, J. Bernard mandò l’articolo a una rivista americana che, dopo averlo sottoposto ai referees, lo accettò per la pubblicazione; ma richiese obbligatoriamente il parere del Comitato di etica che aveva approvato la ricerca. Il prof. Jean Bernard convoca allora i due vicedirettori dell’istituto. Seduta stante, formano un comitato di etica e mandano il parere favorevole alla rivista... Oggi è il primo a rinnegare comitati di etica di compiacenza di questo genere: non hanno alcun senso.

Anche i comitati ad hoc sono una cosa diversa dal Comitato nazionale. Un comitato di questo genere è stato costituito per lo studio dei problemi posti dall’ingegneria genetica, all’indomani della conferenza di Asilomar (1975) che aveva richiesto una moratoria della sperimentazione. Al comitato partecipavano, oltre a Jean Bernard, grandi scienziati come Francis Jacob e Jacques Monod. Dopo sei mesi, di lavoro, il comitato esaurì il suo compito e fu sciolto.

Il Comitato nazionale è invece un’altra cosa. Intanto perché è permanente. E poi per la sua composizione e i suoi compiti. È composto per metà da medici-biologi e per metà da umanisti (sociologi, filosofi, teologi, giuristi). Si occupa esclusivamente della ricerca scientifica e non dell’esercizio quotidiano della medicina, che è di competenza dell’Ordine dei medici e di analoghi organismi professionali.

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Inoltre, non ha alcun potere. La genialità di chi ha immaginato questo comitato è stata di mettere nella sua denominazione l’aggettivo “consultivo”. Tutto quello che è obbligatorio suscita un movimento di rifiuto. Questo comitato dà dei pareri, non crea obblighi. Ma proprio perché è solo consultivo, viene molto ascoltato.

Presiedere e mediare

Per quanto Jean Bernard si fosse già interessato all’etica, presiedere il Comitato è stato per lui qualcosa di nuovo. Ha dovuto imparare il mestiere. Anzitutto ha capito l’importanza della mediazione in un organismo che rappresenta competenze e posizioni ideologiche così diverse. Uno dei successi più spettacolari in questo senso è stato il rapporto sulla persona prodotto dal comitato: è stato redatto insieme da un padre gesuita e da un membro del comitato centrale del partito comunista! La mediazione necessaria nel discorso pubblico sull’etica non è compromesso ― nel senso politico di “governare al centro” ―, ma presuppone la volontà di trarre profitto del meglio che esiste nelle diverse posizioni. Per questa crescita comune ci vuole tempo. L’etica non può essere una questione di risposte immediate.

Progressivamente l’opinione pubblica francese si sta sensibilizzando al dibattito sui problemi dell’etica. L’etica entra nei costumi. È anche un fatto di semantica. La parola “morale” non interessa più a nessuno: appare polverosa, fuori moda. L’etica, invece, attira. A Jean Bernard capita di andare a fare conferenze in piccole cittadine di provincia, di 70-80.000 abitanti, e di trovare un migliaio di persone ad ascoltare, con il vescovo, il sindaco e i rappresentanti dei sindacati in prima fila! Non è solo l’indubbio carisma della sua persona che mobilita le folle, ma anche la popolarità che le tematiche collegate alla bioetica ha conquistato nell’opinione pubblica.

L’etica ha molta risonanza anche tra i giovani. In Francia è stata avanzata la proposta di introdurre la bioetica nell’insegnamento secondario; attualmente si sta cominciando con classi sperimentali nei licei. Questa penetrazione dell’etica nei costumi esige tempo; non si realizza con pronunciamenti spettacolari.

La bioetica appare sempre di più come l’esercizio di un duplice rigore: quello della scienza e quello dell’etica. Ma, alleato a questi rigori, è necessario anche il calore della vita: il calore di una disciplina interamente ispirata alla speranza di limitare la sofferenza umana sempre presente attorno ai problemi legati al progresso della biologia e della medicina.

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Nei dieci anni in cui il prof. Bernard, in qualità di presidente del Comitato nazionale, ha pilotato lo sviluppo della bioetica in Francia si è registrata una chiara crescita della complessità dei problemi. Due esempi possono fornire un’illustrazione della complessità: uno è quello di un bambino con due madri, l’altro di un bambino con due padri. Nel primo caso, una ragazza quindicenne è stata curata per un linfoma addominale di grandi dimensioni. L’applicazione della radioterapia ha portato alla guarigione, ma con la distruzione delle ovaie. L’utero è stato conservato. Alcuni anni dopo si è sposata. Un’amica ha accettato di donarle un ovulo. È stato fecondato con lo sperma del marito e poi introdotto nell’utero. Da pochi mesi il bambino è nato e ha due madri: una ovulare e una uterina; una ha trasmesso il patrimonio genetico e l’ereditarietà, l’altra le informazioni della vita intrauterina.

Nell’altro caso, abbiamo a che fare con un uomo sterile. Si sottopone a un trattamento e in seguito ha un figlio. Come talvolta succede, c’è un grande attaccamento tra questo padre e questo bambino. Ma dopo alcuni anni subentra la discordia nella coppia e i due genitori divorziano. La madre sposa un altro. A questo punto fa fare uno studio dei cromosomi del bambino, il quale risulta figlio non del primo marito, ma del secondo, che era amante della donna prima del secondo matrimonio. Qual è il vero padre del bambino: quello affettivo o quello biologico?

La complessità delle situazioni create dall’applicazione della tecnologia alla medicina è tale che per coglierla rende più servizio la fantasia letteraria che le fredde conoscenze scientifiche. Pur senza esimersi dall’analisi documentaria dei problemi della bioetica, Jean Bernard ha dedicato alla loro esplorazione anche un libro ― Le syndrome du Colonel Chabert ou le vivant mort ―, che è una raccolta di novelle fondate su avventure di questo genere. Immagina, per esempio, che una ragazza nata per procreazione artificiale si innamori del suo fratello ovulare, senza conoscerne l’identità, e altre situazioni analoghe.

Uno sguardo retrospettivo sulla bioetica del futuro

Jean Bernard è esplicito nel sottolineare che la bioetica va collocata in modo appropriato nella società. Non esiste nei paesi democratici una bioetica di stato. La bioetica non appartiene neppure ai comitati di etica: è compito dei cittadini, ampiamente e lealmente istruiti, formarsi la loro opinione ed esprimerla. I comitati permanenti di etica sono utili durante il periodo di organizzazione di questa informazione dei cittadini. Quando questo compito sarà compiuto, i comitati dovranno sparire. Altrimenti ― insinua malignamente Jean Bernard ― potremmo avere il

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paradosso di comitati che enfatizzano le problematiche bioetiche per poter mantenere in vita se stessi...

Guardando al futuro, Jean Bernard esprime perplessità ― non disgiunta da un ottimismo moderato ― sulle risposte che le nostre società si apprestano a dare ai progressi della medicina e della biologia. Fedele alle possibilità che offre la fantasia nell’esplorazione dei problemi, ha fatto ricorso anche alla “science fiction”.

A conclusione del suo libro recente De la biologie à l’éthique, ha immaginato che un esperto di bioetica faccia una lezione nel 2090 spiegando agli ascoltatori lo sviluppo della disciplina negli ultimi cento anni. Il futuro storico della bioetica dividerà il secolo trascorso in tre parti. Nel periodo che va dal 1990 al 2020 si alternano inquietudini e speranze. Cresce la consapevolezza che ai nuovi poteri della scienza corrispondono nuovi doveri dell’uomo. I danni vengono limitati, parzialmente e temporaneamente, dal diffondersi di comitati e risoluzioni internazionali. Ma la semplificazione delle tecniche le rende accessibili a moltissimi laboratori di numerosi paesi. E il controllo sfugge di mano.

Un secondo periodo ― i quarant'anni che si estendono dal 2020 al 2060 ― si sviluppa all’insegna dell’alleanza perniciosa tra il denaro e la biologia, il lucro e la scienza. Concepimento, gestazione, nascita, sviluppo del sistema nervoso, vita e morte: tutto appartiene a questa bio-tecnologia, governata da potenti società multinazionali. La banca e la borsa regolano ormai il mercato dell’uomo e di parti del suo corpo. Al culmine di questa ascesa di una immoralità razionale, il potere politico utilizza indiscriminatamente il progresso biologico, dopo aver cancellato il nome stesso dell’etica e il ricordo dei valori morali del passato.

La ricostruzione della storia futura termina però con una nota di speranza. Nel terzo periodo, che inizia nel 2060, si avrà un Rinascimento spirituale, intellettuale ed etico, con il recupero dei valori fondamentali che il periodo precedente aveva affossato.

Questa prospettiva utopica di lungo periodo permette di mettere evidenza che il problema cruciale del nostro tempo è la discordanza tra i progressi della scienza e della tecnica e la mancanza di progresso della saggezza. Da Archimede a Einstein la scienza si è trasformata. Da Platone ai filosofi nostri contemporanei la saggezza è restata la stessa. O, piuttosto, dovremmo dire che ha fatto qualche passo indietro. Questa discordanza ci minaccia e rende frequentemente impotente la bioetica della nostra epoca.

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Riferimenti bibliografici

Jean Bernard, Survivance [poesie], ed. Buchet Chastel, Paris, 1945.

Jean Bernard, Grandeur et tentations de la médicine, ed. Buchet Chastel, Paris, 1973; tr. it. Grandezza e tentazioni della medicina, ed. Garzanti, Milano, 1974.

Jean Bernard, L’homme change par l’homme, ed. Buchet Chastel, Paris, 1975.

Jean BernardL’espérance ou le nouvel état de la médecine, ed. Buchet Chastel, Paris, 1978.

Jean BernardMon beau navire [poesie], ed. Buchet Chastel, Paris, 1980.

Jean BernardL’enfant, le sang et l’espoir, ed. Buchet Chastel, Paris, 1984.

Jean BernardEt l’âme? demanda Brigitte, ed. Buchet Chastel, Paris, 1987.

Jean BernardC’est de l’homme qu’il s’agit, ed. O. Jacob, Paris, 1988.

Jean Bernard, De la biologie à l’éthique, ed. Buchet Chastel, Paris, 1990.

Jean BernardCirconstances, ed. Buchet Chastel, Paris, 1991.

Jean BernardLe syndrome du Colonel Chabert ou le vivant mort, ed. Buchet Chastel, Paris, 1992.

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3. Daniel Callahan: pensare il limite

Un centro dove si pratica il “cannibalismo bioetico”

I latini lo chiamavano otium, vedendovi non un vizio, ma la forma ideale di vita per il saggio. È la “vita ritirata” di chi si allontana dal tumulto degli impegni legati alla politica e ainegotia, per dedicarsi ad approfondire i supremi problemi della filosofia. Per l'otium dei saggi dell’epoca della bioetica esiste un ambiente che può degnamente competere con le ville in Campania o in Sabina, preferite dagli antichi romani: è una costruzione armoniosa nel verde di un campus universitario, in quella valle del fiume Hudson, a nord di New York, che è stata tante volte dipinta dai pittori della scuola dell'”Hudson River”, nella prima metà del secolo scorso. Qui ha sede lo Hastings Center, uno dei punti di riferimento più autorevoli nel panorama internazionale della bioetica.

Una dozzina di studiosi, coadiuvati da uno staff amministrativo altrettanto numeroso, costituisce la comunità che ha scelto la riflessione sull’impatto della rivoluzione biologica e medica sulla società contemporanea come forma di vita. Di formazione sono filosofi, giuristi, sociologi, esperti di scienze naturali; quello che li tiene insieme è la ricerca congiunta sui temi più scottanti e complessi dell’alta tecnologia applicata al mondo della bio-medicina: l’ingegneria genetica e l’ecologia, la sperimentazione sugli esseri umani e l’interruzione dei trattamenti che prolungano indebitamente la vita.

Con un po’ di enfasi, li si potrebbe chiamare una comunità spirituale. Purché si aggiunga subito che le discussioni che qui hanno luogo si muovono in un contesto secolare; e si precisi che gli studiosi che costituiscono il Centro si qualificano in termini di orientamento filosofico o professionale, piuttosto che di convinzione religiosa.

È opportuno anche tener presente che non esiste una linea omogenea tra gli studiosi che qui lavorano, cosicché in nessuno dei temi

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dibattuto si può parlare di una “posizione dello Hastings Center”. Il Centro è semplicemente un foro per le migliori argomentazioni di tutte le posizioni filosofiche, un luogo capace di ospitare i più diversi punti di vista, purché difesi con rigore argomentativo. Ma se occuparsi del significato della vita e della morte, della malattia e della salute, del rapporto dell'individuo con la società e del posto degli uomini nel grande schema del mondo può essere qualificato come una attività spirituale, allora lo Hastings Center può aspirare al titolo di “monastero della bioetica”.

A spegnere ogni tentazione di retorica spiritualistica, Strachan Donnelly, direttore amministrativo del Centro, dichiara brutalmente: «Noi qui pratichiamo il ‘cannibalismo bioetico’». Il riferimento è rivolto a uno dei rituali più simpatici della vita quotidiana del Centro: ogni giorno residenti e visitatori si riuniscono per il “lunch” in comune. I visitatori non mancano mai. Alcuni si trattengono per soggiorni di studio di una o più settimane; altri soltanto un giorno. I pellegrini medievali che giungevano a Roma dovevano fare il giro delle quattro grandi basiliche; lo studioso di bioetica dei nostri giorni deve assolutamente includere nel suo “grand tour” una visita allo Hastings Center. Attorno al grande tavolo che occupa il centro della biblioteca si incontrano così durante il “lunch” esperti di bioetica dei paesi dell’Europa dell’Est, dell'Australia, del Giappone, insieme a studiosi americani e membri di comitati di etica che vengono a riciclarsi.

Membri dello staff del Centro e visitatori, mentre si cibano di sandwich e di insalata, si nutrono anche in senso intellettuale. Qualcuno è invitato, a turno, a presentare una ricerca personale, a riferire di un convegno importante, a impostare il dibattito su un tema di attualità. Sulla base della presentazione si dispiega la discussione a ruota libera: di ampio respiro, multidisciplinare, spesso avventurosa. Questo “cannibalismo bioetico” è un alto esercizio di arte dialettica, in cui il visitatore occasionale può ammirare i benefici che arreca la consuetudine di confronto quotidiano tra i membri privilegiati di questa accademia singolare.

Un filosofo si orienta verso l’etica delle scienze della vita

Se si può scegliere dove incontrare Daniel Callahan, è preferibile farlo qui. Questo è il suo quadro di vita abituale. Lo Hastings Center è la sua creazione e, da oltre venticinque anni, la serra calda in cui germina e matura la sua riflessione. L’anno di fondazione è il 1969: un primato cronologico rispetto alle istituzioni analoghe dedicate alla bioetica. All’inizio si chiamava “Institute of society, ethics and life sciences”

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ed era localizzato a Hastings-on-Hudson, la cittadina a una quarantina di chilometri da New York dove Callahan abitava.

Il primo studioso cooptato fu uno psichiatra, Willard Gaylin, suo vicino di casa. Il loro sodalizio è rimasto inalterato nel tempo: Gaylin è rimasto presidente del Centro fino al 1994, quando, in concomitanza con i festeggiamenti per il 25° anniversario dello Hastings Center, ha deciso il proprio pensionamento. Nel 1987 il Centro si è trasferito in un edificio più spazioso, traslocando nell’idilliaco campus della Pace University a Briarcliff Manor, qualche chilometro più a nord. Di Hastings ha conservato il nome e il “logo”: la silhouette di un albero frondoso, che troneggiava nel giardino del primo istituto.

Nel 1969 Daniel Callahan era un giovane filosofo, cresciuto in una solida famiglia di Washington. Si era formato alla Georgetown University e ad Harvard, sviluppando un marcato interesse per l’etica pratica. Insofferente per la filosofia accademica tradizionale, cercava ― in accordo con gli slogan degli anni ’60 ― una filosofia che fosse “rilevante”, che sapesse riflettere gli interrogativi concreti delle donne e degli uomini del nostro tempo e fosse in grado di guidarli nelle scelte. L’etica delle scienze della vita era destinata a fornirgli quello che andava cercando.

Dalle origini irlandesi aveva ereditato l’amore per la famiglia e la fede cattolica. La propria famiglia, formata con la psicologa sociale Sidney de Shazo, è cresciuta solida e stabile, rallegrata da sei figli. Tormentato, invece, il cammino della sua fede religiosa. Dal 1961 al 1968 Callahan è stato il direttore di Commonweal, una prestigiosa rivista culturale dei cattolici americani. Il suo orientamento era per una chiesa di tipo “conciliare”, disposta ad abbandonare l’atteggiamento di arroccamento tipico dei cattolici americani e a confrontarsi con il mondo moderno. Il suo libroOnestà nella chiesa, del 1965, ha avuto una notevole risonanza internazionale: è stato tradotto in olandese, spagnolo, polacco e italiano. Ma verso la fine degli anni ’60 la fede religiosa doveva rivelarsi nella vita personale di Callahan un Holzweg, per dirlo con il linguaggio di Heidegger: un “sentiero interrotto”, una di quelle strade nel bosco che non conducono da nessuna parte. E cessò di considerarsi un credente.

Negli stessi anni lavorò a un’opera destinata a non passare inosservata: Abortion: Law, choice and morality. Il libro apparve nel 1970. Benché redatto in un’epoca in cui la bioetica era solo in gestazione, della nuova disciplina esprimeva i tratti caratteristici. A cominciare dalla interdisciplinarietà. Riflettendo a fondo sull’aborto nella società contemporanea, Callahan giungeva alla conclusione che nessuna singola disciplina poteva fornire la chiave interpretativa unica ed esaustiva.

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L’aborto volontario è un problema insieme e inseparabilmente legale, morale, medico e demografico; nessuna visuale poteva monopolizzarlo. Contemporaneamente al libro, nasceva il progetto dello Hastings Center, cioè di un’istituzione indipendente in cui un gruppo di persone di diversa competenza disciplinare avrebbe preso in considerazione sistematicamente problemi di etica della vita di analoga importanza critica.

L’osservazione che possiamo fare a proposito di questa fondamentale ricerca sull’aborto può essere generalizzata ai più impegnativi libri di Callahan: non sono importanti solo per la tematica affrontata, ma ancor più per il metodo. Hanno sempre qualcosa di importante da dire, in obliquo, sulla bioetica in quanto disciplina. E sospingono verso orizzonti tematici e metodologici nuovi.

Nella decade tra il 1965 e il 1975 l’etica medica tradizionale subì una profonda trasformazione. Il contributo di Daniel Callahan, sia personalmente che attraverso lo Hastings Center, è stato decisivo. Non si trattava più soltanto di sottoporre la pratica della medicina a delle regolamentazioni di natura morale, ma di capire come la tecnologia influenza e modifica la nostra vita, il modo in cui pensiamo il mondo e ci muoviamo in esso. Con forte enfasi, si cominciava a parlare di “rivoluzione biologica”.

I temi inizialmente affrontati da Callahan ― la contraccezione, l’aborto ― potevano avere punti di contatto con la preoccupazione delle istituzioni ecclesiastiche di controllare il comportamento dei fedeli. Ma lo spirito con cui il filosofo vi si accostava era totalmente diverso. In un articolo di quegli anni su Commonweal dedicato alla “paternità responsabile” criticava l’insegnamento tradizionale cattolico sulla contraccezione: «Il problema ― affermava ― non è che queste cose siano necessariamente sbagliate. È che sono incomprensibili». La sua preoccupazione era che l’etica rimanesse molto aderente alla vita umana.

La bioetica da promuovere doveva trascendere i confini della professione medica, così come gli approcci unilaterali di singole discipline: filosofia, teologia, diritto. Doveva parlare un linguaggio comune, piuttosto che i singoli linguaggi specializzati. Per questo progetto la chiesa non poteva essere l’interlocutore. La nascente bioetica non aveva bisogno di una istanza normativa che molti identificavano con la funzione poliziesca che dice “no” a ogni sviluppo destinato a dare all’uomo più potere sopra la propria vita. Né poteva articolare la sua riflessione in un linguaggio teologico: aveva bisogno di esprimersi in modo più neutro, secolare.

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Il nuovo linguaggio della bioetica

Questo stesso fenomeno si può osservare anche in altri ambiti del dibattito etico. Su tutti i temi caldi di quegli anni ― la guerra, la pena di morte, la discriminazione razziale o sessuale, la droga ― tutte le chiese avevano le loro opinioni espresse in termini religiosi. Ma se si leggono i testi delle istituzioni pubbliche, come i tribunali, i comitati di etica e le legislazioni, si trova unicamente il linguaggio comune, secolare, neutro. Per quanto grande possa essere l’interesse religioso a livello della vita privata, nel contesto pubblico la prospettiva religiosa crea solo disagio.

La bioetica doveva diventare l’alternativa all’etica medica tradizionale elaborata dalle professioni sanitarie e alla morale religiosa proposta dalle chiese. Guardando retrospettivamente al cammino percorso, Callahan identifica le ostilità incontrate in due diversi tipi di opposizione: l’autosufficienza del corpo medico, che pretendeva di saper affrontare queste problematiche senza l’aiuto di filosofi e di giuristi, e la diffidenza del grande pubblico.

Per quest’ultimo il territorio che si apriva per l’impatto della biologia e della medicina sulla vita umana era troppo fluido. Non esistevano posizioni rigide e polarizzate (era l’epoca dei dibattiti sui diritti civili dei negri e sulla guerra in Vietnam, che offrivano invece l’occasione per contrapposizioni molto rigidamente delineate). La bioetica appariva come un campo troppo esposto alla soggettività, troppo sfumato per essere affrontato con il pensiero razionale e la discussione sistematica. Questo territorio di frontiera andava riportato, sul modello di quanto avevano fatto i colonizzatori del Far West, entro i confini definiti della legge e dell’ordine.

In quanto istituzione leader nella bioetica, lo Hastings Center ha contribuito in modo decisivo a far prevalere il nuovo linguaggio della bioetica. Grazie al lavoro svolto entro le sue mura, prendeva forma la bioetica dell’orientamento ai principi, della tutela dell’autonomia personale, del consenso informato, delle linee-guida e delle procedure regolamentate nelle diverse situazioni problematiche (policies), dei comitati di etica e degli “Institutional Review Boards” che regolano la ricerca.

Lo Hastings Center è cresciuto insieme al movimento della bioetica. Ne ha determinato il programma e il metodo, la direzione da seguire e il passo. Facendo il bilancio dell’attività del Centro nel 1989, a vent’anni dalla fondazione, i promotori annotavano: “Quando lo Hastings Center è stato fondato, molti dei problemi che oggi si pongono in modo più acuto ― come la decisione di non impiegare trattamenti che mantengono in vita le persone o di interromperli, i limiti da imporre

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alle cure sanitarie o la diagnosi prenatale ― non avevano ancora sviluppato la loro speciale urgenza. Altri, come l’ingegneria genetica e la fecondazione in vitro, confinavano con la fantascienza. E l’emergere di una nuova malattia devastante come l’Aids era semplicemente inimmaginabile. In quegli anni ci siamo spesso domandati se ci sarebbe stata sufficiente complessità nei problemi etici che nascevano dalla medicina e dalla scienza per darci lavoro. Oggi non abbiamo più quella preoccupazione. I progressi nella medicina e nella biologia e i problemi morali da essi generati hanno superato ogni aspettativa”.

Scorrere l’elenco delle principali ricerche condotte dallo Hastings significa percorrere il cammino della bioetica negli ultimi venticinque anni. Le pubblicazioni del Centro sono diventate un punto di riferimento obbligato: la rivista bimensile Hastings Center Report, che viene inviata ai quasi 12.000 membri associati del Centro, e IRB: A Review of human subjects research, che si rivolge a coloro che lavorano nei comitati preposti alla ricerca bio-medica con soggetti umani. Non lo si può negare: la bioetica promossa dallo Hastings Center ha avuto successo. Troppo, forse.

Daniel Callahan non inclina al trionfalismo. Non risparmia critiche alla bioetica prevalente in America, e di cui lo Hastings Center è diventato il principale luogo di irradiazione. Troppo velocemente si è passati dall'ambito della riflessione e della teorizzazione a quello delle applicazioni, specialmente nella pratica giudiziaria e nella legislazione. Troppo in fretta la bioetica è stata trascritta nel linguaggio dei diritti e delle linee-guida. Secondo Callahan, la bioetica si è innestata sulla tendenza, tipicamente americana, a rifuggire da un pensiero troppo speculativo e a passare rapidamente a soluzioni pratiche. Le linee-guida, che forniscono un terreno di mediazione su cui regolare i conflitti, si sono trasformate in una specie di “passepartout” della bioetica.

Specialmente allo Hastings Center le linee-guida sono diventate molto popolari. Nel corso degli anni ne sono state elaborate molte: circa lo screening genetico di massa, la diagnosi prenatale, l’interruzione di trattamenti a malati terminali, i test per la sieropositività e l’Aids. Callahan ritiene tali linee-guida necessarie per la società. Ma anche pericolose: sempre più numerose sono diventate le persone interessate solo a regolare la pratica quotidiana della medicina e della ricerca, ma incuranti delle questioni teoriche. Troppi studiosi hanno identificato la bioetica con la produzione di principi da applicare in maniera semplicistica, talvolta quasi meccanicamente, a tutti i problemi che si presentano.

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I limiti del progresso medico e la ricerca della saggezza

Callahan non è certo il solo che mostra fastidio per i tre principi che identificano la bioetica standard ― autonomia, beneficità e giustizia ― e soprattutto per coloro che li recitano come dei mantra sacri. La sua irritazione è diretta soprattutto alle omissioni della bioetica come disciplina: questa potrebbe e dovrebbe avere un campo di esplorazione più profondo, sollevare questioni più critiche, mentre invece finisce per fornire la sua collaborazione alla medicina così com’è. Proprio in quanto serve a smussare i conflitti più acuti e a indicare come gestire le situazioni più problematiche, diventa funzionale al potere della medicina. La bioetica viene a perdere così il ruolo di critica e di stimolo che dovrebbe esercitare nei confronti della medicina nel suo insieme, e della cultura di cui la medicina è parte.

Dal punto di vista teoretico, l’insoddisfazione di Callahan nei confronti della bioetica standard americana è giustificata con l’insufficienza dell’etica analitica. Personalmente si considera, dal punto di vista filosofico, un aristotelico di vecchio stampo, nel senso che è interessato, come gli antichi greci, soprattutto alle questioni dei fini ultimi della vita umana e di ciò che la rende “buona”. Si orienta più verso un’etica della “prudenza” e della virtù, nonché a un concetto di buona società, piuttosto che a un’etica retta da regole e principi morali. Le questioni associate con la tradizione aristotelica sono quelle che possono essere ricondotte alla “ragione pratica” o “saggezza” necessaria per riconoscere, nelle circostanze concrete, le scelte armonizzabili con la “buona vita”. Essere saggio è qualcosa di più che sapere quali devono essere le regole.

Queste osservazioni critiche alla bioetica che si è modellata sull’etica analitica Callahan le condivide con altri studiosi della disciplina, di diverso indirizzo. In termini positivi, il suo contributo specifico al cambiamento è stato quello di aver obbligato la bioetica a confrontarsi più profondamente con la nozione di limite. Lo ha fatto soprattutto con le sue ultime opere, che hanno suscitato un acceso dibattito: Setting limits: Medical goals in an aging society (1987), What kind of life: The limits of medical progress (1990) e The troubled dream of life: Living with mortality(1993).

Ancora una volta, è importante considerare non solo il contenuto tematico di questi volumi, ma anche quello che affermano in obliquo. Proprio mentre in America, alla fine degli anni ’80, alla bioetica arride il successo più lusinghiero ― l’etica è ormai insegnata nella quasi totalità delle scuole di medicina, i media ne parlano con favore, più del 60 per cento degli ospedali ha istituito un comitato di etica e molti hanno assunto degli esperti di bioetica, creando un servizio di consulenza ―

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Callahan sembra “tradire” la disciplina, piantando altrove i paletti della sua tenda.

Daniel Callahan è stato uno dei primi ad avvertire che la bioetica, sul finire del decennio che aveva visto il suo massimo sviluppo, doveva spostare la sua attenzione dai problemi legati ai diritti personali e alla tutela dell’autonomia dei pazienti nelle scelte cliniche ai problemi della giustizia. Piuttosto a disagio nei confronti della bioetica standard (quella centrata sui dilemmi morali e sulle scelte talvolta tragiche che l’individuo è chiamato a fare, ed eventualmente sulle linee-guida che possono aiutare a risolvere tali conflitti), Callahan è invece interessato ai cambiamenti che la medicina introduce nella società, nel nostro modo di considerare la vita, nella cultura di cui facciamo parte.

Una di tali trasformazioni critiche è la conquista della vecchiaia da parte della medicina, a partire dalla acquisita capacità di prolungare la vita umana. Tentar di procurare cure sanitarie sempre più efficaci per gli anziani è diventata la più estesa delle frontiere della medicina. Resistere alla morte, estendere il più possibile la vita degli anziani, curare tutte le malattie indipendentemente dall’età di coloro che le contraggono è l’ideale di questa medicina. Un ideale anche di natura morale: si rifiuta come una discriminazione indegna della medicina l’idea che l’età del paziente possa essere una variabile da prendere in considerazione, qualora ci siano i mezzi tecnici di potergli portare dei benefici (gli standard di trattamento vogliono essere programmaticamente ciechi nei confronti dell’età).

Callahan mette in discussione gli assunti fondamentali di tale concezione. La versione semplificata della sua tesi, messa in circolazione dai media, è stata identificata con la proposta di sottrarre le cure mediche alle persone anziane, dopo una certa età: intanto perché è dubbio che queste cure diano agli estremi anni strappati alla morte una qualità tollerabile; e poi perché, anche se lo volessimo, ben presto non ce lo potremmo più permettere, per l’aumento delle spese per la sanità e la modifica della curva demografica.

Ma il progetto di Callahan ha maggior spessore di quello che la divulgazione semplificata del suo pensiero lascia indovinare. La crisi dell’allocazione delle risorse è solo il punto di partenza per interrogativi più fondamentali: se dobbiamo cominciare a fare delle scelte e a stabilire delle priorità nella distribuzione delle risorse, diventa prioritario stabilire che cosa vogliamo che la medicina nel suo insieme faccia per noi. In altri termini, la crisi finanziaria della sanità ci offre una preziosa occasione, anche se dolorosa, di sollevare degli interrogativi di fondo sulla salute e sulla vita umana, sugli obiettivi della medicina e della sanità contemporanea. Le poste in gioco sono quindi sostanzialmente le questioni antropologiche.

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In questo quadro vanno lette le considerazioni di Callahan sulla necessità di “porre dei limiti”. La sua proposta non si riduce a un razionamento delle scarse risorse sanitarie, ma fondamentalmente richiede di considerare la vita umana come limitata. Callahan parla di “natural life span”: la vita si sviluppa naturalmente entro un arco temporale, che comprende un inizio, una crescita, una decadenza e una fine, con la morte come suo correlato naturale. Siamo incapaci, e lo saremo inevitabilmente anche in futuro, di fare felici gli anziani spendendo sempre più per la loro sanità. L’incapacità è connaturata a una cultura che non sa pensare la vita umana nell’orizzonte del limite. Anche se, per ipotesi, le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite ― aiutando sempre più persone a vivere sempre più a lungo ―, non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada.

Anche quanto Callahan ha scritto sull’allocazione delle risorse va ricondotto a una riflessione sui limiti del progresso medico. Il problema della sanità non è quello che appare in superficie, cioè una questione di maggiori finanziamenti, di efficienza e di giustizia nell’accesso alle cure. È piuttosto una crisi circa il significato e la cura della salute, circa il posto che la ricerca della salute deve avere nella nostra vita; in definitiva, riguarda il “tipo di vita” (What kind of life) ― la “buona vita” ― da condurre. Per questo la soluzione della crisi non sarà offerta dal ricorso a terapie meno costose o a nuove e più efficienti strategie di servizio sanitario. Bisogna imparare a “vivere con la mortalità” (Living with mortality).

La direzione in cui Callahan propone di muoverci presuppone una distinzione tra gli interventi medici destinati a curare le malattie e quelli rivolti a prendersi cura del malato. Come società, non possiamo permetterci di curare ognuno, ma dobbiamo invece sentirci obbligati a prenderci cura di tutti. Compito della società è di migliorare il carattere della vita nel suo insieme, di contenere il periodo di morbilità che affligge l’ultima parte della nostra vita, di prevenire morti premature. Parallelamente, siamo chiamati a favorire il cambiamento che ci permette di trasformare il nostro modo di comprendere la malattia, la vita, la salute e la morte: in definitiva, di rimediare a una pericolosa mancanza di direzione morale.

Anche questo compito, che mobilita le nostre energie verso una interiorità ― benché sia tutt’altro che una fuga nello spiritualismo ―, si propone con urgenza, se vogliamo che il ripensamento della vita umana alla luce della sua intrinseca limitatezza si traduca in una opportunità di crescita.

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Riferimenti bibliografici

Daniel CallahanHonesty in the Church, Scribner’s, New York, 1965; tr. it. Onestà nella chiesa, Queriniana, Brescia, 1966.

Daniel CallahanAbortion: Law, choice and morality, Macmillan, New York, 1973.

Daniel CallahanThe tyranny of survival, Macmillan, New York, 1987.

Daniel CallahanSetting limits: Medical goals in an aging society, Simon and Schuster, New York, 1990.

Daniel CallahanWhat kind of life: the limits of medical progress, Simon and Schuster, New York, 1990.

Daniel CallahanThe toubled dream of life: Living with mortality, Simon and Schuster, New York, 1993.

Daniel Callahan, «Porre dei limiti; problemi etici e antropologici», in L’Arco di Giano, 4, 1994, pp. 75-86.

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4. Ronald Carson: educarsi all’immaginazione morale

Medicina d’avanguardia, nel solco della tradizione

Bisogna proprio avere un buon motivo per spingersi fino a Galveston, la città più meridionale dello stato americano del Texas, affacciata sul golfo del Messico. L’aereo vi deposita a Houston; ricoprire gli altri 80 km. per raggiungere la città, non collegata con la ferrovia, è lasciato all’inventiva personale. Galveston è chiamata “la città degli oleandri”; ma le paludi che si attraversano prima di giungervi evocano piuttosto afa e zanzare.

Il motivo sufficiente per affrontare il viaggio che hanno i cultori delle medical humanities si trova nell’area occupata dalla facoltà di medicina dell’Università del Texas (University of Texas medical brandi). Tra una selva di nuovi edifici ― laboratori, ospedali e cliniche, costruzioni dedicate alla ricerca e alla didattica ― si distingue un edificio singolare. Lo chiamano “Old Red”. Bisogna riconoscere che fa onore al suo nome. È vecchio di un secolo, e attira l’attenzione per il colore vivo dei mattoni e della pietra rossa del Texas, in uno stile architettonico enfatico chiamato “revival romanico”. Se non rende buoni servizi all’estetica, esprime però adeguatamente l’ambizione di coloro che lo hanno destinato ad ospitare la sede della prima facoltà di medicina costruita ad ovest del Mississippi (fu inaugurata nell’ottobre del 1891, con un corpo docente di 13 professori per 23 studenti di medicina...).

La nostra meta ha sede nell’Old Red, al secondo piano. È l’Institute for the Medical Humanities. Vi si accede attraversando un corridoio di ingresso ― la Hall of Medicine ― fiancheggiato da dodici altorilievi di altrettanti personaggi che hanno segnato la storia della medicina. Dall’egiziano Imhotep a Marie Curie, passando per Ippocrate, Vesalio, Pasteur e Rontgen, 26 secoli di storia della medicina fanno ala al visitatore.

L’Institute for the Medical Humanities è stato creato nel 1973. Nel 1974 un generoso sussidio federale, nel contesto del “Fondo nazionale

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per le humanities”, permetteva all’istituto di decollare. In vent’anni di vita si è creato una solida reputazione come centro pilota nelle medical humanities. Svolge un’opera di formazione per gli studenti di medicina dell’Università del Texas, in diversi momenti cruciali del loro curriculum; promuove la conoscenza della dimensione umanistica della medicina attraverso una rivista apposita ― Medical Humanities Review ― e una prestigiosa collezione: “Literature and Medicine”. Dal 1988 l’istituto è stato autorizzato a conferire il dottorato di ricerca (Ph D) in medical humanities: una possibilità che non ha l’equivalente né negli Stati Uniti, né altrove.

Il corpo docente dell’istituto è costituito da una decina di studiosi, le cui competenze spaziano dalla storia e filosofia della medicina (Chester Burns) al diritto (William Winslade), dall’arte (Mary Winkler) alla letteratura (Anne Hudson Jones), dalla storia culturale (Thomas Cole) all’etica medica (Harold Vanderpool). Direttore dell’istituto, dal 1982, è Ronald Carson.

Una carriera nelle medical humanities è quanto meno inconsueta. Quella di Ronald Carson comincia dalla teologia. È cresciuto nella tradizione presbiteriana della Free Church e ha fatto studi di teologia sistematica, culminati nella laurea conseguita nella facoltà di teologia di Qlasgow, in Scozia, con una tesi sulla critica di Nietzsche alla religione e alla moralità. Gli autori su cui si è formato sono Jean Paul Sartre ― al cui pensiero ha dedicato un libro, pubblicato nel 1974 ― e Dietrich Bonhoeffer. Le sue radici culturali affondano in Europa. E anche quelle affettive, grazie a una moglie tedesca, che lo ha aperto alla lingua, alla letteratura e alla filosofia della Germania.

Ha avuto una prima occupazione come professore di religione al Mark Hopkins College a Brattleboro. Erano gli anni turbolenti intorno al ’68, quelli del movimento per i diritti civili e della guerra in Vietnam. Studenti e docenti imparavano a compitare insieme il linguaggio dei diritti.

In quanto teologo, Carson era stato formato per insegnare agli altri. Ma della religione gli importava più l’aspetto pastorale di quello dottrinale. Se voleva aiutare gli studenti a orientarsi nelle questioni alle quali cercavano una risposta, doveva assumere un atteggiamento di ascolto. Nella teologia cercava una istituzione morale con funzione critica, che aiutasse a dare un significato nella vita. Il suo ideale, cioè la cura compassionevole per l’essere umano, ha trovato il modo di realizzarlo nell’ambito delle medical humanities, più che nelle istituzioni ecclesiali.

Un passo ulteriore in questa direzione è avvenuto con il suo trasferimento nell’Università della Florida, a Gainesville, nel 1975. Era professore

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associato nel Dipartimento di igiene e medicina della famiglia (Community health and family medicine) e dirigeva la Divisione di scienze sociali e Humanities. Qui si rese conto delle possibilità offerte dall’etica medica, che cominciava a mobilitare il dibattito pubblico e a suscitare l’interesse esistenziale degli studenti. Era soprattutto l’aspetto applicativo ad appassionarlo: come in precedenza era rimasto freddo nei confronti della dimensione dottrinale della teologia, a vantaggio dei suoi aspetti pastorali, allo stesso modo ora l’etica medica lo interessava non come speculazione filosofica, ma come nuova pratica.

Nel 1982 fu inviato a dirigere l’“Institute for the Medical Humanities” di Galveston. Trovava così l’ambiente intellettuale e umano che poteva dare forma completa alle sue aspirazioni.

La bioetica nel contesto delle medical humanities

Mentre nella cultura attuale, soprattutto negli Stati Uniti, si fa un uso quasi inflazionistico del termine bioetica, colpisce la discrezione dell’istituto di Galveston a questo proposito. La parola non ricorre nelle “brochures” di presentazione. Parrebbe evitata di proposito. Questa reticenza induce a esplorare il rapporto tra bioetica e medical humanities, secondo la visione che ne ha l’istituto.

Più che di una posizione ufficiale dell’istituto, si deve parlare di un consenso tra gli studiosi che lo costituiscono. Ciò che li caratterizza è di non escludere, ovviamente, l’etica dai loro interessi, ma di collocarla in un contesto più ampio, quello appunto delle medical humanities. La formazione etica che mirano a fornire agli studenti di medicina avviene in un concerto di varie discipline dell’area umanistica, rappresentate dalla storia, dal diritto, dalla letteratura, dalla filosofia e dalla religione. Queste diverse discipline si confrontano con le questioni morali che sorgono in medicina.

L’insegnamento dell’etica, così concepito, è filosofico in senso molto ampio. Non è finalizzato ad applicare i principi etici alla medicina, ma ad impegnare i medici e gli studenti a chiarire quegli aspetti della loro pratica che sollevano perplessità. Ma prima bisogna imparare a vedere e riconoscere queste ultime: l’etica è un problema percettivo, oltre che concettuale. Per questo la formazione al giudizio etico comincia con l’educazione all’immaginazione morale.

L’Istituto è coinvolto nella formazione dei futuri medici durante il loro intero curriculum. Un momento cruciale è il primo impatto con la medicina. L’Istituto offre loro un corso introduttivo dimedical humanities in forma di seminario, con una quindicina di studenti per classe. L’esperienza ha insegnato, infatti, che la formazione etica, se non vuol

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essere un indottrinamento, deve essere fatta in un formato che renda possibile il faccia a faccia.

Il corso esamina criticamente le dimensioni della medicina moderna che esulano dalla prospettiva rigidamente bio-medica. Benché tra gli argomenti inclusi tra quelli proposti alla discussione ve ne siano alcuni di alto profilo etico ― come l’Aids e l’aborto ― l’accento è posto soprattutto su quelli meno vistosi, che raramente attirano l’attenzione. Questi rischiano di essere disattesi, mentre in realtà permeano la struttura stessa della medicina clinica. Il riferimento è al rapporto medico-paziente nella sua complessa natura etica e sociale, all’esperienza della malattia, al vissuto della morte e dell’invecchiamento, ai problemi sanitari di pazienti con scarse risorse economiche.

Per introdurre a queste tematiche la letteratura offre possibilità maggiori di quelle che fornisce il ragionamento filosofico. Ai giovani studenti di Galveston vengono proposte delle letture previe, raccolte in una specie di sillabario. Le letture includono saggi filosofici, articoli di natura storica, resoconti medici, opinioni legali, insieme a brani propriamente letterari. Le letture sono corredate di domande che favoriscono la discussione in classe. Ad esempio, per preparare la sessione intitolata “L’esperienza della malattia”, lo studente legge La metamorfosi di Kafka. Viene guidato, nell’analizzare criticamente la novella,lì prestare attenzione all’esperienza di Gregor Samsa e alle reazioni di coloro che lo circondano: che cosa rivela il racconto circa le risposte all’incidente che sfigura e rende inabile, circa la perdita della funzionalità, del ruolo sociale e della sua stessa identità?

Per introdurre l’argomento dell’eutanasia, viene proposta la lettura della novella Mercy di Richard Selzer, il chirurgo scrittore i cui libri sono molto popolari in America. Attraverso il racconto lo studente viene sollecitato ad esaminare le alternative che si presentano al medico in questione ― sospendere ogni trattamento eccetto i narcotici, somministrare una overdose di morfina e bloccare le vie respiratorie del paziente ― per giungere a una posizione di condivisione o di rifiuto del comportamento del medico.

L’offerta di formazione si differenzia negli anni seguenti. Nel secondo anno consiste in quattro sessioni dedicate alla medicina come fenomeno sociale nell’ambito del corso obbligatorio di medicina preventiva. Nel terzo anno, durante il periodo clinico, vengono presentate sei conferenze sui casi clinici e un corso apposito di medicina legale. Nel quarto anno gli studenti possono partecipare, facoltativamente, a corsi monografici tenuti dal corpo docente dell’istituto. Anche i programmi da interno e da specializzando, che fanno seguito al quarto anno, contengono momenti strategici dedicati alla formazione etica.

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Avvicinare il medico alla letteratura

L’Istituto di medical humanities di Galveston dedica un’attenzione privilegiata alla letteratura. Della rivista monografica “Literature and Medicine”, iniziata nel 1982, l’istituto è diventato lo sponsor, a partire dal 1985, e Anne Hudson Jones l’“editor”. Insegnare la letteratura a chi si orienta verso una professione sanitaria è sicuramente una scelta non convenzionale, che costringe a riflettere sul tipo di medico che si vuol formare.

La scelta culturale di fondo dell’istituto è stata quella di tenere aperto il campo dellehumanities a medici e studenti di medicina, proprio quando queste discipline si sono generalmente rivolte agli specialisti. Questo è successo anche alla letteratura. A Galveston hanno deciso di non rinunciare alle risorse che la letteratura offre, pur non dimenticando che si rivolgono non a futuri critici letterari, ma a medici. Anche costoro ― forse, soprattutto costoro! ― hanno bisogno della letteratura, in quanto questa amplia l’orizzonte della immaginazione ed educa la sensibilità.

I rapporti tra la medicina e la letteratura sono più che occasionali: possiamo dire che sono strutturali. Come ha notato lo storico della letteratura George Rousseau, ogni volta che un paziente entra nello studio di un medico può accadere un’esperienza letteraria: piena di personaggi, ambienti, tempo, spazio, linguaggio; è un copione che può andare a finire in un numero prevedibile di modi. La letteratura arricchisce la percezione di questo dramma quotidiano.

W.H. Auden ha affermato che la letteratura può fornire preziose intuizioni su se stessi. Ecco, è proprio questo che l’insegnamento della letteratura ai medici vuol favorire: quella introspezione che è ritenuta estranea alla formazione professionale, mentre è essenziale per imparare a curare e a prendersi cura degli altri. Conoscere i propri limiti, le proprie risorse, i propri sentimenti nei confronti della degradazione prodotta dalla malattia e dalla morte è un elemento indispensabile per la formazione di un buon medico. E allo stesso tempo la letteratura costituisce un apprendistato per chi deve occuparsi degli altri in condizione di dolore.

La modalità di insegnamento della letteratura ai professionisti della sanità costituisce un problema che deve essere messo ben a fuoco. Evitati da una parte i tecnicismi adatti per gli esperti in letteratura, e dall’altra l’annacquamento dei testi per il fatto che vengono proposti a dei non specialisti, rimane la necessità di strutturare un vero e proprio insegnamento che tenga conto dell’uditorio particolare a cui si rivolge. Non ci si può limitare a proporre dei prodotti letterari a professionisti

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già molto impegnati, sperando che i testi agiscano in modo magico. Gli studenti hanno bisogno di una guida.

L’insegnamento non deve mai mettere in ombra che l’obiettivo in letteratura è lasciare che il testo parli per se stesso. L’attività critica dell’insegnamento della letteratura dovrebbe includere l’interpretazione orale dei testi letterari. Leggere un testo a voce alta costringe a prestare attenzione a ciò che lo scritto sta facendo, senza richiedere una elaborata teoria della letteratura come preliminare. Confrontarsi poi con le interpretazioni di un testo, inclusa l’esplicitazione del rapporto che l’insegnante ha con il testo stesso, costituisce parte integrante dell’insegnamento della letteratura in medicina.

Non è necessario che le tematiche siano formalmente mediche. Tanto meno ovvi sono i rapporti con la medicina, tanto più efficace può essere l’effetto di un testo letterario. Non basta, tuttavia, il contenuto medico per ottenere un buon risultato: non è sufficiente la tematica di natura medica per rendere letteratura un testo che non lo sia.

Quand’anche siano state chiarite tutte le condizioni di un buon insegnamento della letteratura in medicina, non bisogna farsi illusioni: nell’ambiente medico rimarrà una resistenza di fondo, che è difficile da superare. La forza della letteratura, infatti, sta nella sua capacità di evocare e articolare i sentimenti. La medicina, invece, insegna a diffidare dei sentimenti. Il percorso per armonizzare la letteratura, nella sua capacità di modellare l’esperienza umana, senza maltrattarla, con la medicina è ancora molto lungo.

Oltre alla letteratura, l’istituto di Galveston offre tra le medical humanities diverse discipline che non si è soliti vedere allineate nello stesso scaffale della bioetica. Così le arti visive. Il loro inserimento nel curriculum formativo nasce dalla presa di coscienza che ci sono significati che sfuggono a un’analisi di tipo concettuale, soprattutto se condotta con gli strumenti della filosofia, mentre la rete delle arti espressive riesce facilmente a catturarli. Basta riferirsi ai corsi sistematici tenuti a Galveston da Ellen More sul corpo nella società e sulle interpretazioni della cultura visiva. Oppure all’opera curata da Anne Hudson Jones che nasce da un simposio tenutosi nell’istituto:Images of nurses. Perspectives from history, art and literature (University of Pennsylvania Press, 1988). Per cogliere il significato e il ruolo delle infermiere nella nostra società l’arte e la letteratura aiutano quanto la migliore analisi sociologica.

Un altro esempio che si può citare è quello della ricerca di un modello alternativo al professionalismo medico che conosciamo come “scientifico”: un modello che sia allo stesso tempo esperto ed empatico. Le donne sono entrate nella professione medica senza riuscire a scalzare il modello dominante, che ignora il rapporto di fiducia e la

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profonda connessione che si stabilisce tra il paziente e il professionista. Il pensiero femminista sembra più adatto a cogliere i modi in cui le donne in medicina tentano di superare la separazione che si è creata tra il carattere morale e la conoscenza tecnica, riconciliando nella donna medico valori e ruoli divergenti. Tutto questo, così importante per una medicina umana, rischia di passare tra le maglie troppo rigide della bioetica. Le arti, invece, sono più funzionali ed efficaci nel proporre altri modelli di assistenza.

Per una bioetica che includa il prendersi cura

Nell’orientamento alle medical humanities è possibile leggere, in filigrana, una critica implicita alla bioetica che è venuta affermandosi negli Stati Uniti negli ultimi due decenni. Ronald Carson ha espresso a più riprese riserve nei confronti dell’impostazione dominante in bioetica, sviluppando nel corso degli anni una critica parallela alla trionfale ascesa della bioetica.

Già nel 1977 ― era ancora all’Università della Florida, a Gainesville ― il Journal of the American Medical Association ha ospitato un suo articolo dal titolo «What are physicians for?» («Qual è il compito dei medici?»). Carson prendeva posizione contro un articolo, apparso nella stessa rivista, che riduceva il compito del medico a un ruolo tecnico: contro la richiesta rivolta al medico di curare “tutto l’uomo”, l’intervento pubblicato da Jama rivendicava i meriti di una medicina che si limitasse a combattere la malattia, rinunciando a promuovere la salute. Suddividere l’uomo in organi e tessuti ― sosteneva l’articolista ― è proprio ciò che ha dato alla medicina di questo secolo la sua straordinaria capacita di curare.

In contrapposizione a questa identificazione del ruolo medico, Carson si rifaceva al classico saggio di Francis Peabody, The care of the patient, pubblicato nello stesso Jama cinquant’anni prima. Appoggiandosi all’autorità dell’illustre clinico, proponeva per il medico un equipaggiamento che lo rendesse capace di rapportarsi al paziente in modo personalizzato: ascoltando empaticamente, ponendo domande con immaginazione, in modo da incoraggiare una storia spontanea da parte del paziente. Si muoveva nella stessa direzione di Peabody, quando concludeva il suo saggio dicendo che «una delle qualità essenziali del clinico è l’interesse per l’umanità, in quanto il segreto della terapia è prendersi cura del paziente».

La riserva maggiore che Carson formula nei confronti della bioetica è che si è sviluppata in senso antitetico a quello auspicato da quanti si

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aspettavano che la polarizzazione degli interessi sulla medicina portasse nuova linfa al rapporto tra professionisti e cittadini bisognosi di aiuto. Di fatto, la bioetica dominante, almeno negli Stati Uniti, è il frutto del movimento dell’“etica applicata”, ovvero di un metodo di ragionamento circa i problemi morali. L’etica applicata negli anni ’80 ha scoperto la medicina e ha costruito un approccio stereotipato per risolvere i casi.

Si tratta di un metodo deduttivo. Il punto di partenza è costituito da principi, considerati sufficientemente generali per suscitare un vasto consenso. I principi, una volta posti, sono rapportati a situazioni mediche moralmente problematiche, come “guida all’azione”: alcune volte direttamente, altre volte mediante regole derivate dai principi sui quali si concorda. Le situazioni mediche sono generalmente dei casi in cui sorge un dilemma, che richiede una soluzione. Si ritiene che l’applicazione di principi ― come il rispetto delle persone, l’autonomia, la veracità, la non maleficità, l’utilità ― aiuterà a risolvere il problema. Basta solo scegliere i principi che fanno al caso, metterli in ordine e, là dove sono in conflitto, conciliarli in modo da giungere a una soluzione eticamente soddisfacente.

Carson solleva riserve nei confronti della filosofia sottostante, di cui denuncia i limiti. L’etica applicata riposa, infatti, su teorie del contratto sociale. Queste fanno coincidere la responsabilità morale con il rispetto delle regole procedurali: l’essenziale è che ci siano delle regole che governano i nostri comportamenti e dei principi che fungano da arbitri quando le regole entrano in conflitto. Ora, la nozione di contratto sociale è adatta per negoziazioni che intercorrono tra coloro che esercitano una professione e un pubblico informato che ne richiede i servizi. I punti forti di questa concezione sono la ricerca del proprio interesse nelle relazioni sociali e la concezione negativa della libertà, identificata con il diritto di non subire interferenze non volute. Traspare chiaramente la filosofia sociale di Hobbes, con il suo homo homini lupus. Come si può applicare questa visione dei rapporti sociali a ciò che intercorre tra il medico e il paziente, vale a dire a una relazione in cui la fiducia e la generosità giocano una parte significativa?

Nella prospettiva del contratto sociale, il paziente si rivolge a un dottore perché si sente male, ma in quel rapporto che stabilisce non deve mai far cadere la guardia, mai abbandonare il proprio interesse. Letica applicata ha articolato e legittimato questa concezione della realtà sociale nella cura della salute. Ma è un modo di concepire i rapporti in contrasto con l’esperienza di molti pazienti e professionisti della sanità: la cura della salute è piuttosto un luogo dove circolano simpatie, gesti di generosità, altruismo, abnegazione.

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La bioetica come discernimento

L’incontro attuale tra le humanities e la medicina sembra proporre un’altra base per l’etica che regola i rapporti che si stabiliscono nelle cure sanitarie. Carson, mentre demarca la sua posizione rispetto all’etica contrattuale e alla bioetica dei principi, si sintonizza con quei modi di pensare l’etica che rispecchiano in modo plausibile il dialogo che sta avvenendo tra le humanities e la medicina ai nostri giorni. La medicina ha attirato l’attenzione delle humanities non solo, e forse non in primo luogo, in quanto fornisce problemi etici da risolvere. Certo, ci sono anche dilemmi etici; ma sono epifenomeni.

Le humanities hanno cominciato a gravitare attorno alla medicina perché i modi tradizionali di interpretare le esperienze di malattia non illuminano più queste esperienze e hanno bisogno di essere ripensati. I conflitti etici ― e ancor più quelli legali ― in medicina sono sintomatici di profonde differenze di prospettiva nel leggere la realtà. In questa situazione non si sente tanto il bisogno di esperti nell’applicare regole, quanto di interpreti abili che siano interlocutori nelle conversazioni che avviamo in risposta alla malattia e al male, dove viene messo in discussione il senso che diamo alla nostra vita.

L’esercizio dell’etica di cui abbiamo bisogno in medicina differisce dall’applicazione di regole poste astrattamente o derivate per ragionamento, in quanto è essenzialmente una risposta personale. È affine a quanto, in contesti filosofici e culturali diversi, è stato identificato come “ragione pratica”, “ermeneutica”, “casistica”. È essenzialmente un’opera di discernimento. In quanto tale, impegna la persona dell’interprete: non solo l’intelletto, ma anche il cuore. Carson è in sintonia con James Gustafson, che ha chiamato il discernimento «un’intuizione informata, non la conclusione di un’argomentazione logica formale».

La bioetica che propone sotto l’etichetta del discernimento ha la stessa origine del nostro senso morale ed è diversa dalla predicazione, dalla manipolazione e dalla spiegazione. Discernere equivale a uno spiegamento del nostro senso morale. Il suo compito in un contesto clinico è quello di determinare la cosa giusta da fare alla luce della concezione che esprime il senso della nostra vita e una lettura plausibile delle circostanze che caratterizzano il caso concreto. L’interpretazione morale è analoga all’interpretazione di una poesia. Siamo tutti interpreti di una moralità che condividiamo. Come una poesia, ha avuto una quantità di letture e spiegazioni, ma è aperta a una lettura di nuova qualità, che può illuminarla in modo più impressionante e convincente.

La bioetica interpretativa si può trasporre, più che in termini di applicazione di principi e regole, in quelli dell’antica arte della retorica

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― intesa come un metodo rigoroso di senso comune per determinare ciò che ha la massima probabilità di essere vero, come ricerca di una sicurezza più certa che probabile, a cui ancorare la nostra vita morale ― negli incontri che nascono nell’ambito clinico.

Riferimenti bibliografici

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S. Rousseau, La medicina e le Muse, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1993.

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5. Maurice De Wachter: a scuola di spirito di tolleranza

Un belga per presiedere un’istituzione olandese

Maastricht ― una tranquilla cittadina olandese, capitale della provincia del Limburgo ― ha avuto in sorte di entrare nel linguaggio comune. Come simbolo di un’Europa che progetta di abolire le frontiere nazionali e di puntare verso il federalismo, Maastricht ha scoperto una vocazione insospettata; o piuttosto, si è saputa creare un destino, attingendo all’industriosa furbizia che non è mai mancata ai mercanti olandesi. Si è proposta come centro, non solo ideale ma organizzativo, della futura Europa.

Negli ultimi anni decine di istituti internazionali, per lo più legati alla Cee, vi hanno stabilito la loro sede. Qui ha aperto i battenti l’Università del Limburgo, con programmi sperimentali molto innovativi nel corso di laurea in medicina. Su Maastricht, ancor prima che si proponesse come l’epicentro di un’“euro-regione”, è caduta la scelta del governo olandese quale sede per un istituto nazionale di bioetica: l’“Instituut voor Gezondheidsethiek”. Collocato in un elegante edificio di stile vagamente barocco, a ridosso della chiesa di S. Servo, pone anch’esso la sua candidatura ad essere considerato un epicentro per la comune bioetica, di cui l’Europa senza frontiere non potrà fare a meno.

Il termine “bioetica” non appare nella denominazione ufficiale, che parla piuttosto di “etica della salute”. Tuttavia è alla bioetica che hanno pensato i fondatori dell’istituto. Sullo sfondo troviamo André Hellegers, l’ostetrico di origine olandese, ricercatore nell’ambito della vita fetale, che nel 1971 ha dato vita al Kennedy Institute di Washington.

Benché trapiantato negli Stati Uniti, Hellegers aveva mantenuto vivi contatti con la madrepatria. Gli stava molto a cuore che il movimento bioetico, alla cui crescita in America egli aveva dato un impulso decisivo, mettesse radici anche in Europa. Già fin dal 1979 ― l’anno della sua improvvisa e prematura morte ― aveva preso contatti con alcune personalità

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del mondo scientifico e filosofico olandese, perorando la creazione di un istituto di bioetica. La discussione del progetto è andata avanti per cinque anni.

Un punto qualificante del consenso raggiunto era che l’istituto non dovesse semplicemente riflettere l’etica medica ― quale è insegnata nelle facoltà di medicina olandesi, in quanto espressione del punto di vista della professione medica sui problemi etici ― ma adottasse una prospettiva più ampia. Anche se si era rinunciato ad adottare il neologismo americano, l’opzione per “etica della salute” esprimeva eloquentemente la volontà di superare la prospettiva dell’etica professionale.

Quando si trattò, nel 1984, di nominare il direttore del neonato istituto, la scelta cadde su Maurice De Wachter. I fondatori diedero prova di ampie vedute, aliene da provincialismo. Basti dire che De Wachter non è olandese, ma belga, e che dal 1978 si trovava a Montreal, presso il Centro di bioetica dell’istituto di ricerca clinica.

Convocato dal consiglio direttivo, una delle prime domande che si sentì rivolgere riguardava la fisionomia che intendeva dare all’istituto: si sarebbe sviluppato sul modello del Kennedy Institute (legato a una università) o su quello dello Hastings Center (indipendente da istituzioni accademiche, basato su progetti di ricerca)? «In Europa faremo come in Europa», è stata la risposta del neo-direttore. E la promessa è stata mantenuta.

Al momento di assumere la direzione dell’istituto nazionale olandese, De Wachter aveva fatto già un lungo cammino dentro la bioetica. I suoi inizi erano stati nell’etica teologica: laureato all’università Gregoriana di Roma, aveva insegnato teologia morale nella facoltà di teologia dell’università Cattolica di Lovanio. Dal 1975 al 1978 era passato alla facoltà di medicina dell’università di Nimega, in Olanda, inserito nel dipartimento di etica medica.

Già la sua prima esperienza di insegnamento era stata molto formativa. Come teologo veniva sollecitato ad affrontare i problemi morali che gli ponevano i medici delle istituzioni cliniche legate all’università Cattolica di Lovanio. A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, l’attenzione predominante negli ambienti cattolici era rivolta alle questioni che ruotavano attorno all’esercizio della sessualità: fertilità e sterilità, contraccezione, sterilizzazione, inseminazione artificiale, aborto.

Pur essendo invitato a intervenire in quanto teologo, De Wachter cominciò a sviluppare una metodologia che si allontanava dalla semplice applicazione ai casi singoli della dottrina elaborata dai moralisti, con un procedimento tutto deduttivo. Per anni si incontrò periodicamente con un gruppo di ostetrici e ginecologi, discutendo i casi difficili. Rinunciò a fare la consulenza morale nel modo che è abituale alle istituzioni

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confessionali, dando cioè le risposte, come specialista della morale, alle questioni che venivano poste da professionisti della medicina i quali, essendo outsiders nelle discipline teologiche, sollecitavano la risposta dall’esperto. Si mise piuttosto a cercare le risposte con i medici, all’interno del gruppo di lavoro sui problemi della fertilità e della sterilità. Al termine di una lunga elaborazione, uscì nel 1976 una pubblicazione comune: Fecondità umana e regolazione delle nascite. Un dialogo interdisciplinare. L’innovazione era nel metodo, prima ancora che nei contenuti. Emergeva in tutta evidenza che la bioetica era altra cosa rispetto sia all’etica professionale, sia alla morale confessionale.

Una bioetica che nasce dal dialogo interdisciplinare

In questo primo lavoro c’era, in germe, la novità metodologica che si sarebbe pienamente sviluppata nella bioetica. Per ora l’innovazione portava la qualifica, poco appariscente, di “dialogo interdisciplinare”. L’interdisciplinarietà a cui si riferiva De Wachter era molto di più della generica disponibilità a sedersi attorno a un tavolo per dibattere con cultori di diverse discipline i problemi complessi che presenta la medicina moderna. Comportava anzitutto la rinuncia a privilegiare il punto focale di una disciplina egemone.

In pratica, ciò significava la detronizzazione di forti pretendenti al primato. La teologia (la quale, appellandosi a una rivelazione, non ama mettersi sullo stesso piano di altre discipline); la deontologia professionale (che salutava con gioia l’ondata di interesse per i problemi normativi ed etici della medicina moderna, ripromettendosi una nuova giovinezza); la filosofia morale (che veniva sollecitata a guidare, alla luce della razionalità, una ricerca di regole morali che in epoca di secolarizzazione non poteva più essere attribuita alla religione).

La metodologia interdisciplinare proposta da De Wachter ― in attesa di un termine più efficace per designare la svolta ― richiede come condizione previa un confronto collettivo e senza pregiudizi da parte di diverse discipline interessate alla stessa questione, ma tutte su un piede di parità. Ciò domanda una sospensione provvisoria di ogni metodo monodisciplinare attualmente conosciuto.

Nella misura in cui questa interdisciplinarietà viene attuata, crea dei problemi non solo ai biologi e ai medici, ma anche ai filosofi morali. Invece di assumere una posizione di imperioso predominio, estendendo il suo sapere nelle nuove province della medicina e della biologia, l’etica è chiamata anch’essa a sospendere la sicurezza del proprio metodo, mettendolo quasi tra parentesi.

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La rinuncia al primato di una disciplina sulle altre è la condizione negativa per il lavoro di un’équipe che nasca dalla giustapposizione di diverse competenze. La condizione positiva è che si intraprenda un serio sforzo di comunicazione. Bisogna “tradurre” i diversi linguaggi.

Immaginiamo un ginecologo e un esperto di etica che si incontrano regolarmente per discutere i loro punti di vista su problemi come la contraccezione, la sterilizzazione, l’aborto. Ognuno sviluppa una argomentazione alla propria maniera, con una terminologia e una logica specifiche; attraverso queste arriva alla propria conclusione. Le conclusioni possono coincidere o differire; ma raramente c’è quel dare e quel ricevere che li porta a una conclusione nuova per ciascuno di loro due. Se non c’è la disponibilità a cambiare il proprio atteggiamento e a tradurre le proprie convinzioni in un linguaggio che l’altro possa apprezzare, la comunicazione interdisciplinare non ha luogo.

La formulazione di queste prime approssimazioni alla bioetica è balbettante, soprattutto se confrontate con le vive esperienze personali fatte nel dialogo interdisciplinare, praticato nel contesto clinico con i medici disponibili al nuovo approccio. De Wachter doveva proseguire e approfondire questa esperienza in un altro contesto, molto più favorevole: quello dell’istituto di ricerca clinica di Montreal. Nel 1978 si scioglieva dall’abbraccio piuttosto costrittivo della piccola Olanda e prendeva il largo per il vasto Canada. Fino al 1984 avrebbe collaborato con David Roy, un altro importante pioniere della bioetica.

De Wachter poteva ora sviluppare la pratica della bioetica senza due condizionamenti sentiti come molto limitanti: quello di un’istituzione confessionale, che deve promuovere una morale ben identificata, e quello delle strutture accademiche. L’immensa distesa del Canada esprime visivamente la nuova condizione spirituale in cui De Wachter veniva a trovarsi. Di questa libertà avrebbe fatto buon uso: l’esperto di bioetica che sarebbe stato restituito dopo sei anni all’Olanda, per dirigere il suo Istituto nazionale, aveva portato a completa maturazione i primi tentativi dì una bioetica alla ricerca di se stessa. La sua concezione della bioetica si era raffinata in senso metodologico, ma soprattutto si era ampliata dal punto di vista contenutistico.

Particolarmente formativi si sono rivelati gli anni in cui ha esercitato la consulenza presso l’ospedale pediatrico collegato con la McGill University. Veniva così a trovarsi al centro dei tremendi dilemmi che sorgono nell’ambito della neonatologia. I medici si rendevano conto che applicare i moderni trattamenti indiscriminatamente sarebbe stato irresponsabile: invece di produrre dei benefici ― secondo la finalità che è propria dell’azione medica ―, avrebbero potuto semplicemente inchiodare a un’esistenza senza un minimo di qualità umana dei neonati

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che, per i gravi difetti congeniti, in passato non avrebbero superato le prove più grossolane della selezione naturale. Talvolta le opinioni dei medici e quelle dei genitori sulla cosa giusta da fare divergevano. I medici erano costretti a operare delle scelte in condizioni di isolamento, senza la possibilità di confrontarsi.

De Wachter scopriva, sul campo, l’importanza di una struttura che fosse di supporto per i sanitari confrontati con decisioni difficili. Nei paesi che avevano optato per la trasparenza, la bioetica andava promovendo il ricorso ai comitati di etica con funzione di consulenza. Tra i numerosi vantaggi che questi presentavano, c’era il fatto di trovarsi a operare a una certa distanza dall’epicentro della crisi: potevano così tener presente tutto il quadro, con maggiori possibilità di una valutazione oggettiva e indipendente. Potevano far entrare in gioco anche considerazioni di più vasto respiro, eccedenti l’ambito dell’etica medica, eppure indispensabili per una decisione eticamente appropriata: come il punto di vista della famiglia e quello della società. L’etica domandava la mobilitazione di tutte le forze; i comitati di etica si rivelavano lo strumento appropriato per questo discorso corale.

Un paese con la vocazione al pluralismo

Dopo questo lungo apprendistato, De Wachter era pronto ad assumere la direzione dell’istituzione che doveva promuovere la bioetica in Olanda. L’Olanda è stata, e rimane, per molti sinonimo di audace sperimentazione, di amore per la trasgressione, di coraggiosa coabitazione di contrasti, che altrove sarebbe impossibile. Soprattutto nell’ambito della religione e dell’etica. La stagione del cattolicesimo olandese, a ridosso del concilio Vaticano II ― con il suo nuovo catechismo, con le sue innovazioni liturgiche, con la sua insofferenza per la moralità pilotata in modo autoritario ― non è durata a lungo: la mano ferrea di Roma ha riportato alla normalizzazione quella lontana provincia inquieta, imponendo dei vescovi allineati con la nuova politica ecclesiastica di ritorno all’ordine. Ma l’Olanda non può rinnegare la sua vocazione al pluralismo, al dibattito e alla tolleranza.

La bioetica è diventata la nuova frontiera in cui l’Olanda si è trovata a verificare la sua capacità di coniugare il non conformismo con la solidità sociale. La società olandese ha una lunga tradizione di rispetto per l’autonomia della coscienza, e quindi per le scelte che dipendono da una definizione soggettiva di “vita eticamente buona”. Già nel secolo scorso l’Olanda è stata una delle poche nazioni europee che ha decriminalizzato il suicidio e i tentativi di suicidio. Nel nostro secolo le comunità

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religiose hanno per lo più abbandonato il loro pubblico antagonismo in materia di prescrizione di comportamenti morali, esercitando una pratica tolleranza di opinioni e di stili di vita divergenti. Pratiche quali l’aborto, l’eutanasia e la riproduzione artificiale hanno potuto essere difese alla luce del sole. In Olanda tutto sembra possibile. O quantomeno, tutto può essere detto, se non fatto.

Una situazione culturale di questo genere è una sfida per l’istituto nazionale di bioetica diretto da De Wachter. Le sollecitazioni ad appoggiare l’una o l’altra posizione sono continue; ma cedere ad esse sarebbe un tradimento della sua finalità istituzionale. L’Istituto deve servire a incrementare questo “ethos” della tolleranza.

Coloro che hanno preso l’iniziativa della fondazione erano in maggioranza cattolici; ma non hanno voluto dare una connotazione cattolica all’istituto. Tuttavia l’alternativa al confessionalismo non è l’agnosticismo. Non equivale alla rinuncia alle proprie convinzioni il riconoscere a ognuno il diritto di dare alla propria riflessione sui problemi etici della vita il colore che preferisce: religioso o non religioso, di una religione piuttosto che di un’altra.

La linea della tolleranza, del pluralismo e del rispetto di tutte le posizioni argomentate è stata messa a dura prova dalla questione dell’eutanasia. In Olanda sono emerse le tendenze più esplicite a far entrare l’aiuto attivo a porre termine a una vita non più desiderabile tra i comportamenti legalmente permessi. La pratica è relativamente diffusa tra i malati terminali, specialmente di Aids. L’Istituto di Maastricht ha dato un forte contributo allo studio degli aspetti etici dell’eutanasia, ma non ha mai preso posizione nei confronti della pratica: né pro, né contro.

In quanto direttore dell’istituto di bioetica e uno dei leader della disciplina nel suo paese, De Wachter si è sentito in dovere di chiarire, a livello internazionale, il dibattito che è in corso in Olanda circa l’eutanasia. La confusione terminologica è notevole: con la stessa parola si denotano pratiche diverse. Nell’opinione pubblica mondiale sono diffuse semplificazioni sbrigative, che presentano l’Olanda come un paese dove l’interruzione della vita su richiesta sarebbe praticata da medici senza la minima esitazione morale.

A De Wachter è spettato il compito di riferire l’esperienza olandese e la riflessione che l’ha accompagnata. Ha perorato il ricorso, sul modello anglosassone, alle policies, ovvero alle linee-guida elaborate da istituzioni o comitati, che non hanno valori di leggi ma offrono un aiuto al giudizio etico (secondo John Fletcher, affrontare certi problemi con l’aiuto di linee-guida è meglio che affrontarli con la semplice forza delle convinzioni...). Tuttavia, sul problema di fondo De Wachter ha

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mantenuto la stessa discrezione che caratterizza la linea dell’istituto: il giudizio sulla permissività olandese nei confronti dell’eutanasia preferisce lasciarlo al tempo. Questo ci rivelerà se questa tendenza dell’etica è una saggezza o una follia.

Formare i membri dei comitati di etica

Uno dei risultati più vistosi del lavoro dell’istituto è stata la diffusione dei comitati di bioetica in Olanda. Alla metà degli anni ’80 numerosi comitati di etica erano sorti spontaneamente nei centri di ricerca. Erano un’espressione della volontà dei ricercatori di darsi un’auto-regolamentazione, piuttosto che puntare sulla regolazione stabilita per legge. Tuttavia la fiducia nella responsabilità individuale e nei vantaggi della deregulation non era condivisa da tutti: erano stati avanzati progetti di legge che proponevano l’istituzione obbligatoria dei comitati di etica per la ricerca, con funzione non solo di consulenza (e quindi di contributo al miglioramento della qualità dei protocolli), ma anche di regolazione.

Ma quali garanzie avrebbero dato questi comitati, se i componenti non avessero avuto alcuna conoscenza dell’etica della ricerca? Di qui la proposta di De Wachter: formare prima i professionisti sanitari e i ricercatori destinati a far parte dei comitati di etica, dando loro gli elementi fondamentali della bioetica nell’ambito della ricerca e della sperimentazione.

L’Istituto di Maastricht prese l’iniziativa di organizzare un primo corso, rivolgendosi a medici, infermieri, biologi: un corso intensivo di cinque giorni, una “full immersion” nella bioetica. Il primo corso era rivolto a non più di 20 persone. Il numero contenuto era una misura prudenziale, per camuffare un eventuale insuccesso. Invece al primo invito i candidati che hanno risposto erano così numerosi che il corso ha dovuto essere ripetuto una decina di volte. Nel frattempo questi corsi di formazione in bioetica sono diventati una iniziativa importante: centinaia di sanitari olandesi vi sono passati.

I comitati di bioetica, nella proposta di De Wachter, sono più che uno strumento per controllare che ciò che si fa nella sanità e nella ricerca medica non violi i diritti delle persone. Sono piuttosto l’espressione di un modo diverso di fare medicina. La bioetica su cui poggiano non è la solida, tradizionale etica medica, applicata a problemi nuovi: è una nuova pratica, dove l’indicazione autorevole di ciò che deve essere fatto dal punto di vista etico non è monopolio di nessuno.

Le prime esperienze di lavoro interdisciplinare in ambito sanitario fatte da De Wachter hanno così trovato, anni dopo e alcuni tornanti del

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sentiero più in alto, un’espressione più compiuta. Con i comitati di bioetica la ricerca del metodo è arrivata a un punto di approdo. Il training per i membri dei comitati è una delle attività principali dell’istituto di bioetica di Maastricht. È anche uno dei contributi di maggior peso che l’Olanda ha dato alla teoria e alla pratica della bioetica.

Riferimenti bibliografici

Ron Berghmans, «La formazione dei membri di comitati di etica in Olanda», in L’Arco di Giano, 6, 1994, pp. 253-258.

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Maurice De Wachter «Ethical Committees: regulatory, scientific or ethical institutions», in Y. Champey (a cura di), Development of new medicines, Royal Society of Medicine Services, London, 1989, pp. 71-79.

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6. Dietrich von Engelhardt: una bioetica in dialogo con le arti

La “Frazione toscana” della bioetica

Tra i politologi tedeschi è nota come la “Frazione toscana”. È il nome, tra l’ironico e l’affettuoso, che hanno affibbiato a un gruppo di leader del partito socialista che all’impegno politico abbinano un esplicito interesse per la dimensione estetica (ed edonistica...) della vita. Hanno casa in Toscana e vi si ritrovano, appena possono prendere una pausa dal lavoro, per godere dell’arte e gustare le delizie culinarie della regione. Se qualcosa di analogo alla “Frazione toscana” esistesse nel gruppo dei cultori di bioetica, a Dietrich von Engelhardt spetterebbe di diritto la presidenza onoraria. Perché della Toscana è un fervente ammiratore e vi ritorna regolarmente (anche se lo stipendio di professore universitario non gli permette di acquistarsi e restaurare la classica cascina nelle colline del Chianti).

Ha saputo abbinare i suoi interessi storici ed estetici con la diligenza dello studioso teutonico per produrre un’opera singolare: una guida di Firenze e della Toscana dal punto di vista della storia della medicina e delle scienze. Insieme a due suoi colleghi dell’università di Heidelberg ha percorso per lungo e per largo la regione, identificando e descrivendo tutti i reperti storici e artistici connessi con lo sforzo di capire la natura e di lottare per la salute. Florenz und die Toskana: ein medi- zinhistorisches Reisebuch presenta un inventario, città per città, di tutti gli ospedali storici, giardini botanici, accademie scientifiche, musei della scienza. Una dichiarazione d’amore, non l’inventario di un pedante. E allo stesso tempo il più eloquente biglietto da visita per chi volesse sapere da Dietrich von Engelhardt quale sia il suo personale approccio alla bioetica.

È quello di uno storico, anzitutto. Per la ragione formale che v. Engelhardt ha percorso la sua carriera accademica entro la disciplina della storia della medicina: prima a Heidelberg e poi Lubecca, dove è

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stato chiamato a dirigere l’istituto di storia della medicina e della scienza, creato nel 1983.

Nell’ambito culturale tedesco la storia della medicina ha dimostrato la capacità di raccogliere i fermenti che altrove si andavano sviluppando sotto etichette quali “bioetica” e medical humanities. Colonia di studi umanistici nell’ambito delle scienze biomediche, la storia della medicina in Germania ha rifiutato il privilegio di coltivare il suo orticello indisturbata. Ha cercato, piuttosto, collegamenti con altre discipline ed è riuscita ad accreditare la propria candidatura come collettore del dibattito che si stava aprendo tra i progressi della medicina tecnologica e la società.

Non si può tralasciare di menzionare almeno due storici della medicina tedeschi che hanno svolto un ruolo pionieristico nell’aprire la loro disciplina alle nuove problematiche. Heinrich Schipperges ad Heidelberg ha portato nella storia della medicina una linfa antropologica. Non si è limitato ad approfondire singoli momenti o figure storiche, ma si è interrogato sulle grandi categorie che sottendono l’esperienza della cura della salute. Con il libro Homo patiens, ad esempio, ha fornito un vasto quadro dell’esperienza vissuta della malattia. Proprio con Schipperges doveva iniziare il cammino di v. Engelhardt nella storia della medicina: nel 1971 divenne infatti suo assistente presso l’istituto di storia della medicina di Heidelberg.

Oltre che alla scuola di Schippergers, molto deve l’etica medica anche ad Eduard Seidler, che è ordinario di storia della medicina a Freiburg in Breisgau. Per giustificare la resistenza al termine bioetica, e ancor più a un suo eventuale costituirsi come disciplina autonoma, Seidler adduceva un buon argomento: l’esistenza consolidata di una tradizione di etica medica. Ovvero di “etica in medicina”, se si vuole evitare di ridurre la visuale a quella del gruppo professionale dei medici. Questo era senz’altro vero per il circolo di studiosi che si sono formati attorno al suo Istituto, che è stato tra i più determinati a includere l’etica nell’ambito degli interessi della storia della medicina.

Sotto l’etichetta di “Accademia per l’etica in medicina”, Seidler ha promosso una dinamica associazione nei paesi di lingua tedesca, nata nel 1986. L’Accademia concepisce se stessa come un forum indipendente per studiosi di diverse discipline che si occupano di problemi etici che sorgono nella pratica della medicina. Offre un servizio di informazione e documentazione, costituisce un’opportunità di formazione e approfondimento per sanitari, fornisce consulenze per le istanze politiche che devono stabilire linee-guida e misure legislative.

Dal 1989 l’Accademia pubblica Ethik in der Medizin, una rivista che ricopre lo stesso campo che altrove è occupato dalle riviste di bioetica.

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È un luogo di discussione all’incrocio tra varie competenze disciplinari ― medicina, scienze naturali, filosofia, teologia, diritto, scienze sociali ―, al servizio della riflessione etica applicata alla promozione della salute.

L’etica nell’alveo della “Medicina antropologica”

Il cammino di Dietrich v. Engelhardt verso la bioetica è cominciato in modo inabituale: ha preso le mosse della criminologia. I suoi studi universitari erano iniziati con la chimica e si erano orientati verso la filosofia e la storia. Li concluse con un dottorato sugli sviluppi della scienza della chimica tra il 1780 e il 1830, con particolare attenzione alla filosofia della chimica di Hegel nel contesto della filosofia della natura del suo tempo.

Aveva successivamente virato verso la pedagogia, collaborando con il prof. Siegfried W. Engel, direttore dell’istituto di criminologia di Heidelberg, a un progetto di ricerca sulla carriera del delinquente e sui fattori che possono modificarla. I suoi interessi andavano soprattutto agli effetti dell’applicazione della pena al delinquente. Alla ricerca teorica, culminata nel libro Kriminalität und Verlauf (“Criminalità e carriera criminale”), ha abbinato la pratica, conducendo seminari di criminologia e terapia del criminale. Scopriva così che l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, se non vuole essere ingiusta, deve coniugarsi con la considerazione delle differenze, a cominciare da ciò che rende unica la singola persona.

La criminologia a cui ha dedicato i suoi primi fervori intellettuali non era una supina ancella della legge. Si nutriva degli apporti della psicologia e della sociologia ed era guidata dall’intento non tanto di reprimere il crimine, quanto di recuperare il criminale e di prevenire le ricadute nel comportamento deviante. Le ricerche criminologiche a cui si dedicò, sotto la guida di Siegfried W. Engel, consideravano la vita del criminale come una unità organica; per capire ― e prevenire ― la carriera criminale bisogna seguire lo sviluppo di tutte le fasi della vita.

Questa via apparentemente tortuosa, che conduce alla bioetica passando per la criminologia, doveva rivelarsi molto produttiva quando gli interessi di v. Engelhardt si sarebbero in seguito focalizzati sulle realtà della malattia e della salute. Von Engelhardt si trovava così attrezzato per valorizzare al massimo quella modalità individuale di reagire alla malattia e di adattarsi ai cambiamenti da essa richiesti che viene universalmente designata con il termine inglese di coping.

Al coping von Engelhardt ha dedicato una approfondita ricerca: Mit

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der Krankheit leben (“Vivere con la malattia”). Quando si considera la malattia vissuta, emergono in tutta chiarezza le dimensioni soggettive e sociali dell’essere sano o malato. La malattia cambia il rapporto con i propri congiunti, le condizioni di lavoro e di tempo libero, nonché il modo di valutare se stesso. Il malato può suscitare rifiuto o dedizione; attraverso la malattia i contatti possono restringersi, si può perdere il posto di lavoro, relazioni affettive rischiano di dissolversi, la propria immagine può essere compromessa. Come ha notato con acutezza Franz Kafka, «il malato è abbandonato dal sano, ma anche il sano è abbandonato dal malato». La malattia può cambiare la vita in modo distruttivo o costruttivo, o piuttosto in una delle tante possibilità reali chi si estendono tra questi due estremi.

Il coping ci costringe a considerare la malattia come un processo che ha diverse dimensioni: non solo quella corporea od organica, ma anche sociale, psichica e spirituale. Il coping è il riflesso di questa realtà antropologica della malattia, in quanto gli esseri umani differiscono nelle loro strategie di coping proprio perché sono irriducibilmente individuali. Oltre alle condizioni storiche, etniche e socioeconomiche, incidono l’età e il sesso del paziente, la personalità con i tratti distintivi di affettività, intelligenza, cultura. Ogni strategia di coping ha un suo stile, così come lo ha la vita intera della singola persona.

La considerazione della dimensione personale della malattia non nasce per improvvisazione. D. von Engelhardt è consapevole di essere saldamente radicato in una tradizione, che in Germania è stata egregiamente espressa dalla scuola della “Medicina antropologica” (Anthropologische Medizin). Tra i vari pensatori che fanno capo a questo movimento il più noto è Viktor von Weizsäcker (1886-1957). Il suo programma può essere riassunto della formula che prediligeva: “introdurre il soggetto in medicina”. Intendeva opporsi all’approccio tipico delle scienze della natura, dominante nella ricerca in campo biologico e medico da quando la medicina a impostazione naturalistica ha preso il sopravvento sulla medicina dell’epoca romantica.

Il metodo analitico-sperimentale ha prodotto una concezione meccanicista anche dell’essere vivente. In contrasto con la clinica ispirata a una medicina concepita come scienza naturale, von Weizsäcker proponeva un approccio che rispettasse il soggetto umano così come si presenta nella biografia. Perché ― per usare una sua formula incisiva ― «la malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso».

Questo ampio alveo antropologico consente di far fluire placidamente anche l’etica ― ovvero la responsabilità per il proprio destino che si sviluppa sotto il segno del “pathos” ― insieme alle altre discipline

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che articolano l’umano. A questa tradizione von Engelhardt intende riallacciare la sua proposta di etica medica, anche se è consapevole che la “Medicina antropologica” tedesca non ha avuto un ampio seguito. La risonanza è stata scarsa negli stessi paesi di lingua tedesca ― mentre un certo interesse ha suscitato in America Latina e in Giappone ― e praticamente nulla nel mondo anglo-americano.

La ragione va rintracciata, secondo Dietrich von Engelhardt, nel fatto che la medicina moderna nel senso anglo-americano manca di metafisica. Von Weizsäcker ha sottolineato la differenza della sua posizione con la filosofia: la sua visione del mondo era “patica” e non “ontica” (e Pathosophie ha intitolato l’opera di sintesi, pubblicata nel 1956, con cui ha concluso il suo lungo itinerario di riflessione sulla medicina antropologica). Resta tuttavia che, senza la disponibilità a considerare che la malattia umana è più che un insieme di fatti oggettivi («La fisica ― e la psicologia in quanto fisica dell’anima ― del paziente non è la sua metafisica, e il suo fenomeno non è ancora la sua essenza»: Viktor von Weizsäcker) la medicina non sale di quota. Anche senza iniezioni di bioetica, sembra dire von Engelhardt, la medicina europea può spiccare il volo. Basta che si ricolleghi con la sua tradizione antropologica.

Un’altra forte figura di riferimento su cui von Engelhardt appoggia la sua etica medica è Karl Jaspers. Il filosofo e psichiatra ha seguito con molta attenzione l’evoluzione della medicina nel nostro secolo. Di fronte ai chiari sviluppi tecnologici, Jaspers ha sentito il bisogno di riagganciarsi con la tradizione più remota. Tanto più si amplia il progresso delle scienze naturali, tanto più è necessario evidenziare il connettivo etico della medicina. A suo avviso, le più profonde dimensioni dell’attività medica e l’idea stessa di medico sono state sviluppate dall’antichità classica, anche se allora e nel successivo sviluppo storico la mancanza del sapere empirico e l’esiguità delle possibilità terapeutiche non hanno permesso loro di svilupparsi; ancor peggio, sono state deformate dalla commistione con la medicina sacerdotale, la magia e la ciarlataneria.

Il suo punto di partenza, connaturale a un pensatore che predilige un approccio fenomenologico, sono le due dimensioni fondamentali della medicina: teoria e pratica, scienza naturale ed “ethos”. Queste emergono nel vissuto della malattia: il malato è malato e ha una malattia; soffre per il suo male e deve elaborare l’atteggiamento appropriato. Il malato con la sua malattia deve trovare nel suo mondo una forma di vita, che non può essere progettata in generale e non può essere ripetuta allo stesso modo.

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Nella pratica della medicina è essenziale che si conservi la dimensione antropologica nella sua interezza. La terapia non è solo trattamento di corpi viventi, bensì di uomini dotati di coscienza, linguaggio, ragione; la cura si realizza nei rapporti tra le persone, ha a che fare non con casi, ma con destini. Se la medicina si fonda sulle due colonne della conoscenza scientifica e dell’“ethos” umanitario, il rapporto tra medico e paziente è connotato da fattualità oggettiva e allo stesso tempo da personalità soggettiva.

Jaspers ha rivendicato alla medicina il carattere di filosofia concreta. La medicina non è filosofia, anche se il suo fondamento ideale si può cogliere solo nella filosofia. Questa è di aiuto alla medicina mediante la sua critica metodica e l’ordinamento dei fenomeni, senza i quali non si può sviluppare un’etica medica.

La storia della medicina come nicchia accademica

La medicina ha che fare contemporaneamente con la malattia come fenomeno oggettivo e con il malato come soggetto. Inoltre, per quanto la medicina sia una realtà strutturata in modo organico, con una propria logica e modalità di funzionamento, è pur sempre una parte della società e della cultura: la medicina dipende dai valori stabiliti e dai mezzi economici che sono messi a disposizione dalla società, mentre il suo progresso risveglia nuovi bisogni e speranze, influenzando così la cultura. L’intraprendenza di D. von Engelhardt consiste nel proporre la candidatura della sua disciplina accademica ― la storia della medicina ― per la regia di questa complessa realtà.

Chiamandolo a dirigere l’istituto di storia della medicina e della scienza, l’università di Lubecca gli ha offerto l’opportunità di tradurre in atto il disegno di una efficace riscossa delle scienze umanistiche per rinnovare il volto della medicina. Una delle prime realizzazioni è stata la serie di lezioni tenute nella facoltà di medicina nei semestri 1986- 1988, sotto il titolo complessivo “Etica in medicina”.

I materiali di quel singolare concerto di voci sono ora disponibili al più vasto pubblico mediante un libro pubblicato nel 1989: Ethik im Alltag der Medizin (“L’etica nell’esercizio quotidiano della medicina”). La quindicina di contributi raccolti esplora tutto il vasto spettro della ricerca e della terapia; la medicina viene esaminata nei suoi rapporti con il diritto, con la filosofia e la teologia; delle diverse discipline mediche ― patologia, medicina internistica, genetica, psichiatria, ginecologia, chirurgia, geriatria ― vengono presentati i problemi etici, esaminati nel contesto delle concrete situazioni.

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La lingua tedesca offre l’opportunità di una distinzione, che von Engelhardt sfrutta a fondo. Essa permette, infatti, di parlare di ärztliche Ethik e di medizinische Ethik. La prima può essere riferita al medico (in tedesco Arzt) in quanto professionista; la seconda qualificazione dell’etica riguarda invece la medicina nel suo insieme, in quanto impresa che ha come protagonisti dei medici, dei pazienti e una società. Mentre l’etica dei medici si può dire che attraversa i secoli sostanzialmente inalterata, l’etica medica è soggetta a cambiamenti che possono ricordare da vicino quei “cambiamenti di paradigma” che Thomas S. Kuhn ha rivendicato per la scienza nel suo insieme.

Naturalmente si tratta solo di un’analogia. Il modello di “cambiamento di paradigma” ― comprendente lo stadio di scienza normale, di scienza matura, di anomalie e di rivoluzione di paradigma ― proposto da Kuhn per passaggi cruciali come quelli realizzati da Galileo, da Newton e Einstein, non si può applicare in senso proprio all’etica medica. Cambiamento e stabilità camminano fianco a fianco per tutto il corso della storia della disciplina. Se oggi è più evidente la dimensione del cambiamento ― che si esprime nel diritto del paziente a decisioni autonome, e quindi ad avere l’informazione necessaria affinché sia in grado di dare un “consenso informato” ― ciò non fa che dare maggiore rilievo alla figura fondamentale permanente che domina la medicina: un essere umano in necessità e un altro essere umano come terapeuta, insieme nel comune spazio che la società riserva all’opera volta a recuperare e a mantenere il bene della salute.

Un altro tratto importante dell’etica medica proposta da von Engelhardt è il passaggio dalla modalità implicita a quella esplicita nella trasmissione delle prescrizioni relative ai comportamenti. Benché la continuità non sia mai venuta meno, l’insegnamento delle norme etiche, dei vincoli e delle restrizioni che accompagnano l’agire del medico tradizionalmente non era fatto in modo formale. Dell’etica medica i professionisti conoscevano l’esistenza, senza essere di solito in grado di tematizzarla. Del resto, ben rare erano le occasioni in cui si rendeva necessario un confronto esplicito con l’etica. Essa rimaneva sullo sfondo, mentre tutta l’azione che si svolgeva sul proscenio era monopolizzata dal fare tecnico.

Una illustrazione di natura letteraria di questa situazione è offerta da un episodio del romanzo di Thomas Mann: I Buddenbrook. La citazione non è gratuita. Essa si colloca nello stesso scenario in cui opera l’istituto di storia della medicina e delle scienze naturali che von Engelhardt dirige: Lubecca, la città che, grazie a Thomas Mann, è diventata simbolo della più borghese civiltà commerciale.

In una scena culminante del romanzo, l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook giace sul letto di morte. L’agonia si protrae

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dolorosamente. La morente, in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire: «...Qualcosa per dormire... Dottori, per pietà! Qualcosa per dormire!». Ma i medici sanno che l’azione terapeutica di un sedativo le abbrevierebbe la vita. Per cui respingono la richiesta, rifacendosi a dei vaghi motivi etici che non sanno articolare ma che nondimeno sentono come vincolanti: «Ma i medici conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi princìpi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene... Al contrario rafforzarono il cuore con diverse medicine e provocarono più volte, con il vomito, un momentaneo sollievo».

Riferita alla situazione odierna, la scena del romanzo ci aiuta a visualizzare il cambiamento intervenuto. Sia sul piano dei contenuti dell’etica: la capacità acquisita dalla medicina di prolungare la vita, oltre i limiti del desiderabile e probabilmente anche del lecito, obbliga i medici a considerare con realismo la possibilità che la loro volontà di servire gli alti fini etici della medicina diventi di fatto una prevaricazione. Ma il cambiamento riguarda anche la capacità di articolare un discorso etico. Non è più accettabile un richiamo generico all’etica, in quanto orizzonte acquisito implicitamente con le conoscenze professionali (qualcosa di cui, vagamente, si è sentito parlare all’università...). L’insegnamento dell’etica deve diventare un momento formale ed esplicito del curriculum degli studi medici.

La formazione all’etica per la via delle arti

Nella facoltà di medicina di Lubecca von Engelhardt ha promosso momenti differenziati di insegnamento dell’etica nei vari gradini del processo formativo del futuro medico: all’inizio degli studi biologici, durante il periodo di formazione clinica e successivamente, negli anni di specializzazione. Anche le modalità di insegnamento variano: dalle lezioni vere e proprie, a partecipazione a dibattiti in tavole rotonde pluridisciplinari, alla discussione dei casi clinici.

L’ampio ventaglio di interessi umanistici di Dietrich von Engelhardt ha impedito che l’etica facesse la parte del leone. Oltre alla filosofia morale, anche la letteratura è uno dei centri focali di questa concezione ampia di umanesimo medico. Nella letteratura, soprattutto nella narrativa,

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si sono celebrate le nozze tra il medico che guarisce e l’artista che osserva e interpreta.

In un’opera di vasto respiro ― La medicina nella letteratura moderna ― von Engelhardt ha scandagliato la narrativa dell’ottocento e buona parte del novecento per analizzare l’influenza che la medicina ha avuto sulla conoscenza dell’uomo rispecchiata dalla letteratura e, inversamente, l’influsso che le opere letterarie hanno esercitato sull’arte sanitaria. L’esplorazione non tralascia nessuna delle grandi malattie che hanno influito sulla storia sociale e sui costumi: la lebbra, la tubercolosi, il cancro, le malattie mentali, le patologie sessuali. L’assunto di fondo è che il livello di una cultura si può misurare dal suo rapporto con la nascita, la malattia, il dolore e la morte; e che la letteratura fornisca lo specchio più attendibile.

Ma il ruolo dell’arte non termina qui. Ad essa von Engelhardt attribuisce un vero e proprio valore terapeutico. Nella medicina dell’antichità l’impresa terapeutica era classicamente divisa in tre parti: terapia medica, chirurgia e dieta. La dieta comprendeva, in senso ampio, le cosiddettesex res non naturales, vale a dire i sei ambiti che l’uomo deve prendere attivamente in mano, pianificare e strutturare, in quanto non sono determinati in modo automatico dalla natura. Per “dieta” si intendeva il rapporto consapevole con l’aria e l’acqua, con il mangiare e con il bere, con il movimento e il riposo, con il sonno e con la veglia, con le deiezioni e con la sessualità, nonché con gli affetti. Nel sistema della dieta gli affetti, i sentimenti e le passioni avevano un posto particolare. Le arti in generale, e la letteratura in particolare, fornivano un aiuto insostituibile per finalizzare il mondo degli affetti all’acquisizione dell’arte della vita (ars vivendi) e della morte (ars moriendi), alla prevenzione, alla terapia e alla riabilitazione.

Il leggere e lo scrivere hanno acquistato un rilievo specifico per l’azione benefica che esercitano sulla salute. La lettura, in particolare, è stata esaltata fino ad isolare il vantaggio terapeutico che le è proprio e promuoverlo mediante la “biblioterapia”. Alla biblioterapia von Engelhardt ha dedicato molta attenzione. Si può immaginare che gli sia facile identificarsi con la figura di Settembrini, il letterato che nel romanzo di Thomas Mann La montagna incantata si era proposto di raccogliere dai capolavori di tutta la letteratura mondiale i passi che avrebbero potuto servire di aiuto ai sofferenti e malati.

Dire che il libro è un farmaco rientra chiaramente nell’ambito della metafora. Nessuno si sognerebbe di sostituire un antibiotico o un’aspirina con un romanzo (e neppure con un’opera teatrale, un quadro o un brano musicale...). Ma considerare un libro come farmaco lascia intendere quale significato abbia per la salute e la malattia la soggettività del

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paziente, il suo rapporto con la malattia, con il medico e con l’ambiente. Per questo la medicina, essenzialmente legata sia alle scienze naturali che a quelle dell’uomo, nonché a tutte le pratiche espressive che afferiscono alle medical humanities, è per natura sua una disciplina antropologica. L’ambizioso progetto di von Engelhardt è di mantenere vivo tutto l’arco di questi saperi, senza che una parte sia sacrificata alle altre.

Riferimenti bibliografici

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Dietrich von EngelhardtT. Henkelmann, A. KrämerFlorenz und die Toskana. Ein medizinhistoriches Reisebuch, Basel, 1987.

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Dietrich von Engelhardt, «The Principle of Subjectivity (V.v. Weizsäcker) in the Anthropological Medicine of 20° Century», in R. Kaser, V. Pohland (a cura di), Disease and medicine in modern German cultures, Ithaca, 1990, pp. 120-131.

Dietrich von Engelhardt, Medizin in der Literatur der Neuzeit, Guido Pressler Verlag, München, 1991.

Dietrich von Engelhardt, «Insegnamento dell’etica medica agli studenti di medicina», in L’Arco di Giano, 6, 1994, pp. 233-238.

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7. H. Tristam Engelhardt: se tutto il mondo fosse la repubblica del Texas...

Uno sceriffo per la bioetica

Anche nelle circostanze che richiedono più formalità, Hugo Tristam Engelhardt Jr. ama mettere in piena evidenza la sua appartenenza al Texas. Gli stivali con il tacco, da cowboy, e il cinturone chiuso da una grande fibbia sono parte essenziale del suo vestiario, a cui si possono aggiungere occasionalmente altri dettagli ancor più caratteristici. E non manca mai di ricordare che nel 1988 ha svolto le funzioni di vice sceriffo a Comal ed è sceriffo ausiliario onorario (honorary deputy sheriff) della contea di Galveston. Sbaglierebbe chi volesse vedere in questa esibizione di texanità solo un tocco di umorismo, che sa spezzare con il folklore la pesantezza che sembra destinata ad aleggiare sulla vita di un filosofo. Per questo figlio di immigrati tedeschi, che in casa parla ancora con i suoi genitori un tedesco dall’accento svevo arcaicheggiante, quale in Europa si parlava forse un secolo fa, essere texano è un tratto costitutivo della sua personalità globale. Presentandosi come texano, Tris Engelhardt offre ― a chi è tanto coraggioso da prendere sul serio il suo invito ― la struttura portante del suo pensiero. Quasi che il Texas possa essere la chiave interpretativa della sua bioetica.

Prima di accettare la sfida e addentrarci nel gioco, non sarà superfluo puntualizzare che nel firmamento, di recente costituzione, della bioetica americana, Tristam Engelhardt è una stella di prima grandezza. È uno degli autori più prolifici, con libri, decine di capitoli in volumi in collaborazione e un numero di articoli in riviste specializzate che supera di molto il centinaio. In occasione della pubblicazione del suo libro Foundations of bioethics, la neonata rivista Medical Humanities Review apriva il suo primo numero, nel gennaio 1987, con ben due recensioni in parallelo: a dimostrazione sia dell’importanza dell’opera, sia della difficoltà di offrirne un’interpretazione critica univoca.

Il suo apporto alla bioetica non si impone solo per quantità. Ha un

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profilo originale, destinato a suscitare dibattiti, più che adesioni di scuola. Provoca anche esecrazione, almeno in chi si sente minacciato da un pensiero che si presenta con un accentuato carattere destabilizzante. Da quando il suo libro Foundations of bioethics è stato tradotto in italiano ― con il titolo infelice e fuorviante di Manuale di bioetica ―, Engelhardt è diventato la bestia nera dei cultori di bioetica di stretta osservanza cattolica, che avversano il suo “contrattualismo”. Bisogna riconoscere che Engelhardt formula il suo pensiero in modo pungente e predilige la provocazione come genere letterario. Sembra fornire lui stesso argomenti a chi volesse ridurre la sue proposte bioetiche a gratuiti paradossi. Tra le sue posizioni di liberalismo estremo più spesso citate: embrioni e feti prodotti privatamente sono proprietà privata: le restrizioni statali all’infanticidio sono problematiche, almeno finché i genitori non utilizzano risorse pubbliche; non è possibile giustificare, nei termini del pensiero laico, che embrioni e feti siano persone; non esiste un diritto, che deve essere soddisfatto dallo stato, a un’assistenza sanitaria, neppure ridotta al minimo decente.

Nei confronti di un filosofo così spigoloso si arriva anche a esercitare una specie di censura: la rivista del Centro di bioetica dell’Università Cattolica, per esempio, si limita a far riferimento a posizioni “sostenute da opere filosofiche che non citiamo perché non intendiamo raccomandare per l’acquisto”. Ma nessun cordone sanitario innalzato intorno al filosofo texano riesce a spegnere l’interesse per la sua opera. Il quindicinale dei gesuiti La Civiltà Cattolica ha seguito invece la strategia opposta, uscendo con un editoriale che attacca frontalmente Tristam Engelhardt e la nozione di persona che utilizza per la sua bioetica. Assomiglia quindi sempre più a una provocazione voler ricondurre uno studioso di tanto spessore e così sfuggente a un’interpretazione univoca entro i confini provinciali del suo decentrato Texas.

Tristam Engelhardt è fermamente convinto che il Texas non è solo una realtà geografica e politica, ma una categoria dello spirito, che ha dato un rispettabile contributo alla storia delle idee. Il Texas a cui si riferisce è solo indirettamente quello della serie televisiva di “Dallas”. I miti e gli eroi che danno corpo al Texas quale idea che veicola un messaggio di portata universale sono piuttosto quelli dello stato sovrano del Texas, che ha vissuto la sua stagione eroica nel secolo scorso, all’epoca della dichiarazione di indipendenza dal Messico e del conflitto armato che ne è seguito, fino alla costituzione della repubblica. La successiva integrazione nel corpo federale degli Stati Uniti non ha spento le velleità indipendentiste e il sentimento acuto di una irriducibile diversità (“como Tejas no hay otro”...)

Engelhardt individua il significato morale e filosofico del mito texano

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soprattutto nella volontà di fondare la convivenza sociale in un contratto tra individui. Il carattere texano ― litigioso ed irascibile, geloso dell’indipendenza e insofferente di ogni limitazione della libertà individuale; i difetti dei texani sono quelli che derivano da un ardente amore per la libertà; la fiducia in se stesso in Texas non è considerata hybris, ma una virtù cardinale ― è il presupposto per la teoria politica texana. Essa riposa sulla indeflettibile convinzione che gli individui sono più importanti dei governi. I governi sono limitati nella loro autorità morale: le singole persone reali, con le loro speranze, sogni e vincoli familiari, sono più importanti di qualsiasi governo. I texani sono propensi a considerare come potenzialmente più pericolosa la volontà della società di procurare il bene comune che la libertà e il capriccio degli individui. La storia stessa del nostro secolo dimostra che muoiono più persone per le azioni concertate dello stato che per la limitata anarchia, cara al cuore e alle passioni dei texani. Respingendo le pretese dello stato di determinare con le sue leggi la vita dei cittadini, i texani puntano sull’individuo e sulle sue risorse, preferendo dare maggior importanza alla vita familiare e alle comunità locali piuttosto che all’organizzazione statale.

La valorizzazione del mito del Texas induce Engelhardt a vedere in quella repubblica, laica e umanistica, una risposta al problema centrale dell’autorità politica in un’epoca post-cristiana e post-illuminista. Per giustificare i diritti umani di base i texani non hanno fatto appello né a Dio, né alla ragione. La Dichiarazione di Indipendenza del Texas ha un carattere esplicitamente laico (anzi, piuttosto anticlericale, arrivando a denunciare il clero come eterno nemico della libertà civile).

A differenza della Dichiarazione americana del 1776, il Bill of Rights texano, ribadito nella prima costituzione dello stato del Texas (1845), non fa riferimento a diritti concessi agli uomini dal loro Creatore. Per fondare l’autorità dello stato descrive il governo come creazione di individui liberi e i diritti fondamentali come quelle prerogative che non si può mai presumere che degli individui liberi abbiano ceduto a uno stato. La costituzione texana evita così la tentazione di vedere Dio o la ragione incarnata in un’autorità di governo. Non derivando da Dio o da un definitivo argomento razionale, l’autorità dello stato dipende dal consenso dei governati. Qui affonda le radici quel “contrattualismo” che tanto inquieta chi vede la sua lunga ombra estendersi ai problemi recenti che nascono dalla bioetica.

Il mito del Texas che sta alla base del pensiero di Engelhardt diventa la volontà di esplorare la possibilità morale di affermare l’individuo e i suoi valori anche in un ambito altamente tecnologizzato, contro una società che vorrebbe far prevalere, adducendo il motivo del bene comune,

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norme uniformi per tutti. Nell’ambito così controverso che riguarda la regolamentazione della bioetica, Engelhardt invita ad adottare la diffidenza tradizionale del texano nei confronti delle sicurezze che lo stato può offrire. Ognuno è piuttosto incoraggiato ad avere fiducia in se stesso ― e nella sua pistola... ― quando si tratta di difendere i propri diritti. La composizione dei conflitti di interesse, che esplodono nell’ambito biomedico così come in tanti altri settori della convivenza sociale, richiede la tolleranza texana per i desideri privati degli individui, per quanto possano sembrare bizzarri, e l’inclinazione texana a rifuggire dagli eccessi ideologici, per quanto attraenti.

Il sogno di una vera comunità pacifica

Tris Engelhardt assume l’aspetto del texano ― nell’abbigliamento e ancor più nell’armamentario concettuale ― per farsi campione di un pensiero libertario. Lo scenario a cui lo applica è quello del mondo post-moderno, che egli vede affetto da un’insanabile crisi di consenso sui valori. Gli individui e i gruppi non sono d’accordo sulla loro visione di una buona società e di una buona organizzazione delle cure sanitarie. Su nessuno dei punti scottanti della bioetica si riesce a raggiungere un consenso. Che la ricerca sull’embrione ― per fare un solo esempio ― sia vista con indignazione morale o con l’ottimismo benevolo riservato alle tecniche più promettenti, dipende dalla comunità morale a cui si appartiene o dall’ideologia all’interno della quale la questione è considerata. Engelhardt ama riferirsi al variegato mondo culturale americano, che include gli ebrei osservanti e gli esponenti del pensiero più liberal e secolarizzato, i mormoni di Salt Lake City e le comunità gay di San Francisco, i cattolici più gelosi della loro fedeltà letterale agli insegnamenti vaticani e le compatte colonie asiatiche o giamaicane. Come trovare un’etica comune a mondi morali così molteplici e diversi? Come stabilire un punto di vista morale particolare con un valore canonico?

Vivere nel mondo post-moderno significa che è tramontata non solo la sintesi religiosa che ha dato unità alla società fino all’epoca moderna, ma anche la speranza illuministica di scoprire mediante la sola ragione il carattere della vita moralmente buona e i criteri generali della rettitudine morale. La filosofia si è rivelata incapace di riempire il vuoto lasciato dal collasso dell’egemonia del pensiero cristiano in occidente; le etiche filosofiche, in competizione tra loro, sono diventate sempre più accademiche e quindi lontane dagli effettivi bisogni culturali.

La discussione sui problemi della bioetica si svolge entro l’orizzonte

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di società laiche pluralistiche. Medici e infermieri non possono pii! presupporre di condividere la stessa opinione con i loro pazienti, o tra di loro, né che l’esercizio della professione sia inquadrato entro presupposti tenuti fermi dall’unanimità dei consensi. La sfida a cui la bioetica cerca di dare una risposta è quella di elaborare un’etica per i problemi biologici che possa parlare con autorità razionale alle più diverse concezioni morali. In un’epoca di incertezza, la bioetica vuol offrire la possibilità di condurre discussioni aperte, pacifiche, tra gruppi in disaccordo. Si presenta come la lingua franca di un mondo che, pur senza possedere una concezione etica comune, vuol risolvere pacificamente i conflitti che nascono attorno alla salute e alle cure mediche.

Engelhardt considera fondamentalmente l’etica come la ricerca di un fondamento diverso dalla forza per risolvere le controversie sulle linee di condotta. La forza di per sé non possiede autorità morale. Usare la forza, anche se legalmente autorizzata, per chiudere le cliniche dove si praticano gli aborti non ha niente a che vedere con il senso dell’etica. La ricerca della “conversione” ― cioè che una parte adotti la concezione dell’altra ― è anch’essa senza speranza: ci saranno sempre minoranze, in una società aperta e libera, che si opporranno a chiunque pretenda il consenso, tanto sul problema dell’aborto come sui criteri per creare un sistema sanitario equo.

Un’altra possibilità di ottenere un’autorità morale per fondare una visione morale particolare è quella di far ricorso alla ragione. È stata la speranza dell’illuminismo di poter fornire una visione concreta, razionalmente giustificata, della vita morale buona, e quindi un surrogato laico delle asserzioni morali della cristianità. Ma il tentativo non è riuscito: dalla rivoluzione francese alla rivoluzione d’Ottobre, la ragione non è riuscita a stabilire come moralmente autoritativa una visione particolare della vita moralmente buona. I pessimisti pensano da molto tempo che alla fine la morale dei depravati e dei traviati potrebbe universalmente trionfare. Per Engelhardt non rimane che una speranza: la soluzione tramite accordo. Il mondo morale può essere costruito con la libera volontà, anche se non sulla base di solidi argomenti razionali aventi contenuto morale. È questa l’essenza del “contrattualismo”.

Se si è interessati a risolvere le controversie morali senza ricorrere alla forza, si dovrà accettare la negoziazione pacifica tra le parti come processo per arrivare alla soluzione. I criteri della rettitudine morale dovranno essere creati attraverso procedure comunemente accettate: questa è la nozione minima di etica come alternativa alla forza. Idealmente, l’accordo dovrebbe essere libero. Ma Engelhardt non esclude che possa anche essere forzato. Se una parte rifiuta di partecipare a una negoziazione a causa di un interesse a risolvere la disputa ricorrendo

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alla forza, anche se in apparenza moralmente giustificata (p. es.: «Dio mi dice che gli aborti sono ingiusti, perciò li proibiremo per legge»), gli altri possono ribattere: «Se usi la forza contro gli innocenti sulla base di asserzioni morali non generalmente giustificabili, né accettate da tutte le parti interessate, non puoi razionalmente protestare se noi impieghiamo la forza per proteggerci da te e respingere la tua presunta autorità».

Il rispetto della libertà degli agenti morali coinvolti è il nucleo della grammatica di un’etica per la società post-moderna e pluralista. Questo ideale utopico di una pacifica convivenza, che rinuncia alla repressione, a meno che non sia giustificata come risposta all’atto di forza ingiusto, ha un prezzo: bisogna tollerare delle possibili tragedie dei singoli ― i singoli, nella loro libertà, faranno scelte che altri considereranno sconsiderate e nocive ― e la moltiplicazione di concezioni morali alternative, che spesso renderanno impossibile un’azione comune in molti campi. Sarà necessario considerare con indulgenza stili di vita devianti, purché pacifici, e accettare tragedie alle quali ciascuno può andare incontro in conseguenza delle proprie libere scelte. Ma il rischio derivante all’umanità dalla repressione, in nome della rettitudine religiosa e ideologica, è per Engelhardt di gran lunga superiore ai danni che potrebbero derivare dal tollerare mali quali l’autodeterminazione delle persone che vada anche contro il loro migliore interesse, l’aborto, l’infanticidio, l’eutanasia e il suicidio.

Per quanto sconcertante possa sembrare questa concezione, non va confusa con una bioetica rinunciataria. Nell’incapacità di stabilire consensualmente i contenuti sostanziali della vita moralmente buona, si ripiega sulle procedure. Le controversie morali in ambito biomedico vanno considerate come dispute politiche che debbono essere risolte pacificamente, accordandosi su procedure per creare regole morali basate sul principio della libertà individuale. Lo studio della morale comporterà l’esame dei modi in cui gli individui possono accordarsi su linee di azione e del punto fino al quale essi mantengono diritti di autodeterminazione.

Vediamo emergere l’immagine di persone che agiscono entro i vincoli politici del rispetto reciproco per creare una struttura politica in cui ognuno possa, con gli altri consenzienti, elaborare la sostanza concreta della vita moralmente buona. Per il texano Engelhardt questa visione riduttiva dell’autorità pubblica ha un contenuto positivo: è il segno che quella forma di vita che la repubblica del Texas ha reso possibile un secolo e mezzo fa e che ha continuato ad essere nutrita dal Texas come mito, può rispondere ai problemi più attuali che pone la bioetica.

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Un credente, paladino di una bioetica laica

Un corollario del pluralismo di fedi e concezioni morali che caratterizza il mondo post-moderno è che siamo destinati a vivere tra stranieri morali. Engelhardt non ama quelle strategie intellettuali che mirano ad annullare praticamente tale estraneità, in quanto sostengono che concezioni di vita morale essenzialmente diverse, come sono quelle di ispirazione religiosa e quelle che nascono da un orizzonte ateo o secolarizzato, abbiano gli stessi contenuti. Bersaglio prediletto dei suoi strali polemici sono quelle riflessioni bioetiche proposte da certi ambienti del cattolicesimo romano, che pretendono di fondare le norme morali ― quelle che proibiscono, ad esempio, le tecniche di fecondazione artificiale, le pratiche contraccettive e l’uso degli embrioni umani per la sperimentazione ― sia con ragioni teologiche, sia con argomentazioni razionali: quasi che la bioetica fondata sulla ragione potesse garantire pressoché lo steso contenuto della bioetica cristiana, senza pagare il prezzo della fede.

A queste manovre Engelhardt contrappone la sua proposta di una bioetica laica. Questa è il tentativo di individuare quelle concezioni che possano essere giustificate di fronte a tutte le comunità morali, sia di ispirazione religiosa come non religiosa, tutte le tradizioni, tutte le ideologie particolari. In un mondo abitato da stranieri morali, che accettano la loro estraneità e non cercano né di minimizzarla, né di annullarla annettendosi lo straniero con la forza o con la conversione, le controversie possono essere risolte soltanto attraverso l’accordo tra le parti, secondo la strategia del contrattualismo. La bioetica laica deve funzionare con la logica del pluralismo e come strumento per la pacifica negoziazione delle intuizioni morali.

Senza la visione della rettitudine morale che offrono le religioni e il razionalismo di filiazione illuminista, sarà necessario accontentarsi di un quadro morale molto generale, privo di quei saldi punti di riferimento che costituiscono la forza delle visioni morali particolari. Per un cristiano l’aborto è un peccato e per un marxista la proprietà è un furto. Ma nel contesto rarefatto in cui si incontrano gli stranieri morali non è possibile riconoscere con tratti inconfondibili ciò che è morale. Le risposte della bioetica laica saranno perciò più deboli di quelle che un pensatore religioso o il sostenitore di una particolare scuola di pensiero etica potrebbero desiderare.

Le riflessioni della bioetica laica non possono dare un fondamento a tutte le restrizioni morali che gli esponenti di una religione auspicherebbero. La bioetica che è frutto di negoziazioni tra stranieri morali non riuscirà a sviluppare argomenti convincenti a favore della proibizione di molte azioni che le nostre società cristiane occidentali hanno ritenuto

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moralmente sbagliate, come i comportamenti sessuali “innaturali”, il suicidio o l’eutanasia attiva dei neonati gravemente handicappati. Engelhardt, geloso difensore dell’autonomia degli individui, giunge a sostenere che in nome della bioetica laica non si potrà neppure arrivare a proibire che una persona, in grado di prendere le decisioni per se stessa, decida di vendere i propri organi o dia vita a un embrione per donarlo, commercializzarlo o usarlo per la ricerca.

La morale laica è limitata. Nelle società secolarizzate e pluraliste è spesso necessario tollerare il male, riconoscendo agli individui il diritto di fare ciò che si sa essere moralmente sbagliato. La bioetica laica è incapace di individuare dei precisi contenuti morali, che siano accettabili da tutti (così come è nelle pretese della bioetica cattolica romana, che vuol portare gli stranieri morali ad abbracciare un ampio insieme di assunzioni che, di fatto, dipendono da credenze accettabili solo da coloro che con la fede sono dentro tante comunità). Come pazienti o come medici troviamo regole per il nostro comportamento non in una bioetica laica, ma nelle comunità morali effettive.

La nostra vita morale ― suggerisce Engelhardt ― va vissuta entro due prospettive complementari, ma distinte. È solo nell’ambito di una comunità particolare che si impara se sia giusto o sbagliato, se valga o no la pena di fare le cose che si ha il diritto laico di fare, quali beni detono essere perseguiti, a quali costi e per quali fini. È solo entro mondi morali particolari che si trova una vita morale piena e concreta. Solo queste comunità esprimono la forza creativa dello spirito umano nel valutare il significato della nascita, della crescita, della sessualità, della salute, della malattia, della sofferenza e della morte degli esseri umani. La vita morale è così vissuta a due livelli: quello di un’etica laica povera di contenuto, che ha la capacità di tenere insieme numerose comunità morali divergenti, e quello delle comunità morali particolari, entro le quali è possibile conseguire una concezione fornita di contenuto della vita moralmente buona.

Le posizioni di Engelhardt sembrano riecheggiare quelle di certi laicisti accaniti, che vorrebbero a tutti i costi lasciare le religioni al di fuori della società civile. Eppure ad esprimerle è un uomo che, sul piano privato, si professa cristiano cattolico ― “anche se peccatore”, aggiunge con una punta di civetteria ― e fedele all’insegnamento tradizionale. È lui stesso sconvolto dall’incapacità della bioetica laica di fornire una giustificazione razionale generale ai comportamenti più cari al sentimento morale comune. Ma, mentre riconosce l’inevitabilità dell’etica laica pluralista, non cessa di sognare una società che, come la sua mitica repubblica del Texas, sia radicalmente laica per lasciare ai suoi cittadini la possibilità di coltivare la religione e la morale che preferiscono.

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In dialogo con la filosofia della medicina

Come la bioetica in quanto disciplina ha molti padri ― tanti quanti sono i movimenti di idee che sono confluiti nel suo alveo ― così di Tristam Engelhardt si può dire che la bioetica come professione è per lui il figlio di molte passioni. Due, in particolare, hanno continuato a disputarsi la sua totale dedizione, prima di trovare una felice composizione nella nuova disciplina: la filosofia e la medicina. L’interesse per la filosofia Engelhardt ama attribuirlo al suo essere interamente un uomo del sud. È cresciuto in ambienti in cui dibattere sulle idee era importante tanto quanto il fare. Occuparsi di filosofia è stato per lui fondamentalmente un interrogarsi sulla cultura e sul suo funzionamento, in riferimento soprattutto ai problemi che suscita il mondo post-moderno. Lo studio della medicina ― all’inizio forse solo ricerca di legittimazione agli occhi dei medici da parte di un filosofo che si è messo a lavorare nel loro territorio ― gli ha fornito un terreno solido, dove i problemi della malattia e della guarigione hanno il carattere dell’esperienza vissuta.

Il corso della sua formazione universitaria non è stato lineare. Ha iniziato con la filosofia (ma occupandosi già di biochimica e di genetica). Poi è passato a studiare medicina. Prima di laurearsi e di ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione, è tornato alla filosofia (una borsa di studio lo ha portato anche a passare un anno in Germania, per approfondire il rapporto di Hegel con le scienze). Conseguito il Ph. D. in filosofia, è tornato agli studi di medicina, fino alla conclusione.

La sequenza mostra che Engelhardt non si è mosso linearmente dalla filosofia alla medicina, ma ha oscillato tra le due, senza mai perdere interesse sia per l’una che per l’altra. Già la sua dissertazione in filosofia era dedicata a una tematica rilevante per il medico: il rapporto tra la mente e il corpo; e la tesi per la conclusione degli studi medici ha avuto come tema il concetto di localizzazione cerebrale in J. H. Jackson ― un tema medico dalle implicazioni filosofiche evidenti ―. La bioetica gli offrì infine la possibilità di far convivere i due principali interessi in un quadro unitario.

Lo sviluppo professionale di Engelhardt lo ha portato a contatto con importanti santuari della nuova disciplina. Dal 1972 a 1977 è stato a Galveston, nell’Institute for the Medical Humanities. Successivamente, fino al 1982, al Center for Bioethics del Kennedy Institute, alla Georgetown University di Washington. Dall’83 è tornato nel suo Texas, a Houston, al Baylor College of Medicine, nel dipartimento di medicina sociale, e alla Rice University, come professore di filosofia. Al quadro della sua multiforme attività non può mancare una dimensione pratica. Lo troviamo, infatti, come membro del Comitato di etica biomedica

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dell’ospedale metodista di Houston, una delle istituzioni che confluiscono nell’imponente cittadella che è il Texas Medical Center.

Per quanto felice sia l’identificazione di Tris Engelhardt con la bioetica, questa non è l’orizzonte più comprensivo dove collocare l’insieme della sua attività intellettuale. La filosofia della medicina è probabilmente l’etichetta che meglio la definisce. Edmund Pellegrino, promotore delJournal of Medicine and Philosophy e suo direttore fino a quando, nel 1984, gli è subentrato proprio Tristam Engelhardt, nel primo fascicolo della rivista proponeva tre modi di correlare l’attività filosofica e quella medica: medicina e filosofia, filosofia in medicina e filosofia della medicina. Nel primo caso, medicina e filosofia rimangono due discipline totalmente indipendenti, ciascuna prendendo qualcosa dal contenuto o dal metodo dell’altra a vantaggio della propria impresa (un filosofo della mente, ad esempio, può usare dati empirici della neuropatologia per mettere a fuoco concetti relativi ai rapporti tra corpo, cervello e mente). Filosofia in medicina configura quel rapporto in cui i filosofi usano gli strumenti formali della riflessione filosofica applicandoli alla medicina, in quanto oggetto di studio (pensiamo a problemi specificatamente epistemologici ― ad es., la nozione di spiegazione medica o le implicazioni del processo della diagnosi, inclusa la diagnosi mediante il computer ― o alle tante questioni dove il tratta- mSnto medico si scontra con i valori culturali e morali connessi al dolore, la sofferenza o la morte). La filosofia della medicina, infine, Pellegrino proponeva di intenderla come una ricerca filosofica sulla natura della medicina in quanto medicina, per elaborare una teoria coerente della medicina e delle attività mediche.

A dieci anni di distanza, Pellegrino poteva tracciare un bilancio decisamente a favore dei primi due modi di correlazione. All’attivo di filosofia e medicina va ascritto l’esame di molti aspetti della medicina dal punto di vista filosofico. Tra i problemi affrontati: la casualità in medicina, i concetti di persona e di mente alla luce della neurobiologia, la logica e l’epistemologia della medicina e delle decisioni mediche, i presupposti di valore che sottostanno alla pratica della medicina. All’attenzione, invece, della filosofia nella medicina sono emersi soprattutto i problemi dell’etica medica e della bioetica. Nell’uno come nell’altro ambito il ruolo svolto da Tristam Engelhardt è stato di assoluto primo piano. Subentrato nel 1984 a Pellegrino nella direzione delJournal of Medicine and Philosophy ― la rivista specializzata che, insieme alla sua corrispettivaTheoretical Medicine, ha ridato piena cittadinanza alla filosofia nell’ambito della medicina ― ha promosso instancabilmente l’esplorazione dei vari aspetti delle cure sanitarie rilevanti per la filosofia.

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Di spessore ancor maggiore è il contributo dato da Engelhardt alla costruzione del solido edificio moderno di filosofia e medicina e filosofia nella medicina mediante la collana “Philosophy and Medicine”, presso le prestigiose edizioni Kluwer. La collana, che Engelhardt dirige fin dalla fondazione, nel 1975, costituisce, con quasi cinquanta volumi finora pubblicati, la spina dorsale della riflessione filosofica contemporanea applicata alla medicina. Di una ventina almeno di questi volumi Engelhardt è stato anche il curatore: ha rivisto i manoscritti, ha redatto introduzioni e ha riversato nei libri della collana una somma di attenzioni non minore di quella che nella vita familiare gli hanno chiesto ognuna delle sue tre figlie. Più di recente Engelhardt ha assunto la direzione, presso lo stesso editore, di un’altra importante collana: “Clinical medical ethics”.

Scorrere l’elenco dei volumi usciti dalla fertile fucina di Engelhardt equivale a un’esplorazione a tutto tondo delle tante ragioni di interesse che la filosofia ha per la medicina. Si va dai problemi di tipo epistemologico (valutazione e spiegazione nelle scienze biomediche; conoscenza, valore e credenza; il giudizio clinico; conoscere e valutare: la ricerca delle radici comuni; le controversie scientifiche: come si risolvono le dispute relative alla scienza e alla tecnologia), alle questioni fondamentali dell’etica medica (natura e significato dell’etica medica filosofica; l’etica della diagnosi; i rapporti della medicina con la legge), ai vari ambiti della pratica medica che suscitano gli interrogativi che sono diventati caratteristica distintiva della bioetica (l’uso degli esseri umani nella ricerca; malattie e salute nell’ambito delle malattie mentali; l’aborto e lo statuto del feto; l’ethos contraccettivo; trattamento dei neonati gravemente malformati; suicidio ed eutanasia; il prezzo della salute; equità e sistemi sanitari). Le domande concrete, molto aderenti agli interrogativi che agitano chiunque abbia un minimo d’informazione sul mondo di oggi, hanno dato una nuova vita pubblica alla filosofia. L’hanno indotta a passare dai rompicapo esoterici, che tormentavano i filosofi di professione molto più di quanto interessassero gli uomini e le donne comuni, ai problemi morali e concettuali connessi all’assistenza sanitaria e alle scienze biomediche.

Il lavoro, tuttavia, non è concluso. Queste incursioni della filosofia nella medicina hanno prodotto il materiale con cui la filosofia della medicina ― nel senso attribuitole da Pellegrino: un costrutto teoretico coerente che esamini criticamente e spieghi la natura dell’attività medica ― deve essere costruita. Engelhardt con il suo lavoro ha posto la propria candidatura per essere un corifeo di questa filosofia che aiuta la medicina a definire il suo ruolo nella società contemporanea e la società a intendere il senso delle professioni sanitarie e delle scienze

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biomediche alle quali essa fa da sfondo. A questi filosofi della medicina Engelhardt attribuisce una funzione umile: come geografi, devono solo tracciare mappe veritiere dell’esistente. La filosofia non può tirar fuori dai cappelli dei conigli concettuali. Non può scoprire qualcosa sul terreno delle idee e dei valori che non sia già presente, almeno implicitamente, come elemento della realtà umana che la stagione attuale della medicina ci porta a vivere. Questo è lo stile del progresso filosofico: procede per cauti passi avanti, non per passi definitivi verso la luce.

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8. John Fletcher: il posto dell’etica in un centro ospedaliero di ricerca

Un pastore con nostalgie di Illuminismo

L’Università della Virginia, a Charlottesville, fa emergere il sogno di classicità greco-romana di cui è impastata la storia degli Stati Uniti. L’ha fondata nel 1825 Thomas Jefferson, uno dei padri della democrazia americana. Fondata non solo in senso istituzionale, ma quasi materiale: Jefferson ha anche disegnato il campus. Lo ha concepito come un “villaggio accademico”: dieci padiglioni in stile neoclassico ― uno per ogni professore, con una hall a pianterreno per tenere le lezioni ― disposti su due file, con un grande prato al centro. A una estremità del prato, come centro focale del campus, c’è la Rotonda, modellata sul Pantheon.

L’università della Virginia ha costituito una parte importante del progetto di Jefferson di portare l’illuminismo nell’educazione americana. È stato il primo college secolare in America: dalla fondazione di Harvard, due secoli prima, i college erano serviti per la formazione dei ministri del culto. Per Jefferson, convinto che la diffusione della conoscenza tra il popolo fosse «il più sicuro fondamento per preservare la libertà e la felicità», la promozione di istituzioni come la sua università di Charlottesville era un contributo allo stesso tempo alla civiltà e alla democrazia.

Il progetto razionalista, fermamente determinato a sciogliersi dall’abbraccio soffocante della religione, vive ancora a Charlottesville. Lo rappresenta, in nome e per conto della bioetica, John Fletcher. Dal 1988 dirige il Centro di etica biomedica, un’attività del Centro di scienze della salute dell’università della Virginia; in questa università ha incarichi di insegnamento nel Dipartimento di medicina interna e nel Dipartimento di studi religiosi.

John Fletcher è una di quelle personalità che sembrano provare un particolare piacere a deludere i tentativi di catalogarle. Ogni classificazione

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sta loro stretta. Sono sempre in viaggio: da una professione all’altra, da un polo all’altro della loro anima. Una di quelle personalità che amano il pensiero divergente, rispetto a quello convergente; e per questo sono così feconde di prospettive creative nei loro apporti alla cultura del tempo.

Il rapporto di Fletcher con la religione illustra questa irriducibile inquietudine. La religione era di casa nella sua famiglia. Il padre era un missionario episcopaliano, incaricato della cura pastorale delle persone con handicap di vista e di udito nel sud degli Stati Uniti. Seguendo le orme paterne, ha fatto studi teologici ed è diventato ministro nella chiesa episcopale. Per alcuni anni ha esercitato il ministero in diverse comunità della Virginia.

Negli anni ’70 è stato promotore di una iniziativa importante nell’area metropolitana di Washington: un seminario di formazione teologica e pastorale per ministri di diverse confessioni (chiamato “Seminary of congregations”). Era il periodo del movimento per i diritti civili: il seminario era una voce nuova, che voleva coniugare la religione con i problemi dell’uguaglianza razziale e della giustizia civile. All’educazione teologica e pastorale Fletcher ha dedicato numerose pubblicazioni.

Ma non si è mai sentito pienamente a suo agio in nessuna chiesa istituzionale. Di recente ha lasciato il ministero nella chiesa episcopale per aderire alla Società degli Amici (meglio noti come Quacqueri), che non ammette funzioni sacerdotali. È in una posizione di protesta contro la religione organizzata, che accusa di essere una delle maggiori fonti di repressione. Ama raccontare di aver avuto un chiaro insight della natura profonda delle religioni a un convegno interreligioso in cui rappresentanti del cristianesimo, del giudaismo e dell’islamismo, divergenti peraltro su ogni punto del pensiero teologico, antropologico ed etico, si sono trovati d’accordo solo sulla condanna dell’aborto e della contraccezione... Nei confronti di questa religione repressiva Fletcher si dichiara apertamente belligerante.

Fino alla metà della sua vita, pur essendo in conflitto con l’uno o l’altro punto del corpo dottrinale cristiano, era convinto che la religione fosse sostanzialmente per il bene; ora ha cambiato idea sull’apporto della religione alla liberazione dell’uomo. Una riemergenza del razionalismo illuminista, che traspare nei piani architettonici della sua università? O un conflitto più profondo, una opposizione alla religione che nasce dialetticamente dalla religione stessa?

Inclina verso questa seconda ipotesi un fatto: in gioventù Fletcher ha trascorso un anno in Germania, con una borsa di studio Fullbright, studiando teologia ed etica ad Heidelberg. In quel periodo si è molto

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interessato a Dietrich Bonhoeffer, di cui ha anche tradotto un libro ― Creazione e caduta ― in inglese. Alcune delle istanze più vive di Bonhoeffer sembrano rivivere in Fletcher, in particolare la sua proposta di un “cristianesimo senza religione”.

L’orientamento di Fletcher non è “secolare”, nel senso di una alternativa laica al pensiero e all’azione che si ispirano alla religione; è “secolare”, appunto, nel senso di Bonhoeffer, come appassionata ― e indignata ― opposizione a quanto, presentandosi come religione, di fatto mutila l’uomo. Bonhoeffer ha abbozzato la sua proposta teologica come protesta contro l’anima apologetica della religione, in cui vedeva un tradimento della liberazione annunciata del Vangelo. Sono gli stessi accenti che si sentono riecheggiare nel pensiero di John Fletcher.

Un nuovo metodo di ricerca: l'action research

Come diversi altri pionieri della bioetica, al nuovo ambito disciplinare Fletcher è giunto attraverso l’etica teologica. Volendo tirare in ballo segni e predisposizioni, si può risalire all’esperienza pastorale di suo padre con i ciechi e i sordi. Questa esperienza pastorale vissuta in famiglia lo ha sensibilizzato ai problemi etici della genetica, a cui avrebbe dedicato in seguito una parte privilegiata della sua attenzione. È lo stesso Fletcher che, nella prefazione a un libro dedicato all’etica della genetica umana, da lui curato, sottolinea gli effetti duraturi di questa precoce esposizione al problema.

Facendo correre ancor più arbitrariamente le associazioni, possiamo individuare un segno di predestinazione nel cognome stesso che John Fletcher portava. Un suo omonimo, Joseph, teologo anche lui, aveva pubblicato nel 1954 un libro ― Morals and medicine ― che è considerato una pietra miliare nella storia dell’etica medica. Da giovane ministro del culto John Fletcher aveva lettoMorals and medicine ed era rimasto impressionato. Un incontro personale con Joseph Fletcher avvenne solo nel 1961. Chiese al più anziano studioso se, a suo avviso, l’etica medica era destinata a diventare un ambito di riflessione importante. Joseph Fletcher gli rispose, senza esitazione, che importante lo era già; e molto. Tanto da giustificare che un giovane vi si dedicasse a tempo pieno, facendola diventare un obiettivo di vita.

Un paio di anni più tardi John Fletcher lasciava la cura pastorale di una comunità per andare a laurearsi in etica cristiana all’Union Theological Seminary di New York. La sua scelta per l’etica medica era fatta. Ma non per un’etica libresca e dogmatica, bensì per una riflessione che nascesse dalla pratica e fosse vicina alla realtà. Frequentò

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il New York Hospital, presso la Cornell Medical School, passando molto tempo con i patologi e i chirurghi che stavano lavorando per dar inizio alla nuova area del trapianto del rene; fu vicino ai pazienti che venivano dializzati e a quelli che ricevevano i trapianti (a uno fu trapiantato un rene di scimpanzè: ma non visse a lungo). Individuò come tema della sua dissertazione di dottorato l’etica della ricerca medica: un campo vergine, sul quale all’epoca non esisteva quasi letteratura.

Per avere un ambito di studio più vasto, si spostò al Clinical Center di Bethesda, un ospedale di più di 500 letti nel quale veniva svolta quasi tutta la ricerca dei dieci istituti che confluiscono a formare i National Institutes of Health (NIH). La tesi ― A study of the ethics of medical research ― fu completata nel 1969. Conteneva il primo studio descrittivo dei problemi etici del consenso informato nella ricerca clinica e le proiezioni degli scienziati su quelli che sarebbero stati i più complessi problemi etici per la scienza e la società nella decade degli anni ’70.

La ricerca di John Fletcher era innovativa non solo nei contenuti, ma anche nella forma. Introduceva un metodo chiamato action-research, che avrebbe utilizzato in seguito anche per studiare i problemi sociali ed etici dei gruppi religiosi. L’action-research parte da una protesta contro i metodi di indagine propri delle scienze sociali, che non recano benefici a coloro che sono oggetto di studio. Chi se ne avvantaggia, in genere, è la carriera dei ricercatori, non le persone su cui la ricerca viene condotta. Nella action-research, invece, il ricercatore coinvolge le persone reclutate per la ricerca e le addestra nei metodi della ricerca, cosicché queste creano lo studio insieme con il ricercatore stesso.

Nel progetto di ricerca sull’etica della sperimentazione clinica condotto al NIH John Fletcher coinvolse i direttori scientifici e i direttori clinici di ogni istituto, chiedendo il loro aiuto nel formulare le domande per la dissertazione. Anche i pazienti furono inclusi nella ricerca in modo attivo. La ricerca trasformava così il campo in cui era svolta: si può dire che, dopo di essa, coloro che vi avevano preso parte non sarebbero stati più le stesse persone di prima.

Nuove regole etiche per la ricerca

La tesi di laurea di Fletcher merita una menzione nella storia della bioetica anche per qualche coincidenza esteriore. Fu discussa nel 1969, l’anno di fondazione dello Hastings Center. Nel comitato che la valutava sedeva Willard Gaylin, fondatore del Centro insieme a Daniel

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Callahan. L’aiuto che John Fletcher diede al Centro neonato fu, per il momento, solo economico: il primo assegno ― ricorda ― che abbia dato a qualcuno, al di fuori della chiesa. La sua strada personale nella bioetica, tuttavia, non passava per Hastings.

Dopo qualche anno di lavoro nel Seminario teologico dell’università della Virginia, ebbe il suo primo impegno istituzionale in campo bioetico: nel 1977 Mortimer Lipsett, direttore del Clinical Center del NIH, lo chiamò a dirigere il “Programma di bioetica”. Era la prima volta che un ospedale di ricerca assumeva qualcuno con il ruolo di esperto in bioetica. Fletcher rimase al NIH per dieci anni, fino a quando nel 1987 è tornato nell’università di Charlottesville, come direttore del Centro di etica biomedica.

Il decennio passato al NIH è centrale non solo nella carriera di John Fletcher ma anche negli sviluppi della bioetica della ricerca. Si può dire che la ricerca condotta in medicina non aveva goduto negli anni ’50 e ’60 di una particolare attenzione da parte di coloro che si preoccupano di confrontare i comportamenti sociali con le esigenze morali. Il clamore suscitato dal processo di Norimberga per i crimini contro l’umanità commessi da medici e scienziati nazisti era rimasto confinato a quel periodo storico aberrante: nessuno pensava che gli abusi potessero mettere le radici anche nella ricerca che avveniva nelle cliniche ultramoderne e nei laboratori che ospitavano la nuova bio-medicina.

A garantire che ai soggetti sperimentali non venissero inferti dei danni sembrava essere sufficiente la revisione dei protocolli da parte dei colleghi. Soprattutto non si sentiva il bisogno di dare all’etica della ricerca un profilo particolare: essa veniva fatta derivare dall’etica della medicina e non si differenziava da essa. Ma improvvisamente il clima era cambiato. Sull’onda del movimento dei diritti civili, si cominciò a elevare la denuncia di casi in cui dei soggetti umani sottoposti a ricerca medica sembravano aver ricevuto danno o non essere stati sufficientemente protetti. Già nel 1966 il governo federale stabilì per tutti i centri che conducevano sperimentazioni sull’uomo finanziati dal PHS (Public Health Service) o dal NIH severi controlli su ciascun protocollo di ricerca. Negli anni seguenti le procedure di regolamentazione furono estese, in modo che progressivamente tutta la ricerca con gli esseri umani venne a trovarsi imbrigliata da precise policies.

Il concetto di policy ha bisogno di una delucidazione per il lettore non familiarizzato con la cultura giuridica americana. Il vocabolario la definisce come: “ogni procedura adottata come vantaggiosa od opportuna”. La policy non è di per sé legge, ma aiuta la legge a tradursi nella vita quotidiana. La policy riproduce il diritto; tuttavia, attraverso il meccanismo della case law, produce anche diritto. Nel contesto clinico,

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per esempio, policies molto diffuse sono quelle che riguardano la rinuncia in certi casi al trattamento (Do Not Resuscitate Order, abitualmente abbreviato in DNR), oppure l’autodeterminazione del paziente, o le procedure per il riconoscimento della morte cerebrale. Sempre per mantenerci nell’ambito linguistico, dobbiamo menzionare l’espressione, estranea alla nostra cultura, di policy making, che designa l’attività specifica della creazione di policies. Ai comitati di bioetica spesso si richiede che diano contributi in tale direzione.

Il NIH si adeguò alla nuova tendenza di esigere che la ricerca con soggetti umani seguissepolicies molto rigide, intese a proteggere il benessere delle persone coinvolte nella ricerca. Particolare attenzione era rivolta ai soggetti più vulnerabili: i feti, i bambini, i prigionieri, le persone dementi ricoverate in cronicari. Lo strumento di cui il NIH disponeva per obbligare i ricercatori a seguire le regolazioni era fondamentalmente di natura economica: avendo il controllo dei fondi per la ricerca, poteva disporre che ogni ricerca finanziata dall’istituto sottoponesse prioritariamente il protocollo di ricerca a un controllo istituzionale.

L’esperto di etica come collega del medico ricercatore

La diffusione delle policies che regolavano la ricerca è stata anche fortemente incrementata dalla “Commissione Nazionale per la protezione dei soggetti umani della ricerca biomedica e comportamentale” (1974-1978). Il NIH si allineò ben volentieri alla nuova esigenza di trasparenza e controllo della ricerca. Ma quello che intraprese nel 1977 il direttore del Clinical Center assumendo John Fletcher quale esperto di etica era un passo ulteriore, che doveva avere un impatto profondo nello sviluppo della bioetica. Identificava una figura professionale specifica ― ilbioethicist ―, che veniva introdotta con forte rilievo istituzionale in uno dei sacri ridotti della ricerca medica.

L’operazione era rischiosa, perché poteva facilmente concludersi con un rigetto del corpo estraneo, sentito come un avversario o come ostacolo alla ricerca; nei casi peggiori, una figura di questo genere rischiava di essere vissuta come un poliziotto, una spia del direttore generale. Va riconosciuto all’accorto Fletcher il merito di aver dato alla propria presenza al NIH un profilo visibile, ma non minaccioso. Presentò la bioetica non come una funzione di controllo, ma come una risorsa disponibile per i bisogni dei ricercatori stessi. Sottolineò soprattutto i compiti formativi dell’esperto di bioetica nei confronti dei numerosi ricercatori che lavoravano al Clinical Center.

Tuttavia gli inizi non sono stati facili. Nei primi tre mesi della presenza

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di Fletcher al NIH gli furono rivolte solo sei richieste di consulenza etica su ricerche che comportavano un conflitto tra gli interessi della cura del paziente e gli interessi della ricerca. Fletcher ricorda il clima teso tra il neoassunto consulente e diversi medici: quando veniva richiesto il suo aiuto ― in particolare quando era un collega, o una infermiera, o un’assistente sociale a sollevare il problema etico ― il medico aveva l’impressione di perdere il controllo della situazione, o che fosse implicitamente criticata la sua capacità di gestire il caso.

Una particolare difficoltà insita nel ruolo dell’esperto di bioetica è la sua mancanza di potere. Egli ha una conoscenza specialistica dei principi etici e della condotta morale inerenti alla ricerca clinica; può e deve insegnare le regole a cui i ricercatori devono attenersi, ma non è suo compito costringerli a rispettarle. Non ha l’autorità clinica, nel senso della legittima autorità che dà ordini relativi alla cura del paziente. Non può prescrivere al ricercatore di modellare la sua attività secondo le norme dell’etica della ricerca. Può costituire un ponte nei confronti delle autorità che dirigono l’istituzione, ma non sostituirsi ad esse.

Pur con questi condizionamenti, il ruolo attivo di un esperto di bioetica in un centro ospedaliero di ricerca ― che John Fletcher ha modellato in modo pionieristico ― offre un livello ulteriore di protezione ai soggetti umani sui quali si fa ricerca. Oltre alla tutela fondamentale garantita dalla coscienza del singolo medico-ricercatore e quella dei gruppi di supervisione tra colleghi, emerge oggi la necessità di far intervenire una istanza professionale specifica. È stato merito di Fletcher dissipare gli equivoci che potrebbero farla confondere con ruoli polizieschi e contribuire, positivamente, a conferire a questa professione un profilo credibile.

L’università della Virginia ha attirato di nuovo John Fletcher nella sua orbita, dopo il decennio passato al NIH di Bethesda. Il Centro di etica biomedica, sotto la sua direzione, è diventato un punto di riferimento di alto profilo istituzionale. Fornisce un servizio di consulenza in bioetica a livello locale, rivolto a medici, a pazienti e alle loro famiglie. La partecipazione di tutte le parti coinvolte si è dimostrata la via più efficace per risolvere molti problemi etici nei quali si scontrano dei conflitti di interessi.

Il Centro costituisce inoltre un riferimento istituzionale di grande rilievo per iniziative locali ― come comitati di bioetica ospedalieri o programmi di formazione ― nello stato della Virginia. L’esperienza ha dimostrato, infatti, che senza un sostegno di questo genere i comitati di etica tendono ad essere poco usati o usati male. Il Centro, infine, garantisce la formazione delle persone che vogliono lavorare nell’ambito dell’etica clinica. Il percorso di formazione che John Fletcher ha fatto

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personalmente, avventurandosi in territori ignoti, ora può essere standardizzato: è il vantaggio che la seconda generazione degli esperti in bioetica ha rispetto alla generazione dei pionieri.

Riferimenti bibliografici

John FletcherCoping with genetics disorders. A guide for clergy and parents, Harper and Row, San Francisco, 1982.

D. Wertz, J. FletcherEthics and human genetics, Springer, Heidelberg, 1989.

J. Fletcher, M. Boverman, «The evolution of the role of an applied bioethicist in a research hospital», in J.Fletcher, N. Quist, A. Jonsen (a cura di), Ethics Consultation in Health Care, Health Administration Press, Ann Arbor, 1989, pp. 63-79.

M. White, P. Foubert, J. Fletcher, «Biomedical ethics and an ethics consultation Service at the University of Virginia», Hospital Ethics Committee Forum, 2, 1990, pp. 89-99.

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9. Diego Grada: dall’“olfatto morale” alla ricerca di un metodo

Filosofìa e storia per fondare la bioetica

Anche per Diego Gracia l’incontro con la bioetica è avvenuto negli Stati Uniti. Nell’estate del 1986 il giovane cattedratico di storia della medicina dell’università Complutense di Madrid riceveva una borsa di studio dal governo degli Stati Uniti che gli permetteva di andare a conoscere mediante un contatto diretto la nuova sensibilizzazione all’etica che stava trasformando la pratica della medicina americana. In un viaggio durato alcuni mesi visitò una decina di facoltà di medicina e centri che avevano programmi di medical humanities.

Fu un viaggio decisivo per maturare il suo orientamento verso la bioetica. Ne riportò la ferma convinzione che la nuova disciplina era un campo in espansione molto promettente per studiosi attratti dalle esplorazioni pionieristiche. Perché della bioetica che ha saputo produrre l’America hanno bisogno le società del continente europeo; ma è vero anche l’inverso: la bioetica che sta prosperando in America ha bisogno dell’Europa.

Gracia era rimasto impressionato dalla bioetica americana, ma non del tutto convinto. Gli sembrava che in America fervesse un grande entusiasmo intorno alle applicazioni dell’etica alla biologia e alla medicina: tutti si davano da fare per risolvere casi, ma non dedicavano uguale attenzione al chiedersi il perché delle soluzioni proposte. Era trascurato, insomma, il problema filosofico delle fondazioni della bioetica. Gracia si convinse che, per quanto successo avessero le risposte empiriche, il momento teorico non poteva essere scavalcato. Anche alla bioetica si può applicare il detto di Kurt Lewin a proposito della psicologia sociale: «Non c’è niente di così pratico come una buona teoria». Gracia si propose perciò di non rispondere alla domanda crescente di bioetica applicata, che pur stava annunciandosi anche nel suo paese, ma di dedicarsi piuttosto a delineare una bioetica fondamentale, come base per risolvere i problemi concreti.

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Tornato a Madrid, mise subito la sua poderosa capacità di lavoro a servizio della nuova idea. Nel giro di tre anni pubblicava un volume di più di 600 pagine di grande formato, intitolato appuntoFundamentos de bioética. Per commentare il significato culturale di quest’opera, lo storico della medicina Pedro Laín Entralgo è ricorso a un’efficace immagine retorica. Ricordando che i conquistatori dell’Irlanda erano giunti in breve tempo ad essere Hibernis ipsis hiberniores (“più irlandesi degli stessi irlandesi”), e che questa era stata appunto la vocazione degli spagnoli che si erano misurati con le più alte imprese intellettuali, come Ramon y Cajal e Menéndez Pidal: essereEuropensibus ipsis europensiores (“più europei di quelli che ritengono se stessi europei genuini”), l’illustre storico della medicina proponeva un ampliamento della formula: oggi, con la crescente e travolgente importanza scientifica dei nordamericani, bisogna essere Occidentalibus ipsis occidentaliores, “più occidentali degli stessi occidentali”. È proprio quanto è riuscito a fare, a giudizio di Laín Entralgo, lo spagnolo Diego Gracia con i suoi Fondamenti di bioetica: si è collocato in questa avanguardia dell’Occidente, assimilando il movimento bioetico, aderendovi in modo sincero e profondo, ma apportandovi anche un elemento di quella critica che corregge le deformazioni e promuove una ulteriore crescita.

L’occasione in cui il riconoscimento di Laín Entralgo veniva pronunciato era molto solenne. Era il discorso ufficiale con cui il 3 aprile 1990 Diego Gracia veniva accolto nell'Accademia reale di medicina, una istituzione tra le più esclusive del mondo medico spagnolo. Vi era ammesso in quanto storico della medicina eminente; ma anche il suo apporto alla bioetica riceveva un adeguato riconoscimento. La lezione magistrale con cui il neo-accademico si presentava ai colleghi era dedicata al principio di “non-maleficità” quale fondamento dell’etica medica; la risposta al suo discorso, affidata appunto a Laín Entralgo, sottolineava il merito di Diego Gracia di aver favorito l’incontro della tradizionale etica medica con il moderno movimento della bioetica. Come ogni vero incontro, richiede un confronto: non un mero confluire, dove l’etica medica, privata delle sue radici e dalla sua eredità, si trovasse ad essere semplicemente annessa alla nuova disciplina alla moda.

L’apertura di Diego Gracia alla bioetica non è una vocazione improvvisata: parte di lontano, con un massiccio lavoro di fondazioni. Lo studioso ha cominciato a formarsi coltivando con uguale passione due discipline: la medicina e la filosofia. Dopo la laurea in medicina e la specializzazione in psichiatria, ha completato anche gli studi filosofici, laureandosi con Xavier Zubiri. La filosofia ha continuato a coltivarla, e non da amateur. Zubiri è stato per lui un vero maestro: non un insegnante che indottrina, ma un iniziatore, che dischiude la filosofia

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dall’interno, quasi come una facoltà spirituale.

Di Zubiri Gracia ha raccolto l’eredità. Ha contribuito a diffondere l’opera di un pensatore di non facile accesso: la monografia che ha dedicato alla presentazione sistematica del pensiero del maestro ― Voluntad de verdad, del 1983 ― è considerata la migliore introduzione all’opera di Zubiri. Da più di 15 anni Gracia dirige un seminario che approfondisce il pensiero di Zubiri e ne sta curando la pubblicazione dell’“opera omnia”.

Da Zubiri Gracia ha ricavato una concezione della filosofia non come sistema chiuso, ma come uno sforzo personale di costruzione, come il risultato di un’autentica vita intellettuale. La filosofia non è qualcosa di dato, su cui si possa allungare la mano per servirsene a piacimento. Secondo Zubiri, si può scrivere tonnellate di carta e passare una lunga vita in una cattedra di filosofia, senza aver sfiorato, neppure da lontano, il più tenue vestigio di vita filosofica. Al contrario, si può essere carenti di ‘originalità’, in quanto ci si appoggia su filosofie già fatte, ma possedere, nel più profondo di se stesso, «l’intimo e silenzioso movimento del filosofare». È proprio questo “movimento” che si coglie nel lavoro intellettuale di Diego Gracia.

L’oscillazione tra la medicina e la filosofia ha portato a un fecondo compromesso: Diego Gracia ha optato per la storia della medicina. Negli anni ’70 la disciplina a Madrid era al suo apogeo. Pedro Laín Entralgo l’aveva disincagliata dalle secche della pura erudizione per far circolare al suo interno una vivace linfa antropologica. In alcuni decenni di magistero aveva fatto della storia della medicina un polo di attrazione per chi si avvicinava alla medicina con ambizioni intellettuali, e non solo con aspirazioni a esercitare l’arte terapeutica.

Il contributo dell’antropologia medica

I due orientamenti spirituali ― a capire e a guarire ― hanno una intrinseca vocazione ad incontrarsi: la migliore comprensione dell’atto terapeutico, sullo sfondo del passato storico e sotto lo stimolo degli interrogativi presenti, porta a una medicina con maggior spessore umano, e quindi più capace di guarire. Reciprocamente, l’impegno nell’attività terapeutica apre un accesso privilegiato alla comprensione dell’essere umano. È l’ideale del medico-filosofo che riemergeva nel magistero di Laín Entralgo. Per Diego Gracia questo ideale era tanto attuale da sentirsi attratto a sceglierlo come forma di vita.

Nel 1973 Gracia concludeva il suo periodo di formazione con una tesi di dottorato sostenuta con Laín Entralgo. Era intitolata Persona y

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enfermedad; forniva una documentatissima analisi della disciplina denominata “antropologia medica”. Invisa a molti medici, che la considerano un ambito elettivo per medici trasformatisi in filosofi occasionali, la riflessione sistematica sull’essere umano, che è il destinatario dell’azione terapeutica ― e quindi considerato nella dimensione di corporeità inferma, di mortalità, di ricerca della salute ― è invece vista da Gracia come una condizione indispensabile per un buon esercizio della medicina.

Fin dalla sua prima ricerca Diego Gracia dimostra di aver ben assimilato il metodo dello storico della medicina di cui si è fatto discepolo. Dell’antropologia medica presenta, successivamente, la storia e la teoria. Tutte le grandi ricerche storiche di Laín Entralgo ― come quelle dedicate alla storia clinica del malato e al rapporto medico/paziente, ma anche, nell’orizzonte più ampio dei suoi interessi, alla speranza e all’amicizia ― hanno una duplice scansione: prima l’analisi storica del problema e poi la teoria. La storia è la chiave per accedere alla dimensione essenziale di ciò che viene preso in considerazione. La propedeutica storica sarà anche la caratteristica saliente dell’approccio di Gracia alla bioetica.

Ancor prima dell’incontro diretto con la pratica americana della bioetica, Gracia si è avvicinato alla disciplina attraverso studi e ricerche sulla storia dell’etica medica. Il mai sopito interesse filosofico lo orientava a dedicarsi, anche come storico della medicina, a quegli aspetti della medicina che avevano un rapporto più stretto con la filosofia. Mentre l’antropologia medica riflette sull’essere, l’etica si rivolge al dover essere, ovvero al fare dell’uomo. Un motivo più contingente per indirizzare le sue ricerche nell’ambito dell’etica erano le lacune della storiografia medica classica a proposito del lato prescrittivo che hanno i comportamenti medici.

Gli storici della medicina hanno analizzato molto accuratamente alcuni aspetti delle pratiche sanitarie del passato, come la storia dei saperi medici, dell’anatomia, della fisiologia, della chirurgia o delle varie altre specialità mediche. La storia degli aspetti normativi della medicina, invece, è stata relativamente trascurata. Il riferimento al patrimonio trasmesso dal passato sembra esaurirsi in citazioni enfatiche del giuramento di Ippocrate e dell’ethos ippocratico, concepiti come un blasone di cui fregiarsi.

L’insegnamento della disciplina agli studenti di medicina dell’università Complutense di Madrid ha offerto a Gracia l’occasione per una esplorazione sistematica di tutto l’arco evolutivo dell’etica medica in Occidente, dalla Grecia classica fino alle soglie del rivoluzionamento contemporaneo da cui è nata la bioetica. La prima parte dei Fondamenti

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di bioetica fornisce appunto la propedeutica storica alla bioetica dei nostri giorni.

In questo ampio disegno storico l’etica medica viene scomposta nelle tre principali linee, il cui intreccio costituisce la rete dei comportamenti prescritti: l’impegno, professionale ed etico, del medico a orientare la sua azione al bene del paziente, tradotto in atto nel modello paternalista; la prospettiva dei diritti dell’uomo, che comportano l’esigenza del rispetto dell’autonomia personale e la promozione dell’autodeterminazione del paziente; l’ideale della giustizia, che dalla società si riflette nella sanità. I tre principi classici della bioetica americana ― beneficità, autonomia e giustizia ― in questa ricostruzione non appaiono più piovuti dal cielo, ma prodotti dall'humus della storia.

I principi appaiono come la sintesi stenografica di tre diverse tradizioni: quella medica ha privilegiato il riferimento alla salute o al sollievo dei sintomi del malato (in breve, al suo “bene”, stabilito però con determinazione unilaterale dal medico, che si attribuisce il sapere e la responsabilità morale di fare il bene del paziente); la tradizione giuridica si è orientata al rispetto dei diritti del malato e quindi ad adottare come criterio normativo il riferimento al principio dell’autonomia; la tradizione politica ha ampiamente discusso e variamente interpretato il criterio della giustizia, che deve presiedere alle scelte sociali in ambito sanitario e alla equa allocazione delle risorse. Nella bioetica contemporanea le tre tradizioni sono venute a incontrarsi e si sono integrate, dando un rilievo inusuale alla dimensione normativa della medicina.

Un contenitore per la bioetica: le humanidades médicas

La medicina è un sapere per buona parte descrittivo: di sintomi, di malattie, di storia naturale delle diverse patologie. Ma non è solo questo: è anche un congiunto di norme prescrittive. Il diritto, per esempio, stabilisce ciò che secondo la legge nelle pratiche sanitarie è permesso e ciò che non lo è; l’etica determina la “buona” e la “cattiva” medicina dal punto di vista della liceità morale. Anche la religione può essere ricondotta alle discipline normative, in quanto interviene a modellare una pratica medica armonizzata con una determinata visione di Dio, del mondo, dell’uomo e dei suoi doveri.

Il compito descrittivo è assolto, oltre che dalle scienze biologico-naturali, anche dalle scienze dell’uomo, tra le quali acquistano particolare rilievo la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale, l’economia sanitaria. E non solo le scienze umane: anche l’arte e la letteratura, a modo loro, svolgono una funzione descrittiva e interpretativa

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della realtà alla luce della patologia e della terapia. Certo, se uno vuol conoscere le malattie, non deve leggere i romanzi, ma consultare le storie cliniche dei pazienti. La morte di Ivan Illich di Tolstoj, per esempio, ha scarso valore come storia clinica, ma è insuperabile se si vuol conoscere i vissuti di un malato, le sue reazioni durante le diverse fasi della malattia, le norme sociali alle quali obbedisce. Tutto questo complesso di conoscenze è chiamato nei paesi di lingua spagnolahumanidades médicas.

Alla diffusione delle humanidades médicas Diego Gracia ha dato un grande impulso. Da anni coordina la sezione umanistica di una rivista quindicinale, Jano, molto diffusa nel mondo medico.Jano è Giano, il dio bifronte. Come bifronte è la medicina: rivolta contemporaneamente al corpo e alla dimensione culturale e spirituale dell’uomo, alle scienze naturali e a quelle umane. Una decina di discipline ― tra cui la storia, la filosofia, il diritto, la psicologia, l’antropologia, la letteratura e le arti ― sono convocate per illuminare, in modo sia descrittivo che prescrittivo, la pratica della medicina. L’appello alle humanidades médicas è una reazione alle deformazioni unilaterali di una medicina modulata unicamente sulle scienze della natura, con l’intento di correggerle mediante delle integrazioni positive, non di alimentare la polemica nei confronti della scienza.

w L’interesse di Diego Gracia, in quanto storico della medicina e studioso di filosofia, si è rivolto in modo preferenziale a quell’ambito delle humanidades médicas che si occupa degli aspetti normativi della pratica medica.

La bioetica europea, nel ricordo dell’orrore

L’assimilazione della storia gli ha permesso di arrivare alla bioetica non a mani vuote, ma arricchito dalla tradizione. Da questa ha tratto soprattutto una convinzione fondamentale: che il primo dovere di un sanitario è di non arrecare detrimento al malato. Primum non nocere, nella formulazione che di questo dovere ha fatto la scuola ippocratica. Lo si può chiamare il principio della “non-maleficità”. Non si tratta dello stesso principio noto come “beneficità” (beneficence, nel linguaggio della bioetica americana), ovvero dell’obbligo di cercare il bene del paziente. “Beneficità” e “non-maleficità” non sono per Gracia sinonimi ― quasi fossero il diritto e il rovescio di una stessa cosa ― ma due principi di carattere molto diverso.

La “non-maleficità” ha a che vedere con il principio generale che tutti gli esseri umani devono essere trattati con uguale considerazione e

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rispetto. Per questo non dipende direttamente dalla volontà delle persone. Non possiamo fare del male a qualcuno, anche se ce lo chiede! Lo stesso avviene con la giustizia: sul piano sociale si commette un’ingiustizia quando le persone non vengono trattate con uguale considerazione e rispetto, qualunque siano le loro preferenze soggettive.

Il principio di “non-maleficità” obbliga a trattare la vita biologica di tutti gli uomini con uguale considerazione e rispetto. Insieme al principio di giustizia, che è il suo corrispettivo, è indipendente dal principio di autonomia. Questo richiede che i valori e le preferenze delle persone siano rispettate. Per quanto importante sia, gerarchicamente è inferiore alle esigenze della “non-maleficità” e della giustizia. Ciò vuol dire che questi obblighi si possono stabilire con criteri universali e comuni, che valgono per tutti; e sono vincolanti indipendentemente dalla volontà delle persone.

Se non è lecito fare del male a qualcuno o trattarlo ingiustamente, indipendentemente dalla sua volontà, lo stesso non può dirsi riguardo all’obbligo morale di fare il suo bene. Il bene va sempre riferito alla situazione concreta di una persona, a ciò che nella sua valutazione corrisponde appunto a un valore: non si può fare del bene a un altro contro la sua volontà, benché siamo obbligati a non fargli del male anche se, per assurdo, lo desiderasse. La beneficità dipende sempre dal sistema di valori che è proprio di una persona e ha perciò un carattere più soggettivo che oggettivo. L’autonomia della persona è il limite invalicabile posto alla tutela di questo bene.

Diego Gracia propone due livelli gerarchici nel suo sistema bioetico: uno più fondamentale, dove l’azione è retta dai principi di “non-maleficità” e di “giustizia”, e un altro ― che potremmo chiamare di secondo livello ― ispirato alla “beneficità” e controllato dalla “autonomia” dell’individuo. Il primo corrisponde all’“etica del minimo”, alla quale siamo obbligati per forza superiore, mentre il secondo ― l’“etica del massimo” ― dipende dal sistema di valori personali, dagli ideali di perfezione e felicità che abbiamo fatto nostri. Una è l’etica del dovere, l’altra è l’etica della felicità.

Si tratta di una speculazione gratuita? Per Diego Gracia è invece una specie di obbligo morale che ha la riflessione che nasce dall’Europa nei confronti della bioetica formatasi sul suolo americano. Ciò che ci autorizza ad assumere un ruolo di insegnamento non è la presunzione di superiorità morale o di maggiore saggezza, ma semmai le tristi esperienze che il continente europeo ha avuto con l’assolutismo e la violazione sistematica dei diritti umani. Come affermava Th.W. Adorno, dopo l’oscuramento morale connesso con il trionfo delle ideologie totalitarie e con l’uso strumentale che è stato fatto dell’uomo, siamo

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obbligati a cercare i minima moralia, ovvero quel livello minimo di moralità al di sotto del quale regna l’immoralità, anche nell’ipotesi che venga accettato da tutti.

È ancora il peso dei drammi che hanno costellato la storia europea che motiva le nostre riserve nei confronti degli orientamenti utilitaristici in bioetica. “La più grande felicità per il maggior numero di persone”: è un bel programma per le scelte che siamo chiamati a fare in sanità, purché non implichi che qualcuno debba venir sacrificato al benessere dei più. Nei confronti di questa tentazione va innalzata la barriera del Primum non nocere, dell’uguale dignità e rispetto che spettano a tutti gli individui, della non disponibilità della persona umana per progetti che non la considerino anche come fine, e non solo come mezzo.

Rigore e metodo

Parallelamente all’interesse per i fondamenti della bioetica, Diego Gracia è andato focalizzando la sua attenzione sul metodo. Dietro alla sua richiesta di un rigore metodologico possiamo indovinare il fastidio per la pratica abbastanza diffusa che fa consistere la bioetica in una chiacchierata a ruota libera intorno a un caso. È diffusa la convinzione che basti prendere un caso clinico e sollecitare poi a opinare liberamente. Questa pratica del dibattito su tematiche bioetiche senza esigenze di metodo lusinga le persone e le induce a pensare che per i risolvere i problemi etici basti l'“olfatto morale”.

L’olfatto morale è l’analogo in etica di ciò che in medicina è noto come “occhio clinico”. Si favoleggia della capacità dei clinici più famosi di riconoscere le malattie alla prima occhiata, senza uso di strumenti diagnostici. Sull’occhio clinico dei grandi maestri, poi, si è costruita una vera e propria mitologia, devotamente alimentata dai discepoli. Buona parte della formazione medica è rivolta a superare l’affidamento all’“occhio clinico”.

Non si tratta di svalutare questa facoltà intuitiva ― qualche volta ha infatti una utilità evidente ―, ma piuttosto di darle come struttura di sostegno la capacità di analisi metodica delle diverse possibili alternative. Al clinico medico viene consigliato continuamente, fin dai suoi primi anni di studio della medicina, di mettere il suo buon occhio tra parentesi e di imparare la diagnosi differenziale. Una cosa analoga deve avvenire in etica.

Coloro che si fidano dell’“olfatto morale” tendono a dire: «La soluzione deve andare in questo verso. Non chiedermi perché: non saprei

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dirlo; ma sento che quella è la direzione giusta!». Per Gracia la priorità in bioetica non spetta alla ricerca delle soluzioni, ma alla giustificazione razionale delle soluzioni proposte: bisogna che chiunque propone soluzioni bioetiche sappia che ha il dovere di addurre le prove argomentate.

La sua concezione della bioetica si presenta come un superamento dell’etica professionale, per diventare pratica dell’etica civile, cioè l’etica della società pluralista. Della formazione bioetica, da questo punto di vista, non hanno bisogno solo i professionisti della sanità, ma tutti i membri della società civile. La bioetica può diventare una scuola di convivenza tra opinioni divergenti e apprendimento a prendere decisioni in condizioni di incertezza.

Nei paesi di tradizione cattolica, come la Spagna, la bioetica è destinata a riacutizzare un conflitto latente nel rapporto tra le chiese e la modernità. Tanto le chiese quanto il pensiero secolare e laico ritengono di avere qualcosa di essenziale da dire, differenziandolo e contrapponendolo all’altro. Nel confronto aperto delle posizioni Gracia individua alcuni atteggiamenti tipici.

Quello belligerante, anzitutto. Esso fa emergere dolorosamente il fatto che chiese e società moderna sono state costrette a una coesistenza forzata, imposta dalle circostanze, ma senza una vera e libera convergenza di opinioni. Le chiese che assumono un atteggiamento belligerante considerano impossibile qualsiasi progetto secolare veramente morale, e pertanto negano la legittimità a qualsiasi sistema etico che prescinda da Dio o si elabori al margine di un credo rivelato. Il grande progetto della modernità ― vale a dire, il tentativo di creare un’etica autonoma ― sarebbe, per definizione, condannato al fallimento. Le etiche, o sono religiose, o non sono nulla.

Anche le etiche laiche sono diventate belligeranti, mettendo in discussione la pretesa delle religioni di determinare le condotte umane come buone per una via diversa da quella puramente razionale. È tradizionale che le religioni si permettano di mettere in discussione la legittimità delle morali laiche: tutte le visioni globali del mondo ― e tali sono le religioni ― propongono anche determinati costumi e una morale specifica. Ma oggi è diventato frequente che anche le morali laiche contestino la legittimità delle morali religiose in materia di costumi.

Diego Gracia ritiene che i rapporti tra religione ed etica non si possono appianare con il facile espediente del confronto fondamentalista; ma non basta neppure un puro compromesso strategico. La soluzione razionale richiede, da una parte, lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone e, dall’altra, l’accettazione da parte delle chiese dei minimi etici che lo stato deve esigere coercitivamente da tutti, cioè l’etica civile. Questa deve essere stabilita mediante procedimenti

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partecipativi e democratici, e pertanto deve rispettare il parere di tutti, o per lo meno della maggioranza.

È vero che le opinioni morali ― anche quelle della maggioranza ― possono essere sbagliate, o può sembrare ad alcuni che lo siano. Ma questa convinzione legittima solo a iniziare un dibattito ― o un processo di educazione morale della società ― nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre e punire, deve considerarsi, in linea di principio, immorale.

L’etica civile, una volta stabilita, ha sempre carattere impositivo o coattivo, e pertanto comporta la possibilità del castigo e della pena; una tale pena si potrà considerare morale solo quando la legge è promulgata per vie legittime. Le vie impositive e dittatoriali, cioè non democratiche, devono essere considerate per principio immorali, anche se fossero avallate da una religione o da una chiesa.

Nell’ordine dell’etica civile non c’è la possibilità di una legittimazione religiosa delle norme. In quest’ordine le chiese hanno la funzione di proporre: solo lo stato ha la capacità di imporre. L’etica ha due dimensioni: una privata o individuale, l’altra pubblica o civile. La bioetica influisce su tutt’e due; questa è la ragione per cui deve essere presente tanto nella vita degli individui, quanto nell’attività politica. Ma ambedue hanno una radice comune: l’analisi razionale dei problemi e l’educazione della società a prendere posizioni che siano allo stesso tempo corrette e buone.

Quando non si procede così, e invece di ricercare e di educare si mette tutto l’accento sull’azione politica, si affaccia il pericolo dell’utilizzazione spuria della politica per la manipolazione delle coscienze. Per questo Gracia sostiene che la cosa più urgente non sia legiferare, bensì lavorare seriamente in bioetica, ricercare ed educare. Il cambiamento delle leggi, qualora risulti necessario, verrà in aggiunta. Se gli individui e la società progrediscono moralmente, non c’è dubbio che finirà per progredire anche lo stato.

L’impegno educativo di Gracia è andato di pari passo con l’insegnamento e la ricerca. L’immagine positiva della bioetica che si andava diffondendo nella cultura spagnola ha indotto molti direttori di ospedale e lo stesso Ministero della sanità a chiedere corsi di bioetica. Per rispondere alla richiesta, Gracia ha istituito, presso il Dipartimento di storia della medicina e sanità pubblica dell’università Complutense, un master in bioetica. È il primo di questo genere in Europa.

Si tratta di un corso di specializzazione, in due anni accademici, centrati rispettivamente sulla bioetica fondamentale e sulla bioetica clinica.

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Vi partecipano medici, ricercatori che lavorano nell’industria farmaceutica, impiegati delle amministrazioni ospedaliere. Il Ministero della sanità finanzia la partecipazione di corsi per i dipendenti del Servizio sanitario nazionale ed è disposto a riconoscere la particolare qualificazione fornita dal master.

Ma niente è più lontano dalle intenzioni di Diego Gracia quanto il progetto di promuovere una nuova professione, qualcosa di analogo al “bioeticista” americano. Egli stesso non si considera un professionista della bioetica, né ama essere considerato tale. Per evitare che in Spagna si crei questo profilo professionale, ha stipulato un accordo con il Ministero della sanità abbastanza restrittivo: i medici del Servizio sanitario nazionale che conseguono il titolo di magister in bioetica continueranno a esercitare come medici nell’attività che già esercitavano, ma con un 30 per cento del loro tempo professionale dedicato alla bioetica (animare eventuali comitati ospedalieri, formare il personale sanitario, fare ricerca e aggiornarsi, ecc.).

A suo avviso, l’incremento di persone che si dedichino a tempo pieno alla bioetica potrebbe comportare dei pericoli. Il più grave è che si creino artificiosamente dei problemi perché i professionisti della bioetica devono vivere di essi! Gracia sogna una bioetica seria, ma non appesantita da apparati e istituzioni. Riferisce con piacere la dichiarazione di Jean Bernard, già presidente del Comitato creato in Francia per la bioetica, secondo il quale tale Comitato deve proporsi di scomparire quanto prima, per dimostrare che è stato creato per risolvere dei problemi e non per perpetuare se stesso!

Riferimenti bibliografici

Azucena Couceiro Vidal, Manuel De Los Reyes Lopez, «Un master universitario in bioetica», in L’Arco di Giano, 6, 1994, pp. 239-246.

Diego Gracia, Voluntad de verdad. Para leer a Zubiri, Ed. Labor Universitaria, Barcelona, 1986.

Diego Gracia, Fundamentos de bioética, Eudema (Ediciones de la Universidad Complutense), Madrid, 1989; tr.it. Fondamenti di bioetica, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993.

Diego Gracia, “Primum non nocere". El principio de no-maleficencia como fundamento de la ética médica, Real Academia de Medicina, Madrid, 1990.

Diego Gracia, Vent’anni di bioetica nell'area linguistica spagnola, in Corrado Viafora (a cura di), Vent’anni di bioetica, Ed. Fondazione Lanza-Gregoriana ed., Padova, 1990, pp. 252-299.

Diego Gracia, Procedimientos de decisión en ètica clínica, Eudema, Madrid, 1991.

Diego Gracia, «Vecchie e nuove medical humanities: la via spagnola», in L’Arco di Giano, 4, 1994, pp. 11-26.

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10. Albert Jonsen: l’etica nata “guardando i dottori ”

Professione: esperto di etica

La città di Seattle occupa un posto privilegiato nell’immaginario collettivo americano. Capitale dello stato di Washington ― lo stato che chiude nell’estremo nord-ovest l’immenso scacchiere degli Stati Uniti ― è diventata simbolo di sviluppo abbinato a rispetto dell’ambiente. Vi si rispecchia un’America che desidererebbe aver incorporato la cultura dei nativi indiani, invece di averla annientata. L’ultima variante di Seattle come sogno è attribuirle la funzione di ponte verso l’Oriente e la sua spiritualità. Nessun altro posto dell’Occidente avrebbe potuto essere più indicato per farvi incarnare il “piccolo Buddha”, come nel film di successo di Bernardo Bertolucci.

Seattle ha legato il suo nome anche all’immaginario che ruota attorno alla nuova medicina e ai suoi problemi. La città si è guadagnata questo diritto per uno degli eventi che a buon diritto possono essere considerati simbolo della nuova èra: il 9 marzo 1960 a Seattle il dottor Belding Scribner iniziava a dializzare Clyde Schields, una paziente affetta da insufficienza renale cronica, introducendo uno shunt arterio-venoso che rendeva la dialisi una pratica ripetitiva. Possiamo considerare questo fatto come l’inaugurazione della medicina delle macchine, chiamate a sostituire le funzioni organiche vitali. La candidatura di Seattle a rappresentare la nuova epoca è rafforzata anche dalla invenzione, avvenuta nella stessa città, del defibrillatore, da parte del dottor Edmark.

Ma la medicina dei miracoli è allo stesso tempo la medicina di laceranti conflitti sociali ed etici. Anche da questo punto di vista Seattle avanza la sua candidatura a proporsi come simbolo. Nel 1962, a seguito di un articolo di Shama Alexander apparso su Life («They decide who lives, who dies»), si accendeva in tutta l’America un appassionato dibattito intorno ai cosiddetti “comitati di Dio”. Per selezionare i

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pazienti che aspiravano all’emodialisi ― protesi vitale rara, costosa, perennemente insufficiente rispetto alla domanda ― era stato costituito un comitato di etica, per valutare le candidature a questa tecnologia salvavita. Il comitato, composto per la maggioranza di non medici, si era trovato nella necessità di introdurre criteri di scelta su motivi non solo clinici, che si estendevano anche ai meriti personali e al valore sociale delle persone.

In pratica, questi comitati decidevano al posto di Dio chi potesse continuare a vivere e chi invece doveva morire. Come pochi altri casi, il comitato di etica di Seattle riuscì a mobilitare l’opinione pubblica sulla necessità di una bioetica, cioè di un consenso sociale intorno a pratiche mediche innovative che non potevano essere regolate con i criteri che hanno presieduto sull’esercizio etico della medicina nel passato. L’episodio ha una tale rilevanza simbolica che nel 1992, a trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo su Life, si è tenuto a Seattle un convegno riservato ai “pionieri della bioetica”, per celebrare la nascita della disciplina.

Con queste premesse, non stupisce che bisogna andare proprio a Seattle per incontrare una della figure di maggior spicco nelle medical humanities americane: Albert Jonsen. È necessaria una buona guida per trovare, nel dedalo degli edifici della facoltà di medicina dell’università di Washington, il Dipartimento di storia della medicina e di etica. Nato originariamente come Dipartimento di storia biomedica, il Dipartimento ha cambiato nome e ampliato i suoi interessi quando Jonsen ne è diventato direttore, nel 1987. Proveniva dall’università della California, a San Francisco, dove aveva assunto l’insegnamento della bioetica nella facoltà di medicina nel 1972: indubbiamente un iniziatore della nuova disciplina e uno dei maestri più ascoltati.

La sua formazione è stata quella di un docente di teologia morale. Ha studiato con i gesuiti e ha conseguito un dottorato a Yale con una dissertazione sulla “responsabilità nell’etica religiosa contemporanea” (pubblicata nel 1971: Responsability in Christian ethics). Ha iniziato a insegnare teologia e filosofia nell'università di San Francisco, per passare poi all’università della California nel 1972. La cesura è stata segnata da un evento importante per la sua formazione: invitato dal cancelliere del Medical Center di quella Università, trascorse un anno in quel presidio sanitario in qualità di visitatore. Seguiva i corsi degli studenti di medicina, partecipava alle visite, alle discussioni dei casi e anche alle autopsie; ma soprattutto sedeva e ascoltava.

Un docente di etica silenzioso è una figura piuttosto insolita nella nostra tradizione, dove invece i ruoli sono invertiti: l’esperto di etica

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parla ― più spesso sentenzia ― e gli altri ascoltano. In seguito Jonsen stesso ha riassunto l’intera sua carriera di bioeticista sotto il motto programmatico: “Watching the doctor” (guardare i medici).

Può sembrare provocatorio dire che lo sviluppo culturale dell’etica intorno all’esercizio della medicina non è altro che l’amplificazione dello stare a guardare i medici, che è una pratica molto arcaica. La possiamo considerare quasi un archetipo tra i comportamenti umani. Basta riferirsi alle scene di villaggio che l’etnografia ci ha reso familiari: l’affollarsi della gente intorno al guaritore e al paziente, ascoltando la loro conversazione e osservando le loro azioni. Nella nostra cultura le pratiche mediche sono difese dalla privacy, che ci toglie il piacere di fare da spettatori: pochissime persone hanno l’autorizzazione di avvicinarsi a quello che viene enfaticamente chiamato “l’intimo rapporto medico-paziente”. Si può sintetizzare in un’immagine lo sviluppo avvenuto negli ultimi 20-30 anni dicendo che alcuni intellettuali ― per lo più sociologi, antropologi, economisti, nonché filosofi ― sono riusciti a organizzare le cose in modo da poter osservare da vicino la scena terapeutica.

Ufficialmente non hanno l’autorizzazione di guardare e ascoltare. Si giustificano assicurando che la loro disciplina aiuterà a migliorare quel rapporto. Così guardano da una posizione un po’ discosta ― talvolta guardano solo con gli occhi della loro mente... ― e scrivono articoli e libri che descrivono, criticano, spiegano e qualche volta biasimano quello che si fa in medicina. La nostra cultura ha trasformato l’affascinante passatempo di guardare il dottore in una scienza. Abbiamo promosso la folla che sbircia, facendola diventare uno stuolo di professori. Abbiamo orchestrato gli “oh” e gli “ah” in una letteratura critica.

Albert Jonsen non ha certo diritto di lamentarsi di questa situazione, perché è diventato uno di questi osservatori per professione. Munito di laurea in teologia e in filosofia, è emigrato in ambiente sanitario, dove esercita l’etica medica da più di vent’anni. È stato assunto dal Medical Center dell’università della California nel 1972: probabilmente è stato il primo esperto di etica a entrare nell’organico di una grande istituzione clinica con l’esplicita funzione di consulenza (“to be a consultant”).

La professione dell’esperto di etica in medicina vent’anni fa era tutta da inventare. All’inizio degli anni ’70 non c’era ancora letteratura in tema, eccetto qualche manuale di teologia morale cattolica classica. Anche il libro del teologo metodista Paul Ramsey, The patient as person, apparso nel 1970 e spesso citato come una pietra miliare nello sviluppo della moderna bioetica, non si discostava dal progetto che è tipico del moralismo: voler portare ordine nel mondo caotico della scienza medica contemporanea. E Ramsey stesso, del resto, era più a suo agio

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con la vecchia qualifica di “moralista” che con quella di “eticista”, che vent’anni fa cominciava a circolare.

Guardando e ascoltando i medici al lavoro, Jonsen si è reso conto che bisognava inventare un nuovo modo di fare etica, rispetto a quello insegnato nelle facoltà di filosofia o di teologia. È stato subito impressionato da qualcosa che avrebbe poi svolto un ruolo centrale nel suo pensiero: i medici trattano dei casi, e in questi sono le circostanze ad avere un’importanza decisiva. Le discussioni speculative e astratte non corrispondono al modo in cui medici e altri professionisti sanitari parlano dei problemi. L'insight che ne ha ricavato è che l’etica, per svolgere un compito nella cura della salute, doveva discostarsi dal modello che la caratterizza come disciplina accademica, diventando capace di parlare dei casi concreti.

Dalla frequentazione diretta del contesto clinico ha imparato inoltre che i problemi etici in medicina hanno una dimensione temporale, che non emerge quando si riflette su di essi in astratto. Col tempo le circostanze cambiano in maniera significativa. Quando i medici dicono: «Aspettiamo e vediamo», non cercano una scusa, rimandando per evitare di affrontare i problemi; semplicemente riconoscono che domani il problema si potrà presentare in maniera diversa. Anche questa dimensione temporale non è familiare al professore di etica che si è formato nelle facoltà universitarie.

Conciliare altruismo e interesse

L’acuto spirito di osservazione di A. Jonsen, esercitato sulla pratica della medicina, gli ha permesso di rilevare un aspetto della professione medica che costituisce l’asse centrale che tiene insieme oggetti, figure e movimenti, come in certi quadri del Rinascimento costruiti secondo le leggi della prospettiva. In medicina l’asse centrale è costituito dal punto in cui si incontrano due linee perpendicolari: l’altruismo e l’interesse. In quella intersezione un profondo paradosso morale pervade la medicina. A ogni essere umano succede di tanto in tanto, nella vita personale o nella professione, di sentirsi preso nel conflitto di queste due spinte che vanno in senso opposto. Ma in medicina questa contrapposizione è più radicale: è immanente alla struttura stessa della cura medica, è il tessuto di cui è fatta la vita del medico. La medicina ― come istituzione, come pratica, come professione ― è dominata da questo paradosso in misura estrema.

Il conflitto, di per sé, non è una novità. Accompagna da sempre l’evoluzione della medicina. Il poeta Pindaro lo ha iscritto, come un

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mito di fondazione, all’inizio dell’arte medica. In un’ode ― la Pitica terza ― racconta la storia di Asclepio, l’eroe primordiale della medicina, iniziato dal centauro Chirone all’arte di “guarire i morbi dolorosi degli uomini”. Asclepio, secondo Pindaro, sarebbe morto fulminato da Giove per aver accettato, per denaro, di procedere a un atto terapeutico illecito, salvando dalla morte un uomo destinato dalla natura a morire:

Ma lega il lucro saggezza / talora. E con ricca mercede / l’oro nelle mani lucente / anche lui torse a rapire da morte / un uomo ormai catturato.

Probabilmente ha un significato permanente il fatto che il primo caso noto di etica medica abbia per protagonista un medico che, a scopo di guadagno, fornisce un servizio medico proibito. Il conflitto tra l’altruismo ― chi è malato si aspetta dal medico che questi faccia di tutto, incondizionatamente, per salvargli la vita e procurare un beneficio alla sua salute; e in questo senso si è espressa, da sempre, l’etica medica ― e l’interesse ha raggiunto nella medicina dei nostri giorni una tensione mai vista in passato.

Nella vita quotidiana i due principi non si escludono reciprocamente. L’interesse regola la maggior parte delle nostre azioni e decisioni, ma occasionalmente la generosità ci induce ad atti di vero sacrificio. Ci sono persone che si prendono cura profondamente degli altri, a proprie spese, eppure anch’essi hanno momenti in cui sono ispirati dall’interesse. Le più grandi vite morali sono una specie di opera artistica, che riesce ad armonizzare creativamente questi due principi. Oggi, tuttavia, la bilancia è più difficile da mantenere in medicina, a causa di una estremizzazione del conflitto tra altruismo ed interesse. La pratica della medicina è diventata un luogo di dura competizione.

La competizione ha molti volti. C’è la competizione tra medici e chirurghi tra di loro per ottenere i pazienti. Questa forma non era ignota anche in passato; regole deontologiche e indicazioni di etichetta miravano a mantenere i comportamenti nella correttezza. Assolutamente nuova è invece la competizione tra i pazienti stessi per assicurarsi un accesso alle cure, in epoca di risorse sanitarie insufficienti rispetto alla domanda.

Il problema della selezione tra i candidati alla dialisi, che si è creato proprio qui a Seattle per la prima volta, è emblematico di questo giro di vite nella competizione per la sopravvivenza. Ed è significativo che la professione medica, per la prima volta, ha passato la mano: istituendo un comitato di etica, composto per lo più da non medici, per stabilire un ordine di priorità tra le richieste, ha riconosciuto la propria fondamentale incompetenza per risolvere questo conflitto.

L’etica ha cominciato ad essere invocata come un aiuto per risolvere

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i paradossi che l’acuirsi della tensione tra interessi diversi provoca in sanità. Lo stesso Jonsen deve la sua assunzione tra i docenti della facoltà di medicina nell’università della California, nel 1972, proprio ad un problema di conflitti di interessi: è stato invitato da un illustre chirurgo di quell’università, Englebert Dunphy, a coinvolgersi con i problemi etici creati dal trapianto di rene, che comprendevano la spinosa questione dei criteri con cui procedere all’allocazione degli organi. Di lì è cominciata la sua carriera nell’etica medica. Soprattutto la crescita di problemi di questo genere ha fatto sì che in questi ultimi venti anni nascesse la domanda di persone qualificate esplicitamente dedite all’etica medica.

Più di recente la competizione in medicina si è ulteriormente radicalizzata. Essa è incoraggiata come una misura di politica sanitaria per controllare l’esplosione dei costi della sanità. Quando diventa pervasiva, la competizione porta a percepire i pazienti come un mercato: certe persone ― o classi di persone ― sono viste come un mercato povero per i propri servizi, altre invece come un mercato da promuovere; medici e ospedali impegnati nella competizione eviteranno i mercati poveri, indipendentemente dai bisogni, e punteranno sul mercato potenziale. La competizione porterà a una crescente esclusione di quelle persone che non sono pazienti vantaggiosi e a una maggiore sollecitazione rivolta a coloro che possono diventare pazienti; i primi saranno privati di interventi medici necessari, i secondi sono candidati a diventare vittime di interventi alla moda.

Chi sta nella competizione non può avere il cuore tenero: il mercato non lascia spazio per la compassione. La competizione, se diventa il clima in cui si svolge la cura della salute, erode la compassione, che è stata sempre la più alta virtù del medico. La risposta non consiste nel ritorno alla pratica di accettare pazienti non solventi, per motivi di beneficenza. La beneficenza oggi ha un profilo nuovo: richiede la vigorosa partecipazione alla formazione di politiche sanitarie che assicurino l’accesso di tutti alle cure di cui hanno bisogno.

Queste esigenze della giustizia non erano prioritarie vent’anni fa, quando Jonsen si è affacciato' sui problemi etici della nuova medicina. Lo sono però oggi, e tutto lascia credere che lo saranno ancor più domani: negli Stati Uniti come in ogni altro paese del mondo sviluppato.

Le origini della bioetica nel moralismo americano

Il filosofo chiamato a coinvolgersi nel vissuto della medicina pratica deve introdurre nella propria professione un cambiamento vistoso,

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rispetto al profilo professionale che caratterizza l’esperto di etica che lavora in ambito accademico. La differenza tra le persone che esercitano una professione sanitaria e coloro che si dedicano a scienze speculative sta nel management del caso. Ogni intervento del sanitario ― non solo la high tech dei grandi macchinari, ma anche la semplice prescrizione di un farmaco ― cambia il caso; comporta dei rischi; richiede la valutazione comparativa dei benefici. La gestione del caso può avvenire anche semplicemente guardando lo sviluppo del caso nel tempo. Un pensatore speculativo, invece, non è un manager della realtà: non è chiamato a intervenire nella gestione del caso.

L’esperto di etica che accetta di coinvolgersi nella clinica ha una posizione intermedia tra le due. È sensibile ai problemi di management del caso in un modo che esula dagli interessi del pensatore speculativo. Questi può individuare un problema interessante e invitare ad esplorarlo; può percepire che ci sono delle decisioni da prendere e che qualcuno le prenderà; può anche arrivare a dire: «Questo è quello che va fatto». Mentre invece il bioeticista clinico è molto più interessato alla gestione del caso concreto. Deve perciò imparare a parlare quella sorta di linguaggio che parlano i clinici al fianco dei quali lavora.

Passando in rassegna gli studiosi che si sono fatti un nome nella bioetica, si vede subito la differenza tra i filosofi e i teologi che sono passati, con armi e bagagli speculativi, al nuovo campo, senza affrontare un cambiamento, e quelli che invece hanno maturato una sensibilità analoga a quella che il clinico ha nei confronti del paziente individuale. Il bioeticista clinico sa che deve evitare certe cose, come la discussione astratta dei problemi o le lunghe spiegazioni dei principi, per cogliere invece le particolarità significative e le circostanze caratteristiche che specificano il concreto caso presente.

Un episodio della vita di Albert Jonsen può aiutare a cogliere la diversità dell’approccio che caratterizza l’attività di chi si accosta all’etica passando per la clinica. Dopo il suo arrivo all’università della California, nel 1972, l’arcivescovo di San Francisco gli chiese di entrare in un comitato di etica chiamato a intervenire quando sorgessero problemi morali negli ospedali cattolici. Un grave caso fu presentato da una giovane donna, alla quale era stato diagnosticato un feto anencefalico. La diagnosi prenatale era stata introdotta da poco; Jonsen era a stretto contatto con coloro che avevano sviluppato questa tecnologia nell’università della California.

La donna, ricoverata in un ospedale cattolico, chiedeva un aborto. Il comitato di etica, ragionando astrattamente e sulla base dei principi della morale cattolica, negava la liceità dell’aborto e chiedeva alla donna di portare avanti la gravidanza per i prossimi tre mesi, sapendo

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che poi il neonato senza encefalo sarebbe deceduto nel giro di ore o di giorni. La posizione di Jonsen era diversa. Data la conoscenza sicura dell’anencefalia, sosteneva che questa circostanza rende il caso diverso da quello di un aborto usuale (oltre al fatto che ci sono seri dubbi sul fatto che un feto in questa condizione possa essere considerato persona umana). L’arcivescovo fu molto offeso dalla sua posizione e gli domandò di dimettersi dal comitato.

Quell’episodio contribuì a rendergli evidente che la via per la quale si era avviato ― quella dell’etica clinica ― aveva in sé indicazioni di contenuto ed esigenze di metodo che la rendevano diversa da quella elaborata a partire da principi astratti, anche se di elevato profilo ideale, come la più ortodossa morale cattolica.

Secondo Jonsen, tuttavia, la resistenza a sintonizzarsi sulla dimensione clinica non è esclusiva delle morali a carattere religioso. La difficoltà ad accettare l’approccio proprio della clinica proviene, più che dalla morale, dal moralismo; e questo prospera sia dentro che fuori della religione. Jonsen attribuisce il successo del movimento della bioetica in misura determinante al fatto che la bioetica è una variante del “moralismo” americano. Non è facile districare la matassa del moralismo, che attraversa tutta la cultura americana. Si tratta di un certo modo di pensare e di sentire la vita morale, nel quale sono confluiti sia il calvinismo dei puritani che si sono originariamente installati nella Nuova Inghilterra, sia il latente giansenismo degli immigrati irlandesi.

Questa morale è caratterizzata da un fondamentalismo, per il quale è importante l’insistenza su principi morali chiari e non ambigui, conoscibili da tutte le persone in buona fede. Non ammette la possibilità del paradosso morale ― per intenderci, pensiamo all’etica cristiana di Kirkegaard ― e il conflitto inconciliabile tra i principi. Per il moralismo, le verità morali sono chiare, riconoscibili da tutti i cuori puri. L’etica deve affermare l’esistenza di principi morali assoluti, dai quali non è lecito discostarsi. I principi sono corretti in se stessi e devono essere affermati; le eccezioni e le scuse non meritano considerazione, perché potrebbero indebolire i principi.

Il moralismo americano vede il mondo costruito da categorie antitetiche e cerca sistemi di confine e modelli di controllo che difendano l’ordine contro il disordine. Uno degli argomenti etici favoriti dall’uso corrente, quello del “piano inclinato” (the slippery slope) ― vale a dire: se accettiamo questo, poi ci troveremo ad accettare quest’altro e quest’altro ancora...; per questo il caso attuale deve essere proibito ― è profondamente impregnato di moralismo. Al fondo di questo argomento troviamo non un collegamento logico tra i diversi casi, ma un atteggiamento

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ispirato alla diffidenza verso la debolezza di volontà delle persone, sospettate di non resistere alla tentazione di fare ciò che è inaccettabile, se si permette loro di fare ciò che è accettabile.

La bioetica che si è sviluppata in America assomiglia molto a una variante secolare di questo fondamentalismo. Riposa sulla convinzione che esistano principi chiari e non ambigui, che toccano tutti gli ambiti della vita. Sono profondamente personali, benché siano aperti a tutte le persone dotate di coscienza nella comunità morale.

Il latente moralismo americano, in vesti secolari, ha dato un impulso decisivo alla bioetica, al fine di riportare il caos della medicina scientifica entro l’ordine dei principi morali. Da quando la bioetica ha cominciato a formarsi come disciplina, gli studiosi hanno adottato un approccio tipicamente americano di analisi etica, cioè l’applicazione di pochi e chiari principi ai problemi etici. Autonomia, beneficità, non-maleficità e giustizia sono diventati i principi classici della bioetica standard, declinati come lontana eco di un decalogo calvinista.

Credere che la moralità sia strutturata come comandamenti in funzione di leggi, regole e principi, piuttosto che come un tessuto fatto di massime, circostanze, motivazioni, intenzioni e abiti morali, rende difficile passare dal piano generale al caso particolare, con tutta la sua serietà morale. Tutti imparano rapidamente ad affermare il principio di autonomia, che è il principio più chiaro e quello preferito dalla maggior parte degli studenti; molto pochi sono quelli che imparano a modulare questo principio in rapporto alla beneficità e alla giustizia, e a metterlo in relazione con virtù quali la compassione.

Alla ricerca di un metodo per la bioetica clinica

Jonsen non è mai stato un caloroso sostenitore della bioetica standard, basata sui principi (ovvero, per riprendere una sua espressione colorita, della bioetica che si limita alla recitazione dei principi come un “mantra”...). Ma l’approccio etico alternativo non può essere lasciato solo all’intuizione o alle preferenze personali. È necessario che diventi un metodo, giustificabile con argomenti razionali e anche trasmissibile attraverso l’insegnamento.

La ricerca di un metodo per trasmettere quel modo di risolvere i casi che si impara “guardando i dottori” è stata una costante nella sua vita dedicata all’etica medica. I migliori risultati li ha raggiunti associandosi a due altri studiosi: un medico internista dell’università di Chicago, Mark Siegler, e un giurista e psichiatra dell’università della California: William Winslade. Insieme hanno pubblicato nel 1982 un

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libro: Clinical Ethics, presentandolo come un “approccio pratico alle decisioni etiche in medicina clinica”. Il libro ha avuto successo: è attualmente alla terza edizione. Ma soprattutto ha riscosso consenso la via proposta di un metodo alternativo a quello fondato sui principi.

Secondo il metodo proposto, i casi hanno una importanza centrale. Non il caso interessante o spettacolare, che può essere occasionalmente utilizzato come illustrazione di un problema, ma il caso come matrice del problema e della sua soluzione. L’etica clinica in questa prospettiva consiste nella identificazione, nell’analisi e nella soluzione di problemi morali che sorgono nella cura di un particolare paziente. Queste preoccupazioni morali sono inseparabili dalle preoccupazioni mediche circa la corretta diagnosi e il trattamento del paziente: in generale, una buona medicina clinica è una medicina etica.

Invece di seguire l’istinto filosofico che porta a lavorare di pialla sui problemi particolari che nascono da un concreto caso clinico fino a ridurli a un chiaro conflitto di principi, Jonsen, Siegler e Winslade hanno proposto un metodo che aiutasse a far emergere il complesso intreccio di elementi emotivi, sociali ed economici che molti casi contengono. Il metodo di Clinical Ethics affronta ogni caso analizzando i fatti che costituiscono quattro tratti essenziali di ogni situazione clinica: le indicazioni mediche, le preferenze del paziente, la qualità della vita e i fattori socioeconomici esterni.

Le tre diverse competenze di un clinico, di un avvocato e di un esperto di etica sono state unite per cercare di riportare l’etica nel contesto che le è proprio. Reagendo a chi aveva canalizzato il movimento della bioetica verso massicci trattati filosofici e teorizzazioni astruse, il manuale affronta i problemi etici in medicina in modo diverso. Per esempio: come dovrebbe il medico trattare un paziente che ha un arresto respiratorio, diventa anossico e non si risveglia più dal coma? Quale dovrebbe essere il ruolo della famiglia rispetto a questa decisione? La presenza o l’assenza di una malattia soggiacente influenza questo processo decisionale? Oppure: a un diabetico obeso che rifiuta di prendere l’insulina, di attenersi alla dieta e di curare le ulcere del piede, si deve offrire la dialisi cronica, in caso di blocco renale? Clinical Ethics propone una metodologia per considerare le varie opzioni nella gestione di simili problemi, che presentano difficoltà dal punto di vista sia clinico che etico.

Il metodo presuppone che il medico sia lì non per fare discussioni filosofiche, ma per prendere decisioni. L’etica clinica non si limita a discutere o analizzare i problemi etici, ma offre consigli perle decisioni, nella tradizione del consultò medico. Il consulente porta al medico non solo una informazione più ampia, ma un’altra prospettiva.

Oltre alla tradizione che è propria della medicina, in questo approccio

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clinico all’etica medica si possono individuare altre influenze. Una è la metodologia casistica elaborata dalla Business School dell’università di Harvard. Da molti anni questa scuola ha proposto un metodo di insegnamento centrato sullo studio dei casi. L’antecedente storico è costituito dai primi tentativi, introdotti proprio ad Harvard nella seconda metà del secolo scorso, di insegnare il diritto mediante i casi. Era una reazione a uno studio della legge diventato troppo speculativo. La Business School, fondata verso il 1920, si orientò in questo senso. Attualmente il suo prestigio ne fa un’autorità molto influente. Quando era presidente dell’università di San Francisco, Jonsen ha frequentato i corsi estivi di Harvard, che offrivano programmi di Amministrazione ed Educazione, traendone la convinzione che il metodo centrato sui casi fosse applicabile anche all’etica clinica.

L’altra fonte a cui si è ispirato gli era più familiare: si tratta della tradizione della casistica, sviluppata dalla teologia morale cattolica. Conosceva dai suoi studi che la casistica, sviluppata soprattutto dai gesuiti, era come caduta in discredito. Il colpo di grazia le era stato inferto dall’attacco polemico di Pascal, il quale, a metà del XVII secolo, l’aveva messa alla berlina con Le provinciali (il titolo dell’opera famosa suona, letteralmente: Lettere di Louis Montalte a un suo amico provinciale e ai Revv. PP. Gesuiti sulla morale e la politica di questi padri). La reputazione della casistica sembrava rovinata per sempre. Casistica (e soprattutto la sua variante lessicale “casuistica”) è diventata sinonimo di un modo evasivo e sofistico di trattare l’etica, riducendo al minimo le esigenze del dovere morale. Il suo coinvolgimento con la bioetica ha portato Jonsen, invece, a riscoprire il significato autentico e la funzione della casistica.

Per molti anni è stato membro del comitato dell’università di San Francisco, al quale dovevano essere sottoposte le ricerche biomediche fatte con soggetti umani. Ogni settimana 20-30 progetti di ricerca erano sottoposti all’esame del comitato. Jonsen si rese conto che non bastava avere dei chiari principi da applicare: bisognava esaminare accuratamente situazione per situazione, individuando le circostanze che rendevano ognuna moralmente diversa. Questa procedura era, in pratica, una casistica.

Una convinzione analoga ha maturato all’interno delle due grandi Commissioni nazionali americane, di cui è stato membro: la Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani nella ricerca biomedica (1974-1978) e la Commissione presidenziale per lo studio dei problemi etici in medicina (1979- 1982). Un giorno, viaggiando in aereo con lo storico della filosofia Stephen Toulmin per andare a un incontro della Commissione, questi gli disse, commentando i loro lavori: «Non è sorprendente che in Commissione non riusciamo a indurre

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nessuno a concordare sui principi, ma possiamo portare le persone a concordare sui casi?». Jonsen gli rispose che forse questo era il modo in cui funzionava la vecchia casistica. Di qui nacque il progetto di una ricerca congiunta, che è sfociata nel loro libro del 1988: The abuse of Casuistry. A history of moral reasoning (Il maltrattamento della casistica. Storia del ragionamento morale).

Jonsen ha efficacemente contribuito a un revival della casistica. Attraverso questo approccio ha voluto sottolineare che il cuore dell’esperienza morale non consiste nella padronanza di regole generali e di principi tecnici, per quanto solidi e ben argomentati. Si trova, piuttosto, in quella saggezza che deriva dal vedere in che modo le idee che stanno dietro alle regole si sviluppano nella vita; in particolare, dal vedere i diversi assetti di circostanze che rafforzano o sospendono questa o quella regola. Solo un’esperienza di questo genere darà ai singoli quelle priorità pratiche di cui hanno bisogno nel valutare le considerazioni morali di diverso genere.

Bioetica e medical humanities

Il titolo di un libro di Jonsen: New Medicine and the old ethics (Nuova medicina e vecchia etica) sembra insinuare che per rispondere alle crisi di crescita della nuova medicina sia sufficiente l’etica, per quanto rivisitata e adattata alle nuove esigenze. Una simile prospettiva mortificherebbe l’orizzonte proprio di Jonsen, che è invece molto più ampio. Il titolo del libro è stato remotamente influenzato da quello che sir William Osler diede alla lezione magistrale tenuta quando assunse la presidenza della British Classical Society, nel 1919. L’illustre medico parlò sul tema: “The old humanities and the new Science”, illustrando i rapporti tra l’educazione scientifica e quella umanistica. Da quel discorso è tratta un’immagine, che Jonsen riprende volentieri: «Le humanitiessono per la società ciò che gli ormoni sono per il corpo».

Dobbiamo tener presente che gli ormoni erano una conquista recente per la medicina del tempo e l’endocrinologia viveva l’entusiasmante stagione dell’infanzia. Osler, con un’audace metafora, attribuisce agli studi umanistici la funzione di stimolare, di “lubrificare” ― per usare la sua espressione ― l’intelligenza della società, preservandola dall’inaridimento. Si riferiva in particolare all’ormone della tiroide ― uno dei pochi la cui azione era conosciuta in quel tempo ―, perché la sua carenza sembrava produrre un deficit nello sviluppo dell’intelligenza.

Bisogna riconoscere che, settant’anni dopo quella conferenza, gli studi umanistici non hanno più il primato nell’istruzione superiore.

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Neppure in medicina. Eppure la metafora di Osler è più che mai attuale: le humanities ― in particolare la storia della medicina, la filosofia della medicina e l’etica medica ― sono i messaggeri chimici che pervadono la complessa istituzione della medicina e la mettono in grado di rispondere all’ambiente scientifico, tecnologico, sociale ed economico, che cambia continuamente. Allo stesso modo delle secrezioni ormonali, le humanities sono presenti solo in quantità minime nel vasto corpo della medicina e il loro rilascio nell’organismo è stimolato dal bisogno, rappresentato dalle sfide ambientali. Le possiamo considerare come gli agenti dell'omeostasi in medicina.

Tra le humanities Jonsen attribuisce un ruolo particolare alla storia della medicina e alla filosofia. Osando fare una generalizzazione su due discipline di così lunga genealogia, si può dire che, malgrado le tante teorie e definizioni, la storia è inevitabilmente preoccupata della memoria e la filosofia incessantemente assorbita dal significato. Quando queste scienze umane vivono nel mondo della medicina e delle scienze biomediche, diventano come parenti in una famiglia di idee, istituzioni e pratiche. Partecipano alla continua conversazione di quella famiglia. La narrazione storica e la riflessione filosofica, purché non siano vissute come puri diversivi, possono dirigere la conversazione verso una diversa direzione o elevarla a un piano superiore.

Riprendendo l’immagine degli ormoni, ci sentiamo autorizzati a dire che le humanities, quali messaggeri chimici, inviano messaggi a istituzioni della medicina e della scienza circa la memoria e il significato, per stimolare le attività mediche. Questi messaggeri da una fonte remota mantengono l’equilibrio tra le attività interne della medicina e della scienza e l’ambiente, costituito dalla società e dalla cultura.

Le secrezioni endocrine funzionano costantemente, ma sono stimolate solo quando il meccanismo di feed-back dell’organismo segnala uno squilibrio. Allo stesso modo, la memoria e il significato nella medicina si mobilitano quando appaiono forze esterne e squilibri interni. Allora la medicina deve rievocare le sue memorie e riflettere sui suoi valori: questo è il tempo dellehumanities. Ed è proprio questo tempo che è suonato per la medicina dei nostri giorni.

È cambiato il suo scenario; la medicina è chiamata a interpretare nuovi ruoli nella diagnosi e nella terapia, ha una parte preminente nella prevenzione e ― ahimè ― nel razionamento delle risorse sanitarie. La medicina deve affrontare la sfida della commercializzazione, del potere insito nella manipolazione genetica, degli ostacoli che si frappongono alla prevenzione delle malattie. Ognuna di queste sfide costituisce un appello alle humanities, perché continuino a svolgere la loro funzione ormonale nella medicina.

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Può sembrare paradossale che proprio Jonsen, che ha fornito uno dei contributi più apprezzati per conferire nuova vitalità all’etica medica, dia l’impressione di attribuire meno rilievo a questa disciplina rispetto ad altre medical humanities. Proseguendo fino in fondo per la via del paradosso, Jonsen arriva a dire che noi stiamo per assistere alla fine dell’etica medica.

L’etica ha senso quando ci sono dei sanitari che hanno un ampio ambito di responsabilità; se si causa la scomparsa della responsabilità, non si ha più bisogno dell’etica. Ora, è proprio questo che sta avvenendo, attraverso due diverse vie. L’estremizzazione del principio di autonomia del paziente e il predominio di considerazioni di efficienza, in nome di una giusta allocazione delle risorse, stanno restringendo lo spazio delle responsabilità, e quindi dell’etica. La bioetica sta erodendo la propria base.

Mediante l’uso deliberato di un linguaggio paradossale, Jonsen esprime quel vago senso di malessere che si va diffondendo nel mondo medico. Anche questa è una sfida che fa appello alla funzione riequilibratrice delle humanities.

Riferimenti bibliografici

Albert JonsenResponsability in Christian ethics, Corpus Books, Washington, 1971.

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11. George Kanoti: la bioetica in camice bianco

La Cleveland Clinic: dove l’innovazione è tradizione

La città di Cleveland si allunga sulle rive del lago Erie, nello stato nordamericano dell’Ohio. È stata un grande centro industriale; ha dato lavoro a molti immigrati dell’Europa centrale e a negri affluiti dal sud dopo l’emancipazione che ha fatto seguito alla guerra civile. Ora, come molte città americane, sopporta con apparente indifferenza contrasti estremi: complessi commerciali modernissimi e slums, a pochi passi gli uni dagli altri.

«Cleveland è ben nota anche fuori degli Stati Uniti come una mecca della medicina più avanzata. Vi si concentrano istituzioni che hanno un ruolo pilota nella ricerca e nell’innovazione tecnologia in medicina: l’ospedale della Case Western Reserve University, l’ospedale Mount Sinai e soprattutto la Cleveland Clinic Foundation. Quest’ultima, sorta nel 1921, ha celebrato nel 1991 settant’anni di vita. Sono stati anche settant’anni di crescita continua, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

Già la semplice crescita quantitativa è impressionante: con 14 grandi edifici che costituiscono il “campus”, 8500 dipendenti e uno staff di quasi 500 medici in pianta organica, eccede le dimensioni alle quali siamo abituati in Europa. Ancor più notevole la crescita qualitativa. In alcuni settori, come le malattie cardiovascolari e l’ipertensione, i trapianti di cuore e i trattamenti pediatrici, non ha concorrenti. Si è sviluppata all’insegna di “nothing but the best” (“solo il meglio”): suona come uno slogan pubblicitario enfatico o una fastidiosa vanteria, ma alla Cleveland Clinic esprime semplicemente la consapevolezza della propria eccellenza.

C’è un aspetto della storia della Cleveland Clinic che va raccontato, se si vuol capire lo spirito che l’anima fin dagli inizi. All’origine ci sono tre chirurghi ― Frank E. Bunts, George W. Crile e William E.

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Lower ― e un internista ― John Phillips ―. Durante la prima guerra mondiale in Europa avevano osservato in un ospedale militare i benefici che si potevano ottenere dalla cooperazione di un gruppo di specialisti. Tornati in patria, pensarono che si potesse migliorare la pratica, l’insegnamento e la ricerca in medicina mediante la collaborazione di medici e scienziati che lavorassero insieme in una stessa organizzazione. Decisero, quindi, di dar vita a uno studio medico comune (group practice): un’équipe di specialisti che potesse assistere i pazienti con maggiore efficacia, grazie alle loro conoscenze congiunte. Commentando la decisione sua e dei colleghi, Crile affermava: «Siamo stati rivali in tutto; ma ora, attraverso le vicissitudini di rapporti personali, finanziari e professionali, siamo stati capaci di pensare ed agire come un’unità».

“Agire come un’unità”: era la magica idea seminale da cui ha preso inizio un’istituzione destinata a diventare uno dei più importanti centri della scienza medica nel mondo. Ma non è stata un’innovazione facile. La medicina di gruppo non era popolare per i medici che lavorano al di fuori delle istituzioni ospedaliere; molti erano apertamente critici nei confronti di questa nuova modalità di lavoro, a cominciare dalla Associazione Medica Americana (Ama).

La potente istituzione professionale ostacolava la medicina di gruppo adducendo anche l’etica come motivo: un’etica atemporale, centrata sulla idealizzazione del rapporto del medico con il suo malato. Una medicina praticata da un gruppo di medici era vista come una minaccia di deresponsabilizzazione, una perdita di qualità del rapporto. Può essere interessante aggiungere che, per gli stessi motivi, l’Ama negli anni ’30 era contraria anche all’assicurazione sanitaria nazionale: sosteneva che l’interferenza pubblica attraverso i sistemi assicurativi era dichiaratamente contraria agli interessi del paziente, difesi dall’etica medica tradizionale...!

La Cleveland Clinic, all’avanguardia nella concezione e nella pratica della medicina, non poteva non esserlo anche nell’etica della medicina. La combinazione di opportunità che rende unica questa istituzione ― l’enorme serbatoio di risorse professionali che interagiscono, lavorando “come un’unità”; la libertà da vincoli burocratici pubblici, con la possibilità di progettare e sperimentare le innovazioni; la grande disponibilità di denaro e la facoltà di spenderlo come si vuole... ― si è rivelata favorevole anche alla bioetica. La quale è presente nell’organigramma della Clinica con un dipartimento specifico, il cui direttore è membro dello staff di circa 500 medici di alto livello di qualificazione che si sono associati per costituire la Clinica.

Alla Cleveland Clinic la bioetica è arrivata al letto del malato. Non per una calcolata operazione di immagine, ma per esigenza interna di una medicina che nella cura del paziente punta alla qualità. La qualità

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comporta necessariamente l’attenzione ai bisogni del paziente. Per rispondervi la medicina non può limitarsi a potenziare la dimensione tecnico-scientifica: deve percorrere anche quel cammino al quale oggi si è concordato di dare il nome di bioetica.

Un teologo morale si inventa una nuova professione

Il merito di questo felice incontro tra la medicina d’avanguardia e la bioetica va attribuito a George Kanoti. Di formazione non è un medico, ma teologo. Anche Kanoti, come diversi altri pionieri della bioetica, è un frutto dell’emigrazione di teologi al di fuori delle istituzioni ecclesiastiche. Era un religioso, docente di teologia morale presso l’università Cattolica di Washington. Si è trovato preso nella crisi che ha sconvolto quella istituzione in occasione dell’enciclica papale Humanae vitae (1968), dedicata alla regolazione delle nascite.

L’enciclica di Paolo VI aveva adottato la posizione dottrinale del gruppo di minoranza all’interno della Commissione pontificia creata per studiare i problemi della fecondità umana. Opponendosi all’opinione della maggioranza degli studiosi che avevano lavorato nella Commissione, negava la liceità degli interventi regolativi fomiti dalla ricerca medico-biologica (in particolare, il controllo ormonale reso possibile dalla “pillola”). Ai cattolici veniva chiesto di accettare il pronunciamento papale: era un atto di magistero, non una semplice opinione.

Nella chiesa cattolica si creò una crisi profonda: non pochi ritennero la posizione assunta dall’enciclica inconciliabile con la propria coscienza. Anche una ventina di membri del corpo docente dell’università Cattolica di Washington sottoscrissero un documento di dissenso, reso pubblico il 30 luglio 1968. «In quanto teologi cattolici romani ― affermavano ― noi siamo giunti alla conclusione che gli sposi possono responsabilmente decidere secondo la loro coscienza che la contraccezione artificiale in certe circostanze è permessa ed è di fatto necessaria per conservare e promuovere i valori e la sacralità del matrimonio».

I firmatari del documento furono minacciati di sospensione dall’insegnamento. Anche se una commissione di inchiesta creata dalla facoltà giunse alla conclusione che non si trattava di un irresponsabile atto di insubordinazione, in quanto esprimeva una funzione di dissenso possibile ed era sostenuta da argomentazioni teologiche, la vicenda si chiuse sotto il pugno di ferro dei vescovi americani: i professori con la posizione accademica più debole, quelli nominati da meno di dieci anni, furono licenziati. George Kanoti era tra questi.

Negli anni ’70 insegna alla John Carroll University di Cleveland.

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Sono gli anni in cui la filosofia morale scopre le sue potenzialità di fornire risposte ai problemi pratici. Gli studenti chiedono insegnamenti “rilevanti” per la loro vita; la società complessa richiede capacità nuove di analisi e di scelta in ambiti sempre più numerosi della convivenza sociale. Kanoti offre in quel periodo corsi di “Moral decision making”: insegna come applicare l’etica alle decisioni che si devono prendere nel mondo degli affari, in medicina, così come nella vita privata.

È proprio questo il tipo di etica di cui si aveva bisogno alla Cleveland Clinic. I medici, gli infermieri, gli amministratori sanitari non saprebbero che farsene di un professore di etica che spiegasse la “Ragione pratica” di Kant o la differenza tra le teorie deontologiche e quelle teleologiche; ma possono prestare ascolto a un’etica che offra una guida nelle decisioni concrete che i sanitari devono prendere quotidianamente al letto del malato. George Kanoti, dopo alcuni sporadici contatti con alcuni membri dello staff della Clinica e un periodo sabbatico, nel 1979, trascorso nell’istituzione per conoscerne dall’interno la vita, decide di tentare l’avventura: lascia la John Carroll University per assumere nella Cleveland Clinic la nuova funzione di responsabile per la bioetica. A George Kanoti va riconosciuto il merito di aver portato, come forse pochi altri hanno saputo fare, la bioetica a integrarsi con la vita quotidiana della medicina.

Gli anni ’80 hanno visto una crescita costante della bioetica nell’interesse dei sanitari che lavorano alla Cleveland Clinic. Attualmente la bioetica costituisce un dipartimento, integrato nella divisione che si occupa della formazione (“Education”), con tre esperti di bioetica a tempo pieno, un paio in formazione ― con borse di studio di durata annuale: “fellowship in bioethics” ― e numerosi studenti di medicina e giovani medici residenti a rotazione di un mese.

Il consolidamento della bioetica nella Clinica non è piovuto dal cielo: è stato frutto anche di un’abile opera di promozione e delle capacità politiche di Kanoti. Anche se la crescente popolarità della bioetica soffiava vento nelle vele del dipartimento, questo non avrebbe avuto una vita garantita nell’ambito dell’istituzione se non avesse dato prova della sua validità e non avesse saputo coagulare intorno a sé il consenso dei sanitari.

Un’etica che rinuncia alla sfida

Il passaggio dalla cittadella universitaria al contesto clinico domanda di più che l’abbandono del linguaggio tecnico e delle sicurezze teoriche fornite dalla formazione filosofica. C’è uno stile proprio dei professionisti

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della sanità che va rispettato, se non si vuole che l’etica che viene loro proposta vada incontro a un netto rigetto. Kanoti racconta, a questo proposito, un aneddoto che illustra la propria iniziazione. Partecipava, in uno dei primi incontri, a una discussione su un caso clinico che riguardava un bambino. A un certo punto, ascoltando il resoconto narrativo del caso, si è reso conto di una grave deficienza procedurale legata al consenso: «Ma nessuno ha parlato con i genitori!», ha esclamato con forza. Subito il medico curante si è irrigidito, dando a Kanoti la netta impressione di aver commesso un errore: di forma, se non di merito. Il medico si era sentito accusato e aveva assunto una posizione difensiva.

Nel mondo universitario la modalità di rapporto dominante è la sfida. È nelle regole del gioco cercar di trovare il punto debole dell’avversario, distruggere le sue argomentazioni e produrne di migliori. La medicina, da questo punto di vista, è un mondo diverso. Bisogna evitare di affrontare i problemi di petto, confrontando l’altro con alternative secche. Si deve aver cura, piuttosto, di lasciare alle persone la possibilità di difendersi. È una procedura analoga a quella che si è soliti attribuire agli orientali, dei quali si dice che si attengono alla regola di non far perdere mai la faccia all’avversario. E questo in medicina vale tanto per la divergenza sulle procedure strettamente cliniche, quanto su quelle relative al retto comportamento.

Alla Cleveland Clinic, osservando lo svolgimento di una giornata di George Kanoti, possiamo acquisire un’immagine più precisa, e soprattutto più eloquente, di quel particolare stile della bioetica che si è modellata sui bisogni delle decisioni quotidiane in medicina: la bioetica clinica.

Non si passa alla bioetica clinica per una semplice e lineare crescita dell’etica medica tradizionale, ma attraverso una serie di rotture. Ci si deve distaccare dal modello deduttivo, molto caro all’etica filosofica e ancor più a quella teologica. Un dibattito avvenuto alcuni anni fa su una rivista specializzata in Italia permette di cogliere più concretamente questo cambiamento di prospettiva. L’editoriale della rivista proponeva una definizione di bioetica clinica come “bioetica con la minuscola”. Secondo questa concezione, la bioetica con la maiuscola sarebbe la disciplina che stabilisce i principi, sviluppa le argomentazioni ed elabora le norme comportamentali alle quali è tenuta a conformarsi un’azione in ambito bio-medico per poter essere qualificata come etica; mentre la bioetica clinica ― in quanto bioetica con la minuscola... ― si occuperebbe di applicare tutto ciò al letto del malato.

La bioetica clinica così concepita avrebbe solo un ruolo di esecutore, all’interno di un rapporto gerarchico di dipendenza. È più funzionale a chi vuol procedere a un indottrinamento che a chi intende promuovere

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la responsabilità morale degli operatori sanitari. L’etica che nasce nell’ambito clinico deve rispecchiare, invece, lo stile cognitivo proprio dei professionisti della sanità, assolutamente diverso da chi ha in primo luogo preoccupazioni dottrinarie.

Un’altra importante rottura è presupposta dalla bioetica clinica: quella che nasce dalla consapevolezza che l’etica professionale tradizionale è insufficiente per dare risposte ai nuovi problemi. Soprattutto se parliamo di quell’etica di stampo paternalista che pretende di fare le scelte non con il paziente e per il paziente, ma al posto del paziente. La bioetica clinica nasce dall’ascolto e si sviluppa essenzialmente in un dialogo. Non è prescrizione di comportamenti, ma essenzialmente un’azione di consulenza. L’esperto di bioetica non decide al posto del medico (e ancor meno, ovviamente, al posto del paziente!); porta il contributo della sua disciplina affinché le parti in causa, cui spetta di prendere una decisione clinica, possano percorrere le diverse tappe del processo decisionale.

George Kanoti ha sviluppato, con il tempo, un proprio protocollo per facilitare il percorso della decisione. Esso comprende: 1. la raccolta dei dati medici (diagnosi, prognosi); 2. l’identificazione di opzioni e alternative; 3. la valutazione di opzioni e alternative mediante regole, valori e leggi; 4. la decisione: scelta della migliore opzione; 5. l’azione sulla base della scelta; 6. la riflessione, cioè la critica del processo decisionale.

Un consulente di etica non è l’esperto di problemi medico-legali. A coloro che insinuano che il grande sviluppo negli Stati Uniti dell’etica applicata alla medicina sia dovuto alla litigiosità giudiziaria propria di questo paese e alla diffusione delle cause per malpractice (che pur sono fatti incontestabili), può essere fatto notare che un’istituzione come la Cleveland Clinic ha il suo proprio ufficio legale, che esercita l’opportuna consulenza in questo settore. Esso tuttavia non assorbe l’etica; anzi, la differenziazione delle funzioni favorisce che si evidenzi la rilevanza propria dei problemi etici, che sono diversi e non riconducibili a quelli medico-legali.

La consulenza etica in azione

Alcuni settori propri della pratica clinica costituiscono come la linea di fuoco del fronte, dove la presenza del consulente di etica è continua. A questi appartiene la pratica della terapia intensiva; in particolare, quando il paziente è inserito nella procedura del DNR (Do Not Resuscitate, che prevede la rinuncia alla rianimazione in caso di arresto cardio-circolatorio). Una situazione di questo genere è per definizione

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carica di interrogativi morali, che è necessario esplicitare e valutare. Casi clinici che richiedono obbligatoriamente la consulenza etica sono quelli nei quali si prevede l’arresto della nutrizione e idratazioni artificiali in pazienti in stato di coma vegetativo permanente.

Anche i trapianti di organo alla Cleveland Clinic fanno parte delle pratiche cliniche che prevedono l’intervento sistematico del consulente di bioetica. Il colloquio che questi ha con il candidato al trapianto è rivolto a completare i dati propriamente medico-clinici, esplicitando la consapevolezza che il paziente ha dell’intervento, verificando la congruenza con i suoi valori etici e spirituali e sollecitando quelle che vengono chiamate le “advance directives”, cioè le disposizioni del paziente circa il corso del trattamento, nel caso in cui non sia più in grado di prendere personalmente delle decisioni. Ciò previene quei casi drammatici, dove si confrontano sterilmente e dolorosamente concezioni opposte della vita e della buona medicina: gli uni accusando certe pratiche di “accanimento terapeutico”, gli altri denunciando la “volontà eutanasica” strisciante nelle istituzioni sanitarie.

Una buona parte dell’attività di chi promuove la bioetica nell’ambito clinico è monopolizzata dai problemi etici del termine della vita. George Kanoti ha senso dell’humour: riconosce che si trova a occuparsi di argomenti che richiamano da vicino quell’attività pastorale che ha abbandonato a favore della bioetica. Ma è un fatto: nella bioetica riaffiorano oggi vecchie domande che in passato erano di competenza della religione o dell’educazione umanistica. In primo luogo quella relativa alla “buona morte”.

Il posto che fino a un recente passato era occupato dalle prediche e dalla meditazione in ambito religioso, oppure dalla lettura di grandi opere letterarie che affrontano le supreme questioni esistenziali dell’uomo in quello umanistico, nelle nostre culture europee è rimasto vacante; negli Stati Uniti, invece, tende ad essere occupato dalla bioetica. Le modalità sono cambiate, naturalmente; ma anche la bioetica mira, in fondo, a promuovere un atteggiamento consapevole verso la propria morte, così che il trapasso sia anche modellato, per quanto è possibile, sui valori e sulle preferenze individuali.

Nella promozione della ars moriendi appropriata all’uomo del nostro tempo Kanoti individua alcune priorità: parlare della morte come parte della vita; pensare ai propri valori e agli scopi a cui la propria esistenza è orientata; comunicare tali valori e scopi, nonché le proprie preferenze circa il prolungamento della vita e l’organizzazione della fase terminale, alle persone intime, che possono rappresentarci in caso di incapacità di prendere le decisioni per conto nostro; preparare un documento scritto, secondo una delle modalità di “direttive anticipate”

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che vanno diffondendosi negli Stati Uniti (“living will”, “durable power of attorney”, ecc.); e soprattutto parlare delle proprie volontà con il medico: bisogna farsi ascoltare, anche se il medico è restio a entrare in argomento.

La presenza del consulente di bioetica non si limita a queste situazioni estreme: alla Cleveland Clinic è integrata nella routine quotidiana di una istituzione sanitaria. Come un membro dell’équipe medica, partecipa alla valutazione della decisione clinica più appropriata e al giro in corsia.

In Europa si tende a fare dell’ironia su questi “bioeticisti in camice bianco”, a ritenere la loro presenza molesta, o superflua. Alla Cleveland Clinic si può avere una riprova empirica del contrario: quando propongono se stessi nel modo giusto, i consulenti di bioetica sono ben accolti e il loro contributo si rivela utile. Se non altro, perché con la loro presenza tengono aperto l’interrogativo sulla dimensione etica inerente a qualsiasi forma della pratica medica. È un richiamo tanto più necessario, quanto più la medicina cammina al passo della tecnologia applicata e dell’efficienza organizzativa.

Mentre in Europa si continua ad avanzare riserve, con motivazioni diversamente fondate, a una professionalizzazione del consulente di bioetica, questa in America si va diffondendo. È già sorta una “Society for Bioethics Consultation”, che tiene regolarmente i suoi congressi e pubblica la rivista Journal of Clinical Ethics. Nella Società per la consulenza in bioetica George Kanoti ha svolto la funzione di presidente: un ruolo che appare anche come il giusto riconoscimento del suo contributo di pioniere allo sviluppo della bioetica clinica.

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12. Rihito Kimura: l'Estremo Oriente affacciato sull’Occidente

Un professore di diritto scopre le violenze sulla natura

Mentre molti studiosi si sono avvicinati alla bioetica gradualmente, in modo quasi insensibile, il giapponese Rihito Kimura l’ha incontrata in modo spettacolare, così come avvengono le conversioni. La sua via di Damasco è stata Saigon. Vi si trovava nel 1971, a insegnare diritto della famiglia. Era la sua specializzazione. Esperto in diritto comparativo, si interessava al confronto tra il diritto della famiglia asiatico e quello occidentale.

L’orizzonte culturale di Kimura si era progressivamente allargato ad altre società asiatiche, affini al Giappone. Dopo la laurea, è stato cinque anni a Bangkok, sulle orme di uno studioso di diritto giapponese che, all’inizio del secolo, aveva contribuito a fondare il sistema giuridico tailandese, combinando la tradizione asiatica con la legge anglo-americana. Poi l’incarico di insegnamento a Saigon, in diritto comparativo della famiglia, negli anni 1970-1971.

Il “risveglio” che l’avrebbe portato ad affacciarsi agli orizzonti della bioetica avvenne inaspettatamente. Un giorno uno studente andò a trovarlo. Il motivo della visita non era legato all’insegnamento: non veniva a chiedergli qualche cosa sui sistemi familiari o sulla concezione giuridica del matrimonio nelle diverse culture; gli domandò, del tutto inaspettatamente, che cosa mangiasse di solito. Alla sua risposta ― riso, pesce, in particolare gamberi... ― gli raccomandò di smettere di mangiare pesci e di bollire l’acqua.

Gli dimostrò, a conferma del suo allarme, alcuni documenti che allora erano ancora segreti: dimostravano gli effetti inquinanti dei prodotti che gli americani stavano usando nella guerra contro i vietcong. In particolare l’“Asian orange”, il defogliante usato nella giungla per portare allo scoperto i ribelli, conteneva diossina. Questa non attaccava solo la vegetazione, ma anche gli esseri umani: provocava aborti naturali

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e nascite di bambini handicappati. Secondo le fonti ufficiali americane, i defoglianti erano innocui per gli uomini; ma le prove segrete dimostravano invece la loro tremenda pericolosità, in quanto attaccavano la struttura genetica. E i prodotti inquinanti si diffondevano: l’acqua della foresta confluiva in mare e inquinava i pesci. Per questo bisognava cessare di mangiarli, soprattutto i crostacei.

La notizia non era uno strumento di propaganda ideologica. Poco tempo dopo l’ambasciata giapponese contattò il professore, facendogli le stesse raccomandazioni che gli erano venute in via confidenziale dallo studente. Per Kimura quell’allarme riapriva una vecchia ferita: un suo zio era andato a Hiroshima dopo il bombardamento atomico. Aveva aiutato molte persone, ma non era riuscito a evitare le radiazioni. Anche se non colpito direttamente dalla bomba, era morto poco tempo dopo. Ora si era aperto un nuovo fronte. Si stava perpetrando una forma inedita di “genocidio”: attraverso l’aggressione del patrimonio genetico, si sterminavano insieme l’ambiente e gli esseri umani.

Scienza e tecnologia si alleavano alla genetica per la distruzione. Bisognava opporsi, mettere un limite, alzare una barriera contro la distruzione della vita, in nome del diritto e dell’etica. Il giovane giurista della famiglia aveva scoperto un’altra vocazione. All’epoca non portava ancora il nome di bioetica, ma si collocava esattamente all’incrocio tra l’abuso della tecnologia, i diritti umani e la tutela della vita.

L’illuminazione di Saigon non doveva diventare realtà tutto d’un colpo, ma gradualmente. La bioetica stava articolando faticosamente il suo vocabolario di base, le sue istituzioni fondamentali. Una seconda tappa importante nell’orientamento di Kimura alla bioetica è il 1973. Dopo Saigon, il giovane insegnante di diritto è chiamato a Ginevra, presso il Consiglio ecumenico delle chiese, nell’istituto di studi ecumenici di Bossey. Ha compiti di insegnamento ― corsi sui diritti umani all’università di Ginevra ― e organizza programmi sui diritti umani e i valori impliciti nella scienza e nella tecnologia per conto dell’istituto che si preoccupa della promozione dell’ecumenismo al massimo livello di ufficialità.

Nel 1973 prende parte a Zurigo al convegno su “Genetica e qualità della vita”, organizzato dal Consiglio ecumenico delle chiese. Vi partecipavano giuristi, studiosi di scienze politiche, teologi, biologi; si proponevano un confronto , approfondito sulle implicazioni sociali ed etiche delle ricerche biologiche. Era presente, tra gli altri, il biologo inglese Edwards, il quale stava già facendo le ricerche sulla fecondazione in vitro che avrebbero portato, cinque anni dopo, alla nascita di Louise Brown, la prima bambina concepita in provetta. Tra gli altri temi in agenda: l’amniocentesi e la ricerca di criteri per stabilire quali bambini

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gravemente malformati alla nascita vanno trattati con misure eroiche.

Kimura coglie alcuni elementi del movimento della bioetica che si andava formando: non era un’azione contro gli scienziati, ma con loro, che erano spesso preoccupati più di chiunque altro per le conseguenze della ricerca; era un movimento interdisciplinare, che mobilitava tutti a interrogarsi sulla vita e sulla sua qualità; faceva appello alla comunità internazionale, che avrebbe potuto disporre di normative più efficaci, qualora fossero state elaborate mediante un consenso concordato.

La prospettiva transculturale

Un’altra tappa formativa importante per Rihito Kimura è stato un soggiorno di due anni all’università di Harvard, presso il centro che si dedica allo studio delle religioni. L’interesse religioso che egli aveva nei riguardi della bioetica ― lui, membro della diaspora cristiana in Giappone ― ha potuto ampliarsi, confrontandosi con quello delle religioni diffuse a livello mondiale: buddhisti, musulmani, ebrei. Prendeva sempre più chiaramente forma il progetto in cui avrebbe fatto confluire le sue energie intellettuali e capacità organizzative: un programma di bioetica, come ponte tra l’Asia e l’Occidente. Il programma doveva nascere nel 1983, presso il Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University, a Washington. Da un decennio Kimura lo dirige, con crescente successo.

Divide il suo anno accademico equamente tra Washington e Tokyo, dove insegna dal 1975 nel dipartimento di scienze della salute dell’università Waseda. L’impressione che ha il visitatore è che il quartier generale della sua attività sia proprio quel suo ufficio a Georgetown, foderato fino al soffitto di libri in eleganti ― e incomprensibili ― ideogrammi giapponesi. Alcuni recano la sua firma. In particolare, un manuale di bioetica molto diffuso in Giappone, dove è adottato nelle facoltà di medicina.

La posizione “eccentrica” di Kimura rispetto al Giappone si è rivelata un’abile strategia per la causa della diffusione della bioetica. Parlare dagli Stati Uniti, in quanto direttore di un programma asiatico del Kennedy Institute, gli dà un’udienza che non potrebbe avere altrimenti nel suo paese. Perché chi vuol fare il missionario della bioetica in Giappone non ha vita facile.

Kimura ricorda i primi anni in cui proponeva quanto era andato assimilando in Europa e negli Stati Uniti circa l’etica della vita nell’ambito della sanità: i medici lo guardavano come se venisse da Marte... Infatti i giapponesi, molto inclini a occidentalizzarsi in tanti

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aspetti della vita quotidiana, quando si tratta di valori che regolano le interazioni profonde nella società tendono a far quadrato sulla tradizione e a respingere tutto quello che non è giapponese.

L’ostilità dei medici a concezioni e pratiche diffuse dal movimento della bioetica ― come il consenso informato, la comunicazione della diagnosi al paziente, la trasparenza nella scelta dei candidati alla ricerca clinica, i comitati di etica ― si spiega in parte con la tenace persistenza del modello paternalista per regolare i rapporti medico-paziente.

La situazione di partenza per la società giapponese è illustrata in modo impressionante da un film di Akira Kurosawa del 1952: Vivere. Il protagonista, un umile capoufficio del catasto, va a farsi visitare per persistenti dolori di stomaco. In sala di attesa ha un colloquio informale con un veterano degli ambulatori medici. Dapprima questi gli descrive esattamente i sintomi del cancro allo stomaco; poi passa a predire il comportamento del medico: se il medico, guardando la radiografia, minimizza, nega risolutamente che si tratti di cancro, scherza e gli dice che può mangiare tutto quello che vuole, si può essere certi: la diagnosi di cancro è confermata! Al malato restano solo pochi mesi di vita. E proprio in questo modo indiretto il nostro capoufficio verrà a conoscere la sentenza che lo riguarda.

In Giappone la resistenza a dare direttamente all’interessato le cattive notizie relative alla prognosi si appoggia su valori culturali che considerano il singolo solo in quanto appartiene a un organismo ― la famiglia ―, la quale a sua volta è strutturata gerarchicamente. Kimura ricorda che, quando a suo padre fu diagnosticato un cancro, la notizia non è stata comunicata dai medici all’interessato, ma alla famiglia. Più esattamente, né alla madre né alla sorella; spettava a lui, figlio maschio maggiore, di essere informato. Ma siccome egli si trovava a Ginevra, è stato convocato dai medici il fratello più giovane, in quel caso delegato a rappresentare il clan familiare.

La medicina giapponese è nutrita in profondità dell'ethos confuciano, che richiede il rispetto della legge, dell’ordine e dell’autorità. Nella struttura familiare tradizionale della società giapponese ogni persona è tenuta a comportarsi con modestia, in modo non assertivo, tendendo all’armonia nelle relazioni con gli altri, in particolare con professionisti come i medici, con i funzionari governativi e con i superiori nel posto di lavoro.

Per quanto riguarda la medicina, l'ethos confuciano tradizionale riporta la cura della salute all’“arte del Jin”, cioè l’amore-gentilezza dell’insegnamento di Confucio. Praticare la medicina è un’azione di benevolenza da parte del medico, da cui tutti i pazienti tendono a dipendere. Su questi valori condivisi è prosperato l’autoritarismo dei

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medici nei confronti dei pazienti e dei membri della sua famiglia; i pazienti, da parte loro, sono inclini ad obbedire al medico, la cui figura è circondata di prestigio.

Ciò fa sì che i valori promossi dalle bioetica occidentale ― come la pretesa di essere considerato nella propria unicità, i diritti della persona, un modo confrontativo di gestire i rapporti umani ― siano recepiti come delle stranezze nella società giapponese. In particolare, il concetto di “autonomia”, che occupa un posto centrale nella bioetica americana, è estraneo alla tradizione culturale giapponese.

Il Giappone è nutrito di buddhismo e di confucianesimo, per i quali l’ideale consiste nell’abolire il sé egoistico. L’autonomia è appunto sospettata di incrementare l’egocentrismo e di indurre a dimenticare che le persone dipendono di fatto le une dalle altre nella famiglia, nella comunità sociale ed economica. L’analisi antropologico-culturale che meglio ha spiegato questo tratto caratteristico del carattere giapponese è il saggio di Takeo Doi dedicato alla “dipendenza”, quale valore centrale della cultura giapponese.

Per converso, in Occidente si ha sempre meno comprensione per pratiche che costituiscono la quotidianità nella sanità giapponese: come, ad esempio, tenere segreto un referto; prescrivere medicine senza spiegare a che cosa servono e che cosa contengono; eseguire interventi chirurgici senza discutere con il malato i rischi e le possibilità alternative.

Ma anche all’interno del Giappone riesce sempre meno tollerabile la delega di decisioni altamente personali ad altri. Non è necessario per questo diventare discepoli ideali dell’Illuminismo: basta avvertire quanto si sia dilatato il campo delle scelte che la medicina tecnologica ci apre. Kimura si è fermato a riflettere su ciò che succede nelle unità di cura intensive neonatali. In Giappone, come negli altri paesi che possono adottare le moderne risorse di rianimazione e dispongono di sufficienti incubatrici, molti neonati affetti da gravi malformazioni, che in passato sarebbero morti, oggi possono essere salvati: anche quando ciò che ne deriverà sarà solo un’esistenza misera, gravata da numerose e gravi limitazioni. Il medico giapponese ― osserva Kimura ― tende ad assumere su di sé la responsabilità di tali decisioni: «Se non possiamo decidere noi medici, chi può farlo al posto nostro?». Ma per quanto nobile sia il senso di responsabilità che tali affermazioni esprimono, un numero crescente di giapponesi dubita che decisioni di questo genere possano essere lasciate in esclusiva al medico.

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Una via giapponese alla bioetica

La semplice trasposizione dei modelli di decisione in ambito clinico elaborati dalla bioetica americana non è attuabile. Né questo è mai stato un obiettivo di Rihito Kimura. Per adottare ancora l’analogia della missione, Kimura non ha voluto convertire alla bioetica i suoi connazionali indottrinandoli, ma ha inteso “inculturare” la bioetica in Giappone. La bioetica giapponese dovrà parlare con categorie giapponesi e trovare le proprie strutture per esprimersi. Come quella della condivisione delle responsabilità, più appropriata a una cultura che attribuisce maggior valore alla interdipendenza, piuttosto che all’autonomia individuale.

Da questo punto di vista merita un’attenzione particolare il tentativo di promuovere la bioetica come movimento popolare. Kimura è molto fiero di aver contribuito a diffondere la bioetica non solo nel mondo accademico e nelle istituzioni professionali, ma anche nelle comunità locali. Racconta con particolare orgoglio di gruppi di casalinghe che si riuniscono per trattare i problemi dell’etica della vita così come si presentano nella loro quotidianità: l’assistenza ai genitori anziani, ai bambini handicappati, l’uso delle risorse sanitarie pubbliche, le decisioni che devono essere prese nella cura della salute, i problemi dell’ambiente.

Le tematiche bioetiche hanno germinato facilmente in un tipo di gruppi di studio e di cooperazione già esistenti dagli anni ’70. Li ha promossi Okamura, un giornalista e fotografo di guerra, per discutere originariamente di ambiente, di nutrizione, di vita naturale, in rapporto all’inquinamento crescente. La dinamica è quella dei “gruppi di qualità”, con cui i giapponesi hanno rivoluzionato i sistemi produttivi, coinvolgendo attivamente operai e impiegati e facendo appello alla loro creatività.

La scommessa è di portare lo stesso spirito nella grande fabbrica della qualità della vita, coestesa alle strutture della vita quotidiana. È quanto fanno i gruppi di casalinghe che si riuniscono una volta alla settimana: per leggere qualche testo o articolo di giornale; per condividere i problemi della salute e dell’ambiente (e, a differenza delle lezioni accademiche, c’è anche la possibilità che l’ascolto sia reciproco, non solo a senso unico...); per consumare un pasto insieme.

Ciò che avviene nei gruppi di casalinghe non sconvolge certo la vita del paese; ma neppure rimane senza conseguenze nella storia piccola ma concreta delle persone. Kimura racconta un episodio. Una donna, che aveva discusso a lungo nel gruppo i problemi della comunicazione con i medici, si trova a dover portare il padre all’ospedale. Domanda al medico curante che diagnosi ha fatto e che medicine ha prescritto. Il

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medico è fuori di sé: è la prima volta che qualcuno osa chiedergli cose di questo genere. La donna insiste; deve domandare tre volte, ma alla fine ottiene la risposta. Così si modificano comportamenti consolidati nella tradizione, quando la bioetica è concepita non solo come questioni teoriche che fanno discutere, ma come cambiamenti nella qualità della vita da “fare” insieme.

Le decisioni sulla salute e la malattia non sono solo un problema dei professionisti della sanità: sono competenza della gente comune. È la nozione di bioetica che Kimura chiama di “azione civica”. A questa va diretto il maggior interesse, piuttosto che a istituzioni come i comitati di etica, che pur cominciano a diffondersi: senza un intervento sostanziale sui rapporti di potere sottostanti, i comitati di etica creati per rispondere ai problemi di “high tech” ― come le fecondazioni in vitro o i trapianti di organo ― rischiano solo di camuffare agli occhi del pubblico l’incapacità di una medicina paternalista di adottare un serio rispetto dei diritti del paziente.

La bioetica del secolo prossimo? Kimura se la immagina come una classe in cui vecchi e bambini si insegnano reciprocamente l’arte della manutenzione della vita.

Riferimenti bibliografici

Takeo Doi, Anatomia della dipendenza. Un’interpretazione del comportamento sociale dei giapponesi, tr.it. Cortina, Milano, 1991.

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13. Pedro Lam Entralgo: l'antropologia medica come via alla bioetica

L’avventura intellettuale di un uomo “pontificale”

Nell’atrio della facoltà di medicina di Madrid l’occhio del visitatore è attratto da un poster che reclamizza un corso di informatica medica, rivolto a studenti di medicina. L’opportunità didattica è offerta dall’“Associazione culturale studentesca Pedro Laín Entralgo”. Un’iniziativa assolutamente normale, in una facoltà di medicina di un paese avanzato, sul finire del secolo XX. Eppure un motivo di sorpresa esiste: il corso di informatica è offerto, infatti, sotto l’alto patronato di Laín Entralgo, un signore ultra ottantenne, che in vita sua non ha mai imparato a guidare l’automobile e ha scritto tutta la sua vasta produzione in punta di penna...

Dall’università di Madrid, o Complutense, Laín Entralgo è stato rettore per un quinquennio, fino a quando ha dovuto lasciare la carica nel 1956 per incompatibilità con il regime franchista, che non approvava l’atteggiamento tollerante nei confronti delle spinte libertarie provenienti dagli studenti. Dal 1942 al 1978 il prof. Laín è stato ordinario di storia della medicina nella facoltà di medicina della stessa università.

La sua ultima lezione accademica, tenuta al momento in cui, compiuti 70 anni, lasciava l’attività accademica ufficiale, a conclusione di quasi 40 anni di insegnamento universitario, ha avuto come titolo “Vita, morte e risurrezione della storia della medicina”. Nessuna intenzione blasfema in Laín (cattolico convinto, anche se il suo orientamento religioso ha un carattere problematico e travagliato, più che trionfalista); con quelle tre parole ― che appartengono di per sé al codice espressivo della religione ― intendeva fotografare una vicenda quanto mai secolare: quella attraversata dalla storia della medicina durante il periodo in cui ha esercitato il suo insegnamento. Proprio il successo del suo lavoro, conclusosi con una nuova giovinezza della disciplina, anche se non vogliamo chiamarla una vera e propria “risurrezione”,

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autorizza Laín Entralgo a rimanere a testa alta in prima fila sul fronte accademico, anche dopo il pensionamento.

Gli studenti hanno dedicato a lui una associazione culturale (per organizzare appunto, sotto l’egida del suo nome, anche corsi di informatica medica...). Nel suo “Departamento de salud publica e historia de la ciencia”, dove è costituito l’istituto di storia della medicina e antropologia medica da lui creato, si reca ogni giorno per incontrarsi con i docenti, formatisi al suo insegnamento, che continuano la sua opera: sono loro ― afferma con compiacenza il maestro ― che lo hanno aiutato a vivere. Questo contatto con gli studenti di medicina e i giovani ricercatori sembra giocare un ruolo non secondario nel sorprendente prolungamento della sua giovinezza di spirito.

Il suo apporto alla medicina umanistica ha come sfondo quella situazione storica e spirituale che, per mutuare il titolo di un suo libro del 1949, è “la Spagna come problema”. La vita di Laín Entralgo è intrecciata con l’apice del dramma, costituito dalla guerra civile, e con i tentativi falliti di rimarginare le ferite della secolare divisione delle “due Spagne”.

Espanolito que vienes al mundo,

te guarde Diós; una de las dos Españas

ha de helarte e] corazón.

Questi duri versi di Antonio Machado (“Piccolo spagnolo che nasci, ti protegga Dio; una delle due Spagne ti gelerà il cuore”) per Lain sono stati esperienza vissuta. Ha preso posizione per la Spagna falangista ― ma con il dramma familiare sommerso di una moglie spiritualmente allineata con il campo opposto: i nazionalisti le hanno ucciso il padre ―. Progressivamente le sue speranze di fare del movimento franchista il luogo dove realizzare una convivenza civilizzata tra tutti gli spagnoli si sono dissolte.

Dopo il 1956, con la fine del suo rettorato dell’università di Madrid, ha abbandonato l’adesione attiva al falangismo e si è schierato per il pensiero liberale. A questo punto è stato considerato un “paria ufficiale”, senza però per questo diventare un “paria sociale”. Tutt’altro: lo dimostrano le cariche di cui è stato insignito, come la presidenza della Real Accademia Española de la Lengua, l’appartenenza alla Accademia di Medicina e a quella di Storia, per tacere delle numerose altre onorificenze.

Dopo il quinquennio del rettorato (Rettore Magnifico... “ma non troppo”, commenta Laín nella propria autobiografia), il suo impegno si è concentrato sul lavoro scientifico e culturale, abbandonando il coinvolgimento

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politico che ha caratterizzato la giovinezza e l’età adulta. Resta tuttavia l’impressione che gli ideali che l’hanno portato a lottare per la riconciliazione tra le due Spagne non siano alieni all’impresa realizzata sul terreno della storia della medicina. Non è forse giustificato vedere un’analogia tra il progetto di riavvicinamento tra le due anime della Spagna e quello di superare la dicotomia tra ciò che Charles R Snow ha chiamato “le due culture”: quella scientifica e quella umanistica?

Laín Entralgo è solito classificare gli uomini in due categorie: gli “eretici” e i “pontefici”. Non intende queste parole in senso ecclesiastico, ma etimologico: quelli che dividono e quelli che gettano ponti. Ai primi piace la disgiuntiva o, ai secondi la copulativa e. Come spagnolo, ha vissuto drammaticamente la realtà della disgiunzione, perché ha visto le due metà del paese, l’una contro l’altra. La divisione della Spagna, che è culminata nella guerra civile, in realtà stava incubando fin dalla fine del secolo XVIII. Da allora la Spagna si è imbarcata eroicamente ― ma erroneamente ― nell’impresa di negare le due note centrali del mondo moderno: la secolarizzazione e il pluralismo.

Il dramma della Spagna è la conseguenza di non aver saputo assimilare gli abiti intellettuali e sociali propri del mondo moderno, così come era pur avvenuto in passato nella sua tradizione. Quando nella guerra civile Laín Entralgo si è schierato con una delle due parti, non ha mai cessato di essere convinto che si poteva uscire dalla spirale della divisione solo imparando la lezione di ciò che la guerra civile significava in profondità.

Così, purtroppo, non è stato: il regime seguito alla guerra ha mostrato che rimaneva fedele al programma di raggiungere l’unità mediante l’eliminazione dell’avversario. La disgiuntiva trionfava ancora una volta sulla copulativa. L’ideale di Laín è stato e continua ad essere quello “pontificale”: favorire una convivenza plurale e pacifica, in una libertà fondata sul rispetto delle opinioni altrui.

Il bilancio della sua vita pubblica l’ha tracciato in un libro autobiografico: Descargo de consciencia, dedicato ai tre decenni che vanno dal 1930 al 1969. Ha voluto dimostrare, in un paese dominato socialmente dall’abitudine di confondere la dignità con il monolitismo, che la dignità etica e la ritrattazione sono perfettamente compatibili.

Diverso è invece il bilancio della sua vita come uomo di scienza e di lettere. Il suo impegno “pontificale” mirava a raggiungere l’integrazione di una Spagna cattolica e nazionale in una cultura europea, mediante l’apertura e il dialogo con il mondo culturale moderno. Si è sforzato di dimostrare con il fatto della sua vita e con il contenuto delle sue opere che è possibile conciliare l’eredità di S. Ignazio e la considerazione per Unamuno, il rispetto per il pensiero di san Tommaso e per

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quello di Ortega; di più: che un’anima così variamente popolata diventa più feconda.

La seconda giovinezza della storia della medicina

Su questo sfondo generale, che ci fornisce le principali coordinate dell’avventura intellettuale e umana di Laín Entralgo, possiamo ora collocare il progetto specifico che ha dato unità strutturale alla sua vita di studioso. Prima qualche dato, che raccogliamo dalla sua autobiografia. Dopo studi iniziali di scienze chimiche e di fisica, passò alla medicina. Nel 1930 si è laureato a Valencia, orientandosi ben presto verso la psichiatria. Nel 1932 si perfezionò a Vienna, nella Neue Klinik di Pötzl, ed esercitò poi per un breve periodo nel manicomio di Valencia.

Dopo la cesura della guerra civile, la svolta: abbandona la psichiatria e si orienta verso la storia della medicina. Fa un dottorato con una tesi su Medicina e historia e dal 1942 è ordinario di storia della medicina a Madrid. Da allora questa disciplina costituirà il punto fermo attorno a cui ruoteranno i suoi molteplici interessi. Questo ri-orientamento della sua vita era destinato a segnare in modo decisivo anche la disciplina a cui dedicava il suo interesse.

Esso realizza, autobiograficamente, una conciliazione profonda. La formazione iniziale di Laín Entralgo è stata scientifica: ha studiato chimica e si è appassionato per la fisica teorica. Considerava il sapere scientifico come la sua vocazione. Ha ripiegato sulla medicina per consiglio paterno, spinto dalla necessità di guadagnarsi la vita. Anche come psichiatra, non aveva uno speciale amore per la clinica; era piuttosto attratto dall’aspetto teorico della psichiatria, e più specificatamente dai temi dell’antropologia generale.

A un certo punto si è reso conto che la storia della medicina gli avrebbe offerto la possibilità di realizzare le sue aspirazioni. Non è stata solo la percezione di un’opportunità di inserirsi nella vita accademica (nel 1940 l’ordinario di storia della medicina di Madrid sarebbe andato in pensione e il suo posto si sarebbe reso vacante): l’orientamento alla storia della medicina traeva il primo impulso dal personale inserimento nella storia della Spagna, attraverso il crogiolo della guerra civile. La terribile realtà del conflitto aveva riacutizzato la sua coscienza storica e l’aveva indotto a considerare “sub specie historiae” tutto quello che sentiva e sapeva. La coscienza di appartenere a un passato che doveva comprendere e a un futuro che era necessario sognare e programmare arrivò ad essere per Laím una profonda esigenza vitale.

Si rivolse dapprima al prof. Paul Diepgen, che insegnava storia

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della medicina a Berlino. Questi gli fece intravedere che era possibile superare una pratica della, disciplina puramente erudita, come era stata praticata da Karl Sudhoff. Laín scoprì la suggestiva possibilità di una storia della medicina non più positivistica: una storiografia medica ermeneutica, capace di influire sul presente e di condurre efficacemente all’edificazione di un’antropologia medica. Questa è la via che ha seguito per tutto lo sviluppo successivo della sua vita di studioso.

Il programma che affidava alla disciplina è esplicitato nel primo numero della rivista, da lui fondata, Archivos Iberoamericanos de Historia de la medicina y de Antropologia médica: «La storia non è per noi pura erudizione né morta archeologia; coltivandola siamo portati in modo ineludibile a non sfuggire al presente, ma piuttosto a cercarlo. Ci sforzeremo di conoscere il presente e il passato secondo due punti di vista cardinali: la storia e la verità. Ciò permetterà, nella misura dell’umano, di volgere lo sguardo verso l’indefinita penombra del tempo futuro».

Così definiva il progetto al quale voleva ispirare la sua ricerca. Oggi, avendo alle spalle l’opera compiuta, si può tentare una definizione ancor più concisa della storia, così come ha cercato di applicarla alla medicina: «La storia è un ricordo di ciò che il passato è stato, a servizio di una comprensione di ciò che il presente è, e una speranza di ciò che il futuro può essere».

Finché i medici intellettualmente ambiziosi non adotteranno questa prospettiva, non si potrà dire che la buona causa ha trionfato. La “risurrezione” della storia della medicina, a cui Laín Entralgo ha dedicato la sua vita di studioso, non si è imposta in modo trionfalistico. Malgrado i segni di stima personale e gli elogi che il mondo accademico e culturale spagnolo gli rivolge, non sembrano molti fino ad oggi i medici che cercano di dare questo spessore alla loro professione.

Gli apporti di Laín Entralgo alla storia della medicina sono stati di grande rilievo. Il suo pensiero, nutrito da radici plurime ― possiamo distinguere gli apporti della Grecia antica, di Roma, del cristianesimo e dell’Europa successiva al Medioevo ― ha lasciato un’impronta nello studio della mentalità ippocratica (secondo Laín, un bagno nell’ippocratismo autentico è un gran bene per tutti i medici fedeli al compito di pensare).

Un’attenzione particolare ha dedicato al ruolo della parola nel processo terapeutico. Alla ricerca delle origini storiche della psicoterapia verbale, è risalito fino all’antichità classica. In La curación por la palabra en la antiguedad clásica ha analizzato la trasformazione del primitivo incantesimo magico in un discorso capace di modificare razionalmente l’anima e la natura di chi lo ascolta. Ciò gli ha permesso di concludere

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che un nocciolo di psicoterapia verbale è già delineato nei dialoghi platonici.

La preoccupazione per il processo verbale che si stabilisce tra il medico e il malato lo ha portato a studiare le vicissitudini storiche del documento universalmente noto come “storia clinica”:La historia clínica. Historia y teoria del relato patobiografico. In questo libro, da molti considerato come il migliore della sua produzione storiografica, Laín ricostruisce il racconto di un processo morboso individuale come uno specchio nel quale si riflette in miniatura il pensiero medico del suo autore, e quindi della cultura e della società a cui appartiene.

La medicina si apre alle humanidades

Tuttavia la storia della medicina, per quanto di ampio respiro e ricca di spessore ermeneutico, non sembra essere il vero centro di gravitazione degli interessi intellettuali di Laín Entralgo. Una spinta centrifuga lo porta a superare i confini della disciplina, a veleggiare verso altri lidi. La storia della medicina appare come il fondamento di un progetto ben più vasto, che si sviluppa all’insegna delle humanidades. Nel 1948 Ortega y Gasset aveva fondato un “Istituto de humanidades”; per Laín Entralgo il progetto assumerà la denominazione di humanidades médicas.

Già prima di assumere la cattedra di storia della medicina aveva dato qualche morso alla mela staccata dall’albero della conoscenza, con la conseguenza di perdere l’innocenza paradisiaca dello scientismo riduzionista. Avendo un interesse teorico-speculativo, più che pratico ― come pur si conviene a un medico! ― si era orientato verso la psichiatria: questa gli appariva come un campo del sapere, tra quelli che costituiscono la medicina, che più si avvicina alla vera realtà dell’uomo. Contemporaneamente nuovi orizzonti intellettuali gli venivano aperti dalla filosofia di Ortega, di Max Scheler, di Xavier Zubiri.

Una tappa fondamentale per il suo orientamento all’antropologia filosofica è stato l’incontro con la medicina tedesca degli anni ’20 e ’30, conosciuta attraverso l’opera di Richard Siebeck, di Ludwig von Krehl e soprattutto di Viktor von Weizsäcker. Quest’ultimo era un internista e neurologo di ampia e raffinata cultura filosofica, brillante e di intelligenza penetrante. Attraverso il suo modo esemplare di analizzare i casi clinici ― esposto in particolare in Ärztliche Fragen e Studien zur Pathogenese ― Laín Entralgo scoprì che le malattie chiamate organiche, come un’infezione o un cancro, possono essere studiate antropologicamente, allo stesso modo delle nevrosi tradizionali e delle psicosi.

Nella storia del pensiero medico la svolta antropologica era come la

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scoperta di un nuovo mondo. Questo modo innovativo di capire antropologicamente la malattia sembrò a Laín un cammino percorribile, che gli permetteva di combinare la sua vocazione scientifica con la passione per la conoscenza dell’uomo, così come emerge nell’ambito proprio della medicina.

Uno studioso americano, Nelson Oringer, che ha scritto un’opera di prossima pubblicazione ― L’avventura di curare ― dedicata a un’analisi sistematica dell’intera opera di Laín dal punto di vista dell’antropologia medica e della medicina come realtà e pratica sociale, individua la chiave del suo pensiero antropologico-medico nel tentativo di unire in modo metodico l’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker e la filosofia spagnola rappresentata da Ortega e soprattutto da Xavier Zubiri.

L’intento che ha animato la sua vita di studioso della storia della medicina è identico a quello proprio del movimento tedesco della “anthropologische Medizin”: reintrodurre nella medicina il soggetto-uomo nella sua interezza, come essere bio-psichico-spirituale-storico; e non solo nella clinica, dove è inevitabilmente presente, ma anche nella patologia. È il sapere stesso dell’uomo malato che viene rifondato, quando si assume come punto di partenza la mutevole condizione dell’uomo nella vicenda esistenziale del suo corpo.

L’antropologia medica, ovvero la conoscenza dell’uomo che è connessa con la pratica della medicina, è orientata primariamente alla formazione del clinico, e non alla meditazione del filosofo. Con il suo carattere descrittivo della realtà dell’uomo dal punto di vista medico, costituisce il vero fondamento del sapere medico. Il medico deve poter disporre di una teoria antropologica nella quale si integrino adeguatamente tutti i dati offerti dalle diverse scienze che studiano l’uomo: morfologia e fisiologia, psicologia e sociologia, antropologia culturale ecc.

L’antropologia medica diventa, più precisamente, la conoscenza scientifica dell’essere umano in quanto sano, ammalabile, infermo, guaribile e mortale. Questi cinque aspetti, infatti, costituiscono l’esistenza umana nella sua interezza, e con tutti e cinque il medico deve fare i conti. In concreto, come temi propri dell’antropologia medica Laín Entralgo individua la conoscenza dell’essere umano nella sua realtà strutturale e dinamica, la salute e la malattia e l’atto medico.

All’antropologia medica ha dedicato un’opera di sintesi pubblicata nel 1985: Antropología médica para clínicos, tradotta anche in italiano. Questa tuttavia non è stata l’ultima tappa del suo percorso. Dallo studio di argomenti fondamentalmente medici, come la storia clinica, il rapporto medico-paziente e la diagnosi medica, è approdato a temi di antropologia generale (intendendo l’antropologia come disciplina filosofica ― secondo il significato prevalente che il termine ha in tedesco e

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nelle lingue romanze ― e non come disciplina afferente alle scienze sociali, come è appunto l’anglosassone medical anthropology).

Un’antropologia come base per l’etica

L’antropologia filosofica è stata per Laín un naturale ampliamento di quella medica. Scrivendo Medicina e historia, ha dovuto esaminare a fondo il problema dello storicismo e dell’esistenza umana. Ha demarcato il suo cammino da quello di Heidegger, per il quale l’incertezza e l’angoscia ad essa connessa sono la struttura fondamentale dell’esistenza; è stato così in grado di costruire un’antropologia nella quale la speranza ― la fiducia di ottenere quello che si spera ― fosse il concetto fondamentale. Sviluppando questi concetti è pervenuto alla sintesi contenuta nel libro La espera y la speranza, pubblicato nel 1956, come storia e teoria dello sperare umano.

I due volumi di Teoria y realidad del otro si collocano invece a monte dello studio dedicato al rapporto medico-malato. L’incontro dell’uomo con l’altro essere umano è la base anche del rapporto che si stabilisce tra il medico e il malato. Analogamente, il volume dedicato all’amicizia ―Sobre la amistad ― affronta un tema antropologico centrale nel pensiero occidentale, da Platone a Hegel e a Marx, con l’intenzione di ampliare a livello filosofico generale un tema essenziale per descrivere quel particolare rapporto di amore tra eguali ― la philia dei Greci ― che si instaura nell’ambito della somministrazione delle cure mediche.

Attualmente Laín, che anche dopo il pensionamento non ha smesso di insegnare, sta dando un corso di lezioni che ha come titolo generale quattro infinitivi: “Sapere, credere, sperare, amare”. Enunciato in questi termini, sembra una visione edulcorata dell’esistenza umana. Ma così non è, se consideriamo che ogni sapere comporta un ignorare, ogni credere un dubitare, ogni sperare un disperare, e ogni amare un odiare. Qualunque valore si voglia attribuire a questa visione, in ogni caso non si tratta più di antropologia medica, ma di antropologia generale.

Il magistero intellettuale di Laín Entralgo ha germinato diversi sviluppi, rappresentati dai suoi discepoli. Le humanidades médicas si sono differenziate. Nel dipartimento di “Salute pubblica e storia della scienza” dell’università Complutense c’è, per esempio, chi coltiva in modo preferenziale i rapporti tra medicina e letteratura ― come Luis Montiel ―; chi studia l’impatto delle variazioni demografiche sulla pratica della medicina ― come Elvira Arquiola ―; e chi ― come Diego Gracia ― ha sviluppato la bioetica.

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Laín Entralgo è stato pioniere della bioetica senza tuttavia contribuire a strutturarla come disciplina. Ha preferito che l’esplorazione sistematica della dimensione etica fosse riservata ai discepoli, più che al maestro. Nella sua concezione della medicina il momento etico è fondamentale, tanto dal punto di vista teorico che pratico. Già nel suo libro Il medico e il pazientedistingueva nell’atto medico quattro momenti principali: quello conoscitivo (tecnicamente specificato come “diagnostico”); quello operativo, cui siamo soliti dare il nome di “cura”; quelloaffettivo, inteso sia come “amicizia” ― nell’accezione greca di philia ― sia come “transfert”, secondo la dottrina degli attuali psicanalisti; e infine il momento etico. All’etica medica non ha dedicato ricerche particolari: gli aspetti conoscitivi sono quelli che lo hanno interessato di più. Tuttavia la stessa concezione di storia della medicina che ha coltivato era impregnata di una concezione etica.

Come un Mosè, si è limitato a guidare fino alla soglia della Terra promessa, lasciando che altri vi entrasse. È stato un merito di Diego Gracia di scorgere e sviluppare tutte le implicazioni etiche presenti in questa concezione storica dell’atto medico. In particolare, Gracia ha intuito che il campo della bioetica era diventato un tema di interesse sociale generale, ben oltre l’ambito medico. Per sua iniziativa l’ha coltivato con buon successo, tanto da diventare uno studioso internazionalmente riconosciuto nella bioetica.

All’osservatore esterno la scuola spagnola di humanidades médicas raccolta intorno a Pedro Laín Entralgo dà una impressione di straordinaria solidità di disegno concettuale e di qualità di rapporti umani. C’è un circolo di studiosi ben identificati, che si rapportano a Laín con singolare deferenza e intimità ― il gruppo per i quali Laín Entralgo è semplicemente “Don Pedro” ―, pur conservando ognuno un proprio profilo intellettuale.

Laín Entralgo non si considera un maestro nel senso classico della parola. Ha lavorato sempre solo, con una concezione della ricerca più vicina a quella romantica che a quella contemporanea. Ma non si può negare che, grazie a lui, oggi in Spagna ci sia un manipolo di persone che si dedicano totalmente alla storia della medicina e alle humanidades médicas: con serietà, con rigore, con talento, con abnegazione. La sua opera personale ha reso possibile questo susseguirsi di studiosi ― siamo già alla terza generazione! ― di humanidades médicas, aprendo la via alla bioetica, cosicché si può dire che questa disciplina in Spagna non è caduta dal cielo come un meteorite, ma si è sviluppata in modo organico entro l’alveo delle humanidades médicas.

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Riferimenti bibliografici

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Pedro Laín Entralgo, El cuerpo y el alma, Espasa Calpe, Madrid, 1991.

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14. Nicole Léry: Vetica, al quotidiano

Un centro di consulenza per chi soffre di medicina

Chi è solito correlare la riflessione etica con la rarefatta serenità di un ambiente accademico deve cambiare registro quando si parla di Nicole Léry. Questa dinamica donna lionese sembra l’immagine del moto perpetuo. E trascina chi si è messo sulle tracce della bioetica in ambienti tra i più impensati. Come l’ampio spazio al primo piano del padiglione N dell’ospedale psichiatrico di Lione, situato nel quartiere Vinatier. L’etica in un contenitore psichiatrico: bisogna lasciar passare un buon momento per familiarizzarsi con l’idea.

La targa all’ingresso parla di un “Centro di diritto ed etica della salute”, unità funzionale degli Ospedali civili di Lione ospitata presso l’ospedale Edouard Herriot. Funziona come un consultorio, a cui può accedere chiunque: professionisti della sanità, malati, famiglie; per consultazione diretta, per telefono, per lettera. Vi lavora un’équipe composta di una decina di persone. A presiedere quell’operoso alveare c’è lei, come ape regina: Nicole Léry.

I motivi che inducono a bussare a quella porta sono i più vari. Troviamo i conflitti più classici degli ambienti di lavoro sanitari (durante lo svolgimento di un’anestesia, chi è responsabile: il chirurgo che opera o l’anestesista? responsabilità della levatrice, in casi di conflitto con il medico di guardia; trasferimento di un medico per “sistemarne” un altro); i litigi che sorgono per ragioni vere o presunte di malpractice (scontro di una famiglia con l’équipe psichiatrica per negligenze nella sorveglianza di un malato; decesso di un bambino alla nascita, per probabile incuria dei sanitari; un medico che rifiuta di ricevere un malato, qualificandolo con indesiderabile; suicidio a casa propria di una ragazza sotto neurolettici, mentre il medico il giorno prima ha rifiutato la sua ospedalizzazione; una mastectomia per cancro, che si è rivelato negativo all’esame istologico); le situazioni che nascono a

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ridosso della medicina intensiva, a confine con l’accanimento terapeutico (richiesta di interrompere la rianimazione in un neonato con handicap neurologico, nutrito con sondino; una persona anziana domanda di interrompere l’emodialisi).

Per alcuni aspetti il consultorio di “Diritto ed etica della salute” potrebbe essere scambiato con l’ufficio del medico legale. Vi afferiscono casi di divulgazione del segreto medico (anche nella versione più attuale: è lecito rendere noto lo stato di infezione per Aids di un paziente, contro la sua volontà, per proteggere il partner ignaro del contagio?); rifiuto di trasmettere la cartella clinica; domande di risarcimento per danni o effetti secondari spiacevoli. Altri casi, invece, esulano completamente da un quadro tradizionale di consulenza nell’ambito della medicina legale: come, ad esempio, la sofferenza di un’équipe medica a seguito del decesso inspiegabile di un bambino.

Trovare un denominatore comune a tutte queste situazioni non è facile, a meno di ricorrere a una categoria molto generica: ciò che fa male non è localizzato nel corpo o nella psiche, ma nella stessa pratica medica. Sono tutti casi che tradiscono una disfunzione. Il consultorio di etica è semplicemente un luogo in cui si ha la possibilità di venire a lamentarsi della medicina.

Il cammino che ha portato Nicole Léry a inventare questa risposta di mali della medicina non è stato lineare. Le sue radici affondano nella medicina, vista sotto un’angolatura particolare: l’urgenza. A Lione è in funzione un modello originale di medicina d’urgenza, in cui i sanitari chiamati a rispondere alle situazioni di crisi hanno, per una metà, una competenza nell’ambito somatico ― come internisti, tossicologi ecc. ―, mentre l’altra metà è costituita da psichiatri o affini.

La categoria di crisi si applica sia agli eventi somatici (crisi cardiaca, polmonare, trauma o incidente stradale), sia alla patologia sociale. Basti considerare, infatti, che tra i giovani il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Secondo il modello lionese, l’ospedale pubblico deve fornire una risposta alla crisi nel suo concetto più ampio, 24 ore su 24 ore. Anche un medico legale è di guardia, e può essere raggiunto sul territorio per tutti i casi in cui cura della salute e legge entrano in posizione di conflitto.

Il lavoro in etica di Nicole Léry trae di qui la sua lontana ispirazione: dal luogo dove converge la sofferenza sociale nello stadio acuto. Ha iniziato come tossicologa. Si occupava allo stesso tempo di malati ospedalizzati e in trattamento, e della guardia al centro antiveleni. Quasi la metà dei malati che vi ricorreva era vittima di effetti nocivi dei farmaci. Dall’intuizione che sarebbe stato un grande beneficio per la salute di tutti avere a disposizione le conoscenze che si andavano accumulando,

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nasce a Lione, su suo impulso, la farmaco-vigilanza.

La ricerca della competenza porta Nicole Léry ad accumulare lauree ― oltre che in medicina, si laurea anche in farmacia e in diritto ― e diplomi. Senza tuttavia perdere mai il contatto vivo con l’altra fonte segreta del suo cammino intellettuale e spirituale: la solidarietà con i più maltrattati dalla vita. Nata lei stessa in una famiglia numerosa e povera, ha conservato una sensibilità acuita per quella linea fondamentale di tutela dei più svantaggiati che è la difesa dei diritti umani. Troviamo Nicole Léry in prima linea nell’assistenza alle vittime della tortura, nell’aiuto fornito ai rifugiati, nella denuncia delle varie forme di violenza. E soprattutto nella lotta contro quella nuova forma di povertà che consiste nella mancanza di cultura necessaria per difendere i propri diritti in ambito sanitario.

La difesa dei diritti e delle libertà

Dal forte impegno dell’etica in senso sociale è nato nel 1976 il gruppo “Santé, éthique et libertés”. L’iniziativa ha preceduto la stessa costituzione del Comitato nazionale in Francia. Concepito ― ama dire spiritosamente la signora Léry ― nel modo più tradizionale e nel letto coniugale, in quanto il gruppo è stato fondato insieme al marito Louis. Il gruppo, costituitosi poi in Associazione, si è proposto di identificare i problemi etici nell’ambito della salute; di promuovere l’informazione presso i professionisti interessati; di partecipare alle attività di salva-guardia e protezione degli individui e dei gruppi minacciati. E soprattutto di insegnare: formare ― un’attività non indolore, poiché presuppone un momento iniziale di “de-formazione” ― gli attori delle attività di cura e assistenza: magistrati, avvocati, medici di tutte le categorie, psichiatri, assistenti sociali, infermiere.

Le problematiche concrete con cui l’Associazione si è confrontata erano quelle dei genitori che rifiutavano le cure per il loro bambino handicappato, i criteri per mettere fine alla rianimazione in stati di coma prolungato, il rispetto del desiderio di morte di una persona anziana. Ma soprattutto il gruppo “Santé, éthique et libertés” maturava una metodologia nella risposta alle questioni che venivano poste. Tale metodo sarebbe poi stato travasato nell’iniziativa più complessa del consultorio ospedaliero dì “Diritto ed etica della salute”.

Nel pensiero e nell’attività di Nicole Léry ha preso progressivamente forma un modo proprio e inconfondibile di proporre l’etica. La chiama l’etica dei “bisognosi”, contrapponendola a quella dei “pensosi”. L’una non esclude l’altra; ma non possono neppure essere identificate.

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La problematica etica a cui si sente debitrice di una risposta è quella che emerge da una situazione vissuta di disarmonia, di divergenze, forse anche di conflitti di valori tra i diversi attori.

L’etica è una mobilitazione personale, spesso successiva a una situazione che ha lasciato una cicatrice sensibile. Per coloro che lavorano nella sanità le tracce risalgono talvolta lontano nella loro parabola professionale; spesso solo dopo essere entrati in un gruppo di lavoro sistematico riescono ad enunciare e ad elaborare le situazioni vissute. Quelli che si occupano di etica senza questo confronto con le situazioni concrete rischiano di confondere l’etica con l’ideologia. Ovvero ― adottando la terminologia di N. Léry ― con “la morale”.

A suo avviso, l’etica presuppone l’esistenza di una “morale”, intendendo questa come la messa in atto di un comportamento che deriva da idee riflesse o automatizzate, perché acquisite. L’etica viene dopo la morale. Suppone un comportamento che accetta di confrontarsi con idee e convinzioni altrui. Senza alterità non c’è etica.

Proprio perché non si colloca tra i “pensosi” dell’etica, Nicole Léry non è a suo agio nei dibattiti relativi alle definizioni e chiarificazioni terminologiche. Vorrebbe possibilmente astenersi dal definire l’etica, per concentrarsi piuttosto sull’elaborazione di metodologie rigorose di aiuto all’azione, dal momento che lo scopo che si propone il lavoro etico è l’accordo sull’“agire”. Non promuove un’etica come affare di specialisti: ognuno può apportare al dibattito qualche conoscenza che deriva dal suo vissuto. La vera competenza che si può esigere è la disposizione ad ascoltare una posizione contraria alla propria, e a poter argomentare senza pretendere di aver ragione a priori.

La consulenza etica come artigianato

Al consultorio di etica dell’ospedale Herriot si predilige il linguaggio immaginoso e la metafora. Una di queste è la “cassetta degli attrezzi”. I consulenti non presumono di avere un sistema che fornisca risposte standard a tutti i casi: più modestamente, concepiscono la loro attività come un buon artigianato. L’imperativo prioritario è quello di scegliere l’attrezzo giusto.

Secondo la metodologia della decisione elaborata da Nicole Léry, al primo livello viene la competenza tecnica. Questa si situa molto prima dello stadio dell’etica. Se si usa appropriatamente questa procedura, ci si accorge che una buona parte dei casi che vengono portati a una consulenza etica hanno una soluzione puramente tecnica.

L’affermazione piuttosto astratta può essere chiarita con un esempio.

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Ricorriamo a un caso pratico, scelto tra quelli che affluiscono per consulenza al Centro di diritto ed etica della salute. Un’anziana signora di 84 anni, che vive sola, dà fuoco accidentalmente al suo appartamento. È la seconda o terza volta che succede: bisogna metterla d’autorità in un ospizio? I pareri ― la famiglia, il medico, l’assistente sociale, i vicini ― non concordano. La collaboratrice che fa le pulizie telefona al Centro per esporre il caso, in quanto vi identifica un problema di difesa dei diritti della persona: l’anziana signora, infatti, non vorrebbe andar via di casa. Non è forse un problema etico non costringerla a non abbandonare il suo ambiente naturale di vita per una fredda casa di riposo?

Il metodo messo a punto dal Centro richiede che, in primo luogo, ci si domandi chi è competente per il problema in questione. In questo caso, trattandosi di fuoco, sono i pompieri. Non succede spesso che i medici facciano ricorso ai pompieri, quando si tratta di decidere del destino di una persona anziana. In questo caso, invece, questa era la soluzione giusta.

I pompieri sono venuti e hanno esaminato l’installazione. L’enigma era semplice: la vecchia signora metteva delle cose sul fuoco e poi dimenticava di spegnere la cucina a gas. La soluzione che hanno proposto era semplice: cambiare la cucina a gas con una elettrica in vetroceramica. Quando è accesa si vede: è rossa. Poi hanno messo una spia per il fumo, che suona presso la fomaia: questa può venir a vedere se c’è fumo in casa ed eventualmente chiamare i pompieri, che sono a meno di un chilometro di distanza. La signora può, dunque, rimanere a casa sua. Un presunto conflitto etico tra autonomia della persona e bene comune viene risolto mediante il ricorso a una soluzione tecnica, affidata all’istanza competente.

Il rispetto di una procedura rigorosa, che lascia la decisione a chi ha la competenza richiesta, si rivela importante anche in altre situazioni di conflitto, dove sembra che ci si sia infilati in un vicolo senza uscita. È quanto illustra un altro caso reale, in cui il Centro è stato sollecitato a offrire la sua consulenza. Si tratta anche questa volta di un’anziana signora, la quale dopo nove anni di trattamento non vuole più sottoporsi alla dialisi. È in piedi, in piena efficienza. Tutti dicono che, dal punto di vista tecnico, non ci sono motivi per fermarsi. Bisogna costringerla a prolungare il trattamento, facendo violenza alla sua libertà? Bisogna accettare la sua morte? Continuare il trattamento corrisponde a un “accanimento terapeutico”? La bioetica ha, nella sua cassetta degli attrezzi, uno strumento prezioso, che è l’analisi dei benefici/rischi/costi. Sul piano dei benefici, è evidente che la dialisi le salva la vita. Ma questa donna ritiene che il peso che le procura il continuare a curarsi è

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eccessivo rispetto alla qualità della sua vita. Anche nella prospettiva della valutazione costi/benefici ha un ruolo fondamentale la domanda: a chi compete prendere la decisione?

In questo caso specifico, la richiesta di un’interruzione veniva rivolta dalla paziente all’équipe che le faceva la dialisi. Ora, non si può essere allo stesso tempo l’équipe che cura e quella che accetta di far morire. Il paziente lavoro di chiarificazione svolto dal Centro di consulenza è servito a chiarire alla signora che, finché lei si fosse rivolta al servizio, sarebbe stata emodializzata, perché non c’era altra risposta possibile da parte dell’équipe.

Un lavoro ancor più lungo e complesso ha richiesto lo sblocco della situazione. La paziente ha dovuto scegliere di non andare più al servizio di dialisi; il marito, arrivato ad accettare la decisione della moglie, ha scelto di non chiamare l’autoambulanza; il medico di medicina generale ha potuto andare a vedere la signora a casa e prendere contatto con l’équipe dell’emodialisi, senza mettersi in una posizione rischiosa; l’équipe, a sua volta, ha potuto ascoltare il medico senza mettere in pericolo la propria identità e la propria impunità. Solo grazie alla mobilitazione di tutto il tessuto relazionale l’anziana signora ha potuto sospendere la dialisi, senza che la fine della sua vita diventasse un atto spettacolare o un’ennesima illustrazione dei conflitti tragici che accompagnano la medicina di punta.

Questa prospettiva permette di comprendere in che senso può essere utilizzato un altro degli “attrezzi” a disposizione di chi faccia consulenza etica: la deontologia professionale. La professione medica, in particolare, si è fabbricata regole molto dettagliate, radicate nella tradizione ippocratica. La consulenza situa anche la deontologia in un contesto relazionale. La deontologia non è, di per sé, orientata al dialogo: pone il professionista di fronte ai suoi doveri nei confronti del paziente, il quale svolge solo il ruolo di destinatario dell’atto medico. In una situazione tipica, possiamo immaginare il medico che dibatte, alla luce della deontologia, il dilemma: «Devo o non devo staccare questo paziente dal respiratore?». Sono due facce simmetriche di uno stesso problema, che tuttavia può, nell’una come nell’altra ipotesi, lasciare ugualmente il paziente fuori del gioco.

La deontologia deve oggi sviluppare dell’altro. Un esempio può essere costituito in Francia dalle regole deontologiche che si sono date i Cecos (Centres d’études et de conservation des oeufs et du sperme) per regolamentare le pratiche di fecondazione artificiale anche in assenza di una legislazione apposita. L’esclusione di certe procedure ― come l’inseminazione artificiale di una donna nubile o senza partner stabile e la compravendita dei gameti ― è utilizzata come procedura per sollecitare

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un confronto con le coppie richiedenti e donatrici, e per favorire una riflessione sulle motivazioni.

I codici e le norme, ma prima l’ascolto

Nella messa in opera di una metodologia rigorosa per guidare all’azione un momento importante è costituito dal confronto con le raccomandazioni, i codici, le carte dei diritti che si sono moltiplicate in questi ultimi anni. Queste prescrizioni di comportamento traducono la regola collettivamente stabilita. Nicole Léry sa apprezzare questo punto di riferimento: ha anche curato una raccolta di testi relativi ai diritti dell’uomo in rapporto alle costrizioni personali. Tuttavia è consapevole che queste carte dei diritti, e corrispettive prescrizioni di comportamenti sanitari, non sono esenti da difetti, soprattutto a causa di gravi omissioni.

La discriminazione agisce anche per via negativa, in quanto a certi individui e situazioni non viene data l’attenzione che meritano. Mentre ci rallegriamo che ai malati di Aids sono dedicati non solo gli sforzi della ricerca clinica e della terapia, ma anche le preoccupazioni di tutelare i loro diritti umani ― tutti hanno parlato delle regole etiche da rispettare nel trattamento sociale di questi malati: l’Oms, la Cee, il Consiglio d’Europa, le chiese... ― altri malati sono completamente dimenticati. È quanto avviene per il paludismo, ricorda Nicole Léry: due miliardi di persone vivono nelle zone a rischio, 500 milioni di persone sono contaminate. Ma nessuna mobilitazione si è prodotta a loro favore. Chi si preoccupa di proclamare i diritti di questi malati? Sono lontani, sono neri, sono poveri...!

Il consenso che si sta creando attraverso questi orientamenti prescrittivi ha tuttavia la sua importanza. Obbliga la stessa deontologia a confrontarsi con interrogativi che non ammettono una risposta semplice. La deontologia tende, per esempio, a privilegiare il consenso scritto del malato alle procedure diagnostiche e terapeutiche. L’etica è tenuta a mettere in luce la disfunzione del sistema che regola i rapporti tra medici e pazienti: la procedura formale può non contenere un vero consenso; al contrario, il consenso ci può essere senza l’atto formale del protocollo firmato. Nicole Léry è esplicita nell’affermare che la sua professione di medico legale ha confini molto più ristretti di quelli che fanno parte della consulenza etica. Nel modello da lei proposto di guida alla decisione il riferimento alla legge costituisce l’appoggio su cui si può far forza, non un quadro di riferimento obbligante.

Il diritto esprime il più basso livello della conversazione sociale sui valori, il minimo comun denominatore tra i cittadini di un paese. È la

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parola pubblica fatta per tutti i cittadini, e nessuno può ignorare la legge. Ma la legge non è l’etica. Il diritto struttura, ossifica la riflessione etica, mentre quest’ultima si estende ben al di là dei diritti-doveri codificati dalla legge.

È quanto mai opportuno che sia un medico legale a riconoscere i limiti della legge come guida alle decisioni in ambito bioetico. La consulenza etica tiene conto del quadro giuridico, ma non si limita ad esso: per questo la struttura si qualifica come consultorio di “diritto ed etica della salute”. Il diritto vi svolge il ruolo che ha la chirurgia in un presidio terapeutico: una risorsa fondamentale, ma ben lungi dall’essere l’unica.

Un esempio convincente della diversa fisionomia che assume un problema nel quadro della legge, della deontologia e dell’etica è quello delle trasfusioni sanguigne ai Testimoni di Geova. Molti chirurghi e medici si avvalgono dell’impunità che la legge concede loro, quando procedono alla trasfusione per salvare la vita del malato. Calpestano la convinzione del Testimone di Geova, soddisfatti per aver contribuito alla vita e sicuri di non poter essere chiamati in giudizio dall’interessato.

Invece di questa ricetta facile e largamente utilizzata, Nicole Léry propone un’altra via, più difficile da percorrere ma più rispettosa delle esigenze dell’etica di una società pluralista. Anzitutto, prendere sul seno la convinzione di questi cittadini è un forte stimolo a considerare, nel quadro dell’equazione benefici/costi/rischi, il beneficio della trasfusione prevista. Molti interventi sono inutili. Il fanatismo terapeutico può portare a moltiplicare cure futili. Se si fa una trasfusione a un bambino morente, si affronta un rischio notevole a fronte di un beneficio nullo (purché, naturalmente, si abbia la capacità di capire il rischio anche a livello emotivo e simbolico: quell’ago che trapassa la vena ferisce la coscienza di tutta la comunità dei Testimoni).

Tuttavia, pur eliminate le trasfusioni inutili, rimane un certo numero si casi in cui il medico ritiene di dover procedere alla trasfusione: lo domanda il suo sapere professionale, lo richiede l’etica. Qui diventa importante il “come”. Si può trasfondere riuscendo a far riconoscere che non si tratta di una invalidazione delle convinzioni dei Testimoni di Geova, ma di un atto di responsabilità del curante. Un gesto di questo genere non si può delegare. E, mentre lo si esegue, ci si deve anche scusare di non tener conto delle convinzioni altrui.

Un’etica ben poco muscolosa, quella proposta da Nicole Léry. Attenta al corretto approccio metodologico, più che intenta a proclamar principi incrollabili. Eppure un’etica molto destabilizzante per chi pretende di affrontare il nuovo con gli automatismi delle risposte prestabilite. Ma per camminare bisogna pur accettare di “destabilizzarsi” un

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po’: alzare un piede solidamente piantato sul terreno, farlo oscillare instabilmente sul vuoto, per posarlo sul terreno un passo più avanti... Pronti a ripetere l’operazione, se si vuol procedere.

Riferimenti bibliografici

Nicole Léry, Jacques Vedrinne, Droits de l’homme et contrainte de la personne, Masson, Paris, 1980.

Nicole Léry, Du droit à l’éthique: la responsabilité des soignants, ed. Santé, Éthique, Libertés, Lyon, 1982.

Nicole LéryActes éthiques, ou le respect des droits de l’homme au quotidien, Ecole des Cadres de Poissy, 1986.

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15. Robert Levine: nuove regole per la ricerca

Un medico ricercatore sul fronte dell’etica

La facoltà di medicina della Yale University, a New Haven, nel Connecticut, è un modello tipico della medicina americana già nella sua architettura. Severi edifici in mattone rosso, di stile neogotico e neogeorgiano, come si conviene a una delle più antiche sedi di insegnamento universitario della Nuova Inghilterra, da un lato; modernissime costruzioni, dedicate alla scienza supertecnologica, dall’altro; come quello appena inaugurato, sede dell’istituto di medicina molecolare, sei piani di vetro e cemento.

Yale è una tappa obbligata nel viaggio di ricerca dei pionieri della bioetica, perché a partire di qui si è svolto uno dei più serrati confronti con i problemi etici della ricerca clinica. Attraverso Phelps Gate si entra nell’Old Campus. Questo è organizzato in 12 college, ognuno con proprie stanze, biblioteca, uffici amministrativi e sale da pranzo. La quiete dei cortili ombrosi e le pareti coperte d’edera evocano un’istituzione universitaria saldamente piantata nella tradizione.

L’appuntamento è con Robert Levine. Un ufficio non appariscente nel sottosuolo di uno degli edifici del nucleo storico. Una modestia che potrebbe facilmente trarre in inganno, facendo dimenticare che migliaia di persone, in tutto il grande spazio culturale della scienza biomedica americana, sono state guidate dalla sua mano nei meandri della ricerca.

Il suo corposo manuale ― Ethics and regulations of clinical research ― è un punto di riferimento obbligato per tutti i membri dei comitati di etica che sovrintendono alla ricerca clinica, meglio noti attraverso la sigla Irb. La sigla sta per Institutional Review Board: sono gli organismi che esprimono i pareri sulla conformità delle ricerche programmate ― e finanziate con il pubblico denaro! ― con le regole che tutelano i cittadini dalla possibilità di abuso e sfruttamento.

In esergo alla seconda edizione del suo manuale, apparsa nel 1986,

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Levine ha messo la regola stabilita da Guglielmo Occam: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Gli Irb devono essere risultati, se misurati con questa antica norma di saggezza, di primaria necessità: si sono moltiplicati, infatti, a migliaia nel breve volgere di un decennio. Tanto numerose sono le persone che operano nell’ambito degli Irb, che a cura dello Hastings Center viene anche pubblicata una rivista specifica dedicata ai comitati che regolano la ricerca fatta con soggetti umani: IRB: A Review of human subjects research. Superfluo dire che Levine è direttore del bimensile, fin dalla sua fondazione nel 1978. La rivista ha ha raggiunto una tiratura di 7000 copie: una cifra indicativa del numero elevato di persone che si occupano professionalmente dell’etica applicata alla ricerca.

L’interesse di Levine per l’etica della ricerca clinica risale agli inizi degli anni ’70. Medico specializzato in medicina interna, i malati li vedeva dal punto di vista della ricerca, piuttosto che da quello della cura. La ricerca clinica è quella rivolta ad accrescere le conoscenze in quelle scienze che nelle facoltà mediche sono tradizionalmente considerate di base: biochimica, fisiologia, patologia, farmacologia, epidemiologia. A Yale Levine dirigeva dal 1966 la sezione di farmacologia biochimica. Era anche direttore della rivista Clinical Research, rivista ufficiale della Associazione americana per la ricerca clinica.

Fuochi incrociati sulla ricerca clinica

All’inizio degli anni ’70 la ricerca si trovò nell’occhio del ciclone di un animato dibattito pubblico. La ricerca clinica, infatti, usava soggetti umani, e ― a quanto si diceva ― li usava molto disinvoltamente. La critica veniva dall’interno del corpo medico. Nel 1966 era apparso nel New England Journal of Medicine un articolo, a firma di Henry Beecher, che spigolava dalla letteratura medica quasi una ventina di casi nei quali dei fondamentali diritti umani sembravano violati. Naturalmente non tutti i medici e ricercatori accettarono di buon animo che qualcuno assumesse questo ruolo censorio. Cominciava a circolare un’espressione ambivalente, con significato positivo o negativo a seconda di chi la pronunciava: il medico come blow whistler, cioè come l’arbitro che fischia in campo l’azione fallosa.

Alcuni dei casi portati allora all’attenzione del grande pubblico sono diventati, nel frattempo, dei luoghi classici della bioetica. Come il progetto di ricerca condotto a Tuskegee, nell’Alabama, dove il Public Health Service federale aveva finanziato uno studio per seguire gli effetti della sifilide non trattata in un gruppo di circa 400 contadini di

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colore. Iniziato negli anni ’30, il progetto era proseguito nei decenni seguenti, per finire solo nel 1972, quando un giornale creò lo scandalo. Perché i soggetti su cui si faceva la ricerca non erano stati trattati neppure quando, negli anni ’50, sì era scoperta l’efficacia della penicillina: se si fosse usato il farmaco, sarebbero stati compromessi i risultati della ricerca! Più che di soggetti sperimentali, bisognerebbe parlare di “oggetti”: nessuna informazione sulla malattia era stata loro fornita (si era detto loro che venivano periodicamente controllati per il loro “cattivo sangue”...).

Un’altra macchia nera nell’etica della ricerca porta il nome di Willowbrook, un istituto per bambini ritardati mentali a Staten Island, a sud della città di New York. Dalla metà degli anni ’50 fino ai primi anni ’70 un’équipe diretta dal dott. Saul Krugman, dell’università di New York, ha condotto uno studio sull’epatite, infettando sistematicamente con il virus gruppi di nuovi ragazzi ammessi nell’istituto.

Tuskegee e Willowbrook sono solo i due nomi più noti. Numerosi altri casi stavano emergendo; la fiducia dell’opinione pubblica nei ricercatori subiva duri colpi. I medici che facevano ricerca clinica si difendevano con varie motivazioni; ma se pratiche come queste potevano sembrar loro corrette, era giunto il momento di rendere esplicite le regole che reggevano la ricerca clinica. Questo lo sfondo su cui è nata la “Commissione nazionale per la protezione dei soggetti umani della ricerca biomedica e comportamentale”, creata dal Congresso americano.

La Commissione ha lavorato dal 1974 al 1978. Levine ne ha fatto parte, in condizioni privilegiate: non si è spostato a Washington, ha continuato a risiedere e a insegnare a New Haven, alla Yale University. Ma ha lavorato intensamente per la Commissione. Molte delle conclusioni a cui l’organismo è giunto sono tratte dai saggi scritti da Levine in quel periodo e sottoposte ai colleghi della Commissione per il dibattito.

La Commissione si è rivelata la mossa giusta del governo. Ha bloccato la spirale di accuse che rischiava di compromettere per sempre il rapporto tra i ricercatori e il pubblico: i primi accusati di calpestare i diritti umani, il secondo tutto chiuso in un atteggiamento rivendicativo (esigendo una medicina sempre più efficace, senza che nessuno si assumesse i pesi e i rischi della ricerca). Con i lavori della Commissione è cominciata, in chiave costruttiva, l’edificazione delle nuove regole per la ricerca clinica.

La Commissione ha lavorato intorno a quattro nodi principali: i confini tra la ricerca biomedica e la pratica della medicina generalmente accettata; la valutazione del criterio dei rischi-benefici nel determinare quanto sia corretta la ricerca che include dei soggetti umani; l’elaborazione di linee-guida appropriate per la selezione dei soggetti sperimentali

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che partecipano a tali ricerche; la natura e la definizione del “consenso informato” nei vari ambiti della ricerca.

Il risultato del lavoro, che occupò ben quattro anni, si è condensato in un documento:Ethics principles and guidelines for the protection of human subjects of research, noto anche comeRapporto Belmont (dal Belmont Conference Center della Smithsonian Institution, dove ebbe luogo nel febbraio 1976 una conferenza che delineò le linee fondamentali del rapporto). Il rapporto Belmont è diventato un punto di riferimento obbligato per l’etica della ricerca. Ha divulgato il riferimento ai tre principi standard della bioetica, che svolgono il ruolo di criteri per valutare la qualità etica della ricerca: rispetto della autonomia della persona, beneficità e giustizia. Ha introdotto la richiesta del “consenso informato”, come condizione per la liceità. Ha promosso la creazione di strutture per il controllo ― gli Institutional Review Boards ― e la promozione di una nuova cultura della ricerca clinica. I ricercatori clinici non possono più decidere unilateralmente sull’etica delle loro ricerche, ma devono risponderne formalmente ai colleghi che operano con l’obbligo di attenersi alle stesse linee-guida. La riluttanza a fidarsi dei ricercatori e della loro volontà di proteggere il benessere dei soggetti sperimentali ha prodotto non solo nuove regole per la ricerca, ma nuove regole per la medicina nel suo insieme.

In altri paesi sono state create commissioni governative analoghe alla Commissione Nazionale americana per affrontare problemi legati al progresso della medicina e della biologia. Molte hanno fatto l’esperienza deprimente di vedere il proprio lavoro finire in qualche cassetto dell’apparato burocratico e rimanere lettera morta. Per la Commissione Nazionale il rischio è piuttosto quello opposto: ha avuto molto successo. Forse troppo... Suona proprio paradossale sentir formular critiche da Robert Levine, che ci aspetteremmo fiero e compiaciuto della solida costruzione dell’etica della ricerca clinica, di cui a tutti gli effetti può essere considerato un padre fondatore.

Il modello americano rimesso in discussione

La prima ragione delle riserve formulate da Levine sta nel predominio che l’etica della ricerca clinica formulata in America ha acquistato in tutto il mondo. Invece di rallegrarsene, Levine è consapevole del lato d’ombra di questo successo: quasi come se condividesse le possibili accuse di imperialismo etico rivolte al modello americano, che cerca di imporsi a spese di altri possibili approcci. Quando il Cioms (Council for International Organizations of Medical Sciences, che ha sede a

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Ginevra) gli ha chiesto di elaborare una definizione di consenso informato che fosse applicabile a diversi paesi e culture, Levine ha messo in discussione la validità universale del modello occidentale.

La nostra concezione di consenso informato dipende da come noi pensiamo la persona, affermando che ogni individuo ha lo stesso valore, dignità e diritto a uguale rispetto e considerazione. La stessa visione dei diritti umani come universalmente validi ― sui quali, in ultima analisi, si fonda il diritto all’autodeterminazione e la dottrina del consenso informato ― va nella stessa direzione. Questa impostazione porta a imporre uno stesso standard etico nel modo di condurre le ricerche: in America come in Africa e in Asia, nei paesi sviluppati così come in quelli in via di sviluppo.

Il problema non è astrattamente teorico, ma pratico. La ricerca deborda i confini nazionali: basti pensare alla ricerca resa oggi necessaria dall’epidemia di Aids. La Cioms, insieme all’Organizzazione mondiale della sanità, si è sentita obbligata a promulgare delle direttive che guidino, a livello internazionale, la sperimentazione di vaccini e farmaci. La prospettiva universalista ha indiscutibili punti a suo favore: presupponendo dei diritti umani ovunque validi, difendiamo le persone da possibili sfruttamenti (da parte, per esempio, di una multinazionale del farmaco, che potrebbe essere tentata di trarre vantaggio da popolazioni prive di tutela). Ma non possiamo ignorare la violenza insita nel ricondurre tutti a un modello unico di rapporto tra la persona e la società. A un’attenta analisi critica quel modello si rivela essere, in fondo, quello del più radicale individualismo americano.

Ci sono culture in cui tradizionalmente le persone non dominanti ― come le mogli ― non dànno il consenso; altre in cui prevale il consenso di gruppo; alcune popolazioni illetterate o senza alcuna forma di istruzione non presentano i presupposti per ottenere il consenso come è inteso dal modello occidentale. Escludere tutti costoro dalla ricerca ― che non comporta solo pesi, ma anche vantaggi ― è una questione di giustizia o si presenta come una raffinata prevaricazione? Bisognerebbe almeno prevedere delle modalità di consenso informato che si distaccano dallo standard internazionale, senza che per questo debbano venir sospettate di minore qualità etica.

L’etica della ricerca non è l’etica medica

Ma c’è una ragione ben più grave per cui Robert Levine nutre riserve nei confronti del grande successo che ha arriso all’etica della ricerca clinica: per un infelice malinteso, l’etica della ricerca si è sempre sovrapposta all’etica clinica tout court.

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Levine muove da un’osservazione generale: il rapporto tra medico e paziente si sta sempre più deteriorando. Fino a un passato non molto lontano, il dottore si limitava a tenere la mano al bambino che moriva di difterite: non poteva fare niente. Ma tutti erano contenti del dottore. Oggi al bambino gravemente malato vengono somministrati antibiotici potenti ed efficacissimi; dopo qualche giorno è di nuovo a giocare con gli altri bambini in cortile. Eppure si è scontenti del dottore. Che cosa è successo in questo rapporto?

Senza fare dell’autolesionismo, Levine arriva tuttavia a identificare un motivo del degrado proprio nel grande successo di immagine dell’etica della ricerca clinica. Se ne è reso conto quando si è accorto che il suo manuale sull’etica finalizzata alla regolazione della ricerca clinica veniva usato in alcune scuole di medicina per insegnare l’etica medica: come se le regole affermatesi per ottenere il consenso informato quando si tratta di sperimentare un farmaco potessero valere nei casi in cui il medico e il paziente devono prendere una di quelle decisioni, grandi o piccole, da cui dipendono la vita, la salute o il benessere del malato!

Le norme etiche che regolano la ricerca si possono iscrivere entro il movimento che, a partire dagli anni ’60, ha cercato di riequilibrare i rapporti di potere. Lo scienziato che usa le persone per condurre le sue ricerche ne era una chiara esemplificazione. Per delimitare quel potere il linguaggio dei diritti e dei doveri, adottato dall’etica, era appropriato: è il linguaggio giusto per regolare le procedure tra avversari. O quanto meno tra estranei.

L’etica che si sviluppa a partire da questa prospettiva tende a prescrivere doveri minimi e a considerare la persona come portatrice di diritti: a non essere danneggiato, a essere trattato con una misura di giustizia o di equità. Avere un diritto equivale per lo più alla facoltà di rivendicarlo contro qualcuno. Per questo è il linguaggio tipico di contesti conflittuali. Questo insieme di diritti e doveri che regolano i rapporti tra estranei si può sintetizzare, in forma icastica, nel “diritto a essere lasciato solo”.

Ma non è questo il genere di relazione che vogliamo quando i rapporti diventano intimi. Si può immaginare un rapporto di amicizia che cominci con la dichiarazione dei diritti negativi di libertà? Da un amico vogliamo essere trattati con giustizia, certo, ma vogliamo soprattutto essere considerati nella nostra unicità, come esseri speciali. Ed è anche quanto vogliamo dal medico, in quanto ricorriamo a lui per essere curati. Vogliamo che ci curi e si prenda cura di noi, che ci consideri con empatia, cioè mettendosi nei nostri panni, che stabilisca con noi un rapporto retto dalle regole che valgono tra gli intimi, non tra gli estranei.

Per questo tipo di rapporto l’analisi dei problemi che la bioetica ha

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elaborato per la ricerca è fuori posto. Anzi, è deformante. Inclina a dare grande rilievo a regole strette, mentre il contesto clinico domanda discernimento: ognuno va trattato come l’essere unico che è. Promuove una visione minimalista dell’etica, mentre nel rapporto di cura fare il più possibile non è una variabile supererogatoria che dipende dalla bontà del medico, ma la condizione indispensabile per fare buona medicina.

Le decisioni se accettare o rifiutare delle terapie hanno a che fare con la durata e con la qualità della vita del paziente. Domandano un tipo di ragionamento dove non si tratta semplicemente di applicare delle regole, ma di capire un contesto, il posto che l’individuo vi occupa, i legami familiari e comunitari che lo qualificano. Questo è il tipo di medico che vogliamo come medico personale. Non lo avremo mai, però, se l’etica a cui verrà formato sarà quella elaborata per la ricerca, destinata a difenderci da possibili abusi.

È per questo che Robert Levine, senza abbandonare l’etica della ricerca clinica, di cui è stato pioniere e in cui resta un’autorità somma, ha sviluppato di recente, per gli studenti di medicina di Yale, un corso che ha chiamato di “responsabilità professionale”: un corso di 40 ore, obbligatorio per tutti gli studenti del primo anno. A chi vuol fare della medicina la sua professione si propone di ricordare le esigenze, di ieri e di sempre, che nascono dal rapporto con il paziente. Essere un buon metfico non può limitarsi a far firmare al paziente un modulo di consenso informato.

Anche l’etica del medico ricercatore domanda di più che l’attenersi scrupolosamente al protocollo di ricerca. Levine ama ricordare che l’origine della parola “protocollo” risale alla pratica del mondo antico di avvolgere il rotolo di papiro con un primo foglio, il protokollon, appunto. Oltre a tenere insieme il papiro come rotolo compatto, questo foglio portava anche la data della manufattura e una dichiarazione autorevole circa la sua autenticità. L’uso linguistico che è prevalso nelle lingue moderne dipende in misura prevalentemente dal significato che la parola ha assunto nel francese, dove per “protocollo” si intendeva una formulazione dell’etichetta che guidava i capi di stato nelle relazione diplomatiche e nelle cerimonie ufficiali. Che cosa vuol dire fare una ricerca biomedica “secondo protocollo”? Robert Levine non ha dubbi: gli Institutional Review Boards devono ritrovare qualcosa che fa parte del significato originale della parola. In ciò che riguarda la ricerca che comprende gli esseri umani il protocollo viene in primo luogo ed ha lo scopo evidente di tenere le cose “incollate insieme”.

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Riferimenti bibliografici

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16. José Alberto Mainetti: simboli dell’antichità classica in America Latina

Miti per evocare i fantasmi collettivi

I membri della Camera dei deputati del Congresso nazionale argentino hanno avuto una seduta molto singolare il 18 novembre 1991. All’ordine del giorno era iscritta un’audizione sul tema “Bioetica e politica”. Il leader indiscusso delle humanidades médicas in Argentina, José Alberto Mainetti, aveva il compito di illustrare ai deputati la situazione sulla crisi d’identità della medicina contemporanea, perorando la necessità di promuovere la bioetica, intesa come disciplina normativa nell’ambito delle scienze biologiche.

Il suo approccio ai problemi di regolamentazione non è stato di quelli convenzionali. Non ha fatto, per esempio, l’inventario ormai stereotipato dei problemi sollevati dal progresso biomedico, suggerendo poi alla suprema assemblea legislativa del paese di procedere alla necessaria codificazione dei comportamenti. Ha dedicato invece la maggior parte dell’ora di tempo che aveva a disposizione a evocare tre grandi figure simboliche: Noè, Pigmalione e il dott. Knock. Più di un deputato deve essersi domandato quale artificio retorico permettesse di tenere insieme simboli biblici e miti dell’antichità classica, affiancando loro per di più un personaggio letterario. Soprattutto coloro che erano orientati a ritenere che la bioetica dovesse essere equiparata esclusivamente a un esercizio della ragione analitica e filosofica, devono essersi trovati spiazzati. Mainetti ha una spiccata propensione per il linguaggio dei simboli, perché attribuisce ad essi una maggiore capacità di catturare i fantasmi collettivi. La sua dissertazione nella più autorevole sede della repubblica Argentina ne evocava tre.

La crisi della vita minacciata dalla catastrofe ecologica, anzitutto. Nell’immaginario biblico ciò corrisponde al diluvio universale. L’arca di Noè è la risposta data dalla speranza. L’idea dell’arca è tanto poco anacronistica che in Arizona è stata costruita di recente una struttura

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chiusa che assomiglia a un’arca sperimentale ― una biosfera con un ecosistema artificiale ― entro la quale si potranno studiare gli squilibri propri di tutto il sistema ecologico naturale.

La bioetica comincia dalla crisi della vita a livello macrosociale. Per quanto importante sia la spinta alla riflessione bioetica che viene dai progressi della biologia e della medicina che hanno ripercussioni sulla più intima sfera di rapporto con la vita e la morte, il più grande problema a cui si trova confrontata l’umanità ha una portata molto più generale: è quello della sopravvivenza, dell’esaurimento delle risorse naturali, del deterioramento dell’habitat. La morale tradizionale, centrata sul rapporto delle persone con altri individui e con le società, deve svilupparsi in una morale che si rapporta all’ambiente naturale. Il tema ecologico è l’ingrediente fondamentale di una bioetica che voglia render ragione delle nuove responsabilità morali necessarie affinché la vita sulla terra possa proseguire.

Secondo il racconto biblico, il nuovo ordine dopo il diluvio è stato consacrato da un patto tra Dio e tutti i viventi, di cui l’arcobaleno è il simbolo: «l’alleanza eterna tra Dio e ogni anima che vive, ogni carne che è sulla terra» (Genesi 9, 16-17). Questo orizzonte, in cui la vita di tutti è il valore sacro da salvare, domanda di rimettere in discussione l’etica antropocentrica tradizionale, in cui l’uomo è il centro e la misura di tutto.

La seconda figura simbolica proposta per fissare con un’immagine il cambiamento che è necessario affrontare è quella di Pigmalione. Il tema attraversa tutta la cultura occidentale a partire da Ovidio, che nelle Metamorfosi ne ha fissato il racconto con dovizia di dettagli. Lo scultore che modella una statua femminile, di cui finisce per innamorarsi, impersona la vocazione dell’uomo a plasmare la propria immagine. Ai deputati del suo paese Mainetti ricordava che il desiderio di vincere la resistenza della materia ai progetti del soggetto e di superare le limitazioni biologiche dell’uomo oggi è diventato realtà. La “medicina del desiderio” permette di modificare la vita nei suoi eventi fondamentali, come la nascita, la morte e la procreazione.

Sono state create nuove forme di riproduzione, separando questa dalla sessualità. A partire dal momento in cui l’uovo è stato tolto dal suo nido ed è stato reso disponibile agli interventi umani su di esso, non è stato solo possibile fornire una risposta terapeutica al problema dell’infertilità in determinate circostanze patologiche, ma si è dato il via anche a una serie di processi che vanno dalla clonazione alla selezione del sesso per il nascituro, dalla ricerca sull’embrione alla creazione di embrioni multipli e il congelamento di essi per programmare le nascite. La medicina del desiderio non si limita ad essere curativa: vuol

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essere anche predittiva. Quando tra poco avremo a disposizione la mappa genetica, quale nuova anatomia, saremo in grado di predire quali malattie ognuno ha la probabilità di contrarre in ciascuna delle diverse tappe della vita.

Anche la morte è diventata campo di conquista del desiderio, dal momento che è possibile darle scacco, o almeno posporla. Oggi siamo giunti a parlare di “morte negoziata”. A tutto questo ampio ambito di dominio del desiderio umano sulla resistenza della materia Mainetti ― per non far dimenticare che è un professore che ha assiduamente frequentato la classicità ― attribuisce un’etichetta di suo conio: è la realizzazione della “volontà antropoplastica” di Pigmalione, ovvero l’aspirazione a plasmare l’uomo secondo il proprio progetto, oltre i tratti che gli sono propri per natura.

Il terzo simbolo proposto ai parlamentari argentini per inquadrare l’attualità della bioetica è stato quello del dottor Knock. Il personaggio, creato dalla fantasia drammaturgica di Jules Romains, è il candidato ideale per evocare il processo di medicalizzazione che la nostra vita conosce in maniera crescente. Andato in scena per la prima volta nel 1923, Knock o il trionfo della medicina allunga la sua ombra su tutto il XX secolo. Come è noto, la commedia ci fa assistere alle iniziative dell’intraprendente dottore, il quale succede nella condotta di Saint Maurice al veterano dott. Parpalaid. In pochi mesi trasforma la magra clientela del predecessore, fatta di contadini arretrati e avari, renitenti a prendersi cura della salute, in una popolazione consumatrice di servizi medici, con un grande albergo-sanatorio come principale attrattiva e attività economica della regione.

La trasformazione si basa su un presupposto teorico, che costituisce il contenuto della tesi di laurea del dott. Knock: Sui pretesi stati di salute, con l’epigrafe attribuita a Claude Bernard: “I sani sono dei malati che si ignorano”. Compito del medico non è tanto quello di curare i malati che si dichiarano tali e ricorrono al suo aiuto, quanto di promuovere e diffondere, come una sacra crociata, l’ingresso della .medicina in ogni piega della vita quotidiana.

Alla fine della commedia il dott. Knock può mostrare con fierezza al collega una carta geografica della condotta, segnata da una serie di bandierine, presentandola come «la mappa della penetrazione medica: ogni punto rosso indica la presenza di un malato regolare». Il trionfo della medicina appare come il frutto di un’abile organizzazione, che prevede capacità manageriali, marketing e mobilitazione di istituzioni ausiliarie, quali l’industria farmaceutica e l’istruzione. Spiega Knock al maestro Bernard, cercando di convincerlo a prestare i suoi servigi alla causa della medicina: «Io posso curare senza di voi i miei malati. Ma la malattia,

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chi mi aiuterà a combatterla, a stanarla? Chi istruirà quella povera gente sui pericoli di ogni secondo che assediano il loro organismo?».

La medicina assume così il controllo sociale, come mai le era riuscito in passato. Salute e malattia sono diventati nella nostra cultura criteri di moralità, e la bioetica è diventata etica della vita medicalizzata. Tutti, come malati attuali o potenziali ― non dimentichiamo che, qualora prevalga il punto di vista del dott. Knock, il sano è solo un soggetto insufficientemente esplorato ― siamo soggetti al potere della medicina.

Dopo aver diffusamente presentato Noè, Pigmalione e il dott. Knock, il professor Mainetti deve aver avuto un attimo di esitazione nel continuare a mantenere gli onorevoli membri del Parlamento argentino sul piano dell’immaginario. Con una brusca rottura, dai miti e dalle figure letterarie virava verso la ragione analitica e filosofica, non senza tuttavia avere difeso l’importanza di molte intuizioni trasmesse dalla cultura generale per le decisioni che si riferiscono ai temi scottanti della bioetica. «C’è una rivoluzione in corso nell’etica medica ― concludeva Mainetti ―. Per 2500 anni la medicina non è cambiata dal punto di vista normativo. Oggi sta avvenendo un terremoto. Da vent’anni a questa parte si è realizzato un cambiamento straordinario nell’etica ippocratica o tradizionale. Non si tratta di un fenomeno puramente di moda o passeggero; obbliga ad assumere responsabilità che prima non avevamo. Si tratta di una nuova morale? Direi che, fondamentalmente, la nuova etica medica è la bioetica, divèrsa dall’etica medica tradizionale, tanto per la portata dei problemi che affronta, quanto per il modo stesso di intendere l’etica applicata alla medicina».

Una fondazione sotto il segno del centauro

L’accostamento tra invenzioni tecnologiche e creazioni letterarie è una costante nel pensiero di José Alberto Mainetti. L’effetto-sorpresa di questa procedura è sempre assicurato. Se ne ha una anticipazione andando a visitare il Centro Oncologico de Excelencia, a Gonnet, alla periferia di La Piata, dove è localizzata la Fondazione Mainetti. Ci si trova di fronte una costruzione dalle linee architettoniche modernissime, concepita per ospitare un centro di cura e di ricerca in ambito oncologico al passo con la medicina più avanzata a livello mondiale. Ma a dare il benvenuto non è il simbolo della tecnica: sul prato di fronte all’ingresso si erge la statua in bronzo di un enorme centauro, determinato a collegare l’ultramoderno tecnologico con l’arcaico. Lo spirito di quel santuario della ricerca bio-medica è catturato dal simbolo leggendario

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dell’essere dalla duplice natura meglio di quanto potrebbe farlo qualsiasi programma formulato verbalmente. Il centauro si presta a rappresentare una istituzione che vuol essere allo stesso tempo una scuola chirurgica applicata all’oncologica, al passo con la scienza più rigorosa, e un ponte tra cultura scientifica e humanidades médicas.

Il centauro della Fondazione Mainetti è anzitutto una storia di famiglia. José Alberto è figlio di un illustre medico, il chirurgo José Maria Mainetti, benemerito della medicina platense. Il rampollo ha seguito solo in parte le orme del padre. Agli studi di medicina ha abbinato quelli di filosofia. Dopo la formazione accademica, ha iniziato, secondo il modello classico della vita intellettuale, la seconda tappa: gli anni della peregrinazione (i Wanderjahre dei romantici tedeschi).

Un lungo percorso l’ha portato ad Heidelberg ― alla scuola dello storico della medicina Heinrich Schipperges ―, a Parigi ― presso il filosofo Paul Ricoeur e l’epistemologo della medicina Georges Canguilhem ― e a Madrid, dove l’affinità elettiva non poteva non spingerlo nell’area di influenza di Pedro Laín Entralgo, il venerato patriarca della storia della medicina e dell’antropologia medica di tutta l’area linguistica spagnola. Si sedimentava così una vasta rete di conoscenze di natura filosofica, storica e antropologica, che ritroviamo nelle opere successive dedicate alla corporeità (Realidad, fenómeno y misterio del cuerpo humano, 1972) alla morte (La muerte en medicina, 1978) alla malattia (Homo infirmus, 1989).

Se ogni vita si costruisce intimamente sopra il disegno di un mito, quella di José Alberto Mainetti aveva trovato il suo modello nel centauro Chirone. Quando nel 1970 esce il primo numero di una rivista quadrimestrale creata per dar voce al suo progetto intellettuale, non poteva che chiamarsi Quirón. Ininterrottamente ― con l’unico cambiamento nella direzione della rivista, assunta nel 1990 da Juan Carlos Sechi ― da ormai già quasi cinque lustri la pubblicazione continua a svolgere il suo compito nutrendosi dell’immagine e dello spirito centauresco. Per chi fosse interessato alle tracce lasciate dal mito in più di due millenni di cultura occidentale, le annate della rivista offrono un prezioso materiale. Ogni fascicolo contiene delle curiose “quironticas”: note sulla iconografia del centauro lungo i secoli ― quadri, sculture, miniature da manoscritti ―, poesie, trattazioni letterarie dedicate alla figura che simbolizza lo spirito della medicina.

Il centauro è la creatura più armoniosa della zoologia fantastica, e allo stesso tempo l’immagine stessa dell’ambiguità. È difficile sottrarsi alla bellezza biforme di questi mostri ― nei quali il fascinosum e il tremendum si uniscono, come avviene in ogni fenomeno che sfiora il sacro ― che hanno galoppato lungo la storia, dall’Ellade fino a noi.

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Conducono una vita tragica; sono ebbri, lubrichi e bellicosi, ma anche saggi, melanconici e benevoli. Quali chimere ontologiche tra la terra degli animali e il cielo degli dèi, sono un simbolo trasparente della condizione umana.

Tra la famiglia dei centauri spicca Chirone, il centauro esemplare. «Padre y maestro excelso! Eres la fuente sana / de la verdad que busca la triste raza humana», lo saluta il poeta Rubén Darío, nel Coloquio de los Centauros. È il pedagogo per antonomasia. Precettore degli eroi ellenici ― Eracle, Achille e Asclepio sono stati suoi discepoli ― è il medico-sciamano esperto che dà corpo alla forza benevola, a servizio delle buone cause. Cura con il coltello, cori le erbe e con la parola; trasmette la conoscenza dell’arte.

La sua morte stessa diventa paradigma di virtù: ferito a morte accidentalmente da una freccia di Eracle, Chirone offre l’immortalità ― di cui gode il triste privilegio ― a Prometeo, per poter infine conoscere il riposo. Nel centauro come guaritore mortalmente ferito, ma che lascia la capacità terapeutica come testamento, la condensazione simbolica diventa una filigrana così trasparente che vi si leggono senza difficoltà tutte le grandezze e le miserie della medicina moderna, che la bioetica si è applicata a esplicitare con discorso metodico.

Chirone, la figura più contraddittoria di tutta la mitologia classica ― di natura animale e apollinea insieme; sofferente di una ferita mortale, malgrado sia una divinità; abile terapeuta, ma impotente di fronte alla ferita essenziale che colpisce l’uomo ― era il candidato ideale a rappresentare la natura duale della “Fondazione Mainetti per il progresso della medicina”. Creata nel 1969, la Fondazione aveva l’ambizione di confrontarsi a fondo con la duplice natura della medicina: scientifica e umanistica, biologica e spirituale. La bioetica, sfida chimerica del nostro tempo, creatura biforme tanto improbabile quanto il centauro stesso, non aveva ancora avuto il suo nome, ma la sua causa era nell’aria da tempo. Chirone portava in groppa quel bisogno di rinnovamento profondo della medicina a cui la Fondazione Mainetti intendeva dedicarsi.

Basta sfogliare le annate di Quirón per ricostruire tutto lo sviluppo del progetto personale di José Alberto Mainetti: contribuire alla rinascita dell’umanesimo nella medicina post-moderna. Il suo cammino risulta, retrospettivamente, parallelo al grande rivolgimento che stava avvenendo in quegli stessi anni nella parte settentrionale del continente americano. All’inizio c’era stato il bisogno di correggere quel modello bio-medico che considera la medicina come una semplice scienza della natura, impostosi a partire dalla riforma degli studi medici proposta dal pedagogista Abraham Flexner. Questi nel 1910 con suo libro Medical education in United States and Canadaaveva portato un attacco a

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fondo alla inadeguatezza delle scuole mediche. Proponeva un modello bio-medico come alternativa al modello clinico (alla formazione clinical type contrapponeva quella university type, con un forte accento sulle scienze di base). Ormai i progressi della medicina scientifica sarebbero usciti dai laboratori sperimentali. La riforma di Flexner della formazione medica contribuì in modo decisivo a portare la medicina americana a una posizione guida nel mondo.

La rivoluzione avvenuta negli anni ’70 riequilibrava questo modello mediante una forte valorizzazione della componente umanistica. Il Congresso degli Stati Uniti creava nel 1965 il Fondo nazionale per le humanities e le arti, dichiarando: «Un’alta civiltà non deve limitare i suoi sforzi solo alla scienza e alla tecnologia ma deve valorizzare e dare il pieno sostegno alle altre grandi branche delle attività di ricerca e di cultura, per avere una migliore comprensione del passato, una migliore analisi del presente e una migliore visione del futuro. La democrazia richiede saggezza e capacità immaginativa nei suoi cittadini; deve perciò promuovere e sostenere una forma di educazione rivolta a far sì che l’uomo domini la tecnologia, e non ne diventi uno schiavo acritico».

Una rivoluzione pedagogica analoga a quella avvenuta nella prima metà del secolo in nome di Flexner ebbe luogo negli anni ’70 grazie all'introduzione delle medical humanities nella formazione medica. Le antenne di José Alberto Mainetti non potevano non captare il cambiamento di paradigma in corso, che riportava la medicina a onorare la sua originaria vocazione espressa dal Giano bifronte: aperta alle scienze della natura, ma fedele all’esplorazione umanistica del suo oggetto.

Le medical humanities statunitensi diventavano per Mainetti le humanidades médicas. Il calco linguistico non tragga in inganno: non si trattava di una scopiazzatura. Le discipline proposte a correttivo dell’“obesità scientifica” della medicina affondavano le radici nella più classica delle tradizioni umanistiche. La filosofia della medicina che fiorisce a La Piata ha un impianto più teoretico e speculativo rispetto a quello analitico, che prevale nel mondo anglosassone. Mainetti si è appoggiato più alla tradizione europea che alla filosofia della scienza statunitense. Le suehumanidades médicas si sono proposte di seguire ogni pista aperta della crisi d’identità della medicina: rispetto al suo oggetto (antropologia), al suo metodo (epistemologia) e al suo fine (etica medica).

La delicata trama di cultura umanistica che Mainetti, instancabilmente, aveva continuato a tessere intorno alla medicina non disdegnava i supporti istituzionali. Così nel 1972 ha creato l’istituto de Humanidades Médicas, nell’ambito del quale ha iniziato la terza fase della

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sua vita intellettuale: dopo gli anni di formazione e di peregrinazione, gli anni di magistero. L’Istituto si è fatto promotore di riunioni nazionali e internazionali, tra cui tre importanti Colloqui e, a partire dal 1985, “Giornate” annuali di humanidades médicas. Nel 1980 era stato formalizzato l’ingresso nella facoltà di Scienze mediche nell’università di La Plata mediante la creazione di una cattedra di humanidades médicas, nel ciclo di studi post-laurea. L’obiettivo era la formazione di una scuola professionale di umanisti medici, impegnati in un intenso programma di ricerca e di insegnamento.

La saga dell’eccellenza

Il 15 agosto 1990 nel Centro Oncologico de Excelencia aveva luogo una cerimonia di alto rilievo ufficiale. La ricorrenza di ventun’anni di vita della “Fondazione Mainetti per il progresso della medicina” veniva festeggiata con un cambio di guardia al vertice: la presidenza passava di mano; dal fondatore, José Maria, al figlio, José Alberto. Il cammino edipico di quest’ultimo era giusto così a un punto di svolta. Il figlio umanista succedeva all’illustre chirurgo; il comune intento di promuovere il “progresso della medicina” proseguiva la sua parabola, ma doveva registrare una di quelle improvvise inversioni nel rapporto “figura”-”sfondo” che la psicologia della Gestalt ci ha insegnato a riconoscere nelle figure ambigue.

Nei vent’anni di vita la Fondazione si era sviluppata in armonia con il sistema di valori che aveva presieduto alla sua creazione. La cultura personale dell’energico padre fondatore recava l’impronta di una formazione romantica e di uno stile imprenditoriale e razionalista, esigente con gli altri e ancor più con se stesso, alla ricerca della perfezione professionale e morale come obiettivo del successo. Il progetto umanista di José Alberto costituiva lo sfondo della figura. Entrando nella maturità, la Fondazione consacrava, mediante la presidenza attribuita a José Alberto, la fusione organica dei due progetti originari: quello medico-chirurgico e quello che attingeva linfa dalle scienze umane.

Il filone oncologico non veniva certo rinnegato; dal 1986 la Fondazione aveva collocato la sua sede nel Centro Oncologico de Excelencia, rendendo così visibile l’aspirazione a creare un ideale laboratorio sperimentale che puntasse all’eccellenza in medicina in tutte le dimensioni. Con il cambio al vertice, tuttavia, le humanidades médicas assumevano il rilievo di una “figura” dominante, sullo sfondo costituito dall’oncologia.

Fin dall’origine il progetto mirava a ricucire scienza medica e humanitas. Chirone, il centauro dalla duplice natura, lo aveva espresso

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col linguaggio del simbolo. Ma lo sviluppo pieno del progetto aveva bisogno di tempo. Ancora per tutto il corso degli anni ’80 le preoccupazioni paterne avevano avuto la priorità. La promozione dell’oncologia scientifica aveva fatto un vero e proprio balzo in avanti con la costituzione del Centro Oncologico de Excelencia, opera magna del dottor José Maria Mainetti: scuola di oncologia e istituto assistenziale di alta specialità della provincia di Buenos Aires, istituzione senza uguali in tutta l’estensione del paese e punta avanzata dell’oncologia nell’insieme dell’America Latina. Asclepio, dio della medicina, aveva avuto così un tempio a lui dedicato.

A cerniera degli anni ’90, assumendo la presidenza della Fondazione, José Alberto si avventurava per il cammino che possiamo collocare sotto la massima lapidaria di Goethe: «Guadagnati quello che hai ereditato dai padri, al fine di possederlo». A differenza dell’animale, che eredita solo per natura, l’uomo eredita anche culturalmente, cioè con il proprio lavoro e con sforzo. Per José Alberto gli anni ’90 si sono aperti con il compito di conquistare l’eccellenza ricevuta.

Ormai la bioetica aveva acquistato internazionalmente una consacrazione che la rendeva una etichetta spendibile per presentare il progetto cresciuto all’ombra di Chirone. Nel Centro Oncologico prendeva sede, successivamente, un Centro Nacional de Referencia Bioética, con il compito di promuovere la ricerca, la formazione e la consulenza nei problemi morali posti dal progresso della medicina, incluse le raccomandazioni ai poteri pubblici in tema di normative bioetiche. Il centro si è fatto promotore, a sua volta, di una Scuola Latino-americana di Bioetica, finalizzata a porre rimedio allo scarso sviluppo in tutta l’area del Sud America di programmi di ricerca, di insegnamento e soprattutto di promozione di politiche della salute ispirate ai valori difesi dal movimento internazionale della bioetica. La scuola ha preso inizio nel 1990 con un programma triennale. Il progetto ambizioso è quello di formare i leader che promuovano lo sviluppo della disciplina nei rispettivi paesi di origine.

A questo punto dell’evoluzione bisogna riconoscere compiuta la trasformazione della bioetica in movimento pubblico. Quello che l’umanesimo medico e la filosofia della medicina avevano formulato a livello accademico ha acquistato la rilevanza di un fenomeno socio-culturale, che richiede rilevanti innovazioni nella pratica della medicina. Anche nei paesi dell’area latino-americana non si possono più ignorare le novità che la bioetica ha introdotto nel nord dello stesso continente: l’introduzione del soggetto morale in medicina (ovvero, il paziente come agente razionale e libero, con diritto di sapere e di decidere), una nuova valutazione della vita umana, che porti a misurare le scelte col

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criterio di qualità della vita, e il riconoscimento del diritto alla salute come bene sociale primario.

La bioetica promossa da Mainetti nell’area latino-americana, a partire da La Piata, non è completamente omologabile alla disciplina che ormai si è imposta a ogni latitudine. La sua bioetica continua a conservare il sapore delle humanidades médicas che l’hanno fatta fermentare. Più che attraverso qualsiasi teorizzazione, la specificità può essere colta da un aneddoto che José Alberto ama raccontare. Riguarda un episodio degli ultimi giorni della vita di Kant, riportato dai suoi biografi. Il vecchio filosofo, tanto infermo che a fatica poteva reggersi in piedi, invitò gentilmente il suo medico a sedersi, sedendosi poi a sua volta con grande sforzo. Commentò quindi confidenzialmente al medico: «Das Gefühl der Humanität hat mich nicht verlassen» («Il sentimento dell’umanità non mi ha abbandonato»).

Nel sec. XVIII “umanità” equivaleva ancora a cortesia, buone maniere, comportamenti civili. Ma Kant ― suggerisce Mainetti ― andava sicuramente al di là di questo significato. Alludeva alla malattia ― infirmitas ― come esperienza privilegiata dell’ambigua condizione umana, perpetuamente oscillante tra miseria e grandezza, umiliazione e dignità. L’autonomia dell’uomo, che il filosofo illuminista ha vigorosamente proposto come fondamento dell’autocomprensione dell’uomo moderno e che, mediante la bioetica, ha affondato ai nostri giorni la tradizionale pratica paternalista della medicina, non deve spingersi fino a rinnegare la “humanitas” difesa dall’umanesimo medico. L’uomo infermo continua ad aver bisogno della compassione e del rispetto che si devono alla sua fragilità.

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17. Jean-François Malherbe: un filosofo tra i medici

Dalla filosofia della scienza alla bioetica

Il “logo” del Centro di studi bioetici dell’università cattolica di Lovanio esprime a chiare lettere il suo programma. Ha adottato la silhouette della celebre scultura di Rodin, nota come “Il pensatore”: un uomo che siede raccolto in se stesso, un gomito appoggiato sul ginocchio, il mento sul pugno chiuso, sprofondato nella riflessione. Un programma audace, quasi provocatorio, se si considera che il Centro di bioetica appartiene a una facoltà di medicina. Non è nella posa del pensatore che siamo soliti immaginare i medici. La medicina evoca piuttosto maniche rimboccate, mani in pasta, interventi rapidi, lontani dalle lunghe deliberazioni. Chi può in medicina ― soprattutto nella medicina di oggi ― permettersi il lusso di fermarsi a riflettere?

Il Centro di studi bioetici, situato a Woluwe, nella periferia di Bruxelles, costituisce un’oasi all’interno del complesso universitario. Dalle finestre si vedono incombere gli edifici imponenti del policlinico annesso alla facoltà; tutto attorno è un cantiere senza fine: crescono edifici per le varie scuole mediche e infermieristiche, le abitazioni per gli studenti, gli uffici amministrativi. Raccolto in se stesso come “Il pensatore”, il Centro continua a proporre un modello utopistico di medicina che sappia coniugare azione e riflessione, modernità e tradizione.

Lo dirige Jean-François Malherbe. Ne è fiero come di una sua creatura: quasi fosse una estensione della sua generosa paternità, che si è già espressa in cinque figli. Lo ha voluto e ha saputo mobilitare le risorse per renderlo possibile. Costituito nel 1985, è diventato in breve tempo una istituzione nota in Belgio e anche all’estero. Con la sua mezza dozzina di ricercatori, la biblioteca specializzata, il centro di documentazione computerizzato, è una risorsa tra le più solide per chi in Europa si occupa di bioetica.

Alla bioetica Malherbe è giunto attraverso la filosofia; più precisamente,

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la filosofia della scienza. Fin dai suoi studi filosofici è entrato nell’area di influenza intellettuale di Jean Ladrière. Dopo una tesi di laurea sul positivismo logico di Karl Popper, è stato per cinque anni l’assistente di Ladrière. L’etica doveva incontrarla cercando un’altra cosa (mediante quel processo creativo nella ricerca che gli anglosassoni chiamano “serendipity”: dal nome dei tre principi di Serendip, immortalati in una novella di Horace Walpole, ai quali viene attribuita la propensione a «scoprire, per caso e per sagacia, cose che non stavano ricercando»...).

A metà degli anni ’70, mentre stava facendo un secondo dottorato in teologia a Parigi, Malherbe partecipò a una ricerca condotta all’istituto Pasteur. Vi prese parte come filosofo della scienza, più precisamente come metodologo. Teneva il diario scientifico di una ricerca sui meccanismi che presiedono alla differenziazione cellulare negli stadi più precoci.

Il problema biologico in esame era quello di comprendere perché le cellule di un embrione, quando si riproducono, si differenziano, dando origine a diversi tipi di tessuti. All’inizio della moltiplicazione cellulare tutte le cellule figlie sono uguali alla cellula madre; dopo un certo punto, non si assomigliano più: diventano endoderma, ectoderma, placenta, ecc. Mentre gli scienziati erano occupati a capire il funzionamento biologico della differenziazione, il giovane filosofo della scienza voleva verificare, osservando degli scienziati al lavoro, alcune questioni metodologiche dell’epistemologia di Karl Popper. È venuto così a imbattersi in questioni etiche, che si rivelarono ben presto per lui più interessanti di quelle epistemologiche.

I ricercatori del laboratorio, che era diretto all’epoca da François Jacob, mostravano una forte resistenza a lavorare su cellule umane. Preferivano lavorare su teratocarcinomi di pollo, piuttosto che su cellule dell’uomo. Le ragioni della scelta non erano di ordine metodologico: per gli interessi della ricerca la natura delle cellule era indifferente. Il filosofo della scienza imparava che ci sono anche ragioni di ordine etico, e che allo scienziato possono apparire vincolanti come, e forse più, di una corretta metodologia scientifica.

L’etica della ricerca, l’etica della biologia, la bioetica: i termini erano in sospensione nella cultura dell’epoca. A Malherbe giunse notizia che alla Georgetown University, a Washington, era stato creato un istituto per lo studio di queste tematiche. Nel 1979 varcava l’Atlantico per andare a rendersene conto di persona. Visitò anche altri due o tre centri, tra i quali il Centro di ricerca clinica a Montréal, diretto da David Roy. Il suo viaggio di studio era una versione ridotta, ma essenziale, del “grand tour” bioetico che ha portato numerosi studiosi europei

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in contatto diretto con i centri pionieristici americani e canadesi. Ne è tornato con la ferma convinzione che fosse necessario dar vita a qualche cosa del genere anche in Belgio. All’incrocio delle culture latine e anglo-sassoni, il Belgio aveva una specie di vocazione naturale a diventare un moltiplicatore culturale del movimento bioetico.

Studenti di medicina incontrano la filosofia

Nel 1982 Malherbe veniva nominato professore di filosofia della medicina nella facoltà di medicina dell’università Cattolica di Lovanio. Il Belgio ha una situazione particolare per l’insegnamento della filosofia. La disciplina non è prevista nell’ordinamento della scuola secondaria, mentre è obbligatoria per legge in tutti i primi cicli universitari. Così gli studenti di ingegneria, di scienze naturali o di architettura si trovano nel curriculum un corso di filosofia, accanto alle materie tecniche della loro professione. Per lo studente di medicina, sarà quindi un corso di filosofia della medicina.

Oltre a questo motivo istituzionale, l’università di Lovanio aveva una ragione propria per caldeggiare l’insegnamento della filosofia ai medici. A seguito del contrasto insanabile tra fiamminghi e valloni, l’antica università Cattolica di Lovanio aveva dovuto sdoppiarsi e traslocare. La parte francofona aveva lasciato la storica città di Leuven, situata in territorio fiammingo, e si era creata una sede ex novo: Louvain-la-Neuve, costruita di sana pianta in aperta campagna. La facoltà di medicina, invece, era emigrata a Louvain-en-Woluwe, dove è stato costruito il policlinico. Una trentina di chilometri separano i due campus. Più che la distanza geografica, pesava quella culturale: i medici erano completamente isolati dal contesto umanista, che avevano molto apprezzato nell’antica Leuven. L’insegnamento della filosofia doveva servire a rendere meno profondo il fossato tra le due culture.

In quanto titolare della cattedra di filosofia della medicina, Malherbe non aveva un impegno specifico a dare al suo insegnamento un taglio etico. La richiesta era piuttosto di proporre una riflessione approfondita sull’essere umano, così come i grandi filosofi l’hanno sempre elaborata. E una riflessione che fosse in armonia con il carattere confessionale dell’università, che è posta sotto il diretto controllo della chiesa cattolica. Il dottorato in teologia qualificava Malherbe a quell’insegnamento, che in passato era stato solitamente tenuto da religiosi.

L’inserimento di un filosofo in una facoltà di medicina restava, tuttavia, una scommessa. Presentandolo al consiglio di facoltà, il preside aveva concluso con una frecciatina: si chiedeva come avrebbe mai fatto

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un filosofo a entrare in una facoltà di medicina... Nella sua replica, Malherbe raccoglieva la provocazione. Si disse tranquillo sull’esito dell’integrazione, perché i migliori tra i medici e i migliori tra i filosofi hanno sempre avuto qualcosa in comune: l’epicureismo! Era qualcosa di più di un’abileboutade (che pur gli è valsa ― ricorda ancora Malherbe ― decine di inviti a cena da parte dei colleghi della facoltà...!): era l’indicazione che il suo insegnamento della filosofia avrebbe seguito il percorso della riflessione sulla “buona vita”, vale a dire l’etica.

L’etica si imponeva anche per ragioni pedagogiche: gli studenti di 18-20 anni, sprofondati negli studi pre-clinici, offrivano poche superfici di impatto, che non fossero quelle che passavano per le questioni etiche. E l’etica era nell’aria, come tema obbligato per la medicina e la biologia dell’èra tecnologica. Non è vero ― come insinuano alcuni cinici ― che la tecnologia sia stata inventata per dar lavoro ai filosofi... La tecnologia, che potenzia la portata dell’intervento medico, fa sorgere molti problemi morali autentici. Avviare un dialogo su questi con gli studenti di medicina resta un’impresa accessibile, mentre è arduo impegnarli in un confronto serrato con il pensiero di Kant, di Nietzsche o di Heidegger. E ancor più con quello di Aristotele e di Tommaso d’Aquino.

Tuttavia la facilità della via intrapresa da Malherbe è solo apparente. La bioetica che egli propone è pur sempre una esigente filosofia della medicina. L’impianto è quello di Jean Ladrière, il filosofo che Malherbe ha scelto come principale maître à penser. E nasce dalla consapevolezza che è compito della filosofia richiamare la scienza ai limiti inerenti alla specificità del pensiero scientifico: la ragione scientifica è una modalità derivata dalla ragione filosofica. Soltanto che il compito di discemere il valore e i limiti dell’impresa tecnoscientifica contemporanea non si limita alla epistemologia: oggi si avverte il bisogno di includere anche l’etica e la politica.

Il pensiero filosofico tradizionale resta per Malherbe un punto di riferimento solido e attendibile. Esso sorregge la sua riflessione teorica più elaborata: il volume Per un’etica della medicina. E non solo perché ― con un notevole tour de force intellettuale ― Malherbe riesce a riportare gli interrogativi sulla liceità di certi interventi medici sull’uomo entro il quadro delle quattro causalità di Aristotele: causa materiale, causa formale, causa finale e causa efficiente. Il vero motivo per cui la filosofia classica resta attuale è perché ha posto la domanda fondamentale che emerge in tutta la riflessione bioetica: «Che cosa l’uomo decide di essere?». All’etica della medicina Malherbe attribuisce il compito di riattualizzare la visione secolare dell’uomo come essere che si sviluppa

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entro un orizzonte di solidarietà, di libertà, di responsabilità.

In tutte le problematiche etiche legate al progresso biologico e alla pratica della medicina attuale la questione etica fondamentale viene ad essere quella del discernimento. Distinguere le condizioni nelle quali le tecniche contemporanee possono servire l’uomo dalle condizioni nelle quali rischiano di asservirlo: è uno dei “leimotiv” del pensiero di Malherbe.

Le formule a effetto non bastano. E tanto meno le formulette, malgrado che queste talvolta siano desiderate e persino sollecitate. Dentro e fuori il mondo medico, la richiesta di ridurre la bioetica a una specie di catechismo, che tracci con precisione la linea di demarcazione tra il lecito e l’illecito, è meno rara di quello che si potrebbe presumere. Chi esercita la riflessione bioetica deve sottrarsi a questa specifica pressione, la quale è a servizio più della rassicurazione che di quella problematizzazione che induce ad approfondire il pensiero.

Un “pronto soccorso” di etica

Il banco di prova di un’etica pratica è il momento della consulenza. Al Centro di studi bioetici diretto da Malherbe è stato richiesto di offrire un servizio di consulenza per i medici che lavorano nel policlinico universitario e di chiunque altro si trovi di fronte a una perplessità di natura etica. La risposta del Centro è stata la costituzione di “Cellule di aiuto alla decisione”: in pratica, dei consulenti di etica continuamente disponibili, con un numero di telefono speciale, per confrontarsi con i clinici su casi precisi che domandano una decisione urgente.

Un medico telefona dal Pronto soccorso: è obbligato a far di tutto per rianimare una giovane donna che è al suo sesto tentativo di suicidio in sei mesi? Al Servizio per i trapianti di organi hanno un altro problema: è arrivato un giovane, morto in un incidente, che risulta essere un buon donatore di organi per un gruppo di istocompatibilità raro, per il quale si trova difficilmente un donatore. Al momento dell’identificazioni i medici sono entrati in rapporto con la famiglia e sono venuti a sapere che era omosessuale. Devono correre il rischio, facendo un trapianto di rene, di trasmettere l’Aids?

Come si desume da questa elencazione di casi, la competenza delle “Cellule di aiuto alla decisione” non riguarda unicamente i problemi di interruzione della gravidanza ma, più in generale, qualsiasi decisione medica che comporti scelte etiche difficili. Per questo le “cellule” sono composte di almeno tre membri: un membro medico del Comitato di etica, un membro non medico del Centro di studi bioetici e un medico

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più specificamente competente nell’ambito da cui proviene la richiesta (genetica, ginecologia, psicologia, neonatologia, cancerologia...).

Questa specie di “pronto soccorso etico” presenta un rischio: quello di favorire la deresponsabilizzazione dei medici, invitando a far sciogliere le loro perplessità da un “esperto” di etica. Malherbe ne è consapevole. Per questo sottolinea con forza che il compito del consulente di etica non è di dare permessi o autorizzazioni, e tanto meno di prendere la decisione al posto del sanitario. È là per porre delle domande utili, che fanno riflettere.

Un caso può illustrare l’assunto metodologico con più chiarezza. Un ginecologo ha una paziente che viene a farsi visitare. Da più di 15 anni la paziente desiderava un figlio, ma nessuna gravidanza si era sviluppata correttamente: faceva aborti spontanei, uno dopo l’altro. A un certo punto ha la sensazione di essere di nuovo incinta, ma evita di andare dal medico. Ha paura che questi la disilluda. Quando, dopo tre mesi di amenorrea, va dal ginecologo, il medico stabilisce la gravidanza. Ma al tempo stesso vede che c’è un cancro al collo dell’utero, il cui sviluppo è stato notevolmente accelerato dalla gravidanza.

Il ginecologo è molto turbato. Espone le sue perplessità in un incontro con i consulenti di etica: non vorrebbe agire contro l’interesse della donna, che è molto felice per la sua gravidanza; allo stesso tempo il medico sa che, in una situazione del genere, deve fare un aborto per curare la paziente. E vorrebbe farlo nell’ospedale dell’università cattolica, perché non ritiene giusto mandarla da un altro medico a fare l’interruzione volontaria della gravidanza. Per questo chiede consiglio alla “Cellula di aiuto alla decisione”.

È evidente: in un paese di identità cattolica come il Belgio sono soprattutto le problematiche di aborto, di contraccezione, di procreazione artificiale e di eutanasia ― lo zoccolo duro della morale medica cattolica ― che soffiano nelle vele della bioetica. La disciplina è stata salutata dalle istituzioni ecclesiastiche come una singolare opportunità per ridare al magistero morale della chiesa una forte rilevanza sociale. La bioetica proveniente dalle istituzioni confessionali ha sviluppato un profilo molto marcato, tendente a mettere in evidenza i contorni netti dell’obbligo morale e a premere sulla regolazione legislativa in senso restrittivo.

Nel dibattito pubblico la bioetica proveniente dalle istituzioni cattoliche eviterà per lo più di argomentare in senso religioso o teologico. Per condannare l’aborto o l’eutanasia, non sarà addotto l’argomento che la vita è un dono di Dio e quindi va rispettata. Il linguaggio per esprimere il discernimento etico dei comportamenti nell’ambito della

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società civile è quello filosofico, anche se non viene concessa la cittadinanza a qualsiasi filosofia. Le filosofie di riferimento nelle istituzioni cattoliche sono quelle più facilmente trasponibili nel linguaggio teologico; come le filosofie personaliste, per esempio.

Nel caso proposto dal ginecologo, la “Cellula di aiuto alla decisione” si è limitata a richiamare l’attenzione del sanitario su un elemento che questi non aveva considerato: quale era il parere della donna rispetto alla cosa giusta da farsi? Un suggerimento che dell’etica valorizza l’aspetto procedurale, più che quello sostantivo. Invita a considerare importante per l’etica non solo “che cosa” viene deciso, ma anche “come” si giunge alla decisione. Viene assicurato un ruolo attivo del paziente nel prendere le decisioni che lo riguardano? Come vengono scambiate le informazioni? In che modo si sviluppa il processo decisionale?

È una prospettiva molto lontana dal paternalismo che ha tradizionalmente dominato i rapporti nella cura della salute: il medico riteneva suo compito professionale prendere le decisioni che fossero “per il bene del paziente”, nel suo migliore interesse. Per conoscere il bene del paziente non era necessario interrogarlo: lo stabiliva il medico, il quale confidava di disporre, oltre alla solida scienza basata sulla conoscenza della natura, anche di una conoscenza intuitiva dell’essere umano.

Anche un’etica “forte”, come quella promossa dalla chiesa cattolica perde sue istituzioni, può propendere a dare più importanza all’aspetto sostantivo dell’etica rispetto a quello procedurale. In particolare, quando si propende a sottolineare la “specificità” cattolica, contrapponendola ad altri approcci. La sfida che il Centro di studi bioetici di Lovanio ha assunto su di sé, accettando di fare un’opera di consulenza vera ― e non una direzione spirituale mascherata ― all’interno di una università cattolica è degna di tutto l’interesse. La partita è aperta. Ne seguono gli sviluppi soprattutto coloro che sospettano la credibilità delle istituzioni confessionali, quando aprono la porta alla bioetica.

Fedeltà alla chiesa, lealtà verso l’uomo

La produzione di Malherbe rivela la sua fiducia che la bioetica possa essere il luogo delle unioni, piuttosto che delle contrapposizioni. A partire da una duplice fedeltà: alla dottrina cattolica e alla ragione filosofica che riflette sull’umano nell’uomo. Un’opera esemplare in tal senso è quella che ha pubblicato insieme a Edouard Boné sulle tecnologie applicate alla riproduzione: Engendrés par la Science.

Boné è un buon compagno di cordata per una bioetica che decide di sviluppare la sua riflessione a partire da un’accettazione leale del patrimonio

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di pensiero tradizionale della chiesa cattolica. Antropologo di formazione, gesuita e docente nella facoltà di teologia dell’università cattolica di Lovanio, Edouard Boné è stato tra i primi a registrare il movimento bioetica nato negli Stati Uniti (ne ha parlato già fin dal 1973, in un articolo pionieristico dedicato alla preoccupazione bioetica nei paesi anglosassoni apparso nella Revue Theologique de Louvain).

Un’altra contrapposizione che Malherbe ha deciso di ricomporre è quella tra la concezione etica basata sulla responsabilità del medico di decidere per il bene del paziente e quella che delimita il campo di intervento del medico in nome dell’autonomia del paziente (nei casi estremi: tra il paternalismo medico e l’autonomismo a oltranza). Il riferimento alla eredità della philosophia perennis porta Malherbe ad ampliare il concetto di autonomia, includendovi la reciprocità. Non siamo autonomi contro gli altri, ma per gli altri e grazie agli altri. La reciprocità fondamentale delle coscienze ― che Malherbe fonda su un’analisi del ruolo svolto dal linguaggio per lo sviluppo della coscienza ― è un tratto costitutivo dell’umanità. Non bisogna perciò promuovere l’autonomia del paziente contro il medico, ma coltivare simultaneamente l’autonomia dei pazienti e dei medici.

Ma l’etica è tutt’altro che un’oasi di irenismo a buon mercato. Deve servire a sollevare le questioni scomode, quelle di cui in medicina non si ama sentir parlare. Come quelle relative all’impatto che l’epidemia di Aids ha sul modo di praticare la medicina, sul ruolo del sanitario e sulle sue responsabilità nei confronti del cittadino e della società (una ricerca del Centro di studi bioetici ha prodotto il volume Il cittadino, il medico e l'Aids). Oppure le questioni collegate con il peso rispettivo che hanno le restrizioni economiche e le considerazioni etiche nelle scelte che si fanno in sanità (come il potenziamento di un polo di sviluppo medico rispetto a un altro, di una medicina ad alta o bassa tecnologia, di maggiore o minore investimento nell’assistenza infermieristica): è il tema del più recente programma di ricerca intrapreso dal Centro che ha assunto il “Pensatore” come suo emblema.

In bilico tra un mondo medico orientato a delegittimare la riflessione filosofica in medicina e un mondo ecclesiastico fin troppo propenso ad annettersela a fini pastorali, la bioetica nelle istituzioni cattoliche non ha vita facile. A Malherbe va riconosciuto, se non altro, il merito di aver proposto un modello ineccepibile per correttezza. Il che equivale a dire: un modello molto difficile da tradurre in pratica.

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Riferimenti bibliografici

Edouard Boné, Jean-François Malherbe, Engendrés par la Science. Enjeux éthiques des manipulations de la procréation, ed. du Cerf, Paris, 1985.

Maria-Luce Delfosse, «Les comités d’éthique en Belgique», in M. Moulin (a cura di), Contrôler la Science?, de Boeck, Bruxelles, 1990, pp. 81-102.

Jean-François Malherbe, Pour une éthique de la médecine, ed. Larousse, Paris, 1987; tr.it. Per un’etica della medicina, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1989.

Jean-François Malherbe, «Orientamenti e tendenze della bioetica nell’area linguistica francese», in Corrado Viafora (a cura di), Vent’anni di bioetica, ed. Fondazione Lanza - Libreria Gregoriana, Padova, 1990, pp. 199-235.

Jean-François Malherbe, Le medecin, le citoyen et le Sida, Ciaco, Louvain la Neuve, 1988; tr.it. Il medico, il cittadino e l'Aids, ed. Paoline, Cisinello Balsamo, 1991.

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18. Thomas Murray: scelte personali, responsabilità comunitarie

Con i piedi nelle scienze sociali

Le vie d’accesso alla bioetica possono essere le più svariate: Thomas Murray può dimostrarlo sulla base del proprio curriculum. Dopo studi scientifici si orientò alla psicologia sociale. Nell’epoca a cavallo tra gli anni ’ 60 e ’ 70 le scienze sociali godevano vasta popolarità nel mondo scientifico. Folti gruppi di studiosi si dedicavano a ricerche che riguardavano il pregiudizio, il conformismo, l’obbedienza all’autorità distruttiva, la pubblicità e la propaganda, nonché a temi correlati che sembravano essere al cuore della guerra, dell’ingiustizia e di tutti gli altri mali che affliggevano la società. Era l’epoca del laboratorio sociale.

Nel nome delle scienze sociali fioriva la ricerca, che pretendeva di essere “libera da valori”. Le rilevazioni dei comportamenti umani fatte con la metodologia della ricerca sociale volevano essere precisamente questo: descrizioni e non prescrizioni. L’euforia del successo induceva a pensare che, purché si rispettassero le regole della ricerca, non ci fossero vincoli di altra natura. Limitazioni di natura etica non venivano neppure evocate. L’interesse della società per i risultati conseguiti era considerato un motivo sufficiente per dare ai ricercatori una delega totale circa i metodi.

Il vertice della ricerca sociale, quello che sembrava attribuirle tutti i crismi della “scientificità”, era costituito dagli esperimenti che usavano l’inganno. La più famosa di queste ricerche psicosociali arrivò anche alle orecchie del grande pubblico, grazie all’animato dibattito che provocò. Si tratta della ricerca di Stanley Milgram sulla “obbedienza”. Con il pretesto di sperimentare quanto la punizione e il dolore fisico favorissero l’apprendimento, in realtà Milgram sottopose i soggetti sperimentali da lui scelti a una prova cruciale: voleva sapere fino a che punto si spingessero nell’infliggere, su ordine del ricercatore, delle scariche elettriche a persone che ― secondo quanto era stato fatto loro credere ―

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erano supposte oggetto della ricerca (si trattava, in realtà, di attori che mimavano il dolore inflitto dalle scosse elettriche).

Il paradigma dell’inganno sistematico per raggiungere un obiettivo di ricerca ― secondo Milgram, la sua sperimentazione aveva qualcosa da dire per spiegare il comportamento delle guardie dei campi di sterminio nazisti e l’acquiescienza dei cittadini a ordini palesemente immorali ― era molto popolare all’epoca. La metodologia dell’inganno aveva per gli scienziati sociali un alto valore di socializzazione nella professione. Si sentivano in tal modo autorizzati a spaventare, provocare, insultare, deprimere e in genere a mentire ai soggetti che utilizzavano per i loro esperimenti. La polemica che infuriò intorno alle ricerche di Milgram dimostra che i comportamenti degli scienziati sociali venivano avvertiti, almeno dalle persone più acute nella società, come problematici. Tuttavia non esisteva ancora il vocabolario che aiutasse ad articolare le ragioni del rifiuto di questi metodi riferendole all’etica.

Il giovane Thomas Murray fin dai suoi primi passi nella psicologia sociale inciampò in una spinosa questione etica. Nel 1969, al suo secondo anno della graduate school, fu coinvolto in una ricerca che usava sistematicamente l’inganno. Si trattava di studiare come si comportano le persone che devono dare aiuto in situazioni di emergenza. Il protocollo sperimentale prevedeva che i soggetti sedessero in trna cabina e guardassero un monitor TV, mentre in un’altra stanza si trovava colui che fingeva di essere lo “sperimentatore”. A un certo punto questi riceveva ― apparentemente ― una forte scossa elettrica e cadeva al suolo, al di fuori della portata della telecamera. Il compito di Murray, che conduceva la vera ricerca, era di misurare il tempo che le persone impiegavano a uscire dalla cabina per andare a soccorrere lo “sperimentatore”. Se dopo sei minuti non si erano ancora mossi, Murray doveva andarli a tirar fuori dalla cabina. Suo compito era poi di fare un’intervista con tutti i partecipanti e spiegar loro l’esperimento.

Parlare con coloro che avevano offerto aiuto ― quasi sempre entro i primi due minuti ― era un piacere: avevano superato bene l’esperimento. Di fronte a un altro essere umano che apparentemente era in stato di necessità, si erano dimostrati pronti ad accorrere in aiuto. Erano pieni di elogi per le astuzie della psicologia sociale. Ma le esperienze con coloro che non avevano risposto entro i primi sei minuti erano devastanti. Nella cabina Murray trovava essere tremanti, sbiancati, che riuscivano a stento a parlare di quello che avevano visto. Chi non rispondeva prontamente offrendo aiuto mostrava un’ansia profonda. Il danno più grave che ricevevano da questi esperimenti basati sull’inganno era quello all’autostima. Neppure dopo che il ricercatore aveva scoperto le

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carte e spiegato la meccanica della ricerca la ferita inferta all’immagine di sé poteva essere sanata.

Dal punto di vista del disegno dell’esperimento, i risultati erano eccellenti. Non così per il neofita ricercatore sociale, il quale si trovò in un profondo imbarazzo. Sollevò obiezioni a quanto veniva fatto alle persone: non gli sembrava corretto, né responsabile. Ma i docenti e colleghi ai quali si rivolse erano talmente socializzati in quel paradigma di ricerca che non riuscivano a vedere la possibilità di una obiezione morale ad essa.

Incapace di far intendere le sue ragioni, Murray abbandonò l’impresa. La ricerca psicosociale perdeva un cultore, ma lo guadagnava la bioetica. Ricevette una “fellowship” di un anno nellehumanities da parte dell’Università di Yale. Gli si apriva così il mondo dell’etica, benché non ancora coniugata con la biologia e la medicina.

In seguito, troviamo Thomas Murray nei luoghi decisivi per lo sviluppo della bioetica. Dal 1979 al 1984 sarà allo Hastings Center, prima come “fellow” e poi come “associato”: come dire nella fucina stessa dove si stava forgiando la nuova disciplina. Dal 1984 è invitato a trasferirsi all'Institute for the Medical Humanities di Galveston, integrato organicamente alla facoltà di medicina dell’università del Texas. Da un centro di ricerca totalmente indipendente dalle realtà accademiche passava così a una scuola medica. Dal 1987, infine, assumeva la direzione del dipartimento di bioetica alla Case Western Reserve University di Cleveland, nell’Ohio.

Gli iniziali studi nell’ambito delle scienze sociali sembrano aver lasciato quasi un imprintingnel modo in cui Thomas Murray ha sviluppato il proprio approccio ai problemi della bioetica. Anzitutto per una tenace diffidenza nei confronti di quella patologia filosofica del discorso morale per la quale egli ha creato l’etichetta di “perseverazione metafisica”: un comportamento che la psicologia sociale gli aveva permesso di individuare. In senso positivo, la sensibilità per la dimensione sociale dell’etica acquisita con i suoi primi studi lo ha portato a privilegiare le ricadute sulla comunità delle soluzioni proposte dall’etica.

In campo contro le patologie della filosofia

Un esempio particolarmente chiaro di distanziamento dalle patologie filosofiche è offerto dal modo in cui Murray affronta l’aborto. Come scienziato sociale, Murray sa riconoscere il fatto che il dibattito sull’aborto, che divide la nostra società in due campi contrapposti, è ampiamente sostenuto dalla retorica. Realisticamente, è difficile credere

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che la gente che milita nell’uno o nell’altro schieramento sull’aborto sia molto esercitata in argomenti estremamente astratti e astrusi, quale ad esempio il dibattito se il grumo di cellule non differenziate che costituisce un embrione nelle prime fasi del suo sviluppo sia una “persona”. I favorevoli e gli oppositori dell’aborto ricorrono, invece, di preferenza a immagini che ispirano l’indignazione morale ― gli antiabortisti amano presentare immagini di feti dismembrati o gigantografie di minuscole formazioni organiche ―, oppure provocano l’inquietudine ― i favorevoli alla libertà dell’aborto adducono donne disperate o morenti a causa degli aborti clandestini ―.

La retorica non è l’etica: si sa. Soprattutto l’orgoglio accademico pretende che l’uso di espedienti retorici non abbia niente a che fare con gli strumenti propri dell’etica, che sono le argomentazioni razionali. È vero che dei sentimenti morali come quelli evocati dalle polemiche pro e contro l’aborto possono essere fuorvianti; ma possono essere anche validi e importanti non solo per motivare l’azione, ma anche per fondare i giudizi morali. Quella che Murray chiama patologia filosofica si esprime nel disprezzo per la retorica, come moralmente irrilevante, a vantaggio di argomenti altamente teorici. Primo tra tutti, quello riferito allo status degli embrioni e feti: se siano o no persone.

Fare del dibattito sull’aborto una disputa metafisica sulla personalità«del feto è, agli occhi di uno studioso che sa riconoscere il posto che l’etica occupa nella società, fuorviarne e distruttivo. Questi argomenti non riescono a persuadere se non coloro che sono già disposti ad essere d’accordo. Ma, malgrado questo clamoroso insuccesso, sia l’una che l’altra parte continua a scagliarsi contro argomenti vecchi e nuovi, con nessuna evidenza di risultato. Lo scienziato sociale vi riconosce uno di quei comportamenti chiamati “perseverazione” e considerati un segno di disfunzione dell’organismo. Per quanto manifestamente non riescano a raggiungere lo scopo, gli animali ― e gli uomini... ― continuano a farvi ricorso. Per Murray l’insistenza a inquadrare il dibattito pubblico sull’aborto entro la disputa sul carattere di persona del feto può essere considerata una “perseverazione metafisica”; ed è tanto disfunzionale quanto il continuo premere la leva sbagliata da parte del topo nella sua gabbietta da esperimento, dopo essere stato condizionato a questo comportamento.

Chi osserva il dibattito sull’aborto con lo spirito delle scienze sociali, inoltre, non può non rendersi conto che problemi come lo statuto morale dell’embrione appaiono sostanzialmente dipendenti dalle premesse di ognuno. Il dibattito è interamente orientato al risultato. In altre parole, alcuni “sanno” che l’aborto è un assassinio ed è moralmente sbagliato, mentre altri sono ugualmente convinti che l’aborto è

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molto meno di un assassinio, pur ammesso che sia moralmente sospetto: gli uni e gli altri attingono gli argomenti più dalla convenienza che dalla convinzione.

Forse può non essere lusinghiero per i filosofi sentirsi osservati da uno studioso dei comportamenti, alla stessa stregua di come questi analizza il modo di risolvere i problemi che usano gli animali. Sentiamo, tuttavia, passare una ventata di aria fresca sull’annoso dibattito circa la regolamentazione dell’aborto, quando l’attenzione è spostata su una questione in genere trascurata: se la nozione generale di persona ci aiuta o non ci aiuta a risolvere specifiche problematiche morali. Ora, usare il concetto di persona per illustrare ciò che noi crediamo sia in gioco negli argomenti prò e contro il permettere l’aborto, si rivela un errore. Tale concetto è una specie di abbreviazione stenografica, che introduce una semplificazione e annulla distinzioni cruciali, proprio là dove sono più necessarie per considerare i problemi in tutta la loro complessità e particolarità.

Murray invita piuttosto a domandarsi se gli embrioni o i feti sentano dolore, e quanto sia importante questo fatto; che impatto avrebbe sulla vita delle donne una fecondità non regolata; se l’aborto conduca a un diminuito rispetto per altri stadi della vita umana; quali effetti perversi derivino dall’intrusione dello stato nei più intimi dettagli della riproduzione umana, o dall’egemonia della professione medica sul controllo della fertilità. Queste ed analoghe questioni, benché anch’esse difficili da porsi, non sono ― a differenza del dibattito sulla persona ― delle pretese metafisiche sulla essenza delle cose. Presentano il vantaggio che le posizioni non sono già opposte fin dall’inizio, come avviene quando partono da premesse metafisiche assolutamente inconciliabili. E fanno immaginare che sia possibile ottenere qualche grado di compromesso.

Questo modo di impostare il dibattito sull’aborto non dimostra che gli argomenti, di una parte o dell’altra, siano falsi; ci fa solo considerare in che modo il funzionamento sociale concreto del dibattito mette in ombra elementi che potrebbero essere cruciali per far evolvere la coscienza morale. Murray ci invita a spostare il dibattito morale dalle questioni metafisiche ― come quella sullo statuto morale del feto ― a questioni relative alla “buona vita” degli esseri umani e delle comunità.

Una bioetica attenta alla comunità

Diversificandosi dalla linea principale di sviluppo che ha caratterizzato la bioetica americana, Thomas Murray ha costantemente tenuto presente la prospettiva della comunità nell’affrontare i problemi sollevati

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dalla medicina e dallo sviluppo delle scienze. Il suo approccio non è riconducibile al modello dei principi ― quello rappresentato dall’opera standard di James Childress e Thomas Beauchamp:Principles of Bioethics ― e al primato attribuito all’autonomia del paziente nel valutare la qualità etica dall’azione sanitaria. L’accento quasi esclusivo sull’autonomia è attraente, in parte perché ci permette di evitare alcune realtà spiacevoli e complesse, come le tensioni che nascono in ambienti sociali nei quali gli altri possano avere interessi diversi e comportarsi in modo ostinato e irragionevole. Se l’unico criterio è l’autonomia, basta domandarsi se la persona decide liberamente. L’autonomia non induce a interrogarsi se la decisione era saggia, o addirittura buona, per colui che la prende. Soprattutto in una cultura come quella americana, nella quale la libertà individuale e il mercato hanno risonanze così profonde, è facile capire la preferenza data all’autonomia.

Murray non propone di abbandonare il principio dell’autonomia. Questa resta un importante baluardo morale contro l’oppressione: sia quella che può venire da un ricercatore senza scrupoli, sia quella che nasce da medici paternalisti che trattano i pazienti come persone inguaribilmente immature. Ma l’autonomia non può bastare. Essa è solo una parte della storia: gli esseri umani per realizzarsi hanno bisogno di vivere insieme, di creare famiglie e comunità che rendano possibile la crescita nell’amore, che favoriscano lealtà durature, che sappiano apprezzare la compassione e il perdono, oltre che l’autonomia.

Per correggere la tendenza a fare della bioetica il nutrimento dell’individualismo, Murray vi introduce una dose sostanziosa di spirito comunitario. Si realizza così uno spostamento dell’asse centrale dalla protezione dei diritti individuali alla promozione del bene della comunità. Nella prima fase del suo sviluppo la bioetica in America ha attinto prevalentemente dallo spirito del liberalismo. I valori che ora inducono a dare più spazio alla comunità, pur essendo articolati con un linguaggio secolare, mostrano una evidente affinità con il tessuto delle tre grandi religioni monoteiste. Queste sono infatti essenzialmente comunitarie; non si limitano a difendere la trascendenza della persona, ma proclamano che nessuno deve essere lasciato fuori dalla comunità.

Un buon esempio di come i problemi bioetici vadano affrontati tenendo presente il punto di vista della comunità lo offre Thomas Murray occupandosi del rapporto tra sport ed etica. Più precisamente, la questione su chi ha attirato l’attenzione è quella dell’uso regolare di farmaci da parte degli atleti nel corso dell’allenamento e delle gare: prendono delle droghe per accrescere le loro prestazioni. Fino agli anni ’60 queste pratiche non erano diffuse. I giochi olimpici del 1964 sono stati probabilmente i primi in cui gli steroidi anabolizzanti sono stati

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impiegati. Tra gli atleti internazionali la pratica divenne poi molto popolare in tempi brevissimi.

Numerosi interrogativi sono stati sollevati, quando le informazioni circa il “doping” degli atleti hanno cominciato a circolare: quest’uso è contrario all’etica? Dobbiamo considerarlo come un’espressione di libertà? Bisogna rinunciare alla libertà quando altri importanti valori sono minacciati? Il Comitato olimpico internazionale ha preso posizione proibendo ogni genere di “doping”. Non era compito di tale organismo portare le ragioni di questa normativa: probabilmente riteneva che fossero evidenti. Invece non lo sono. Ed è compito dell’etica argomentare in maniera convincente.

Il principale ostacolo argomentativo è offerto dalla tradizione libertaria della nostra società. Abbiamo una forte tradizione, sia legale che morale, di libertà individuale, che proclama il diritto di perseguire il proprio piano di vita come vogliamo, assumendo i rischi che desideriamo e, all’interno di ampi limiti, fare del nostro corpo quello che più ci aggrada. Questo diritto è stato esteso, per le persone che sono chiaramente capaci di intendere e di volere, fino alla facoltà di rifiutare anche cure mediche che prolungano la vita. Come può una società che proclama i valori della libertà impedire ad atleti in pieno possesso delle loro capacità mentali e ben informati di usare i mezzi che desiderano per aumentare le loro prestazioni?

L’argomentazione del Thomas Murray non è antilibertaria. Ma considera la libertà in concreto, nel gioco dei rapporti sociali. Ora, la decisione di assumere delle sostanze che accrescono le prestazioni esercita una coercizione sugli altri. La scelta di ricorrere agli steroidi non è puramente individuale, in quanto la “libera” scelta di uno costringe gli altri a fare la stessa scelta. La corsa al “doping” è analoga alla corsa agli armamenti. L’uso delle droghe nello sport non è accettabile dal punto di vista etico perché, malgrado rientri nell’ambito delle scelte individuali, è coercitivo sugli altri e minaccia il valore sociale della competizione sportiva.

Prendersi cura del patrimonio genetico della comunità umana

Se l’applicazione della riflessione bioetica allo sport può apparire ad alcuni alquanto frivola, l’ingegneria genetica ha indubbiamente un peso specifico indiscutibile. Alla genetica appunto ha dedicato Thomas Murray una parte privilegiata del suo lavoro in bioetica. L’impatto della ricerca genetica e delle sue applicazioni sulla società è un terreno di elezione per una problematizzazione etica che privilegia la dimensione

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sociale. L’ingegneria genetica ha il potere di trasformare la nostra vita attuale e la vita dei nostri discendenti in futuro. Non ci possiamo permettere, perciò, di chiudere gli occhi sulle questioni etiche che ne derivano.

Murray è sensibile al fatto che abbiamo bisogno di un contesto per inquadrare le problematiche etiche suscitate dall'ingegneria genetica che consenta di parlare sia agli individui che alle comunità, considerando tanto il presente quanto il futuro. È necessario un concetto dell’etica che tenga presenti le esigenze e i diritti degli individui contemporanei e le condizioni necessarie per sostenere le comunità in cui si garantisca ai membri una vita piena, completa e soddisfacente.

Per valutare le ricadute dell’ingegneria genetica siamo costretti a riferirci a un modello di vita umana desiderabile. La conoscenza psicosociale che Murray ha dell’uomo lo induce ad affermare che una buona vita umana deve contenere in primo luogo la capacità della società di provvedere alla cura di coloro che sono in stato di dipendenza e al benessere di coloro che offrono tale assistenza. Tutti gli esseri umani attraversano un periodo in cui sono totalmente dipendenti dalle cure di altre persone. Senza tale assistenza morirebbero; anche se sopravvivessero, risulterebbero menomati da un punto di vista emotivo, poiché sarebbero incapaci di aver fiducia nel prossimo e di instaurare rapporti affettivi. Anzitutto dobbiamo, quindi, considerare se le modificazioni contemplate attraverso l’ingegneria genetica saranno a sostegno dello sviluppo di tali rapporti di assistenza, oppure li metteranno a repentaglio.

In secondo luogo, dobbiamo mettere lo sviluppo della genetica in rapporto con le qualità morali necessarie per avere una buona società umana. Il termine “virtù” potrebbe sembrare una parola fuori moda, ma lo sviluppo di un carattere virtuoso nelle persone resta pur sempre uno dei compiti principali dell’etica. Basta chiedersi se preferiremmo vivere in un mondo in cui la gente fosse disonesta, inesorabilmente egoista, crudele e del tutto inaffidabile, oppure in un mondo in cui fossero tutti (anche se non perfettamente) onesti, rispettosi degli altri e dotati di una solida integrità morale. L’ingegneria genetica, alterando le condizioni in cui le persone imparano a comportarsi virtuosamente o meno, può alimentare o minacciare lo sviluppo della virtù.

In terzo luogo, l’importanza del rispetto delle persone è un elemento centrale delle nostre tradizioni morali e giuridiche. Nell’ingegneria genetica sono implicite le possibilità di potenziare il nostro rispetto per la vita, la libertà, la “privacy” e la dignità altrui. Ma li si potrebbe anche mettere a repentaglio permettendo, ad esempio, interferenze sulla decisione relativa a chi sposare e se procreare, attraverso la previsione genetica dei nostri schemi comportamentali o della nostra salute, oppure

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compilando dei dossier genetici che rivelerebbero i nostri più reconditi segreti ad estranei. In molti casi, decidere se particolari applicazioni dell’ingegneria genetica possano incrementare o minacciare il rispetto per gli altri sarà l’elemento decisivo nella valutazione etica di questi sviluppi.

Nei nostri giudizi sull’accettabilità morale delle possibilità applicative della genetica deve figurare una lucida considerazione dei costi e benefici a breve e a lungo termine. L’uomo vive in comunità, nell’ambito delle quali dà forma ai propri interessi e ai propri obiettivi. A partire dalla famiglia e dal vicinato, fino alla nazione e al mondo intero, le comunità multiple alle quali apparteniamo modellano la nostra vita e noi, a nostra volta, le modelliamo attraverso le nostre azioni. Quando una comunità offre ai suoi membri le opportunità e le necessità di base per condurre una vita accettabile, i singoli possono adoperarsi alla ricerca della propria strada e sviluppare una forma di lealtà e di solidarietà verso gli altri membri della stessa comunità. Ma le comunità possono anche dividersi e fallire; possono esacerbare o persino creare conflitti tra gli individui e i gruppi. L’ingegneria genetica può essere utilizzata per provvedere alle necessità, per promuovere le opportunità e per far crescere un senso di appartenenza. Oppure può negare e dividere.

Questa dimensione comunitaria dà concretezza alle questioni che le applicazioni dell’ingegneria genetica pongono nell’ambito della giustizia. Gran parte della materia prima genetica utilizzata dagli scienziati che si occupano di agricoltura per migliorare i raccolti proviene dal mondo non industrializzato. È giusto che i paesi ricchi raccolgano ed utilizzino tali risorse, e poi le rivendano ai paesi d’origine, ricavandone un ampio profitto? È giusto mettere fuori gioco i contadini, immettendo sul mercato nuove sementi e bestiame geneticamente migliorati? Sarebbe giusto da parte di genitori ricchi acquistare una sostanza geneticamente elaborata che offrisse ai figli un vantaggio rispetto ai loro compagni?

Le generazioni future avranno la possibilità di saperne molto di più rispetto a noi riguardo alla composizione genetica dei propri figli. I controlli genetici prenatali di oggi, che già comportano una notevole capacità di originare dilemmi di ordine morale, non sono che una pallida anticipazione delle possibilità che si presenteranno in un prossimo futuro. Si attribuirà forse ai genitori il dovere morale di dare alla luce solamente quei bambini che risultino geneticamente “sani”? Se i genitori decideranno di rinunciare ai test genetici, oppure di far crescere un bambino per il quale è previsto un rischio di malattia genetica, la società se ne laverà le mani per quanto riguarda le responsabilità, sostenendo

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che è stata una libera scelta dei genitori quella di farlo nascere? Dobbiamo poi considerare un’altra dimensione dello scenario futuro: con il diminuire delle nascite di bambini imperfetti, i genitori potrebbero essere ancor meno disposti ad accettare bambini che nascono con qualche imperfezione o malattia.

I progressi della genetica possono influenzare molti concetti eticamente importanti, molte aspettative e molte pratiche. Potrebbero modificare il nostro modo di considerare la responsabilità, il biasimo e il merito. Potrebbero avere un impatto anche nel significato della continuità genetica tra le generazioni. Potrebbero, infine, influenzare il significato della paternità e della maternità, oltre il nostro atteggiamento nei confronti delle imperfezioni e della disabilità umana.

Thomas Murray, coinvolto in quanto esperto di bioetica in progetti di ricerca in genetica, in particolare nel grandioso progetto “Genoma Umano”, è consapevole che tali programmi mettono a dura prova coloro che si occupano di etica e di discipline ad essa collegate, conferendo loro una terribile responsabilità. Se in passato gli esperti di etica si sono potuti permettere di prendere un atteggiamento critico mantenendosi a una certa comoda e rispettabile distanza, adesso sono invitati a farsi più vicini, a osservare con attenzione e a partecipare a un dialogo particolareggiato e informato.

"Al di là dell’evidente pericolo della cooptazione, i cultori di etica che accettano l’invito e la sfida sono chiamati a fornire un’analisi delle questioni etiche legate alla genetica che sia allo stesso tempo approfondita da un punto di vista umanistico, informata da un punto di vista scientifico e intellettualmente indipendente.

La responsabilità sta nell’apportare un contributo critico e costruttivo ai dibattiti sulla politica generale da seguire in materia di genetica umana. Gli esperti di bioetica che non sono abituati a tale partecipazione lo potrebbero trovare scomodo; ma le società che sostengono il loro lavoro hanno tutti i diritti di aspettarsi un umile ma effettivo contributo da parte loro.

Riferimenti bibliografici

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Thomas H. Murray, «Moral obligations to not-yet born: the fetus as patient», in Clinics in Perinatology, 14, 1987, pp. 329-343.

Thomas H. Murray, «Medical ethics, moral philosophy and moral tradition», in Social Sciences and Medicine, 25, 1987, 6, pp. 637-644.

Thomas H. Murray, «L’impatto della ricerca genetica sulla medicina e sulla società», in L’Arco di Giano, 2, 1993, pp. 17-31.

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19. Edmund Pellegrino: nella tradizione del medico-filosofo

Alla guida del Kennedy Institute of Ethics

Forse è per quel suo cognome italiano, unito ai tratti da antico romano scolpiti sul volto nervoso, in dissonanza con il gestire inconfondibile da americano. Forse è per la sua lunga pratica con i vertici delle istituzioni della chiesa cattolica, almeno con quella parte di essa meno sospettosa nei confronti della ricerca biomedica e più dialogante con il mondo della scienza. Forse è per quell’aria di rispetto geloso di ciò che ci viene trasmesso dalle generazioni precedenti che si respira a Georgetown, il quartiere di Washington dove ha sede la sua università, che conserva intatto l’aspetto di due secoli fa. Per tutto questo, e per tanti altri motivi ancora, Edmund Pellegrino evoca immediatamente il più felice connubio tra il vecchio e il nuovo: la moderna filosofia della medicina nata dal tronco della tradizione, profondamente innovativa ma fedele ai solidi valori del passato.

L’università di Georgetown è stata fondata nel 1789. In Europa scoppiava la rivoluzione francese; in America sorgeva, ad opera dei gesuiti, la prima università cattolica. La fondava il vescovo John Carroll, per educare gli studenti mediante «le arti liberali, la filosofia, la religione e la morale». L’università si è estesa con il tempo; ora include studi quanto mai secolari, come la medicina. Ma la missione di estendere l’approccio umanistico a tutto l’ambito degli studi accademici sembra essere stata presa sul serio. L’università di Georgetown si colloca in prima linea tra le istituzioni americane intenzionate a valorizzare le humanities in tutte le articolazioni del sapere.

L’ufficio di Pellegrino è nel più antico edificio del campus. Il neogotico Healy Building svetta sulla collina di Georgetown e si rispecchia nella placida insenatura che il fiume Potomac disegna ai sui piedi. In stanze dai soffitti affrescati in stile “pompier”, Pellegrino dirige il Centro di perfezionamento in etica (Center for the advanced study of

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ethics). Continuità e innovazione appaiono iscritte già visivamente nell’istituzione che Pellegrino rappresenta.

In singolare contrasto con la minuta figura nervosa, nella vita familiare e professionale di Pellegrino tutto evoca solidità: dai sette figli al lungo elenco delle sue pubblicazioni; dagli incarichi direttivi alla presenza nei comitati di redazione di prestigiose riviste scientifiche. La sua scalata alla vita accademica è cominciata con solidi studi medi superiori, fatti in una “high school” cattolica, tenuta dai gesuiti. Quattro anni di filosofia, insieme a scienze, biologia, matematica. E logica.

Pellegrino ama evocare un insegnamento che gli è rimasto impresso all’età di dodici anni, fino dalla sua prima lezione di filosofia. A una sua affermazione l’insegnante reagì dicendo: «Ciò che tu affermi gratuitamente, io gratuitamente nego. La prima legge della logica è che devi argomentare per provare tutto quello che dici». Una lezione che deve averlo accompagnato per tutta la vita, se di recente, dopo una conferenza a un congresso di bioetica sull’eutanasia, un partecipante poteva commentare: «Io non sono d’accordo con lei, ma ammiro la sua capacità di argomentare». L’attenzione alla struttura argomentativa caratterizza la sua partecipazione agli appassionati dibattiti che hanno luogo attorno alle problematiche più scottanti della medicina e della bioetica.

Dopo gli studi di medicina, Pellegrino coltivò con pari passione il laboratorio e la presenza al letto del malato. Nella ricerca ha prodotto risultati non disprezzabili nello studio del metabolismo del calcio. Ma è stata soprattutto la medicina clinica il centro dei suoi interessi. Le tappe della sua carriera sono passate successivamente per l’università del Kentucky, per l’università di Stato di New York e per Yale, dove ha diretto per tre anni il Centro medico. In questo periodo ha svolto un ruolo di primo piano nella introduzione delle medical humanities nelle scuole di medicina dell’intero territorio federale.

Nel 1983 è approdato al Kennedy Institute of Ethics di Georgetown, come direttore. Assumeva l’eredità di André Hellegers, il ginecologo che aveva saputo pilotare il mecenatismo della famiglia Kennedy verso il nuovo campo di studi della bioetica. Nella dizione originaria ― “Kennedy Institute for the study of human reproduction and bioethics”

era avvenuto un progressivo spostamento d’accento: lo studio della riproduzione umana era passato nello sfondo, mentre la bioetica aveva preso il posto centrale. L’orizzonte si è allargato a tutti i problemi posti dallo sviluppo della medicina. La direzione di Pellegrino, durante gli anni ’80, ha consacrato la svolta che si era già annunciata con l’iniziativa dell’istituto di pubblicare l'Enciclopedia di bioetica, progettata e diretta da Warren Reich.

Tra le caratteristiche dell’istituto che risalgono alle scelte iniziali,

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due meritano una particolare sottolineatura. Anzitutto il legame istituzionale con l’università. Ciò gli ha permesso di avere un carattere multidisciplinare, attingendo i suoi membri dalle facoltà di lettere, scienze sociali, scienze naturali. La facoltà di medicina, in particolare, favorisce un intenso scambio con ricercatori e clinici.

Anche nell’altra direzione il legame dell’istituto con l’università si rivela fecondo: l’Istituto garantisce, per esempio, l’insegnamento di un corso obbligatorio di etica medica per tutti gli studenti del secondo anno di medicina. Il ruolo di Pellegrino, in quanto professore nella facoltà di medicina, ha dato maggiore robustezza al collegamento dell'Istituto con l’università.

In secondo luogo, l’interesse per l’interfaccia con i problemi teologici: senza apologetica, tuttavia, bensì in spirito ecumenico. Anche se l’istituto ha definito la sua fisionomia in senso rigorosamente filosofico, l’apertura agli interrogativi provenienti dall’orizzonte religioso è stata costante. Diversi membri del Kennedy Institute sono studiosi di etica di formazione teologica. Oltre ai cattolici Richard McCormick e Bryan Hehir, ne hanno fatto parte studiosi aderenti ad altre confessioni cristiane (come Leroy Walters, William May, Robert Veatch) o all’ebraismo (Isaac Franck).

La struttura istituzionale del Kennedy prevede, all’interno dell'istituto, una autonomia funzionale per il Centro di bioetica (“Center for Bioethics”).L’Istituto in quanto tale non si occupa solo di bioetica, ma anche di etica generale e di altre tematiche specifiche, come l’etica dell’economia e dei rapporti internazionali. Il Kennedy Institute ha conosciuto, durante i sei anni di direzione di Pellegrino, uno straordinario sviluppo, soprattutto nell’ambito della nuova disciplina: corsi intensivi di bioetica diretti a un pubblico internazionale, pubblicazioni, documentazione, ricerca.

Nel 1989 è avvenuto il cambio della guardia: il filosofo Robert Veatch assumeva la direzione del Kennedy al posto di Pellegrino, mentre questi veniva chiamato a presiedere il neonato centro di perfezionamento dell’etica, nella stessa Georgetown University: un ambizioso progetto che, proiettandosi idealmente nel sec. XXI, vuole promuovere per altri ambiti della vita sociale ― economia, comunicazioni, relazioni internazionali, business ― quella rivoluzione etica che il Kennedy Institute ha contribuito a far maturare nella medicina e nella biologia, dando impulso allo sviluppo della bioetica. Attualmente Pellegrino è impegnato a individuare e a pilotare su Georgetown studiosi e ricercatori di altissimo livello, per far decollare il nuovo progetto.

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Le humanities a servizio della medicina

La grande impresa della sua maturità resta la disseminazione delle medical humanities negli Stati Uniti. Introducendo un numero del Journal of Medicine and Philosophy del 1990, dedicato integralmente alla figura e all’opera di Edmund Pellegrino in occasione del suo 70° compleanno, Tristam Engelhardt, attuale direttore della rivista, ha tributato un omaggio al ruolo svolto da Pellegrino. A suo avviso, il nostro tempo era inevitabilmente chiamato a confrontarsi con i problemi che derivano dai maggiori poteri che abbiamo acquisito in biologia e in medicina; ma la filosofia della medicina e la bioetica non avrebbero mai acquisito la forma che hanno ora, se fossero mancati la genialità innovativa ― quell’atteggiamento spirituale che gli americani chiamano “vision” ― e le fatiche di Pellegrino.

Le humanities avevano bisogno di rivendicare la loro importanza per la nostra società. La medicina e i professionisti della sanità, da parte loro, dovevano riconoscere l’incompletezza dei loro sforzi in assenza del sapere che nasce dal tronco della “humanitas”. Le medical humanities sono scaturite dall’incontro di bisogni complementari: di avere una guida e di fare un discorso significativo. Siccome Pellegrino ha saputo capire e articolare questi bisogni ― conclude con una audace immagine T. Engelhardt ― è stato la levatrice delle medical humanities.

Tra le sue fatiche possiamo menzionare l’instancabile attività svolta presso le scuole di medicina. Tra il 1968 e 1978 Pellegrino visitò una ottantina di istituzioni: incontrando professori e studenti, sensibilizzando alla necessità di introdurre le medical humanities nell’insegnamento della medicina, fornendo egli stesso dimostrazioni di come tale insegnamento poteva essere condotto. Il progetto era sostenuto economicamente dal “Fondo nazionale per le humanities’’', mediante un sostanzioso stanziamento destinato a promuovere un riavvicinamento tra formazione umanistica e formazione tecnologica.

Pellegrino ha dato un apporto decisivo al rigore concettuale nelle humanities applicate alla medicina. L’analisi da cui è partita la vigorosa azione promossa dal “Fondo nazionale” aveva identificato, con un senso di allarme, lo scollamento tra la cultura scientifico-tecnologica e quella umanistica: la prima sembrava andare per conto proprio, come sorretta da una metafisica di autogiustificazione, senza alcun bisogno di analisi concettuale e di verifica delle sue finalità e del rispetto di esigenze etiche; la cultura umanistica, da parte sua, era completamente isolata, incapace di incidere nella società, riluttante a impegnarsi in un confronto serrato con gli scopi, i metodi e le pratiche scientifiche.

Le conseguenze del distacco erano particolarmente sensibili e

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preoccupanti in campo medico. La conoscenza e il potere si sono estesi così rapidamente da distanziare le capacità di riflessione. Individuata questa priorità, nel vasto progetto di ricucitura tra scienza e humanities che stava impegnando la società americana, Pellegrino ha dedicato tutta la sua attività alla medicina, per favorire al suo interno il risorgere della tradizione umanistica.

Il punto di partenza era costituito dalla convinzione che le due forme di sapere non dovessero essere semplicemente giustapposte, ma piuttosto stimolate a riscoprire i legami reciproci. Si trova spesso citata una felice espressione di Pellegrino, risalente agli inizi degli anni ’70: «La medicina è la più umana delle scienze, la più empirica delle arti e la più scientifica dellehumanities». Il suo programma era tutto contenuto nella frase. Ma a condizione che si chiarissero alcuni equivoci. Uno di questi era legato all’uso impreciso del termine humanities.

Le medical humanities hanno bisogno di rigore, non di approssimazioni

Come è avvenuto anche negli appelli levatisi da noi alla “umanizzazione” della medicina, il ricorso all’umanesimo poteva essere inteso in senso filantropico e compassionevole, senza precise richieste di competenza intellettuale. «L’umanesimo medico ― ha annotato Pellegrino ― è diventato quasi un luogo in cui si concentra la salvezza, destinato ad assolvere quelli che vengono vissuti come i ‘peccati’ della medicina moderna. La lista di questi peccati è lunga, varia e spesso contraddittoria: superspecializzazione; tecnicismo; eccessiva professionalizzazione; insensibilità ai valori personali e socioculturali; restringimento del ruolo del medico; troppo ‘curare’ e poco ‘prendersi cura’; insufficiente attenzione alla prevenzione, alla partecipazione del paziente e alla sua educazione; troppa scienza; non abbastanza arti liberali; troppo incentivo economico; una mentalità da ‘scuola commerciale’; insensibilità per i poveri e per gli emarginati nella società; eccessiva medicalizzazione della vita quotidiana; carenze nella comunicazione verbale e non verbale».

L’elenco dei peccati della medicina potrebbe essere allungato: ma ciò non farebbe altro che aumentare le attese nei confronti di un umanesimo in veste dimessa che porti la redenzione. Per Pellegrino l’interfaccia tra la medicina e le humanities avviene piuttosto alla luce delle possibilità che queste hanno di rispondere alle questioni di fondo sull’uomo, in particolare quelle che sono provocate dalla sofferenza, dalla malattia, dalla ricerca di guarigione, dai limiti dell’impiego della tecnologia sull’uomo.

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Le medical humanities mobilitano le riflessioni etiche, filosofiche, storiche e letterarie per ripensare l’esistenza umana sotto l’impatto della medicina moderna. La medicina, proprio con il suo carattere di scientificità ― “la più scientifica delle humanities” ― può a sua volta rilanciare, a partire dai problemi concreti che nascono dal vivo della vita umana esposta alla sofferenza e alla morte, i perenni interrogativi intellettuali legati ai fini dell’uomo. Medicina e humanities non sono semplicemente cucite insieme in modo artificiale: le influenze reciproche ne fanno un nuovo campo disciplinare, particolarmente significativo per la formazione dei medici.

Come missionario delle medical humanities Pellegrino ha avuto molto successo. È riuscito a creare un consenso sulla necessità di modificare i curricoli degli studenti di medicina, dando maggior spazio alle discipline afferenti all’ambito delle humanities. I suoi sforzi intellettuali nel dar voce alle esigenze e il suo attivo impegno durante gli anni settanta hanno ottenuto il ribaltamento della situazione di scollamento tra le “due culture”, che era stata vigorosamente denunciata dal noto saggio di Ch.P. Snow, a metà del secolo ventesimo.

La topografia dei programmi di insegnamento a valenza umanistica nelle scuole di medicina degli Stati Uniti risultava, da una inchiesta condotta dall’“Institute on human values in medicine” nel 1980/81, molto soddisfacente. Quasi tutte le facoltà mediche avevano un programma che poteva essere qualificato come valori umani, etica o humanities, in netto contrasto con la situazione dei due decenni precedenti, quando programmi di questo genere erano inesistenti. Il rapporto, pubblicato a cura di Pellegrino, poteva concludere affermando che l’introduzione di questo genere di studi si presentava come una delle innovazioni di maggior rilievo nella formazione dei medici avvenute nel nostro secolo.

L’impegno di Pellegrino nelle medical humanities, per quanto appassionato e coinvolgente, non lo ha portato a cambiare professione. È rimasto costantemente rivolto alla pratica della medicina e al suo titolo di M.D., con quella fierezza che è un tratto distintivo dei medici americani. Rifiuta in modo risoluto la qualifica di bioethicist: il suo apporto al rinnovamento della pratica medica non va rubricato come bioetica, ma tutt’ al più come filosofia della medicina. Egli stesso non pretende di aver creato una nuova professione, ma semplicemente di aver rispolverato quella dimensione di riflessione sulla medicina che è inerente per tradizione alla medicina stessa (come testimonia l’aforisma ippocratico: «Il medico filosofo è di natura divina»).

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La questione terminologica non è di minor conto. Pellegrino distingue la bioetica dalla filosofia della medicina, e ambedue dalle medical humanities. In parte sono campi sovrapposti, ma per alcuni aspetti si distinguono nettamente. Se le medical humanities forniscono la prospettiva più ampia e inclusiva, bioetica e filosofia della medicina non sono sinonimi. Pellegrino intende la bioetica, in senso stretto, come la sottodisciplina della filosofia morale che si occupa degli interventi umani sulla vita; la filosofia della medicina, invece, come una riflessione sistematica sulla pratica medica, sulla sua legittimazione, sulle concezioni antropologiche e sociali che la sostengono. Per dare alla rinnovata disciplina uno strumento adeguato, Pellegrino prese l’iniziativa di fondare nel 1976 il Journal of Medicine and Philosophy, di cui ha assunto per alcuni anni la direzione.

La distinzione tra bioetica e filosofia della medicina non è uno sterile puntiglio accademico. Pur occupandosi delle stesse questioni, le due discipline tendono a farlo in modo diverso. E possono giungere a conclusioni divergenti. La variabile di fondo più decisiva risulta essere l’orizzonte professionale a partire dal quale si pongono gli interrogativi etici: chi esercita una professione intellettuale ― come appunto il filosofo che si dedica alla bioetica ― vede e accentua dimensioni diverse dell’esperienza umana in medicina rispetto a chi pratica una professione sanitaria. La riflessione del medico-filosofo avrà perciò un timbro diverso da quella del “bioeticista”.

Con la collaborazione di David Thomasma ― un esperto di bioetica di formazione teologica, docente di etica medica alla Loyola University di Chicago ― Pellegrino ha intrapreso un vasto disegno di rifondazione della filosofia della medicina. Ne sono derivati due importanti volumi, scritti a quattro mani: A philosophical basis of medical practice: Toward a philosophy and ethics o fhealing professions (1981) e For the patient’s good: The restoration of beneficence in health care(1988). Il secondo in particolare ha avuto una vasta risonanza internazionale; è stato tradotto in tedesco, spagnolo, italiano e giapponese.

Da questa espressione più compiuta della filosofia della medicina elaborata da Pellegrino possiamo ricavare gli elementi di confronto più istruttivi con l’approccio che è tipico di coloro che Pellegrino qualifica come “bioeticisti”. Il punto di più marcata divergenza dalla bioetica standard (il riferimento è alle posizioni di Tristam Engelhardt, Robert Veacht, James Childress, John Fletcher, per citare gli studiosi più influenti in America) è quello dell’autonomia del paziente come criterio etico per valutare la qualità etica della pratica etica.

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I filosofi che hanno dato forma alla bioetica hanno fortemente sottolineato l’importanza di trattare ogni paziente come agente autonomo, rivendicano il suo diritto morale (anche se non corrisponde sempre a quello legale) di determinare il corso del suo trattamento e di intervenire attivamente nelle decisioni che riguardano la lunghezza della sua vita. Per opporsi alla relativa differenza di potere tra medico e paziente e all’interpretazione paternalista dei legami che si instaurano tra chi offre le cure e chi le riceve, è stato proposto un modello di rapporto di natura contrattualistica.

Pellegrino ha sviluppato una posizione molto critica nei confronti di una bioetica centrata sulla autonomia del paziente e sul modello contrattuale. L’opposizione non è sollevata in nome di una visione metafisica o di un riferimento a una particolare teoria filosofica. Non si tratta di un rifiuto pregiudiziale di quell’approccio analitico predominante nell’etica anglo-americana, ampiamente basato sulle filosofie di Hume, Kant e J.S. Mill. Le riserve valgono, in generale, per qualsiasi sistema filosofico che tenti di articolare l’etica medica dall’esterno. Pellegrino si è fatto paladino di un’etica medica fondata su una filosofia della medicina specifica della medicina, ossia ricavata da quella conoscenza dell’uomo che il medico deriva dalla sua frequentazione dei malati.

L’uomo che il medico incontra nella situazione di malattia ha solitamente un’autonomia molto limitata. L’autonomia evocata dai filosofi nelle discussioni bioetiche gli sembra un’astrazione, rispetto a quella che è propria del “setting” clinico, alla presenza del dolore, della sofferenza morale e della paura della morte. La malattia comporta una disorganizzazione dell’intero mondo del paziente. Il corpo stesso gli si trasforma in qualcosa di estraneo, che difficilmente si fa integrare con ciò che egli prima chiamava il proprio “io”.

«Quando siamo malati, il corpo non è più un docile strumento della volontà e non abbiamo le conoscenze e le abilità necessarie per fare le scelte che ristabiliranno la salute; siamo necessariamente soggetti al potere di altri; la nostra immagine integrata, il nostro ‘io’ incarnato da cui la nostra vita acquista il suo significato, viene coperto da un’ombra»: sono questi, secondo Pellegrino, i tratti che caratterizzano la conditio humana nella malattia.

Tra questi quattro deficit, la perdita della libertà di fare scelte razionali appare la più grave dal punto di vista etico. Il paziente non è in grado o può non voler fare delle scelte relative al trattamento. Si affida al medico. Questa mutua integrazione ― la disposizione a fare “il bene del paziente” da parte del medico; la fiducia con cui il malato si affida al sanitario ― diventa il punto di partenza della filosofia della medicina proposta da Pellegrino.

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“Beneficità fiduciaria” (beneficence in trust) è la formula programmatica. Egli intende così proporre una specie di terza via dell’etica medica. Si colloca a metà strada tra il paternalismo benevolo e autoritario dell’etica medica della tradizione ippocratica e l’autonomismo promosso dai filosofi analitici, che hanno fatto del diritto all’autodeterminazione il punto di appoggio di tutta la moderna etica medica.

Beneficità fiduciaria”

Nel paternalismo ippocratico il centro della decisione è il medico. Egli si impegna ― secondo la formulazione che troviamo nel Giuramento di Ippocrate ― a «prescrivere agli infermi la dieta opportuna che loro convenga, per quanto mi sarà permesso dalle mie condizioni»: ogni interferenza del paziente nelle scelte terapeutiche è semplicemente impensabile, in quanto il paziente non ha le conoscenze relative alla terapia appropriata, né si trova nella condizione morale di essere il protagonista delle decisioni che lo riguardano. Il paradigma autonomista, invece, sposta il centro della decisione sul paziente. Il rispetto per la sua persona richiede che nelle decisioni cliniche il medico si adegui ai desideri e ai valori del paziente (o di colui che lo rappresenta, se il paziente è incapace di intendere e di volere).

La terza via proposta da Pellegrino ― la “beneficità fiduciaria” ― vuol combinare i due modelli, ponendo anche dei correttivi alla possibilità di scivolare in estremismi unilaterali. Il paternalismo del medico, infatti, viola il rispetto che si deve alla persona in quanto persona; e l’autonomia del paziente come principio assoluto minaccia l’indipendenza del giudizio, sia clinico che etico, del medico. L’orientamento del medico a fare “il bene del paziente” e l’autonomia di questi non sono considerati come poli opposti e in lotta tra loro.

Il conflitto non è tra beneficità e autonomia, ma semmai tra paternalismo e autonomia. Il paternalismo tende, infatti, a far coincidere il bene del paziente con il bene visto con gli occhi del medico. Ora, questa visione è viziata da una prospettiva troppo limitata: il medico deve considerare altri valori, oltre quelli che vede dal suo punto di vista professionale, e negoziarli all’interno della struttura gerarchica dei valori che costituiscono il bene del paziente.

In altre parole, mentre il paternalismo considera l’autonomia del paziente come contraria al suo miglior interesse ― soprattutto se il paziente non è d’accordo con il medico ― la beneficità fiduciaria include l’autonomia, ma senza rinunciare a orientare l’azione medica verso “il bene del paziente”. La beneficità fiduciaria sottolinea il ruolo del

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medico come avvocato del paziente, o perfino come suo delegato o sostituto in caso di incapacità, se non sono noti desideri espressi in precedenza o se non sono disponibili altre persone che rappresentino il paziente.

I critici oppongono a Pellegrino il carattere sostanzialmente conservatore della sua filosofia della medicina. A differenza della bioetica, che nella determinazione dei mutui obblighi tra medici, pazienti e società cerca un punto di vista esterno a quello delle professioni sanitarie, la filosofia della medicina di Pellegrino è saldamente radicata nella professione medica. È certo molto più sofisticata rispetto alle regole di comportamento promulgate in codici fissi e in principi, senza argomentazioni o giustificazioni. L’etica medica normativa presuppone un esercizio critico della ragione e una capacità argomentativa che sono assenti nelle prescrizioni del comportamento corretto per il “buon medico” presenti nelle codificazioni del passato.

Tuttavia la nuova etica medica proposta da Pellegrino ― l’etica medica “per un’epoca post-ippocratica”, come egli la chiama ― si pone in sostanziale continuità con quella riflessione che è stata esercitata dai medici-filosofi del passato. Non è un caso, infatti, che Pellegrino abbia dedicato seri studi a codificazioni di etica medica dell’eredità storica: a quella di Scribonio Largo, un medico-farmacista del I sec. d.C., che per primo ha elaborato una concezione dei doveri specifici di un ruolo o di una professione (indicando l’“umanità” e la “compassione” come doveri intrinseci alla professione del medico); oppure all’etica medica di Thomas Percival (1740-1804), il medico-filosofo illuminista che all’inizio del secolo scorso ha dato l’impulso più decisivo alla creazione di un codice deontologico per i medici.

L’etica medica che, tallonata dal movimento della bioetica, riformula se stessa, si propone di integrare il rispetto del malato, in quanto sorgente autonoma di moralità, nel tradizionale orientamento a fare il suo bene. L’intento è lodevole; rimane da verificare quanto sia possibile l’effettiva realizzazione del progetto.

È degna della massima considerazione la volontà dei professionisti medici di valorizzare un processo decisionale che veda il paziente informato e collaborante, senza alcuna coercizione, in un clima di mutua fiducia tra lui e il suo medico personale. Ma che cosa succede quando si ha una pluralità di visioni e giudizi sul “bene biomedico” per un determinato paziente? Come comporre il dissidio quando i giudizi clinico-etici divergono in modo inconciliabile (“Bisogna procedere alla rianimazione”; “No, è meglio lasciar morire”...)? Come procedere quando il giudizio morale del sanitario e quello di colui che ricorre al suo aiuto sono opposti (basti pensare alle situazioni di richiesta di interruzione

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volontaria della gravidanza, di suicidio assistito, di procreazione artificiale)?

Pellegrino è consapevole che questi conflitti mettono a dura prova l’etica della “beneficità fiduciaria” da lui proposta. Rivendica in questi casi il diritto del medico di riferirsi alla sua coscienza ― alla propria etica, elaborata all’interno di una determinata comunità di appartenenza: la comunità cristiana cattolica, nel caso di Pellegrino ― e quindi di far valere il suo diritto a non lasciarsi imporre le scelte morali del paziente.

La filosofia della medicina nata entro l’orizzonte ideale del movimento bioetico ha accettato da quest’ultimo la prospettiva secolare. Nella sua riflessione sulla medicina Pellegrino non argomenta mai in termini teologici, non fa appello alla dimensione religiosa dell’uomo. Colloca anche l’etica medica su quel livello che obbliga tutti gli uomini, in forza di considerazioni di ragione, non di fede. Tuttavia vuol garantire a se stesso come medico cattolico, ma anche a qualsiasi altra persona, comunque orientata in senso morale, lo spazio per poter agire secondo i dettami della coscienza. Ovvero, dopo aver soddisfatto gli obblighi che nascono dalla moralità intrinseca alla natura della medicina, di poter seguire le esigenze di un orientamento all’“agape”, cioè all’amore altruistico.

Riferimenti bibliografici

The Journal of Medicine and Philosophy, 15, 1990 (fascicolo monografico dedicato all’opera di E. Pellegrino).

Edmund Pellegrino (a cura di), Humanism and the physician, in particolare i contributi «The most humane of the sciences; the most scientific of the humanities», pp. 16-37 e «Humanistic basis of professional ethics», pp. 117-129, 1979.

Edmund Pellegrino, David Thomasma, A philosophical basis of medical practice: Toward a philosophy and ethics of the healing professions, Oxford University Press, New York, 1981.

Edmund PellegrinoDavid ThomasmaFor the patient’s good: The restoration of beneficence in health care, Oxford Univ. Press, New York, 1988; tr.it. Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell’etica medica, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1992.

Edmund PellegrinoTeaching ethics, the humanities, and human values in medical school: A ten-year overview, Institute on human values in medicine, Washington, DC, 1982.

Edmund Pellegrino, «Agape and ethics: some reflections on medical morals from a Catholic Christian perspective», in E. Pellegrino, J. Langan, J.C. Harvey (a cura di) Catholic perspectives on medical morals, Kluwer, Dordrecht, 1989, pp. 270- 300.

E. Pellegrino, R. Veatch, J. Langan (a cura di), Ethics, Trust, and the professions: philosophical and cultural aspects, Georgetown Univ. Press, Washington, 1991.

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20. Van Rensselaer Potter: bioetica globale, ovvero: la saggezza per sopravvivere

Dalla ricerca sul cancro alla bioetica

Chiunque abbia voluto tracciare un profilo storico della bioetica ha dovuto cominciare da lui: Van Rensselaer Potter. Tuttavia la menzione si riduce, in genere, ad attribuirgli la paternità del termine, apparso per la prima volta nel titolo di un volume del 1971: Bioethics. Bridge to the future. I più informati arrivano a un suo articolo apparso l’anno precedente nella rivista Perspectives in Biology and Medicine, dove la parola appare per la prima volta in senso assoluto: “Bioethics. The Science of survival”. La bioetica, dunque, correlata con il futuro e con la sopravvivenza: queste scarne informazioni ci dicono qualcosa sullo spirito che aleggiava sopra la creazione del termine, ma niente di ciò che ha fatto seguito alla genesi, dopo che la nuova disciplina aveva trovato l’etichetta che la contrassegnava.

Le poche notizie che si riesce a raggranellare su Potter aggiungono che è un biochimico, un ricercatore nell’ambito dell’oncologia di base. Ed è tutto. Cioè molto poco. L’interesse per Van Potter da parte dei cultori della bioetica abitualmente termina qui.

Introducendo un secondo libro di Van Potter, apparso quasi vent’anni dopo il primo, Tristam Engelhardt ― nel frattempo accreditatosi come uno dei bioeticisti più prolifici e ascoltati ― ha fissato il rapporto tra Potter e la bioetica con un’immagine: egli ha creato il nome alla disciplina e questa si è staccata da lui ed è andata per la sua strada, disdegnando il cammino che l’artefice aveva previsto, così come molto spesso i figli che hanno talenti e capacità fanno con i padri.

La bioetica che è cresciuta in questi due decenni non ha niente in comune con il programma tracciato dal pioniere. Egli ha fornito la nuova parola, con un insight che gli ha permesso di riconoscerla come il termine adeguato per esprimere la ricerca che era nell’aria verso la fine degli anni ’60. I termini tradizionali ― in particolare il più collaudato

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da un lungo uso: “etica medica” ― erano troppo angusti per identificare questo vasto raggio di interessi. Il neologismo ― osserva ancora T. Engelhardt ― è stato profondamente euristico proprio per la sua imprecisione e mancanza di chiarezza: cadendo in una soluzione supersatura, ha fatto cristallizzare un insieme eterogeneo di importanti problemi culturali.

Eppure Van Potter merita più di un semplice riconoscimento formale. A coloro che hanno a cuore di coniugare sapere scientifico e responsabilità morale non fornisce solo l’etichetta creata all’inizio degli anni ’70. Bisogna però prendersi la pena di ascoltare con calma quanto ha da dire. E per far questo bisogna cominciare con l’andarlo a cercare nel suo rifugio. Già solo tale viaggio richiede un notevole impegno.

La meta è Madison, capitale dello stato americano del Wisconsin. È una delle capitali più attraenti degli Stati Uniti, situata tra i Quattro Laghi. Il campus universitario si specchia nelle acque del lago Mendota. Gli edifici dell’università occupano un vasto quartiere; con la loro solidità e modernità danno subito una prima immagine visiva di quanto in questo angolo decentrato dell’immensa America il sapere sia tenuto in grande considerazione.

L’appuntamento con Van Potter è nel suo ufficio, al Laboratorio McArdle per la ricerca sul cancro, presso la facoltà di medicina dell’università del Wisconsin. Dopo che l’ascensore è giunto all’ottavo piano dell’imponente edificio, bisogna fare ancora un piano a piedi. Un paio di stanze, ricavate in un sottotetto, sono il suo regno. L’anziano professore ― è nato nel 1911 ― vi si è ritirato dopo aver lasciato, nel 1982, la direzione del laboratorio, per raggiunti limiti di età. Per più di quarant’anni ha condotto ricerche in quella sede. Anche ora continua a recarvisi ogni giorno a lavorare, con un impegno che non flette di fronte all’età e agli acciacchi.

Ha percorso un “cursus honorum” di tutto rispetto. È stato presidente della Società americana di biologia cellulare e dell’Associazione americana per la ricerca sul cancro; ha prodotto circa 350 pubblicazioni di biochimica e di ricerca sul cancro, in particolare utilizzando gli enzimi e sviluppando un nuovo approccio nello studio del cancro come malattia della biologia dello sviluppo; ha addestrato decine di ricercatori di tutto il mondo passati per il suo laboratorio. In suo onore l’università ha stabilito, nel 1982, una serie di “letture” su temi di biochimica ed oncologia.

Eppure questa solida carriera di scienziato non costituisce il centro, ma la periferia dei suoi interessi più profondi. Questo ambito era così difficilmente dicibile con i termini usuali, che ha dovuto coniare una nuova parola per esprimerlo: la bioetica. Più che in qualsiasi altro caso

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per capire una parola abbiamo bisogno di riferirci a una storia: la storia personale di colui che l’ha creata.

Non si può dire che le aperture che ha cercato in direzione della terra inesplorata della bioetica siano state motivate da frustrazioni vissute come scienziato. Al contrario, come sperimentalista e ricercatore ha avuto successo, specialmente nello studio di agenti che bloccano specifici metabolismi. È stato il primo a proporre che gli inibitori sequenziali di attività enzimatiche critiche si possono rivelare utili nella chemioterapia del cancro. Sul tema ha scritto un libro nel 1950: Enzymes, growth and cancer. Questo concetto ha indotto altri a sviluppare delle combinazioni di farmaci con vantaggi selettivi nel trattamento di certe affezioni oncologiche umane. Durante tutto il corso della sua carriera scientifica è stato circondato dalla stima dei colleghi e degli altri ricercatori. Questa alta considerazione probabilmente non è stata ininfluente sulla buona accoglienza che negli ambienti scientifici è stata riservata alle sue riflessioni relative all’ambito che ha chiamato “bioetica”.

Questo secondo interesse ha preso forma a poco a poco nella sua vita. Anche se, probabilmente, per ritrovarne le origine più lontane bisogna risalire all’impronta profonda che hanno lasciato in Potter le origini agricole e l’infanzia passata in una fattoria del sud Dakota. Ha avuto costantemente un grande interesse per l’ambiente. Anche il background religioso può aver lasciato una traccia permanente, che ha influito sul suo futuro orientamento. È stato educato in una chiesa presbiteriana ed era molto attivo nelle iniziative della sua comunità. Il pastore lo avrebbe volentieri visto come ministro del culto, ma il giovane Potter ha deciso che sarebbe diventato scienziato. La sua ambizione era di combinare la biochimica con la medicina. Questa è la linfa che circola nel ricercatore che da più di cinquant’anni studia la biochimica del cancro nel Laboratorio McArdle.

Le responsabilità dello scienziato verso il futuro

La pubblicazione di Bioethics. Bridge to the future è dovuta a un insieme di circostanze fortuite. Potter in alcune occasioni era stato invitato a parlare di temi che non riguardavano direttamente la ricerca sul cancro. Aveva affrontato temi di natura antropologica. Di fronte a interrogativi come il dolore delle persone buone e virtuose ― è la realtà che una malattia come il cancro ci mette quotidianamente sotto gli occhi ― si era reso conto che la risposta non andava cercata sotto i microscopi elettronici del laboratorio. Sentiva molte spinte ad andare al di là del

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sapere specialistico che era il suo. Si era confrontato con Teilhard de Chardin e con altri pensatori orientati al futuro dell’umanità.

Soprattutto lo aveva colpito un articolo scritto da Margaret Mead e pubblicato da Science nel 1957: “Toward more vivid utopias” (“Verso più brillanti utopie”). L’illustre antropologa sosteneva che nelle università avrebbero dovuto esserci delle “cattedre sul futuro”. Potter aveva sentito questo invito come direttamente rivolto a lui, che si occupava di studi sul cancro, inquinamento, prevenzione. Accogliendo la provocazione, aveva creato nell’università del Wisconsin un comitato interdisciplinare sul futuro dell’uomo.

Per conto di questo comitato, e con la firma degli altri membri, scrisse un articolo sul senso e la funzione dell’università. Sosteneva che i governi sono così occupati con i problemi quotidiani che non riescono neppure a porsi la questione di che cosa deve essere fatto per assicurare il futuro della specie. Chi deve farlo, se non l’università? Voleva portare l’interrogativo di fronte all’intero corpo dei docenti universitari e all’opinione pubblica.

L’articolo è stato pubblicato su Science nel marzo 1970. Richiamava con vigore gli universitari alla loro responsabilità primaria per la sopravvivenza e la qualità della vita nel futuro, reagendo alla concezione che fa consistere lo scopo dell’università nella “ricerca deffa verità”. Non si può negare che la “ricerca della verità”, abbinata alla tradizione accademica della “libertà di ricerca”, sia stata la chiave del progresso nella civiltà occidentale. Tuttavia nell’articolo veniva allo scoperto il malessere serpeggiante in molti segmenti della società, legato alla convinzione che la libertà non è tutto. È necessaria una direzione per la ricerca, mentre sembra che nessuno abbia il controllo della situazione: né gli dei, né i governi hanno un piano per il futuro.

In questo contesto, diventa anacronistico che il mondo accademico si aggrappi alla “ricerca della verità” e alla “libertà accademica”. È ovvio che i professori preferiscano essere soggetti il meno possibile a regolamentazioni. Ogni specialista ritiene che il proprio microcosmo merita maggiori finanziamenti, nell’interesse della società, senza domandarsi se e come è possibile trovare le menti che mettano insieme i pezzi di conoscenza, a servizio di una saggezza a dimensione di tutta la società.

In quell’intervento programmatico su Science Potter sosteneva che l’università deve essere il luogo di una “ricerca della verità orientata al futuro”. Deve trasmettere alle generazioni seguenti non solo la conoscenza, ma anche giudizi di valore significativi. Di fronte al futuro è necessario assumere una posizione di umiltà. Siccome nessun individuo conosce i criteri più appropriati per giudicare le azioni orientate al

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futuro, dobbiamo essere disposti a superare i confini delle discipline, a esercitare e subire le critiche, a sviluppare approcci e soluzioni pluralistiche, basandoci su gruppi interdisciplinari. In pratica, entro questo perimetro si iscrive la sua proposta di una bioetica, quale “ponte verso il futuro”: è il libro pubblicato nel 1971.

Il libro, costituito dalla raccolta di tredici scritti occasionali pubblicati tra il 1962 e il 1970, è nato ― concretamente ― per l’interesse di Carl Swanson, che dirigeva per l’editore Prentice-Hall una collana: “Biological Science series”. Egli riteneva che l’università dovesse occuparsi non solo della sostanza della scienza, ma anche delle sue implicazioni. Le riflessioni di Potter, nate in laboratorio ma con l’occhio fuori dal laboratorio, gli sembravano cogliere un bisogno del momento.

La richiesta di “bioetica” era nell’aria. È bastato coniare il termine, perché fosse adottato con entusiasmo. L’accostamento tra il “bios” ― la vita ― e l’etica è più che una trovata linguistica. Il neologismo voleva dar corpo a un progetto. La bioetica è stata proposta come il nome di una nuova disciplina che combinasse la scienza e la filosofia. Non, però, come una sintesi tra due saperi estranei. Potter intendeva opporsi alla prospettiva che considera l’etica come proveniente dal di fuori della scienza, dalla riflessione filosofica o teologica. L’etica che egli considera quale “ponte verso il futuro” è un sapere che si sviluppa dalle scienze biologiche.

Nel sostenere che i valori etici non possono essere separati dai fatti biologici, Potter si pone in continuità con il movimento degli anni ’60, che ha rimesso in discussione la pretesa della scienza di essere libera da valori. Dopo tutto, non si fa ricerca per sviluppare una pura conoscenza, ma per poter intervenire con efficacia per preservare o ristabilire la salute, alleviare il dolore e la sofferenza. Il suo approccio, che considera l’evoluzione morale come intrinseca al paradigma scientifico, appare molto affine a ciò che intendeva Teilhard de Chardin.

Nella sua proposta della bioetica come nuova disciplina che combina la conoscenza biologica con i valori umani in un sistema biocibernetico aperto di autovalutazione, né la filosofia è subordinata alla scienza, né la scienza alla filosofia. Il compito affidato alla bioetica è quello di condurre scienziati e non scienziati a riesaminare le loro visioni del mondo. L’interesse supremo per la sopravvivenza deve portare alla convinzione che è necessario conoscere di più sulla natura della conoscenza e sull’importanza di vedere la realtà con gli occhi dell’altro.

Per adottare questa prospettiva Potter non era costretto a cercare lontano: l’oncologia, che è il suo ambito di ricerca, è di sua natura più interdisciplinare di qualsiasi altro settore della scienza. Rivedendo lo

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sviluppo della sua attività di ricercatore, Potter ricorda che ha iniziato, alla fine degli anni ’30, ritenendo che, se noi avessimo potuto capire la biochimica del cancro, avremmo trovato la cura per questa malattia. Ben presto cominciò a rendersi conto che nei posti di lavoro molte persone sono esposte senza necessità a sostanze cancerogene; ciò lo ha indotto a pensare in termini di prevenzione. Considerando poi l’inquinamento crescente e i danni prodotti all’ambiente, ha sentito il bisogno di cercare un punto di vista superiore, che ha individuato nell’imperativo della sopravvivenza.

La sua parabola personale è esemplare: rispecchia un allargamento di orizzonti che coinvolge un vasto numero di ricercatori in campo oncologico. Con il tempo sono diventati consapevoli che il maggior impedimento a trovare soluzioni al cancro dipende dall’organizzazione della scienza stessa, in quanto non sa integrare i bisogni e le opinioni di scienziati e non scienziati, includendo tra gli ultimi i pazienti e i cittadini motivati. In armonia con questa prospettiva, la bioetica proposta da Potter doveva essere la scienza nuova che combina valori umani e conoscenze biologiche, in particolare quelle della fisiologia, della genetica e dell’ecologia.

La bioetica si attesta in campo medico

Con sua stessa sorpresa, il termine ha messo radici e la disciplina nel corso di due decenni ha conosciuto uno sviluppo trionfale. Ma la bioetica che si è affermata ha risposto solo in parte alle sue aspettative. Intanto perché il dibattito si è focalizzato ben presto sulle tematiche mediche. La bioetica è sembrata come una risposta alla diffusa disaffezione nei confronti della scienza medica. Alla nuova disciplina è stato attribuito il ruolo di prevenire reazioni violente nei confronti della medicina e della biologia. La preoccupazione dominante era quella di mantenere gli usi della medicina entro confini etici; la bioetica ha cominciato perciò ad essere correlata con problemi di aborto ed eutanasia, di fecondazione in vitro, di donazione di organi da esseri viventi e di trapianti.

Per molti parlare di bioetica significava esclusivamente domandarsi fino a che punto spingere opzioni mediche che sono tecnicamente possibili e richiedere il consenso informato da parte dei pazienti e dei soggetti sperimentali. Preoccupazioni indubbiamente legittime; ma l’orizzonte più ampio entro cui Potter aveva originariamente pensato la bioetica veniva ristretto entro la prospettiva medica.

Il secondo aspetto in cui la bioetica che ha preso il sopravvento si è

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discostata dal suo progetto è nella concezione stessa dell’etica. Potter proponeva di considerare seriamente il fatto che l’etica umana non può essere separata da una comprensione realistica dell’ecologia nel significato più ampio. I valori etici non possono essere staccati dai fatti biologici. Suggeriva, conseguentemente, di abbandonare sistemi etici che non fossero in grado di vedere la nostra specie in un contesto evoluzionistico ed ecologico.

Il primo imperativo è che l’etica riconosca i legami tra l’umanità e il mondo della natura. Una sopravvivenza che salvi la qualità è possibile solo se i sistemi etici sono compatibili con il mondo reale, e ciò richiede un doloroso riorientamento nei nostri modi di pensare e di comportarci, una revisione di antiche e consolidate credenze. Ciò che è avvenuto, invece, nella bioetica dominante è stata una riscossa della filosofia sulla scienza, nella pretesa di avere in proprio la strumentazione concettuale necessaria per dettare le regole a cui il progresso scientifico si deve conformare.

Non che debba valere il contrario, che cioè l’etica sia tenuta ad adattare il suo passo a quello della scienza e a mutuare da essa il suo sapere. È proprio questa contrapposizione che Potter cercava di superare, proponendo la bioetica come un nuovo paradigma che rende obsolete le due visioni parziali dei valori umanistici e del sapere scientifico. La bioetica, nel suo fine pratico di assicurare la sopravvivenza del mondo vivente, deve cercare di riferire la nostra natura biologica e la conoscenza realistica del mondo biologico alla formulazione di politiche finalizzate a promuovere il bene sociale. Questo passaggio non può avvenire in qualsiasi modo: mediante una coercizione autoritaria, per esempio. Deve comportare sia convinzioni che impegno personale. La funzione affidata alla bioetica era quella di assicurare il legame tra i due.

La bioetica, in quanto si pone a servizio della sopravvivenza, promuove un atteggiamento nei confronti dei problemi che nascono quando si vuol portare il compito di mantenere della vita su un piano diverso sia dal comportamento stereotipato dello scienziato (il quale nei confronti della sopravvivenza sembra dire: «Non so, e ciò che io credo è irrilevante»), sia da quello del teologo (il quale sembra dire: «Ciò che io credo è la sola cosa importante e ciò che io so è irrilevante»),

Potter auspicava un’etica orientata alla scienza, o bioetica, che ci porti a dire: «Ciò che io so è limitato, ma io lo combinerò con le conoscenze e le opinioni di altri uomini intelligenti e ispirati in senso etico provenienti da varie discipline per determinare ciò che credo e faccio, e cercherò di sviluppare e disseminare direttive etiche che contribuiranno alla sopravvivenza e al miglioramento della specie umana».

Nel tentativo di schematizzare il processo che porta da una posizione

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filosofica a uno stato sociale responsabile, Potter prevedeva una sequenza costituita da cinque stadi: 1. il danno ambientale diventa visibile all’individuo comune e provoca indignazione morale; 2. la conoscenza di questi problemi si evolve in una nuova disciplina: la bioetica ambientale; 3. l’indignazione morale richiede contromisure preventive; 4. la pressione morale, unita all’informazione fattuale, genera delle direttive bioetiche; 5. queste sono convertite in sanzioni legali.

La sopravvivenza ha bisogno di veri credenti”

Si ha la forte impressione che la bioetica caldeggiata da Potter sia più che un’estensione della scienza. Assomiglia piuttosto a una specie di religione: la religione della sopravvivenza. Questa, infatti, si presenta come un’esigenza superiore. Potremmo chiamarla un’esigenza metaetica. Nessuno è in grado di giustificare con argomentazioni della scienza che la sopravvivenza sia desiderabile per l’umanità (come, del resto, non si può provare che è bene che le persone siano sane piuttosto che malate...). La disponibilità ad accogliere l’imperativo della sopravvivenza e a mettersi a suo servizio agisce allo stesso modo degli imperativi etici fondamentali, sui quali riposano incondizionatamente le singole regole o norme morali: non si possono dimostrare in modo argomentato.

Di recente Potter ha scritto che «la bioetica ha bisogno di veri credenti». L’espressione e più appropriata a una religione che a un’etica. Suona come peggiorativa, quasi fosse la descrizione di individui che negano l’evidenza. Ciò ci porterebbe agli antipodi di quanto Potter ha sempre auspicato per la bioetica. L’analogia con la religione è forzata, se le si vuol dare una portata che vada al di là di questa affermazione: la bioetica deve essere l’atteggiamento interiore di individui che sanno mirare a un obiettivo lontano e finalizzare le azioni al suo conseguimento.

Se la parola “sopravvivenza” sembra troppo enfatica, si può formulare questo obiettivo lontano come la ricerca della “salute universale”: la dedizione che la bioetica richiede è l’impegno ad assumerci le nostre responsabilità e ad eliminare le malattie, i parassiti, il cancro causato dall’inquinamento. Anche questo può essere un modo adeguato per esprimere l’intento della bioetica. Potter predilige, tuttavia, la prospettiva della sopravvivenza, intesa come il momento cruciale dell’evoluzione in cui il destino delle specie viventi passa nelle mani dell’uomo. Si propone ― tanto per essere concreti ― che l’umanità si impegni a fare quanto è necessario per arrivare all’anno 3000.

I naturalisti si domandano se l’estinzione non sia qualcosa di innato nel processo evolutivo. La maggior parte delle specie del passato si

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sono estinte, eppure la loro evoluzione era controllata dalla selezione naturale. Questo perché ― ha osservato Theodosius Dobzhansky ― la selezione promuove quello che è immediatamente utile, anche se il cambiamento a lungo andare può essere fatale. È quello che Potter ha chiamato il “flusso fatale” (fatal flow) dell’evoluzione.

Per gli uomini l’evoluzione può avere un corso diverso, purché si oppongano al “flusso fatale” e decidano, contrariamente a quanto hanno fatto finora, di non proporsi solo fini immediati, come il guadagno economico, ma anche un fine a lunga scadenza: la sopravvivenza, appunto. Qualora la sopravvivenza delle specie umane sia l’obiettivo ampiamente accettato, il “problema della scienza” diventa il problema etico di ciò che dobbiamo fare per scoprire l’appropriato corso delle azioni.

Questa ricerca comporta più dell’etica storicamente intesa. La nuova etica ― la bioetica ― ci deve permettere di prendere in mano il nostro destino, arrestando la maligna espansione della specie più perfettamente adattata, e quindi per questo potenzialmente più pericolosa. Dobbiamo distinguere tra l’evoluzione genetica e l’evoluzione culturale. Poiché l’evoluzione genetica non è un “optional”, è necessario puntare su una evoluzione culturale consapevole, in cui giustifichiamo le nostre azioni mediante l’etica.

La bioetica diventa “globale”

Potter si è trovato nella necessità di differenziare questa prospettiva da ciò che negli ultimi vent’anni è stato identificato come bioetica. Per questo nel suo ultimo libro, pubblicato nel 1988, ha introdotto il concetto di “Bioetica Globale”. In realtà, non è altro che la riproposta del primitivo progetto. Mette più esplicitamente in luce che spetta alla nostra saggezza collettiva sviluppare il programma per la sopravvivenza che la natura ci ha dato. La specie umana è il solo prodotto dell’evoluzione che sa che è evoluto e che vuole continuare a evolvere. La bioetica è lo sviluppo di una saggezza biologica che ci permette di usare il sapere per sopravvivere, generazione dopo generazione.

Per cercar di esprimere nei termini più semplici possibili il programma della Bioetica Globale, si può dire che una sopravvivenza accettabile deve provvedere tre cose: la promozione della dignità umana, la limitazione volontaria della fecondità dell’uomo e il rispetto dell’ambiente naturale. Il primo punto è dato generalmente per acquisito (anche se sussistono forti diversità nel modo di concepire la dignità umana).

Per quanto riguarda il secondo punto, la bioetica che si è sviluppata in campo medico si è fortemente concentrata su problemi marginali

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rispetto al quadro d’insieme, anche se non si può negare loro importanza e serietà. Le problematiche, infatti, che sono state dibattute, oltre all’eterna questione dell’interruzione volontaria della gravidanza, sono quelle relative ai metodi di controllo delle nascite, alle varie risorse offerte dalla fecondazione artificiale, agli interventi di sperimentazione sugli embrioni. Ma la bioetica non ha considerato l’imperativo generale di frenare l’espansione della popolazione per assicurare una sopravvivenza accettabile.

L’assenza di controllo della fecondità può essere considerata come un tipico comportamento orientato ai vantaggi da ottenere a breve termine, ma che non considera le conseguenze a lungo termine. Ci sono tuttavia anche altri aspetti da valutare. L’umanità sta disseminando elementi chimici tossici, che hanno effetti biologici non immediatamente ovvi. Molti di questi prodotti chimici sono carcinogenici, teratogenici e mutageni in senso ampio. Dobbiamo perciò considerare non solo le disastrose conseguenze della generazione incontrollata di bambini sani, ma anche quella di neonati handicappati, i cui genitori sono stati esposti a prodotti chimici a rischio. Attraverso la degradazione dell’ambiente noi stiamo progressivamente aumentando i rischi alla salute di tutti i gruppi di età della specie umana, compresi i bambini non ancora nati.

Da queste considerazioni emerge con chiarezza che per la Bioetica Globale l’obiettivo è più ampio che offrire un aiuto per risolvere i dilemmi che si presentano nella pratica sanitaria. Essa mira a promuovere la salute umana per tutti gli abitanti del pianeta, e non solo per alcuni privilegiati.

Un altro punto qualificante della bioetica di Potter è il rispetto dell’ambiente naturale. Il riferimento esplicito è ad Aldo Leopold e alla sua “Land Ethics”. Leopold, l’ormai celebre pioniere di un nuovo atteggiamento nei confronti della natura e dell’importanza di conservare ambienti naturali, è entrato casualmente nell’architettura del pensiero di Potter. Anche il suo primo libro,Bioethics. Bridge to the future, è dedicato a Leopold. Tuttavia Potter non esita a confessare che, mentre scriveva i diversi saggi che lo compongono, ignorava l’esistenza stessa di Leopold. Ha conosciuto la sua opera, in particolare il suo incantevole A Sand County Almanac, che è del 1949, solo dopo che il manoscritto era stato completato. Gli ha dedicato il libro, anche se in questo non c’è un solo riferimento a Leopold.

Diversamente è andata, invece, per Global Bioethics. Qui ha inserito nel sottotitolo (“Edificare sulla eredità di Leopold”) un esplicito riferimento al fatto che la bioetica che propone è costruita sulle fondamenta del pensiero di Leopold. Potter ha in comune con Leopold la preoccupazione per la sopravvivenza, come prospettiva meta-etica. Inoltre

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condivide completamente la sua scansione dell’etica in tre fasi: quella in cui è invocata per regolare i rapporti tra gli individui; quella in cui si è occupata prioritariamente dei rapporti tra gli individui e società; e infine la fase attuale: l’etica deve regolare i rapporti dell’uomo con gli animali e le piante. L’estensione dell’etica a questo terzo ambito è una possibilità evolutiva e una necessità ecologica.

Tra i pionieri della bioetica Potter occupa una nicchia a se stante. Il movimento ha adottato il termine da lui proposto, ma non le preoccupazioni che erano le sue. Inoltre Potter ha scelto di restare un “amateur”: ha continuato a ricevere il suo stipendio per fare ricerca sul cancro, mentre si creavano cattedre ed istituti di bioetica, e nasceva la figura del “bioeticista” pagato per fare bioetica.

Le sue riserve verso la professionalizzazione della bioetica nascono dal timore che in questa transizione vada perduto qualcosa di essenziale. Soprattutto non recherebbe nessun vantaggio alla bioetica se dovesse attrarre ricercatori insoddisfatti del loro lavoro, diventando il contenitore per persone disadattate nella loro professione. L’immagine della disciplina risulterebbe irrimediabilmente compromessa. La bioetica ha bisogno di persone forti, con un deciso senso d’identità, fiducia in se stessi e sguardo rivolto lontano. Persone proprio di quella pasta di cui è fatto Van Potter.

Riferimenti bibliografici

B. Chiarelli, E. Gadler, «Nota storica. Van Rensselaer Potter e la nascita della Bioetica», in Problemi di Bioetica, 5, 1989, pp. 61-63.

Margaret Mead, «Toward more vivid utopias», in Science, 126, 1957, pp. 957-61.

Van R. Potter et al., «Purpose and function of the University», in Science, 1070, 1970, pp. 1590-93.

Van R. Potter, «Bioethics, the Science of survival», in Perspectives in Biology and Medicine, 14, 1970, pp. 127-153.

Van R. PotterBioethics. Bridge to the future, Prentice Hall, Engelwood Cliffs, 1971.

Van R. Potter, «Humility with responsability: The first rule of professional ethics», in R.A. Preston (a cura di),The role of ethics in American life, Bellarmine College Press, Louisville, 1977.

Van R. PotterGlobal Bioethics: Building on the Leopold legacy, Michigan State Univ. Press, East Lansing, 1988.

Van R. Potter, «Getting to the year 3000: Can Global Bioethics overcome evolution’s fatal flow?», inPerspcetives in Biology and Medicine, 34, 1990, pp. 89-98.

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21. Ruth Purtilo: una nuova professione di aiuto

Le “grandi questioni” di una fisioterapista

È calata la sera nel Massachusetts General Hospital, l’enorme cittadella della salute che si erge al centro di Boston. C’è calma anche nella “White Lobby”, l’ingresso centrale che durante il giorno ha l’animazione di un formicaio: personale sanitario, visitatori, malati si incrociano in continuazione. Provengono da mille diverse gallerie e si dirigono alla propria meta con una sicurezza che stupisce lo sperso visitatore (il quale apprezza molto che i percorsi siano segnati da strisce di diverso colore: la versione moderna del filo di Arianna risparmia innumerevoli giravolte). Può rilassarsi anche Ruth Purtilo, giunta alla fine di una intensa giornata di lavoro.

Qualche anno fa, quando la rivista francese Autrement ha dedicato un numero monografico alla bioetica, le è stato chiesto di descrivere la giornata-tipo di un esperto di bioetica che faccia un lavoro di consulenza in un ospedale. Ruth Purtilo ha raccolto la sfida raccontando, non senza un vivo senso di umorismo, la vita di una “eticista di guardia”... Nel suo caso il titolo è più che una metafora: al Massachusetts General Hospital Ruth Purtilo è in servizio in qualità di “bioethicist in residence”, cioè come esperta di bioetica assunta dall’ospedale. In esso svolge il suo lavoro, con compiti di insegnamento, formazione e consulenza etica. Questo profilo professionale, sconosciuto in Europa, è nato dal successo ottenuto nella società americana dalla bioetica come etica applicata, con una innata vocazione ad essere utilizzata nel concreto, per risolvere problemi reali.

La signora Purtilo è la prima a dichiararsi stupita per tali sviluppi. Mai avrebbe immaginato che una istituzione ospedaliera sarebbe stata disposta a tirar fuori dei soldi per pagare uno stipendio a qualcuno, deputandolo a fare un servizio di consulenza per problemi etici...; meno che mai si sarebbe sognata che una tale professione sarebbe stata la sua.

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Alla bioetica è giunta per una via tra le più inusuali. Ha ricevuto una formazione come fisioterapista e per anni ha esercitato la professione. Ma senza smettere mai di porsi delle domande, alle quali la sua professione si dimostrava inadeguata a fornire una risposta. Non solo non aveva le risposte: le mancavano anche le parole per formulare le domande.

Il lavoro di fisioterapia con i pazienti le faceva sorgere quelle che lei con se stessa chiamava “le grandi questioni”. Candida e ostinata, continuava a pensare che qualcuno dovesse avere le risposte ad esse. Erano gli interrogativi intorno a quello che capita alle persone quando si ammalano, o hanno un incidente che li renderà handicappati per il resto della loro vita; interrogativi intorno all’immagine di sé che cambia, ai rapporti con la famiglia che si modificano.

Non nascevano in astratto. Per lei avevano il volto di David, un giovane che era un campione di football. Un giorno, dopo una grande partita vittoriosa, era andato in spiaggia a festeggiare con gli amici. Qualche birra, e un tuffo in acque troppo basse. Tetraplegico. Non sarebbe morto: ma per tutta la vita non avrebbe mosso né le gambe, né le mani. La giovane fisioterapista lavorava alla sua riabilitazione, sapendo che egli non avrebbe più recuperato l’uso del corpo. Un giorno la fidanzata era venuta a trovarlo insieme al fratello di David per annunciargli che loro due si sarebbero sposati.

Tutto questo non aveva niente a che fare con la fisioterapia. Tuttavia Ruth Purtilo continuava a tormentarsi con “le grandi questioni”, pensando che queste non erano esercizi sentimentali di una fisioterapista ancora giovane e inesperta, ma riguardavano proprio il lavoro che lei stava facendo con David.

Era l’inizio degli anni ’70. L’inquieta Ruth Purtilo viene a sapere che a Washington, all'Istituto Kennedy, c’è qualcuno che si occupa di quello che lei cerca inutilmente di formulare, e che lo ha chiamato “etica”, o “bioetica”. Telefona ad André Hellergers, il direttore dell’istituto. Gli parla delle sue “grandi questioni” e gli esprime il desiderio di studiarle in modo sistematico. Hellergers le risponde compiacente: “Ci sono persone che studiano queste tematiche; la maggior parte di loro sono teologi. Lei ha studiato teologia o filosofia?”. E Ruth: “No, sono fisioterapista”. Ancora oggi ricorda il lungo silenzio imbarazzato al telefono...

La conversazione non ebbe alcun seguito. Ma la giovane fisioterapista aveva almeno acquisito la convinzione che la cosa più vicina a ciò che andava cercando era l’etica. Si iscrisse alla “Divinity School” dell’università di Harvard, studiando con tenacia storia, teologia, filosofia, fino a conseguire un dottorato in etica. Ma senza mai abbandonare il filo conduttore delle questioni pratiche che si era andata ponendo a

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partire dal suo interesse professionale. Lo dimostra anche l’argomento scelto per la sua tesi di dottorato: «La giustizia, le cure mediche e il ‘paziente permanente’: Studio di un caso di grave ictus». Partendo da un caso concreto, da una situazione patologica che conosceva bene, cercò di verificare quale tipo di teoria etica della giustizia distributiva potesse essere più adeguata per guidare le scelte che dovevano essere fatte circa l’utilizzazione delle risorse.

La rilevanza morale del “prendersi cura”

Attraverso la formazione universitaria la candida fisioterapista è diventata più sofisticata: ha imparato che “trattare bene” una persona che non è più in grado recuperare la salute ed è destinata negli anni futuri a consumare enormi quantità di risorse scarse e molto costose, non richiede solo empatia e gentilezza di tratto: mette in gioco valori contrastanti e richiede criteri nuovi, socialmente condivisi e partecipati, di operare delle scelte. Tuttavia il suo atteggiamento non convenzionale rispetto alle istituzioni accademiche col tempo non è cambiato. Nel 1991, ricevendo una onorificenza da parte della Harvard Divinity School, riservata agli alunni ai quali è arriso un particolare successo, ha risposto nel suo discorso che per tutto il tempo in cui ha studiato etica ad Harvard non sapeva cosa fosse l’etica, né a cosa le potesse servire...

Nel frattempo il tema delle allocazioni delle risorse è diventato uno dei più caldi nel dibattito della bioetica. Tutte le politiche sanitarie vi sono confrontate, comunque siano orientati i sistemi sanitari nazionali, dalla tendenza più liberale a quella più socializzata. Rispondere ai bisogni sanitari “con giustizia” è diventato un imperativo che incombe con un senso di urgenza. Ogni società è costretta a ripensare il problema della giustizia nell’ambito delle cure sanitarie.

Ruth Purtilo ha contribuito a portare in questo discorso qualcosa che agli economisti sanitari e ai filosofi di professione sfuggiva: la rilevanza morale del “prendersi cura”. È una prospettiva che ha rinnovato il discorso etico, portando in esso il punto di vista dell’“altra metà del cielo”. La riflessione etica esercitata dalle donne ha attirato l’attenzione sulla parzialità implicita nelle teorie sullo sviluppo morale, per il fatto che ignorano il diverso modo degli uomini e delle donne di collocarsi rispetto ai doveri morali. Anche riguardo all’etica ― in altre parole ― sarebbe in azione un pregiudizio sessista.

Questa è la tesi fatta valere, con vivace piglio, da Carol Gilligan. Con il suo libro Con voce di donna si è proposta di rivelare un altro percorso nella formazione della personalità, compresa la sua dimensione

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etica, diverso e parallelo rispetto a quello seguito dai maschi: il cammino della crescita etica delle donne. La Gilligan sostiene che, già fin dall’infanzia, le bambine tendono a definire se stesse in rapporto agli altri, mentre i ragazzi si definiscono in opposizione agli altri.

Nel pieno sviluppo adulto, la visione morale degli uomini inclina a fare della giustizia la virtù centrale, con i corollari costituiti dai diritti personali e dalla difesa dell’autonomia e dell’autodeterminazione dell’individuo. Secondo la concezione dominante dell’etica, il rispetto delle regole finalizzate a rispecchiare la giustizia è sinonimo di qualità morale. Le donne, invece, tendono a mettere l’accento sul senso della responsabilità insito nei rapporti. L’etica vissuta al femminile ruota intorno al prendersi cura gli uni degli altri, in un contesto di relazioni, piuttosto che intorno a regole universali di giustizia.

Il sasso gettato nello stagno da Carol Gilligan ha creato ampi cerchi di discussione, che ancora non hanno finito di espandersi. Un consenso crescente si sta creando su un’interpretazione della sua tesi che vede nell’etica della giustizia e dei diritti, da un parte, e in quella della responsabilità e dei rapporti, dall’altra, non due moralità contrapposte, da attribuire specificamente agli uomini e alle donne, ma due dimensioni di un’unica moralità completa. Quasi come i tratti della maschilità e femminilità psicologica, di cui nessuna personalità armoniosa deve essere sprovvista, se non vuol tramutarsi in una caricatura del proprio sesso.

Ruth Purtilo è sensibile alle accentuazioni di Carol Gilligan (si sono conosciute ad Harvard: durante il periodo dei suoi studi la Gilligan era una brillante assistente di psicologia evolutiva, con interessi marcati per l’etica). Esse corrispondono in profondità al proprio approccio dell’etica, segnato dall’esperienza professionale del prendersi cura. Ha un orecchio particolare per chi si interroga non solo su ciò che è giusto, in base alla convinzione che tutti gli uomini hanno diritto ad uguale considerazione e rispetto, ma anche su ciò che è doveroso, affinché nessuno sia lasciato solo. Ciò le permette di affrontare i problemi bioetici non come questioni di logica, ma come questioni di esperienza, dove il prendersi cura di qualcuno è ciò che attribuisce all’azione umana il suo profilo decisivo.

La bioetica come relazione d’aiuto

Ruth Purtilo ha mantenuto fede al suo orientamento iniziale, che era quello di rimanere aderente al vissuto dell’assistenza sanitaria. Non si è trasformata in un filosofo universitario interessato ai problemi dell’etica medica. È diventata qualcos’altro, una figura professionale nuova:

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un “consultant bioethicist”. Anche se in misura crescente impegnata nell’insegnamento ― agli studenti di medicina, agli infermieri, ai membri delle diverse professioni di aiuto in sanità ― il baricentro della sua attività è rimasto costantemente la consulenza, esercitata come attività specifica dell’esperto di bioetica.

Man mano che questa figura professionale si andava delineando, cresceva il dibattito attorno ad essa. E le polemiche. I medici sono stati in prima fila tra gli oppositori. Possiamo citare l’intervento tagliente del dott. Franz Ingelfinger sulla prestigiosa rivista medica New England Journal of Medicine, già nel 1976, agli albori della tendenza a utilizzare esperti di etica ― cioè persone che avessero avuto una formazione in filosofia, in teologia o in discipline simili ― negli ospedali. Dichiarava che queste presenze sono inutili: i non medici non hanno la competenza per intervenire in decisioni che domandano una conoscenza non approssimativa della medicina. Anzi, sono dannosi: con la loro presunta autorevolezza nelle questioni di etica clinica, possono portare il medico a rinunciare alle proprie responsabilità. Alla fine, rischiano di indurre nella pratica medica una povertà ancora maggiore di dimensioni umanistiche. Insomma, “l’etica da cattedra” farebbe bene a rimanere dov’è: quando pretende di sostituirsi all’“etica da capezzale”, non fa altro che confondere le acque.

Malgrado l’ostilità dei medici, le istituzioni sanitarie americane hanno continuato ad assumere degli esperti di etica con funzione di consulenza. Come indice della crescita, possiamo prendere l’iniziativa assunta da John Fletcher, allora direttore del servizio di bioetica del Centro clinico del National Institute of Health a Bethesda, di riunire nel 1985 una cinquantina di persone che lavoravano in varie istituzioni come consulenti di etica. Veniva così fondata la “Society for Bioethics Consultation”. Ruth Purtilo era tra i fondatori e fin dall’inizio ha fatto parte del comitato di direzione. Con gli anni la Società è andata crescendo in numero di associati e in importanza. Si è anche dotata di un organo scientifico: la rivista trimestrale Journal of Clinical Ethics.

Una condizione per la crescita è stata la progressiva chiarificazione del concetto stesso di consulenza applicato ai problemi etici in sanità. Si è dovuto sgombrare il terreno da equivoci che potevano facilmente subentrare: quale quello di considerare il consulente di bioetica in ospedale come un cane da guardia che passa per i reparti in cerca dei responsabili di misfatti etici; oppure come una versione laicizzata del cappellano di una religione o della guida spirituale. Il consulente in etica non è un direttore di coscienze.

Ruth Purtilo ritiene utile, a questo proposito, ricorrere alla distinzione tra etica e morale. La differenza non è condivisa da tutti: alcuni

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usano, infatti, i due termini come sinonimi (in questo senso inclina anche l’etimologia che, rispettivamente in greco e in latino, rimanda ai comportamenti umani in quanto modellati dai costumi e dai valori condivisi). Ma, se vogliamo dare rilievo alla differenza tra il consigliere morale e il consulente in etica, dobbiamo presupporre due diversi orizzonti di prescrizione dei comportamenti, per i quali utilizziamo rispettivamente i termini di “morale” e di “etica”. La morale stabilisce le regole di base che devono essere rispettate, affinché una società non si autodistrugga. Le regole derivano talvolta da credenze religiose, talaltra da convenzioni sociali; esprimono l’insieme degli ideali che una società o un gruppo adottano affinché i loro membri possano realizzare una “buona vita”.

È comprensibile che il consigliere morale ― talvolta istituzionalizzato, come nella figura del cappellano di ospedale ― detti le regole da seguire, giudichi i comportamenti in base a queste, e magari prescriva autorevolmente a coloro che condividono lo stesso ideale morale che cosa va fatto e che cosa non va fatto. Ma sarebbe un fatale malinteso concepire su questo modello il ruolo del consulente in etica. Questi ― sostiene Ruth Purtilo ― aiuta le diverse persone coinvolte nei dilemmi etici che sorgono in sanità a comprendere il proprio ragionamento, e quello degli altri, a proposito della morale.

Quando arriva il momento di decidere una linea di condotta e una decisione deve essere presa, il ruolo del consulente si arresta. Non decide lui quello che deve essere fatto, in ultima analisi. Per questo non sottrae la responsabilità a colui cui spetta: al medico, in primo luogo, e a tutti coloro che devono prendere delle decisioni in situazioni di conflitto.

L’esperto di etica è sostanzialmente un “traduttore”: decodifica, a partire dal linguaggio corrente, i valori che animano le parti in causa, spiega il perché e il come di un conflitto. Ma evita accuratamente di sostituirsi alla coscienza morale dei protagonisti di una decisione clinica, né esercita quelle funzioni di guida e controllo che spettano alla deontologia professionale e alla legge.

Questa è la linea che Ruth Purtilo, insieme agli altri fondatori, è riuscita a far prevalere nella “Società di consulenza bioetica”. Per quanto chiaro questo profilo possa sembrare sulla carta, ciò non impedisce che in pratica il consulente di bioetica assomigli più a un equilibrista che ai professionisti sanitari che camminano con sicurezza nel cammino saldamente tracciato dalla tradizione.

R. Purtilo ne è consapevole. Con la disinvoltura che hanno gli americani nel parlare di danaro, mette subito il dito su un conflitto di interessi in cui il consulente di bioetica può finire con l’impigliarsi. È infatti un professionista pagato dalla istituzione per la quale lavora. Gli

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amministratori hanno la facoltà di assumerlo o di licenziarlo. Il consulente può trovarsi in una posizione delicata: da chi dipende, in ultima analisi? Dall’istituzione che gli dà uno stipendio? Dal medico o dagli altri sanitari che ricorrono alla sua consulenza? Dai pazienti e dalle loro famiglie?

L’esperienza ha dimostrato che è facile fare l’avvocato del paziente, finché ciò che questi fa non si distanzia troppo da ciò che l’ospedale e il medico possono accettare; è più difficile quando si tratta di mettersi contro gli interessi dell’istituzione.

La consapevolezza delle ambiguità inerenti al ruolo di consulente di etica integrato in un ospedale sconsiglia ogni trionfalismo. Eppure questo profilo professionale si presenta come uno dei poli di crescita della bioetica. Ruth Purtilo confessa di ricevere quasi ogni giorno telefonate di persone che vogliono fare della bioetica la propria professione e le chiedono che via seguire per la formazione. Sono passati appena vent’anni da quando lei stessa non sapeva dove batter la testa per rispondere in modo serio alle “grandi questioni” che le si ponevano nella sua professione di fisioterapista. Vent’anni sono il lasso di tempo che separa la generazione dei pionieri della bioetica dalla seconda generazione, quella che può costruire sul terreno da loro dissodato.

Riferimenti bibliografici

Carol Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr.it. Feltrinelli, Milano, 1987.

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Ruth PurtiloEssays for professional helpers: Psycho-social and ethical considerations, Ch.B. Slack, Thorofare N.J., 1975.

Ruth Purtilo, «Justice in the distribution of health care resources: The position of physical therapists in the United States and Sweden», in Physical Therapy, 62, 1982, l,pp. 46-50.

Ruth Purtilo, «Sounding board. Ethics consultations in the hospital», in New England Journal of Medicine, 311, 1984, 15, pp. 983-986.

Ruth Purtilo, «Ethicienne de garde», in Autrement, 93, 1987, pp. 12-17.

Ruth PurtiloHealth professional - patient interaction, W.B. Saunders Comp., Philadelphia, 4a ed., 1990.

Ruth Purtilo, «Rural health care: The forgotten quarter of medical ethics», in Second Opinion, 6, 1991, pp. 11-34.

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22. Warren Reich: l’architetto dell’Enciclopedia

Un’enciclopedia in anticipo sulla disciplina

Come diversi altri studiosi di bioetica, Warren Reich è partito dalla teologia morale. Orientatosi alla vita religiosa nella chiesa cattolica, ha ricevuto una formazione particolarmente accurata, propria dei teologi destinati all’insegnamento: dottorato all’università Gregoriana di Roma e specializzazione post-laurea a Wiirzburg, in Germania. Rientrato in America, aveva iniziato ad insegnare la teologia morale nella facoltà di teologia dell’università Cattolica d’America a Washington. Si era orientato verso il settore dell’etica della sessualità, della riproduzione e della demografia, scrivendo una tesi di laurea su “Procreazione per il bene della specie”.

La destabilizzazione doveva arrivare sull’onda dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, nel 1968. Warren Reich venne a trovarsi nel gruppo della ventina di docenti dell’università Cattolica estensori di un documento sull’enciclica che si distaccava dal coro di consensi che il magistero si aspettava dai suoi teologi. Gli studiosi dell’università Cattolica non mettevano in discussione, di per sé, il documento, ma affermavano che l’enciclica aveva un limitato potere obbligante sulla coscienza dei cattolici. I “contestatori” vennero messi sotto inchiesta. Dopo uno sterile braccio di ferro tra le autorità accademiche e l’episcopato, durato un anno, Reich e i suoi colleghi dissidenti furono costretti a lasciare l’università. Tolti gli ormeggi che lo tenevano legato all’istituzione ecclesiastica, compreso il ministero sacerdotale, iniziava la navigazione solitaria che doveva portarlo alla bioetica.

Il primo porto di attracco è stato, nel 1971, il Kennedy Institute of Ethics, alla Georgetown University di Washington. In netto contrasto con la predilezione degli americani per la mobilità, Reich è rimasto stabilmente a Georgetown. Nominato professore di bioetica, dal 1977 dirige la divisione di “Salute e Humanities”, nel dipartimento di “Community

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and family medicine” della facoltà di medicina: una struttura educativa finalizzata a dare agli studenti di medicina una visione del ruolo che la medicina dovrebbe giocare nella società, a favorire lo sviluppo della capacità di sviluppare risposte etiche ai dilemmi posti dalla pratica, a fare sviluppare i tratti di carattere richiesti dalla professione medica. Per più di vent’anni l’attività di Reich ha avuto come perno la collina di Georgetown. Ma alla stabilità nell’istituzione fa riscontro una continua ricerca di orizzonti nuovi per la bioetica.

Pochi hanno fatto per l’affermazione della disciplina quanto Warren Reich. Nel fermento di idee e di iniziative che caratterizzava il Kennedy Institute, sotto la guida carismatica di André Hellegers, Reich se ne uscì con la proposta vincente: pubblicare un’opera di vasto respiro che trattasse tutti i problemi che nascevano dall’incontro in atto tra biologia, medicina e scienze umane. Dopo un’iniziale esitazione tra il manuale e l’enciclopedia, si optò per quest’ultima.

Reich ne disegnò il piano, dettagliando le sezioni e articolando le voci. Per sei anni, dal 1972 al 1978, tenne in mano l’architettura dell’opera quale direttore dell’enciclopedia. Il prodotto era imponente: 4 volumi in grande formato, più di 1900 pagine in totale, 315 articoli con contributi di 285 autori e il lavoro di 500 persone, tra consulenti e revisori, di ogni parte del mondo. Un’opera di questo genere non può essere attribuita unicamente all’energia instancabile di colui che la dirigeva: ci voleva anche una “massa critica di pensatori”, cioè persone che potessero scambiare idee e lavorare in équipe. Questo contesto favorevole alla creatività è stato fornito dal Kennedy Institute. Un ruolo particolare va attribuito agli otto “Associate editors” che con Reich programmarono l’opera e fecero l’immenso lavoro della revisione.

La Encyclopedia of Bioethics è stata concepita ed è nata contemporaneamente alla disciplina stessa. Warren Reich, parlando dell’opera da lui curata, ama dire che è la prima enciclopedia che sia stata creata non per raccogliere un sapere stabilito, ma per fondarlo. Non solo agli inizi degli anni ’70 non era costituita la disciplina, ma il nome stesso era problematico. Lo stesso Reich racconta che, al momento della progettazione dell’Enciclopedia, si è esitato se chiamarla di “bioetica” o di “etica medica”. Alcuni consideravano i due termini come praticamente equivalenti. L’opzione per il termine “bioetica” ― di recentissimo conio: l’aveva proposto nel 1971 l’oncologo Van Rensslaer Potter; in ogni caso, fu assunto solo il termine, non l’accezione originaria di Potter ― non fu però casuale.

Reich intuì che il neologismo aveva la potenzialità di introdurre in un nuovo territorio, caratterizzato dall’interdisciplinarità. Inoltre percepiva che la “bioetica” avrebbe liberato l’“etica”, nella mente del vasto

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pubblico così come in quella degli studiosi, dalle connotazioni che la collegavano al mondo della religione. Essa avrebbe reso possibile un dialogo, sul terreno secolare, tra la scienza, la medicina, la filosofia morale, la religione e le altre discipline afferenti alle humanities. Nell’Enciclopedia Reich dava della bioetica la definizione tante volte ripresa in seguito: «Studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della salute e delle cure sanitarie, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali».

Buona parte dell’opera è dedicata non solo ai singoli problemi, così come li conosceva l’etica medica ― aborto, eutanasia, trapianto di organi, fecondazione artificiale ecc. ― ma alla fondazione concettuale della nuova disciplina. In modo sistematico vengono presi in considerazione i diversi sistemi etici, nonché i principi ai quali si riferiscono e con cui giustificano i giudizi morali relativi ai problemi concreti; la storia dell’etica medica, nei vari paesi, culture ed epoche; le diverse discipline che afferiscono alla bioetica, fornendole il presupposto del suo sapere specifico: la biologia e la medicina, la psicologia e la sociologia, le scienze politiche e il diritto, l’antropologia e la storia, la teologia. Per quanto riguarda quest’ultima, l’impianto dell’Enciclopedia comprende articoli circa la posizione delle grandi religioni mondiali ― non solo le confessioni cristiane, ma anche l’ebraismo, l’islam, il buddhismo, il taoismo ― relativamente all’etica delle scienze e della medicina. Include anche le grandi filosofie secolari e i concetti antropologici fondamentali, come salute, malattia, guarigione, normalità.

Nell’enciclopedia continui lavori in corso

Il successo dell’Encyclopedia of Bioethics è stato enorme, anche al di fuori degli Stati Uniti. Oltre all’oggettivo valore dell’opera ― ufficialmente consacrato dalla Dartmouth Medal concessa nel 1979 dalla American Library Association per la qualità come opera di riferimento ― è stato decisivo il perfetto tempismo: l’Enciclopedia è uscita contemporaneamente all’esplosione dell’interesse pubblico per le problematiche bioetiche. La domanda di un’opera solida di riferimento trovava nell’Enciclopedia la risposta adeguata. A giudizio di Daniel Callahan, l’Enciclopedia costituisce il “documento centrale”, che conferisce all’intero ambito della bioetica un senso di coerenza e di direzione e fornisce a tutti quelli che lavorano in questo settore “un punto di raccolta”.

L’Enciclopedia costituisce una risorsa limitata al mondo culturale di espressione inglese. Nessuno ha tentato di tradurla in un’altra lingua. Probabilmente perché il lavoro di traduzione, per essere adeguato,

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avrebbe richiesto anche adattamenti profondi alla situazione culturale di altri paesi, in particolare rispetto alla legislazione che regola la pratica medica: un’impresa così ardua da spaventare studiosi ed editori.

Una misura del successo dell'Enciclopedia è stato il fatto di essere, dopo un decennio, non più rispondente ai bisogni. Gli sviluppi della bioetica negli anni ’80 hanno portato al suo rapido superamento. Ancora una volta Warren Reich si è accinto al lavoro per costruire la nuova Enciclopedia: non semplicemente aggiornata, ma ridisegnata da capo a fondo, per integrare le acquisizioni epistemologiche e gli ampliamenti tematici.

La nuova edizione, uscita in cinque volumi nella primavera 1995, tiene conto dei fattori scientifici, intellettuali, legali e culturali che hanno operato profondi cambiamenti nella bioetica nell’ultimo decennio. Gli sviluppi presi in considerazione dall’Enciclopedia rielaborata prevedono le innovazioni scientifiche e tecnologiche (tra cui le terapie genetiche e le tecnologie applicate alla riproduzione umana, che negli anni più recenti dai laboratori sono state trasferite nella pratica clinica), i cambiamenti nell’area della salute pubblica (in particolare a seguito della diffusione epidemica dell’Aids), la crescente sensibilità per le dimensioni etiche della biosfera e dell’ambiente (compreso il benessere degli animali e il rispetto degli ecosistemi), le modificazioni intervenute nel problema delle allocazioni delle risorse sanitarie (crescente invecchiamento della popolazione nei paesi ad alto sviluppo industriale, particolare vulnerabilità di alcuni gruppi di popolazione, problemi connessi con la ricerca).

Ma la nuova Enciclopedia rispecchia soprattutto le approfondite discussioni avvenute nel concetto stesso di bioetica, nei contenuti e nel metodo della disciplina: dalla riscoperta dell’etica delle virtù all’approccio esperienziale, degli apporti dell’esperienza delle donne all’arricchimento avvenuto grazie al dialogo internazionale.

Il contributo di Warren Reich nella ricerca di nuovi orizzonti per la bioetica è stato discreto ma decisivo. Studioso non molto prolifico, ha però tenuto costantemente il polso della disciplina, individuandone con tempestività i malesseri e proponendo i rimedi opportuni. E ha saputo mobilitare altri studiosi per esplorare nuove vie per la bioetica. Una sua iniziativa in questo senso è stata l’organizzazione di un gruppo di lavoro internazionale per la fondazione esperienziale della bioetica, utilizzando le risorse della Cleveland Clinic Foundation a Cleveland nell’Ohio.

Un’altra iniziativa pionieristica di Reich è stata la fondazione e direzione del “Seminario di bioetica narrativa”, con l’intento di controbilanciare l’approccio centrato sui principi, che è il più diffuso negli Stati Uniti. Il seminario, della durata di una settimana, si tiene annualmente

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e raccoglie partecipanti da ogni parte dell’America e dell’Europa. Cultori di letteratura, bioetica, medicina, professioni di aiuto, filosofia e religione affrontano i problemi posti dall’etica della vita mediante gli strumenti della narrazione e dell’interpretazione.

Dall’etica dei principi all’etica esperienziale

Warren Reich ha contribuito come pochi, attraverso l’Enciclopedia che ha diretto, all’affermazione della bioetica nei paesi anglofoni. Senza tuttavia identificarsi con la bioetica standard che ha preso il sopravvento, in particolare con la bioetica come disciplina afferente alla filosofia analitica e articolata intorno ai principi (beneficità, non-maleficità, autonomia e giustizia).

Lo stesso Kennedy Institute ha dato un apporto notevole all’affermazione di questo modello di bioetica attraverso i corsi intensivi che propone ogni anno a centinaia di partecipanti (fin dal 1974) e attraverso l’imponente produzione scientifica degli studiosi che vi fanno capo, in particolare del suo attuale direttore, Robert Veatch. La scelta fatta, per la chiarezza concettuale e le soluzioni razionali, non va sottovalutata. La bioetica ha preso una strada che non era ovvia, e soprattutto che ammetteva delle drammatiche alternative.

L’America è il paese dei contrasti estremi: alla razionalità più limpida fa riscontro il fanatismo più esasperato; mentre i filosofi analizzano le possibili applicazioni dei principi di autonomia e di beneficità a un caso perplesso, avvengono scontri fisici tra fautori “pro life” e “pro choice” in riferimento all’aborto (magari arrivando ai casi estremi di medici abortisti feriti o addirittura uccisi per la loro attività da seguaci del movimento per la vita...). La bioetica ha implicato la scelta per la ragione come strumento per districare la matassa intrecciatasi attorno alle nuove pratiche della biologia e della medicina.

Una scelta che non si può rimpiangere: significa optare per la razionalità come alternativa al fondamentalismo e alla cieca violenza dei pregiudizi. Ma forse si può andare oltre la razionalità schematica, senza per questo cadere in braccio all’irrazionalismo. Questa, almeno, è la fiducia che sembra animare Warren Reich nel proporre alternative alla bioetica standard.

La bioetica, in quanto etica “applicata”, si è imposta come quell’area di studio che fornisce il sapere appropriato per risolvere le perplessità riferite alle decisioni in campo medico. Essa offre uno schema di riferimento entro cui i dilemmi sono analizzati e risolti, in modo deduttivo, applicando principi già stabiliti. Questo paradigma basato

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sui principi sviluppa un’etica del dovere o dell’obbligo morale. Nell’approccio all’etica basato sul dovere tutto ruota intorno alla domanda: «Che cosa si deve fare?». Si passa quindi a esaminare se una particolare azione è lecita, illecita o permessa. Per esempio: è permesso al medico interrompere l’impiego di un’apparecchiatura, quando si può prevedere che questa azione causerà o affretterà la morte del paziente?

I meriti del paradigma basato sui principi sono considerevoli. Soprattutto in una società caratterizzata dal pluralismo morale, così com’è quella americana, ma come lo sono anche inevitabilmente oggi tutte le società democratiche. In un periodo in cui stanno scomparendo le tradizioni che ci hanno dato una sicurezza condivisa di sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la bioetica dei principi ha mostrato che la perdita di una comune tradizione morale può essere almeno parzialmente compensata.

L’alternativa all’assolutismo monolitico delle società chiuse non è il soggettivismo sfrenato: attorno al modello dei principi morali ― a titolo esemplificativo, ci possiamo riferire all’opera di successo di Thomas Beauchamp e James Childres: Principles of biomedical ethics ―, si è realizzato un notevole livello di consenso, malgrado i diversi riferimenti morali, filosofici e religiosi. La bioetica standard ha dimostrato di poter fungere da lingua franca che permette la comunicazione nella babéle dei linguaggi morali.

Pur riconoscendo questi meriti alla bioetica basata sui principi, Warren Reich non le risparmia critiche. Soprattutto per un motivo fondamentale: appare distante dall’esperienza morale delle persone che sono gli agenti delle decisioni conflittuali che si prendono in medicina. A cominciare dall’esperienza dei sanitari. La bioetica offre loro il linguaggio di un sistema etico che è strutturato in termini indifferenti, distaccati, finalizzati a generare regole universali, che si impongono autoritativamente a ognuno. Ma una formulazione etica di questo genere è inevitabilmente sentita dai professionisti sanitari come estranea al loro mondo morale immediato. Ciò significa fare di loro degli attori sulla scena della moralità che leggono un copione scritto da qualcun altro, da qualche altra parte... Un’etica che usa un linguaggio universale e impersonale è un processo intellettuale che si svolge lontano dal più profondo impegno personale e morale di chi lavora in sanità.

Un altro appunto che Warren Reich fa alla bioetica basata sui principi è l’eccessiva astrattezza e la prospettiva ristretta della preoccupazione morale che rappresenta. Lo ha verificato in un ambito specifico: la cura dei bambini ritardati mentali. Le posizioni più diffuse articolano l’obbligo di accogliere e assistere anche i bambini che nascono gravati da handicap fisici e mentali facendo ricorso a teorie dei diritti e della giustizia.

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Il modello più autorevole è quello che, risalendo a Immanuel Kant, fonda i diritti e i doveri nel bisogno di rispettare la dignità delle persone.

Poiché i seri obblighi che abbiamo nei confronti degli altri hanno il fondamento nell’autonomia delle persone verso le quali abbiamo tali obblighi; e poiché gli individui autonomi (che in questa prospettiva sono i soli che possono in tutta verità essere chiamati persone) sono quelli dotati di coscienza, o almeno che sono in grado di esserlo ― vale a dire, individui che possono prendere delle decisioni razionali per proprio conto ― molti bambini ritardati mentali gravi non sono collocabili entro tale schema. Dal momento che non hanno i requisiti per fare scelte autonome, è difficile dimostrare che esistono seri obblighi di prendersi cura dei ritardati che non sono autonomi. Almeno sulla base di questo approccio etico.

Il modello di bioetica basato sui principi isola un valore ― l’autonomia ― dal contesto di tutti gli altri e stacca gli individui dal contesto morale costituito dai legami sociali e familiari. Trascura la rilevanza morale che hanno le relazioni primarie con cui ci prendiamo cura gli uni degli altri, particolarmente quelle create dall’amicizia e dalla famiglia.

Prendersi cura: il centro della vita morale

Già dalla metà degli anni ’80 Warren Reich formula le prime critiche al modo di affrontare i problemi di bioetica prevalente negli Stati Uniti. Nel 1988, partecipando a un convegno organizzato a Milano dal Centro internazionale studi sulla famiglia (Cisf) su “Nascere, amare, morire: Etica della vita e famiglia, oggi”, propone una prima formulazione di un modello di bioetica centrato sulla compassione e sul prendersi cura. È come se, rimettendo piede in Europa, Reich avesse ritrovato una angolatura diversa da quella americana per affrontare i problemi bioetici, prendendo di nuovo contatto con una tradizione antropologica più ampia e differenziata.

Il punto di partenza delle sue riflessioni è costituito da un racconto: la storia di Denny, una donna che richiede esplicitamente di assistere a casa il proprio padre, che ha bisogno di un respiratore permanente. Il comitato di bioetica dell’ospedale aveva espresso parere negativo: i bisogni del padre, così come apparivano all’occhio tecnico della medicina, sarebbero stati meglio tutelati in ospedale. Ma l’ascolto in profondità delle ragioni di Denny permetteva di far emergere una prospettiva che passava del tutto inosservata tra le maglie della rete che la bioetica aveva teso a difesa della vita: l’orientamento a prendersi cura degli altri, concepito come virtù, impegno e lotta.

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Questa etica del prendersi cura è molto diversa dalla descrizione standard che la bioetica fa degli obblighi che abbiamo nei confronti della vita umana. Per lo più la bioetica si è occupata di dilemmi drammatici, che presuppongono scelte riguardanti atti singoli. Questi avvengono quasi esclusivamente in un contesto altamente medicalizzato; per risolvere tali dilemmi ci si richiama a principi che esprimono diritti e doveri.

Da quando la bioetica è diventata un campo di conoscenze specialistiche, siamo stati talmente occupati con i problemi relativi all’interruzione dei trattamenti medici che mantengono in vita e che rischiano di prolungarla oltre la misura del giusto, che abbiamo dimenticato il problema fondamentale: riflettere su cosa significa, in senso positivo, prendersi cura della vita. Abbiamo lasciato che i dibattiti sulla limitazione e la sospensione delle cure agli estremi confini della vita sostituissero la questione centrale del prendersi cura della vita umana.

Il problema etico è stato così modellato in maniera deformata, attribuendo a questioni periferiche la struttura portante che spetta al centro. Per esempio, vi è una tendenza comprensibile a decidere se continuare con l’uso del respiratore, della nutrizione artificiale o dell’idratazione, a seconda che si prevedano o no probabili buoni risultati. Ma questa valutazione dei risultati, resa necessaria dalle limitazioni delle tecnologie, viene trasferita alle persone. Si sviluppa allora, implicitamente o esplicitamente, un’etica globale, la quale suggerisce che ci dobbiamo prendere cura degli altri solo nella misura in cui essi, i malati, danno buoni risultati in termini di qualità del trattamento.

Ciò che manca in questo tipo di approccio è un senso di legame, di relazione, di carattere in colui che si prende cura. La bioetica dà l’impressione di aver costruito un’enorme struttura o impalcatura intorno alla periferia della vita; ma quella impalcatura non può tenere, perché non c’è praticamente struttura in essa. È proprio lì, in quel centro, che noi abbiamo bisogno di un’etica del prendersi cura con compassione.

Warren Reich non pretende minimamente che l’etica dei principi ― che definisce l’etica unicamente nei termini di un ragionamento discorsivo, in cui i principi razionali che incorporano concetti morali universali sono applicati a dilemmi morali, in modo da determinare deduttivamente il comportamento giusto o sbagliato ― sia intrinsecamente sbagliata e debba essere abbandonata. Questa etica svolge un ruolo essenziale e va difesa. Ma ha bisogno di un correttivo: quel nuovo paradigma, appunto, che Warren Reich chiama “etica esperienziale”.

Per accostarci in modo intuitivo a quest’altro quadro generale di riferimento, consideriamo come cambia lo scenario se, invece di appellarci immediatamente alla prospettiva neo-kantiana dell’autonomia per

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discutere se esiste il dovere di salvare la vita a un neonato gravemente ritardato, prendessimo come punto di partenza le esperienze morali relative alla formazione di un legame da parte dei genitori con tali bambini. L’esperienza morale in tale approccio sarebbe molto più ricca, fatta di successi e fallimenti, di motivazioni e di condizionamenti. La loro “risposta” rifletterebbe molte più cose di quelle che emergono da una buona deduzione da un concetto assunto come principio.

L’etica dei principi ci invita a domandarci qual è il nostro dovere, avviandoci così per lo più a considerare l’obbligo di rispettare i diritti degli altri. L’etica esperienziale ci sollecita piuttosto a cominciare col considerare che cosa sta avvenendo intorno a noi. Ci accorgiamo allora che abbiamo bisogno di norme razionali che guidino il nostro comportamento, ma sono necessari anche coinvolgimenti affettivi.

La vita si svolge entro un grande disegno che prevede il prendersi cura gli uni degli altri, valorizzando quel tipo di intimità che ha valore terapeutico, in quanto promuove lo sviluppo del benessere e della salute. Questo è il quadro generale dell’etica del prendersi cura (in inglese, to care), entro cui si possono prendere in considerazione i singoli problemi collegati con il curare (per il quale l’inglese ha un altro verbo: to cure) Questi due modi di intendere l’etica devono essere considerati non come contrapposti, ma come complementari.

Anche se l’etica del prendersi cura può essere considerata come più fondamentale, un’etica dei diritti è necessaria come etica sociale minima per proteggere gli oppressi e i deboli della nostra società. A volte sono necessarie norme razionali come i principi di giustizia, autonomia ecc., per evitare che le persone compassionevoli e premurose siano sfruttate. Ma abbiamo bisogno anche di una prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità, in un approccio che attribuisce un grande valore morale ai legami che nascono dall’affetto e dal soffrire insieme all’altro.

L’etica del prendersi cura, che ha trovato in Carol Gilligan un’appassionata e lucida portavoce, cerca di inculcare empatia e virtù, piuttosto che incoraggiare brillanti esercizi logici applicati al processo delle decisioni morali. La Gilligan nel suo libro Con voce di donna racconta di essere stata impressionata dalla reazione di un ragazzo ai “problemi morali” che gli venivano presentati da risolvere mediante un buon ragionamento, secondo l’angolatura dell’etica analitica applicata: li trovava interessanti e divertenti, come i problemi di matematica. Di ben altro che di brillanti soluzioni è questione, invece, nella vita morale quotidiana. È questa “voce diversa” che C. Gilligan intendeva far udire. In a different voice era, appunto, il titolo originale della sua opera. L’infelice traduzione italiana può indurre a credere che l’atteggiamento

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etico del prendersi cura sia una prerogativa femminile, mentre invece è una dimensione costitutiva di qualsiasi etica umana.

Parabole per l’etica

Per l’etica esperienziale il pensiero intuitivo è una risorsa maggiore del ragionamento morale deduttivo; l’immaginazione è più importante della coscienza morale analitica; l’evidenza morale soggettiva vale quanto quella oggettiva. Nel proporre l’etica esperienziale Warren Reich adotta come punto focale i modelli e le immagini che guidano il comportamento morale. I nostri comportamenti prendono forma modellandosi su coloro che ci rappresentano un’immagine concreta di una vita morale convincente. E poiché i modelli sono particolari, si rivelano più utili nelle diverse situazioni dei principi morali, che sono generali.

Warren Reich non esita a proporre anche altri registri, in quanto più adatti a cogliere la gravità della crisi morale che la medicina attuale ci presenta. Ricorre alla narrazione, piuttosto che proporre dei casi clinici quale verifica dei principi o esercizi di applicazione dell’analisi, così come è diventato abituale nella bioetica standard. Egli crea, piuttosto, delle storie, destinate a far risaltare la natura dei problemi morali in un modo che la semplice applicazione dei principi etici non sarebbe in grado di fare. Così come la parabola orwelliana dell’“EmergiMedVan” mette in luce le assurdità morali verso cui la medicina dell’emergenza e dell’assistenza intensiva sta trascinando l’ethos medico tradizionale.

L’“EmergiMedVan” (il “camioncino per l’emergenza medica”) sarebbe una struttura mobile creata come compromesso tra l’obbligo di non rifiutare l’assistenza a chiunque si rivolga a un presidio medico e la logica del profitto di cui devono vivere le imprese private che operano nella sanità. Dietro la ipotetica storia si indovina un conflitto tipico del sistema sanitario americano. Negli Stati Uniti, infatti, l’unico luogo a cui un malato che non abbia un’assicurazione ha il diritto di ricorrere per ricevere gratuitamente un’assistenza a una malattia che minacci la vita è un dipartimento di medicina dell’emergenza. Siccome questi presidi trattano le emergenze, la legge stabilisce che non possono mandar via nessuno. Ma, al di là di questo obbligo legale, nessuna prescrizione dettata dalla giustizia economica o sociale specifica i modi in cui prendersi cura di questi individui.

Il dipartimento di emergenza può mandare i pazienti a un altro ospedale, ma solo se la persona può essere trasportata in modo sicuro. Il paradosso è evidente: anche una struttura privata non è autorizzata a respingere

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nessuno, ma allo stesso tempo deve abbattere le spese costituite dai non solventi. Nella parabola inventata da Reich, l’“EmergiMedVan” diventa il palcoscenico di un’assurda storia, in cui il personale di una struttura di emergenza privata trasporta il malato a un altro ospedale, poi a un altro, poi ancora a un altro: sempre in movimento ― e sempre prendendosi cura tecnicamente bene del malato! ― finché non si trovi posto in una struttura pubblica...

In pratica, in questa immaginifica soluzione i pazienti che non possono pagare la propria costosissima medicina di emergenza verrebbero deviati su un’orbita ruotante, per tutto il tempo in cui il “buon samaritano” dell’assistenza pubblica, che ha il compito sociale di occuparsi degli indigenti, non sarà in grado di dar loro ricetto in ospedale. E questo, tuttavia, potrebbe non avvenire mai. L’“EmergiMedVan” verrebbe così a costituire una specie di versione moderna della medioevale “nave dei folli”, che imbarcava coloro di cui la società si voleva liberare in un viaggio senza fine. Solo la parabola ― come si vede ― riesce a portare all’esterno l’assurdo che si nasconde entro le risposte ai problemi fomite nei termini dell’etica più ineccepibile.

L’uso di immagini, modelli, parabole e storie esemplari non solo fornisce una matrice esperienziale più palpabile, ma espande anche l’universo dell?etica. Ci costringe a diventare consapevoli di aspetti che altrimenti ci sarebbero sfuggiti. Inoltre rende l’obbligo morale più immediato e concreto, rispetto a quanto riesca a farlo il ragionamento discorsivo. Senza svalutare l’apporto della filosofia analitica alla costruzione della bioetica, Reich invita a considerare l’urgenza di inculcare empatia nei professionisti della sanità. Un esempio tra i tanti: piuttosto che incoraggiare gli studenti di medicina a brillanti esercizi logici nel prendere le decisioni, perché non invitarli a scrivere le storie dei pazienti dal punto di vista di questi ultimi? Questo semplice esercizio narrativo potrebbe ampliare la coscienza in un modo che nessun insegnamento formale di filosofia riesce a fare.

Riferimenti bibliografici

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23. David Roy: l’etica di casa nella ricerca clinica

La bioetica mette radici in Canada

La bioetica in Canada è nata per germinazione spontanea o è stata importata dagli Stati Uniti? La questione potrebbe sembrare del tutto oziosa. La giustifica solo il fatto che David Roy, la figura carismatica attorno a cui ha preso corpo lo sviluppo della bioetica in Canada, veniva dagli Stati Uniti. Scozzese di origine, aveva fatto studi di matematica a Cleveland nell’Ohio, alla Case Western Reserve University. Gli studi umanistici, invece, lo avevano portato in Europa: filosofia e teologia a Roma, dottorato in teologia a Münster. Dopo alcuni anni come assistente nella facoltà di filosofia nell’università di Sudbury, nell’Ontario, giungeva a Montreal, all’istituto di ricerche cliniche, che doveva diventare il perno di un’attività sempre più ampia e differenziata.

Un enorme murale in ceramica orna l’ingresso dell’istituto. È un omaggio a quattro grandi ricercatori dei paesi che più hanno influenzato la medicina canadese. L’Inghilterra è rappresentata da Thomas Lewis (esame oggettivo e ripetuto dal paziente e fisiopatologia), la Francia da Claude Bernard (medicina sperimentale e fisiologia), gli Stati Uniti da Donald Von Slyke (biochimica moderna). J.S. Brown, infine, rappresenta la ricerca clinica canadese. È, allo stesso tempo, un imponente biglietto da visita di un centro di ricerca che intende accreditarsi per la fedeltà alla tradizione e l’audace ricerca del nuovo. L’Istituto ospita una trentina di laboratori impegnati nella ricerca clinica sperimentale: neurologia, neurochimica, ormoni steroidi, riproduzione, fisiopatologia endocrino- logica, proteine e ormoni ipofisari, lipidi e arteriosclerosi, biochimica e fisiopatologia dell’ipertensione, biologia molecolare, cancro, oltre a diversi altri settori della ricerca fondamentale.

Qui, nel cuore stesso del nuovo sapere, David Roy è venuto a impiantare la riflessione etica. Nel 1976 fondava e assumeva la direzione del Centro di bioetica: una istituzione inconfondibile per la sua collocazione

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nel contesto della ricerca. Il Québec parla francese; ma è sufficientemente lontano dalla Francia e dalla sua preoccupazione per il purismo della lingua: a Montreal il neologismo “bioetica” ha potuto essere adottato senza resistenze, pur nella consapevolezza della ineleganza insita nell’accostamento dei due termini che lo compongono. Catturare il nuovo termine, coniato negli Stati Uniti, era relativamente semplice; molto più importante era esplicitare la concezione soggiacente e sviluppare un programma. Questi compiti impegnativi sono stati affrontati da David Roy con l’aiuto di Maurice de Wachter, cui sarebbe stato affidato in seguito il mandato di fondare e dirigere il primo centro di bioetica in Olanda.

Tra le iniziative ne spicca una di carattere editoriale: una collana ― Cahier de bioéthique ― pubblicata in collaborazione con Les Presses de l’Université Lavai. L’obiettivo era quello di offrire un luogo che favorisse la riflessione collettiva di persone diverse per filosofia della vita e complementari per competenza ed esperienza. Attraverso questo strumento di qualità il Centro di bioetica metteva il suo impegno per sviluppare e mantenere una reale comunicazione tra la comunità umana in generale e le comunità più specialiste impegnate nella creazione delle scienze e delle tecnologie biomediche.

Due volumi della collana meritano una considerazione particolare: il primo ― La Bioétique, 1979 ― a carattere programmatico, e il quarto: Médecine et expérimentation, 1982. Nel definire la nuova disciplina, il Centro mette in evidenza due elementi del contesto culturale generale: l’ambiguità del progresso biomedico e la necessità di una metodologia trasversale alle diverse scienze. La bioetica nasce per un vago sentore di pericolo che accompagnava gli sviluppi delle scienze della vita. «Non abbiamo ancora visto ciò che l’uomo è capace di fare dell’uomo»: questa affermazione di B.F. Skinner, che Roy ama citare, può essere presa come una minaccia. Il capofila del comportamentismo, invece, le attribuiva il valore di un programma carico di speranze.

Una volta abbandonate le remore di chi considerava la natura umana come un progetto chiuso, vincolato al rispetto di leggi naturali, si apre un orizzonte in cui è possibile modificare e arricchire l’uomo a nostro piacimento. Ma per altri questo cambiamento, che avviene originariamente al livello della concezione dei metodi di conoscenza, di visioni del mondo e di prospettive metafisiche, è gravido di conseguenze nefaste. Hans Jonas è stato uno dei filosofi più instancabili, fino alla morte, nel mettere in guardia dal pericolo che le opere dell’uomo si rivoltino contro di lui, così da diventare vittima della sua stessa azione.

Hans Jonas ricorre spesso, come maître à penser molto ascoltato, negli scritti di David Roy. Dalla sua riflessione sulla scienza moderna e

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sulla tecnologia orientata verso la trasformazione della natura umana in divenire ha raccolto soprattutto l’avvertimento a considerare che questo nuovo sapere sottomette l’uomo a un nuovo potere. La bioetica prende forma come tentativo di elaborare nuovi scenari di pensiero che integrano la teoria e la pratica, nuovi quadri di valori che equilibrano la decisione, nuove reti di comunicazione che facilitano la partecipazione della comunità umana all’identificazione e alla realizzazione del bene comune.

Nel delineare il programma del Centro di bioetica di Montreal, David Roy sottolinea la vocazione della bioetica a scavalcare le frontiere: la bioetica è un’attività che esige la collaborazione di persone che operano in diverse specializzazioni. Non si può definire la bioetica allo stesso modo in cui si definisce una disciplina tradizionale. I conflitti di valore, così come la determinazione delle priorità delle linee di condotta che derivano dalle innovazioni tecnologiche nelle scienze della salute, esigono che si abbia una visione d’insieme integrata. Senza di questa non si può stabilire in quale modo questi diversi sviluppi si influenzano reciprocamente e si ripercuotono su ogni essere umano e sull’insieme della società.

La prospettiva d’insieme è soprattutto necessaria per poter cogliere le responsabilità nei confronti delle generazioni future e le esigenze della giustizia a livello internazionale. I meccanismi che guidano le richieste attuali sono in grado di far sentire solo gli interessi delle generazioni presenti; le nostre società liberal-democratiche sembrano incapaci di articolare un’etica universale, in un mondo che richiede un equilibrio fatto di disuguaglianze.

La bioetica cerca di rendere conto, in modo sistematico, dell’insieme completo delle condizioni che bisogna considerare per lo sviluppo armonioso degli individui e delle collettività. Essa tradisce una preoccupazione sistemica analoga a quella con cui la “teoria generale dei sistemi” ha proposto l’unificazione della scienza. Una conseguenza importante è che l’etica adeguata a questa prospettiva non si può fondare unicamente su una filosofia generale dell’uomo. Ciò che si può fare agli esseri umani coinvolge molto profondamente i sotto-sistemi molto specifici e complessi dell’essere umano totale e della rete intera della vita sul pianeta; un’etica senza conoscenza professionale di questi sottosistemi e del loro funzionamento all’interno dell’essere umano totale è incapace, perciò, di giungere a una decisione precisa su qualsiasi intervento. La bioetica, intesa come preoccupazione sistemica e interdisciplinare dell’intera rete di condizioni che devono essere rispettate se si vuol realizzare un servizio responsabile della vita umana, appare come un sinonimo della ricerca della saggezza.

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Controllo e responsabilità nella ricerca biomedica

Per quanto lusinghiero possa suonare un programma di così alto profilo, bisogna verificare nel concreto quanto sia capace di motivare le persone coinvolte nella ricerca a sviluppare una nuova metodologia. La collocazione del Centro di bioetica di Montreal all’interno dell'Istituto di ricerche cliniche si rivela strategica ai fini di tale verifica. La vicinanza deve servire a sensibilizzare un numero crescente di ricercatori ai problemi etici, ma anche a portare gli esperti di etica a diretto contatto con la realtà della ricerca scientifica: senza tale comunicazione, i linguaggi rischiano di restare inaccessibili gli uni agli altri.

Un’altra pregiudiziale implicita è lo spirito di fondo con cui chi professa una riflessione etica si accosta alla realtà della ricerca clinica. Non si può negare che talvolta la parola che più adeguatamente esprime tale atteggiamento è “controllo”. Ci si aspetta che l’etica eserciti un controllo per impedire abusi nella ricerca e nella sperimentazione. L’etica è vista come un’impresa rivolta alla protezione dei soggetti umani, per prevenire che siano coinvolti ― con la violenza, con l’inganno o semplicemente tramite la sottrazione dell’informazione ― in ricerche dalle quali possa derivare loro un danno. In questo senso è stata coniugata l’etica con la ricerca dalla Commissione nazionale che ha lavorato, per mandato del Congresso degli Stati Uniti, dal 1974 al 1978. Il suo compito era iscritto a chiare lettere nella sua stessa denominazione: «Per la protezione dei soggetti umani nelle ricerche biologiche e comportamentali».

Come un controllo è vissuta per lo più l’etica da parte dei ricercatori. quali tentano di sottrarvisi in vari modi. La scoperta irrisione dell’etica è il più grossolano. La “captatio benevolentiae” e l’annessione dell’etica come uno dei fini del ricercatore sono strategie più sofisticate. Ne offre un esempio lo stesso volume Médicine et expérimentation, pubblicato dal Centro di bioetica di Montreal come quarto “cahier” della serie. In apertura lascia la parola a Jean Dausset, il medico francese attivo all’istituto di ricerche sulle malattie del sangue, insignito del Nobel per la medicina nel 1981. Riferendosi a una propria ricerca condotta per conoscere i meccanismi di difesa di individui normali contro l’aggressione costituita dal trapianto della pelle di un altro individuo, esplicita i criteri ai quali deve ispirarsi il ricercatore nel valutare la delicata bilancia tra il rischi incorsi e i vantaggi sperati. Il criterio decisivo deve essere, a suo avviso, quello della disponibilità del ricercatore a sottoporre se stesso o un proprio familiare alla sperimentazione.

Questa alta valutazione del senso di responsabilità personale è abbinata da Dausset a una pratica svalutazione del criterio costituito dal

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consenso informato: «Bisogna ben sapere ― sostiene lo scienziato ― che è praticamente impossibile far penetrare chi non sia medico in tutte le sottigliezze della biologia. C’è dunque un aspetto ambiguo e in fin dei conti un po’ ipocrita in questa informazione, anche in quella fatta più coscienziosamente».

La perorazione finale è quella di rimettersi alla coscienza del medico, che deve prendere su di sé la responsabilità della sperimentazione. Nei termini dell’esperienza personale di Dausset: «Ho avuto con più di cinquecento volontari un’esperienza umana indimenticabile. Ho potuto costatare che tutti mi concedevano una fiducia cieca. Ascoltavano educatamente tutte le mie spiegazioni scientifiche, senza prestarvi una grande attenzione. Ciò mostra chiaramente che la responsabilità incombe in fin dei conti totalmente sul medico, che la prende in definitiva da solo, nella sua coscienza».

La collocazione di questa testimonianza sulla soglia di un vasto periplo che conduce a esplorare tutte le complessità della sperimentazione biomedica e i numerosi sforzi nazionali e internazionali di regolamentarla, assume facilmente un significato strategico. David Roy e i suoi collaboratori del Centro di bioetica intendono probabilmente richiamarci a una considerazione realistica degli interlocutori ai quali l’etica si rivolge. Nella versione più nobile, i ricercatori tendono ad essere autoreferenziali. Dell’etica intesa come rete di norme rivolte a proteggere i soggetti umani dagli abusi non sanno che farsene, perché presumono che la protezione dei soggetti utilizzati nella ricerca stia già loro a cuore. Mentre per imbrigliare i ricercatori senza scrupoli l’etica si rivela uno strumento troppo debole e facilmente aggirabile.

È un errore considerare l’etica come un’imposizione autoritaria esterna di regole e limitazioni sui processi della ricerca clinica. C’è un aspetto positivo nella richiesta dei ricercatori di rimanere gli arbitri della valutazione etica della ricerca, a cui ha prestato la voce Dausset: è la rivendicazione del giudizio etico come una componente essenziale dell’intelligenza clinica e scientifica.

Sullo sfondo di queste considerazioni il progetto del Centro di Montreal di rendere presente l’etica nell’ambito della ricerca acquisita più rilievo. Non si tratta più soltanto di gettare le basi morali di una politica efficace di protezione del soggetto sperimentale. La libertà, la dignità e il benessere dell’uomo sono valori incontrovertibili, che dovranno essere rispettati mediante una vigilanza costante. Ma la protezione del soggetto umano appare un problema molto più vasto di ciò che sembrava a prima vista. Dopo un primo momento culturale, centrato sull’obbligo di assicurare la protezione del soggetto umano nelle ricerche biomediche, si affaccia un secondo livello di coscienza collettiva.

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Pur continuando a rispettare l’obbligo della protezione, l’accento di sposterà progressivamente sulla collaborazione attiva della comunità con il mondo della ricerca biomedica.

Invocare la bioetica non equivale a sollecitare una istanza di controllo. È necessario piuttosto cambiare lo scenario globale del rapporto tra la ricerca e la società nel suo complesso. David Roy è molto sensibile alle problematiche più generali che, fungendo da sfondo, tendono a non essere mai tematizzate. Per esempio: quando ci si domanda perché dei ricercatori ottengano tanto sostegno e adeguati finanziamenti per una particolare ricerca, mentre altri settori restano sprovvisti, ci si rende conto che solo gli organismi che accordano le sovvenzioni possono apprezzare la convergenza di lavori disparati e conoscere il fine reale che perseguono. Attualmente i veri obiettivi della ricerca sono determinati non dagli scienziati ma dalle grandi compagnie, dai militari, dagli organismi che forniscono fondi, al di fuori della conoscenza del pubblico.

In questa apertura di orizzonti sempre più ampi e comprensivi possiamo ravvisare un tratto distintivo della bioetica di David Roy, che sembra sottrarsi a ogni schematismo scolastico. Il suo procedimento caratteristico è quello di un “sì, ma anche...”, dove l’“anche” porta nel centro focale dell’attenzione elementi di un quadro totale che i saperi disciplinari tendono a ignorare. Ritroviamo ancora quella preoccupazione sistemica, che abbiamo già identificato come indicatore del passaggio alla bioetica. Questa caratteristica non fa certamente di D. Roy l’interlocutore ideale per coloro che portano nei dibattiti bioetici quello spirito militante che domanda schieramenti risoluti e facilmente spendibili presso l’opinione pubblica, dove tutto si conclude con un “sì” o con un “no”. Per contro, lo rende un pensatore ascoltato da chi si aspetta dalla bioetica un aiuto a ricostruire un’immagine integrata ed equilibrata dell’uomo.

Una risposta al senso di colpa esistenziale

Se questa è la struttura della disciplina, chi la coltiva partecipa al suo dinamismo. Ciò spiega perché David Roy sembra essere stato preso nel vortice da un’attività dai mille sbocchi pratici e da interessi sempre rinnovati. Lo troviamo come consulente in comitati di etica di diversi ospedali e istituti di ricerca, membro del Comitato sull’Aids istituito dal Ministero della sanità del Québec, relatore in congressi e simposi a livello internazionale. Due temi, in particolare, hanno mobilitato sempre più le sue riflessioni negli ultimi anni: la lotta all’Aids e le cure palliative.

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Nella massa di considerazioni e proposte di natura etica prodotte dalla diffusione epidemica dell’Aids, la voce di David Roy si distingue ancora una volta per la capacità di indicare prospettive inusuali. Molti studiosi di etica hanno denunciato l’esplosione di discorsi moralistici e colpevolizzanti, che hanno cucito addosso alle persone colpite etichette di condanna morale e di emarginazione. La triste prerogativa di questi discorsi non spetta solo a certi uomini di religione ― «l’Aids come castigo di Dio»... anche persone di nessuna credenza religiosa hanno preso volentieri la via della condanna moralistica e della dissociazione dai colpiti.

A David Roy non interessa solo recuperare la credibilità dell’etica, facendone un baluardo per il rispetto delle persone e la più forte spinta per la solidarietà. Vuole un’etica capace di colloquiare con il senso di colpa che, anche senza essere strombazzato dai difensori delle interdizioni morali, abita i colpiti da un morbo così anomalo. Ricorda che non c’è solo la colpa per qualche cosa che si è commesso. Un’altra dimensione della colpa è quella “esistenziale”.

Questa affiora nella coscienza al tèrmine della vita, quando il tempo è giunto alla fine. È una colpa “esistenziale” perché non si riferisce specificatamente a un atto, un fatto, una decisione o una scelta. Copre l’intera estensione dell’esistenza e si esprime nel confronto tra ciò che si è e ciò che si sarebbe potuto essere. È realistico pensare che le giovani esistenze stroncate dall’Aids siano esposte con una intensità tutta particolare alla sofferenza della colpa esistenziale. La risposta può essere solo una parola di accettazione incondizionata rivolta a coloro che si sentono ingoiati dall’abisso della colpa esistenziale.

Chiedere alla bioetica di essere capace di mobilitare infinite risorse di speranza per coloro che soffrono così intensamente di fronte alla morte significa forse cancellare i confini di questa disciplina rispetto alla religione? Per David Roy l’estraneità della bioetica standard agli orizzonti evocati dalla colpa esistenziale è un altro dei confini da trascendere, se la bioetica vuol essere semplicemente un servizio responsabile reso alla vita.

In un momento della prevalenza della preoccupazione teorica, Roy si è avventurato nella formulazione di una “bioetica come anamnesi”, appoggiandosi alla metafisica di Bernard Lonergan. Quest’ultimo nella sua opera classica Insight. A study of human understanding, cercando le radici dell’etica non le colloca «né nelle frasi, né nelle proposizioni, né nei giudizi, ma nella struttura dinamica di una coscienza razionale». È quanto dire che uno stesso processo lega tutti gli imperativi trascendentali che orientano lo sviluppo umano: essere “intelligenti”, essere “riflessivi”, essere “responsabili”. Tutti portano verso un punto di vista superiore che costituisce un’integrazione più alta della vita umana.

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Roy, seguendo Lonergan, identifica questo punto di vista integrativo nella comunicazione che tutti gli esseri umani sono stati accettati incondizionatamente dall’incondizionato. L’appropriazione della comunicazione storica dell’accettazione e del dono incondizionato è “anamnesi”. Questa è la radice della bioetica.

È lecito dubitare che saranno in molti a seguire David Roy in questa speculazione in cui dà voce al teologo che è stato in giovinezza. Come non accompagnarlo, invece, nel percorso etico che ci invita a fare nelle cure palliative? In questo ambito ricopre anche un ruolo ufficiale, in quanto fondatore e direttore della rivista internazionale Journal of Palliative Care, che viene pubblicata dal 1985.

L’orizzonte etico delle cure palliative

Occuparsi di medicina palliativa, cioè dell’insieme dei trattamenti rivolti al malato che non va verso la guarigione, ma verso la fine della vita perché l’arte medica ha esaurito quanto era in suo potere per sconfiggere il suo male, vuol dire per Roy molto di più che aprire il capitolo classico dell’etica medica dove si parla di eutanasia o non eutanasia. È, piuttosto, la via per accedere al cuore stesso della medicina, là dove essa mostra la sua fallibilità e impotenza. E soprattutto la sua incertezza.

Tutti questi aspetti dell’agire medico sono stati messi in ombra dal piglio trionfalistico che ha assunto la medicina da quando ha cominciato a servirsi della tecnologia e a ottenere indubbi risultati di grande efficacia. Per non rimettere in discussione questo profilo professionale, i medici hanno deliberatamente sottolineato la loro estraneità nei confronti di problemi che non fossero quelli del prolungamento della vita biologica. Fino a che tutto l’ambito della vita terminale è diventato tanto carico di malessere sociale da essere intollerabile. In questo contesto è sorta l’attenzione per le cure palliative.

In un tempo in cui molti medici dominati dalla razionalità scientifica e obiettiva pensano che il loro lavoro si limiti a diagnosticare un male localizzato e ad avere come unico obiettivo il prolungamento della vita, il movimento delle cure palliative ricorda loro che, con l’evoluzione della tecnologia, le alternative aumentano. Particolarmente nel trattamento di malattie con possibile esito fatale.

Quando le scelte aumentano, si accrescono le decisioni. Molto spesso queste decisioni non sono puramente mediche o tecniche, ed hanno un impatto diretto su tutta la biografia del paziente. Riconoscere i valori del paziente e articolare le decisioni sulla base delle sue preferenze è la preoccupazione dominante della filosofia implicita nelle cure palliative.

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Le cure palliative hanno l’ambizione di intervenire modificando lo scenario della morte tecnologica. Vogliono rendere possibili altri modi di morire più rispettosi della persona umana. La vita dell’uomo, in quanto persona, è molto più che la sola vita biologica. Morire senza il fracasso frenetico della tecnologia messa in moto per strappare qualche ora supplementare di vita; morire senza i dolori atroci che monopolizzano tutta l’energia e la coscienza del morente; morire intrattenendo dei rapporti semplici e ricchi con le persone significative che circondano il malato; morire come qualcuno che è in grado di praticare la difficile “ars moriendi”; morire ― se si vuole ― con gli occhi aperti, guardando coraggiosamente le cose in faccia e aderendo a quello che succede; morire con lo spirito aperto, accettando che certe questioni che la vita ha posto restino senza risposta; morire con il cuore aperto, preoccupati cioè del benessere di coloro che restano in vita. Verso questi nuovi e impegnativi compiti David Roy vuol guidare le cure palliative, evitando che la medicina palliativa si riduca alla sola messa a punto di procedure tecnologiche per pilotare i morenti verso una morte di massa standardizzata.

La medicina a cui fa riferimento è etica per natura, non per l’aggiunta di regole e norme etiche. Essa è stata sviluppata dagli esseri umani civilizzati per contrastare quella legge della giungla secondo la quale i più deboli devono scomparire e i più forti dominare. La medicina, quindi, fa parte integrante di una società civilizzata, in quanto si propone di continuare a mobilitare le energie umane contro quella legge.

Riferimenti bibliografici

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David Roy, «Médicine, éthique, anthropologie», in J. Dupresne, F. Dumont, Y. Martin (a cura di), Traité d’anthropologie médicale: l’institution de la santé et de la maladie, Presses de l’Université du Québec, Montreal, 1985, pp. 1189-1217.

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David Roy, «Orientamenti e tendenze della bioetica nel ventennio 1970-1990», in Corrado Viafora (a cura di), Vent’anni di bioetica, Fondazione Lanza e Gregoriana Libr. ed., Padova, 1990, pp. 93-122.

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David Roy, «Bioethics as Anamnesis: What Lonergan has unterstood and others have overlooked», in M.L. Lamb (a cura di), Creativity and Method: Essay in honor of Bernard Lonergan, Marquette Univ. Press, Milwaukee, 1981, pp. 325-338.

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24. Peter Singer: segno di contraddizione

Umana, più che umana

Una vocazione alla bioetica può nascere in tanti modi. Anche a tavola, alla mensa di un austero college di Oxford. È quanto è capitato a Peter Singer, giovane professore di filosofia australiano. Nel 1971 si trovava a Oxford per un ciclo di lezioni all’University College. Spiritualmente frequentava i grandi filosofi del passato ― Kant e Marx in particolare ― ed era attirato dagli aspetti pratici dell’attività filosofica. Si era occupato soprattutto dei limiti delle obbligazioni poste dalla legge. Il tema dell’epoca per un intellettuale “liberal” era quello della lealtà verso il governo del proprio paese, quando questo chiede di arruolarsi per una guerra ingiusta. Alla “democrazia e disobbedienza” sarà dedicato appunto il primo lavoro del promettente filosofo.

Un collega di Oxford lo invitò un giorno a colazione al Baylor College. Il filosofo era vegetariano per ragioni etiche. La posizione non era inusuale tra gli accademici inglesi; godeva anzi di illustri ascendenti. Basti citare il riformatore sociale Henry Salt, che già nel 1893 pubblicò un libro intitolato Animal rights. Nella propria autobiografia, intitolata Settanta anni tra i selvaggi (il veleno nascosto nel titolo si coglie solo quando si sa che Salt visse la sua intera vita in Inghilterra...), racconta lo sconcerto di un professore di scienze al quale, quando era professore a Eton, sottoponeva la sua tesi di una alimentazione completamente vegetariana. «Non pensa che gli animali ci siano stati dati per rifornirci di cibo?», gli rispose lo scienziato.

Una conversazione analoga avvenne, decenni dopo, alla tavola del Baylor College di Oxford, tra i due filosofi. «Come puoi giustificare il modo in cui trattiamo gli animali?». Alla provocazione del collega vegetariano Peter Singer cercò di rispondere con gli argomenti usuali, mutuati dal buon senso. Era contrario, ovviamente, a qualcuno che trattasse gli animali in modo crudele, ma senza arrivare a pensare che il

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modo in cui inseriamo gli animali nel nostro universo morale fosse fondamentalmente sbagliato. Doveva esserci una giustificazione razionale del fatto che ce ne cibiamo, li utilizziamo per la sperimentazione e per ogni altro possibile vantaggio per l’uomo. Ma le argomentazioni della filosofia tradizionale che assumeva come un apriori l’antropocentrismo, ovvero il valore unico e centrale attribuito all’uomo nella scala dei viventi, non lo convincevano.

Quel leggero pasto vegetariano rimase sullo stomaco a Peter Singer. Da allora iniziava un cammino intellettuale e un impegno istituzionale che lo avrebbero portato in pochi anni alla guida del movimento della “liberazione animale”. Senza mai perdere la sua identità: Singer non è un attivista, ma un filosofo. Il suo impegno per gli animali è sostanzialmente quello di pensare la loro condizione nel quadro della filosofia morale, più precisamente della bioetica. Il quadro di riferimento non è quello che può motivare un militante della Società per la protezione degli animali o un attivista della Lega antivivisezione.

Il movimento protezionista del diciannovesimo secolo era basato sull’assunto che gli interessi degli animali non appartenenti alla specie umana avessero diritto ad essere salvaguardati solo quando non erano in gioco importanti interessi umani. Gli animali risultavano con grande chiarezza esseri inferiori, i cui interessi, in caso di conflitto, dovevano comunque essere sacrificati ai nostri. Anche l’opposizione alla vivisezione poggia sulla condanna della crudeltà verso gli animali, sul fatto cioè di causare dolore quando non c’è nessuna ragione per farlo, eccetto il puro sadismo o un’assoluta indifferenza. Ma questa posizione era già propria dell’etica tradizionale, nata dalla visione antropocentrica.

Il vero significato del movimento per la liberazione animale sta nella contestazione di quel presupposto. Considerata di per se stessa ― affermano i liberazionisti ― l’appartenenza alla specie umana non ha rilevanza morale. Anche altre creature sul nostro pianeta hanno degli interessi. Gli uomini sono sempre stati convinti di essere giustificati nel prevaricarli, ma questa nostra spavalda convinzione non è altro che egoismo di specie.

La liberazione animale si propone di sottrarre gli animali allo sfruttamento dell’uomo applicando l’idea di diritti fondamentali, che è stata decisiva per i movimenti di emancipazione dai pregiudizi razziali e dalla marginalità delle donne nella nostra epoca. Dopo le battaglie culturali contro il razzismo e il sessismo, si propone di aprire un altro fronte contro una forma di patologia dello spirito nei cui confronti eravamo finora ciechi: lo “specismo”, ovvero l’oppressione esercitata dalla specie umana sulle altre specie animali, in nome di una sua conclamata superiorità.

Singer ha contribuito come pochi altri a mettere a punto la filosofia

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del movimento di liberazione animale, per la quale non esiste alcun significato morale definitivo nella razionalità, nell’autonomia, nel linguaggio, nel senso di giustizia o in nessun altro dei criteri che teoricamente dovrebbero distinguerci dagli animali. Lo specismo risulta altrettanto indifendibile quanto il più smaccato razzismo. Non esiste base etica che ci permetta di far assurgere l’appartenenza a una determinata specie a caratteristica morale determinata. Dal punto di vista etico, siamo tutti nella stessa posizione, sia che poggiamo su due piedi o su quattro, o addirittura su nessuno.

In questa prospettiva diventa cruciale il modo di intendere l’uguaglianza. Il movimento di liberazione animale non afferma che tutte le vite hanno uguale valore e che si deve quindi dare un uguale peso ad ogni interesse, di qualsiasi tipo, degli uomini e degli animali. Esso afferma che, qualora uomini e animali abbiano interessi simili, essi devono essere trattati con equità, senza fare una discriminazione automatica a svantaggio dell’essere vivente non umano.

Un buon esempio di interesse simile è quello di evitare il dolore fisico. Accogliendo l’indicazione di Jeremy Bentham, il filosofo del XVIII secolo a cui si deve la prima formulazione dell’utilitarismo, Singer identifica il confine insuperabile fra coloro che hanno importanza morale e coloro che non l’hanno nella capacità di soffrire. Con il movimento della liberazione animale si può considerare realizzata la profezia formulata, più di duecento anni fa, da Bentham: «Verrà il giorno in cui il resto della creazione animale acquisterà quei diritti che non avrebbero mai dovuto essergli sottratti dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore scuro della pelle non è una ragione sufficiente perché un essere umano debba essere abbandonato senza rimorso al capriccio di un tormentatore. Un giorno arriveremo alla convinzione che il numero degli arti, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono ragioni ugualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile al medesimo destino».

La nostra responsabilità morale: un cerchio che si allarga

Singer ha teorizzato l’interesse per gli animali non come l’apertura di un capitolo secondario della filosofia morale, ma come una rivoluzione etica destinata ad arrivare lontano. Essa rappresenta il punto culminante di una lunga linea di sviluppo morale. In uno stadio primitivo del nostro sviluppo la maggior parte dei gruppi umani aderiva a un’etica tribale: i membri della tribù erano protetti, ma gli appartenenti a tribù estranee potevano essere depredati o uccisi senza pietà.

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Gradatamente il cerchio di protezione si andò allargando, anche se fino a un paio di secoli fa non includeva, ad esempio, le persone di colore, per cui gli africani potevano essere catturati, imbarcati per l’America e venduti come schiavi. Come abbiamo superato l’etica rozzamente razzista dello schiavismo, così è necessario andare oltre l’etica specista dell’èra dell’allevamento industriale degli animali e della loro utilizzazione come puri e semplici strumenti di ricerca. Per Singer la funzione della bioetica è quella di indurci a fare il passo finale nell’espansione del cerchio etico.

Oggi non è necessario ribadire l’idea che negli “altri”, verso i quali siamo legati da doveri etici, devono essere inclusi tutti gli esseri umani, senza tener conto della loro razza, classe e nazionalità. La sfida che pone Singer, in nome della bioetica, è di allargare la cerchia anche agli animali non appartenenti alla specie umana. Se l’uomo si considera semplicemente uno tra gli altri viventi, il punto importante del paragone tra gli esseri sarà che questi altri possono anch’essi soffrire o essere felici. Chiunque sia in grado di sentire qualcosa, si tratti di dolore o di piacere o di un qualsiasi stato di consapevolezza, positivo o negativo, deve di conseguenza essere importante. La pietas, in quanto sentimento primordiale della mutua solidarietà e obbligazione tra tutti i viventi, viene proposta come il fulcro della morale del prossimo millennio.

È solo una generosa utopia, quella di Peter Singer, che domanda alla società umana di considerare gli animali non appartenenti alla nostra specie come “persone” e non come cose? Se di utopia si tratta, non si può negare che qualche frutto abbia portato. Come il Great Ape Project, di cui Singer è stato uno dei più accesi sostenitori. Si tratta di conferire alle grandi scimmie antropomorfe dignità umana, estendendo ad esse i diritti oggi riconosciuti agli individui privi dell’autoconsapevolezza razionale propria della vita adulta, come i bambini o gli handicappati gravi. Le ricerche condotte negli ultimi decenni dimostrano che queste scimmie possiedono non solo capacità di collegamenti logici e sentimenti complessi, ma una vera e propria personalità. In pratica, l’estensione ai primati superiori del diritto a non essere uccisi o reclusi comporterebbe la fine della loro detenzione negli zoo e nei laboratori di ricerca. Se il Great Ape Project avrà buon esito, la pressione sui comportamenti umani proveniente da una bioetica più che umana avrà prodotto uno dei risultati più vistosi.

Ridurre al silenzio Singer”

Con Peter Singer bisogna essere sempre pronti ai paradossi. Come quello di trovare l’impostazione più ampia della bioetica che potesse

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essere concepita, così ampia da dar posto a tutto il regno animale accanto alla specie umana, collocata in una nicchia accademica con una intestazione molto riduttiva. Peter Singer, infatti, dirige dal 1983 il Centro per la bioetica umana presso l’università di Monash a Clayton, in Australia. La contraddizione è spiegabile con un motivo prudenziale. Quando l’università decise di creare il Centro, era chiaro che Peter Singer ne avrebbe assunto la direzione. I decani delle facoltà di medicina e di scienze naturali temettero che uno studioso con un profilo così delineato come leader del movimento animalista avrebbe potuto creare difficoltà per la pratica della sperimentazione con gli animali. Fu proposto quindi che il Centro sì sarebbe occupato di bioetica “umana”. Anche se malvolentieri, Singer accettò il compromesso, che aveva il vantaggio di portare il sostegno dell’università al Centro di bioetica.

Ma si illudevano i colleghi che puntavano su un Centro di bioetica tranquillo, diretto da uno studioso in vesti accademiche, lontano dalla mischia delle polemiche e dei dibattiti più accesi. Il temperamento battagliero di Peter Singer, insieme al contenzioso che è intrinseco a molti problemi della bioetica, costituivano una miscela destinata prima o poi a esplodere. L’“affare Singer” scoppiò in Germania nel 1989. Lo studioso australiano avrebbe dovuto intervenire in un simposio previsto per l’inizio di giugno a Marburg, sul tema: “Biotecnologia ― etica ― handicap”. Successivamente era stato invitato a tenere una conferenza all’università di Dortmund, annunciata con un titolo che era in se stesso un invito alle polemiche: “I neonati handicappati hanno diritto alla vita?”.

Le conferenze si collocavano nell’ambito problematico scottante della tecnologia applicata ai progressi della genetica e della medicina. Nel simposio di Marburg si sarebbe dovuto discutere sulle conseguenze sociali della possibilità di diagnosticare precocemente handicap di natura genetica. I genitori si vedranno costretti, direttamente o indirettamente, ad abortire i feti portatori di handicap? Esiste addirittura il pericolo che in futuro i neonati più gravemente malformati siano sistematicamente lasciati morire, o che si proceda nei loro confronti a un’eutanasia attiva? l’associazione tedesca “Lebenshilfe”, che raggruppa i genitori di bambini con handicap mentali, era preoccupata per la crescita di un atteggiamento di insofferenza nella società. In un prossimo futuro l’handicap potrebbe essere considerato come evitabile e la nascita di bambini menomati rischia di essere imputata a genitori imprevidenti.

Per affrontare di petto la spinosa questione, “Lebenshilfe” decise di invitare Peter Singer. Il filosofo australiano era noto come rappresentante delle tesi più estremiste. Le sue idee erano contenute nel libro Etica pratica, del 1979, tradotto in tedesco nel 1984. L’approccio filosofico

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di Singer, che pur si presenta in modo così accattivante per la sua generosità verso gli animali, cambia di segno quando viene applicato alla vita umana portatrice di handicap o gravemente carente dal punto di vista della qualità.

I presupposti remoti di questo pensiero stanno nella rinuncia al criterio della sacralità della vita umana. Finché si attribuisce alla vita dell’essere umano un valore sacro, la vita dell’essere più gravemente e irreparabilmente danneggiato nelle funzioni cerebrali ― del tipo che si suol brutalmente definire “vegetale umano” ― è posta comunque al di sopra della vita di uno scimpanzé. La ragione che giustifica questa singolare priorità è il fatto che lo scimpanzé non è membro della specie umana, mentre il “vegetale umano” lo è, almeno dal punto di vista biologico. Il superamento dello “specismo” fa traballare questi punti di riferimento, solidamente appoggiati sul senso comune. La qualità delle forme di vita in gioco avrà il sopravvento sulla pura e semplice appartenenza alla specie “homo sapiens”.

Seguendo rigorosamente questa impostazione, Peter Singer era giunto a sostenere che non si devono fare discriminazioni sulla base della sola specie, ma è necessario distinguere fra la gravità di uccidere esseri con le capacità mentali di adulti umani normali ed esseri che, invece, non possiedono e non hanno mai posseduto tali capacità. Il distacco dalla tradizione della sacralità della vita è già avvenuto nel caso dell’aborto: la sensibilità morale del nostro tempo ha per lo più accettato la possibilità di uccidere il feto. Si tratta allora di essere più conseguenti: dal momento che non esiste un diritto alla vita fondato sull’appartenenza alla specie umana, bisogna accettare come discriminanti le caratteristiche di razionalità, autonomia e autocoscienza. Là dove la vita umana non possiede queste caratteristiche, non ha un diritto alla tutela assoluta.

In Etica pratica troviamo una presa di posizione formale di Singer circa la possibilità di disporre della vita nascente sulla base di criteri di qualità. Egli concede semaforo verde non solo all’aborto, ma anche all’infanticidio. Siccome, preso in se stesso, il neonato è un essere senziente privo di razionalità e di autocoscienza, non si può rivendicare per lui un diritto alla vita. La legislazione in materia dovrebbe negare un pieno diritto alla vita per un breve periodo dopo la nascita. Forse un mese: la dilazione necessaria per decidere quali bambini far vivere e quali no. La scelta dovrebbe portare a eliminare quei bambini che, essendo malformati, sarebbero solo causa di infelicità per sé e per gli altri.

Avendo negato un diritto intrinseco alla vita, Singer deve fondare la possibilità di restare in vita su qualcos’altro. Lo individua nell’“interesse” di coloro che sono vicini al bambino, in particolare i suoi genitori.

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Dal punto di vista della dottrina filosofica dell’utilitarismo, che egli assume come principio etico, bisogna scegliere il corso dell’azione che, tutto considerato, ha le conseguenze migliori per tutti.

Quando nasce un bambino malformato, la decisione più morale è quella che ha le conseguenze migliori, in quanto promuove l’interesse di tutti. Decidere moralmente vuol dire decidere in modo che il saldo di felicità totale risulti superiore al dolore. Alcune malformazioni sono banali e hanno scarsa incidenza sulla felicità del bambino e dei suoi genitori; altre invece rendono il gioioso evento della nascita una minaccia per la felicità dei genitori e degli altri bambini che potrebbero avere. In questi casi i genitori, in nome di un utilitarismo basato sugli interessi, possono lasciar morire i neonati malformati. Anzi, devono lasciarli eliminare dal medico. Singer sostiene che l’eutanasia attiva è preferibile a quella passiva, in quanto risparmia ulteriori sofferenze, che per definizione sono inutili.

È facile immaginare l’impatto che tesi simili potevano avere in Germania. In questo paese l’eutanasia per gli handicappati non è stata solo un’idea per dibattiti accademici, ma una tragica pratica. Per i tedeschi consapevoli della loro storia l’eutanasia per vite ritenute “non degne di essere vissute” è un fantasma inquietante, che non deve essere menzionato neppure come ipotesi filosofica.

Quello che a stento si sarebbe potuto ipotizzare, invece, è la reazione del gruppo degli oppositori. A questi non interessavano le argomentazioni filosofiche, ma le conclusioni pratiche; e siccome queste erano inaccettabili, avviarono una campagna per impedire al filosofo di prendere la parola in pubblico. Iniziava così una vera e propria persecuzione da parte di un gruppo di attivisti, estesa a tutta l’area linguistica tedesca. Far tacere Singer è diventato un preciso obiettivo. È stato utilizzato ogni genere di disturbo, inclusa l’intimidazione e le aggressioni.

Durante una conferenza nella Svizzera tedesca è stato anche aggredito fisicamente, gli sono stati strappati e calpestati gli occhiali. Vari simposi, nei quali Singer avrebbe dovuto parlare, sono stati annullati, a cominciare da quello di Marburg. Nel 1991 si è dovuto rinunciare anche a un convegno in Austria dedicato alla filosofia di Wittgenstein. La critica contro Singer, infatti, si è progressivamente estesa, arrivando a colpire non solo filosofi che sostenevano tesi analoghe alle sue, ma l’intera filosofia analitica, identificata come la fondazione intellettuale della bioetica. Per gli attivisti ― un gruppo composito che includeva esponenti di associazioni di disabili, che vedevano nelle tesi di Singer una minaccia alla loro stessa vita, membri del movimento femminista e dei “Verdi”, ostili all’ingegneria genetica e alle nuove tecnologie riproduttive ― la parola stessa bioetica divenne un tabù.

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Un effetto secondario dell’“affare Singer” fu di fare pubblicità alla bioetica. Il settimanaleDie Zeit fu il primo a difendere Singer e a spiegare la sua posizione circa l’eutanasia e l’uccisione di neonati gravemente malformati. Successivamente nello stesso giornale e in altri fu tutto un susseguirsi di discussioni, interviste, articoli prò e contro le tesi difese da Singer in Etica pratica. La stessa televisione se ne è occupata ampiamente.

Il primo a rifiutare che queste tesi possano essere ricondotte all’ideologia nazista è Singer stesso. L’accostamento lo ferisce in modo particolare, in quanto egli è figlio di genitori ebrei che sono emigrati dall’Austria nel 1938 per sfuggire alla persecuzione nazista. Considera ogni analogia tra il suo pensiero e il nazismo come fuorviarne. I criteri, infatti, con cui i nazisti valutavano la vita erano quelli della razza, mentre la sua etica basa le scelte sulla diminuzione del dolore. Soprattutto è rimasto deluso dalle proteste sollevate dalle associazioni di persone con figli handicappati: l’intenzione di Singer era quella di venire incontro proprio a loro, dando una giustificazione filosofica alle scelte tragiche che sono costretti a fare.

Un’associazione internazionale per esercitare la libertà di parola

Il violento impatto del pensiero di Singer sulla società tedesca è risultato molto istruttivo. Ha dimostrato, ad abundantiam, la capacità della bioetica di gettare una sfida ai valori centrali che sottendono la vita comune. La filosofia ha ancora la possibilità di porre questioni serie alla nostra società. Inoltre ha fatto emergere la pluralità delle concezioni di “buona vita”. La felicità non è uguale a ciò che si trova quando si organizza l’esistenza in modo da evitare il dolore. Ci sono forme di “interesse” e di “utilità” che non coincidono con quelle che conosce e promuove la società dei consumi: è quanto gli handicappati e le loro famiglie hanno voluto esprimere con la loro protesta.

Nel bilancio negativo va iscritta invece l’intolleranza che non permette il confronto. A Singer è stato deliberatamente impedito di parlare. Nel nostro mondo occidentale non esiste il delitto di opinione e togliere a qualcuno la possibilità di esprimere le proprie idee è considerato un comportamento gravemente illiberale. La vicenda ha indotto Singer a reagire alle intimidazioni fondando una Associazione internazionale di bioetica. In ogni editoriale della rivista Bioethics, che Peter Singer dirige insieme a Helga Kuhse, aveva già annunciato nel 1989 l’intenzione di promuovere un’associazione per tutelare la libertà di parola in bioetica. Nel 19921’Associazione internazionale teneva il suo congresso inaugurale ad Amsterdam. Peter Singer ne veniva eletto presidente.

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Nel programma originario una delle finalità dell’Associazione era quella di “sostenere gli studiosi la cui libertà di discutere questioni di bioetica è stata limitata o sottoposta a minacce”. A progetto realizzato, la troppo scoperta traccia biografica riferita a Singer veniva sfumata. Nello statuto definitivo dell’Associazione approvato ad Amsterdam l’obiettivo della tutela della libertà e ― «sostenere il valore di una discussione libera, aperta e ragionata dei problemi di bioetica» ― è scivolato discretamente all’ultimo posto, dopo finalità molto più generali e neutre, quali: sviluppare reti di rapporti tra studiosi negli specifici ambiti della bioetica; promuovere i contatti tra le organizzazioni internazionali e gli studiosi della disciplina; offrire aiuto a coloro che si dedicano alla bioetica, specialmente in nazioni in via di sviluppo.

Ai nostri giorni è diventato insostenibile parlare di “nazioni in via di sviluppo” in senso puramente economico, secondo l’ideologia progressista degli anni ’60 e ’70. È invece legittimo utilizzare ancora questa espressione in senso più ampio e traslato. Si pensi alla necessità di “sviluppo” che ha la riflessione sull’etica delle scienze biologiche e dell’assistenza sanitaria in paesi che hanno fatto parte del blocco comunista. L’ideologia marxista aveva congelato l’etica medica. Oggi quei paesi stanno rivolgendosi con avidità verso quanto è stato faticosamente ma fruttuosamente elaborato dalla bioetica occidentale negli ultimi venti anni. Con riferimento alla bioetica, si può affermare senza timidezza che i paesi dell’area ex comunista sono “in via di sviluppo”.

Anche l’America Latina si volge con interesse crescente verso la bioetica, per uscire da una marginalità culturale che ostacola l’innovazione necessaria. Accogliendo questa richiesta, il secondo congresso dell’Associazione internazionale è stato tenuto in Argentina, nell’ottobre 1994.

Il carattere internazionale dell’Associazione risponde alla vocazione intrinseca della bioetica: deve fare i conti con le differenze regionali e culturali, e allo stesso tempo deve rispondere al bisogno di universalità. Il significato sovrannazionale degli sviluppi in medicina e nelle scienze biologiche è sempre più rilevante. Se gli scienziati di un paese decidono, per esempio, di intraprendere la mappatura del genoma umano, le conoscenze ottenute si diffonderanno anche in altre nazioni. È possibile che conoscenze di questo genere, usate per alcuni scopi in una cultura, siano impiegate con finalità completamente diverse in un’altra. Basti pensare alla diagnosi prenatale per abortire le non desiderate bambine, così come avviene in India. È essenziale, perciò, che mentre si discute di questioni etiche in un paese, si tenga presente il contesto internazionale, per le ramificazioni che determinate tecniche e procedure potrebbero avere altrove.

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L’esperienza personale di Singer è istruttiva a questo proposito. Probabilmente l’Associazione internazionale di bioetica non sarebbe nata se la proposta di lasciare via libera alla soppressione dei neonati malformati non fosse risuonata così sinistra in Germania, sollevando un nuvolo di fantasmi angosciosi e spianando la via all’intolleranza.

La bioetica ha bisogno di riferirsi alla totalità: a tutte le esperienze filosofiche, religiose e spirituali degli uomini; a tutte le conquiste dello spirito, di cui andiamo fieri: ma anche a tutte le deviazioni di cui tolleriamo appena il ricordo. In questo senso la vigilanza internazionale nella riflessione bioetica può far sì che anche la memoria dolorosa delle cadute al di sotto del “minimo morale” ― come è avvenuto con le politiche di eugenismo realizzate sotto il regime nazista ― possa servire a prevenire altri errori.

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25. Patrick Verspieren: l’etica medica non è l’etica dei medici

Uno sguardo non medico sull’accanimento terapeutico

Verso la fine degli anni ’60 si sviluppò in Francia un dibattito sulla regolazione del numero degli studenti di medicina. La proposta di un “numerus clausus”, per quanto ragionevole dal punto di vista delle politiche di programmazione dei bisogni della società, urtava frontalmente con il clima “sessantottino”, insofferente di ogni limitazione di natura autoritaria. Nel dibattito si fece notare la voce di un giovane padre gesuita, Patrick Verspieren, cappellano del Centro Laennec, un luogo di incontro per studenti di medicina con finalità culturali e pastorali. Creato nel 1879, il Centro ha come fine quello di contribuire alla formazione di studenti di medicina e di professionisti del mondo della salute, trasmettendo una visione dell’uomo radicata nella fede cristiana. Padre Patrick Verspieren era approdato al Centro nel 1967, con la funzione di cappellano degli studenti.

Nella rivista che porta lo stesso nome dell’illustre clinico ― Laennec ― apparvero, a firma di Patrick Verspieren, un paio di articoli in cui traspariva un lucido atteggiamento analitico, insieme alla passione per la chiarezza. Per limitare il numero degli studenti di medicina, venivano usati ragionamenti matematici che erano falsi: l’assistente spirituale degli studenti, che prima di entrare nella Compagnia di Gesù era ingegnere, non aveva difficoltà a smascherarne l’inconsistenza. La bioetica non era ancora affiorata all’orizzonte, ma già Patrick Verspieren dava prova di quel rigore argomentativo che sarebbe stata la sua nota caratteristica nei dibattiti che, a partire dagli anni ’70, si sarebbero svolti intorno ai limiti da porre alle possibilità di intervento sulla vita umana.

Un secondo tratto distintivo era la tensione dialettica con il corpo medico. Questo dava prova di una certa vischiosità in tutti i dibattiti che avevano un forte impatto sociale e richiedevano un cambiamento di paradigma. Intorno a quegli anni la professione medica veniva sollecitata

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in Francia a schierarsi per una medicina socializzata, aderendo a una convenzione nazionale tra il corpo medico e la Securité Sociale. I medici non politicizzati facevano resistenza, barricandosi dietro la concezione della medicina come professione liberale, alla quale non potevano essere imposti vincoli.

Nella rivista Laennec e nel periodico ufficiale dei gesuiti francesi, Études, Verspieren prendeva posizioni pro-sociali, che non potevano conciliargli la benevolenza dei mandarini della medicina. Un’affinità spirituale aveva solo con pochi spiriti liberi, che osavano mettere in discussione le certezze trionfalistiche della medicina: con Jean Hamburger, per esempio, che nel 1972 aveva pubblicato La puissance et la fragilité, un’analisi filosofico-sociale della medicina che poneva in discussione molti luoghi comuni.

Lo scontro più massiccio con quella parte della corporazione medica che era insensibile al nuovo doveva avvenire, a metà degli anni ’70, a proposito della problematica divulgata sotto il nome di “accanimento terapeutico”. Verspieren era giunto a riflettere sul giusto limite nel prolungamento della vita prestando orecchio alla reazione di numerose famiglie che si lamentavano per quello che veniva fatto ai loro congiunti nella fase terminale della malattia. Raccolto il malessere connesso con la morte e il morire nell’èra tecnologica, si era messo alla ricerca di modi diversi di gestire le cure per i morenti.

Una prima sensibilizzazione era passata attraverso gli scritti di Elisabeth Kübler-Ross dedicati all’esplorazione psicologica delle fasi del morire. Nel 1975, con un gruppo di giovani medici e di studenti di medicina gravitanti intorno al Centro Laennec, si era recato in Inghilterra, al St. Christopher’s Hospice, dove ― gli avevano riferito ― era stato elaborato un accompagnamento dei morenti che sapeva abbinare medicina e umanità. Alla scuola di Cecily Saunders, creatrice del primo hospice e ispiratrice della filosofia di trattamento del dolore che è stata fatta propria da tutto il movimento delle cure palliative, Patrick Verspieren scopriva che era possibile accompagnare il malato che andava verso la morte in modo diverso da quanto era in uso nel suo paese. Se ne faceva subito apostolo entusiasta. Un “Cahier” monografico della rivista Laennec veniva dedicato alla terapia del dolore e alla cura dei malati terminali; il Centro inglese e l’approccio innovativo delle cure palliative erano presentati con articoli molto elogiativi, quale alternativa alla diffusa insensibilità per i problemi etici e relazionali che pone l’assistenza ai morenti.

Nel frattempo il dibattito in Francia sull’accanimento terapeutico cresceva, a beneficio di posizioni estreme. I medici tendevano a rifiutare ogni rimessa in discussione delle pratiche correnti. Tutto ciò che veniva

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fatto al malato trovava l’avallo del dovere deontologico del medico di fare quanto era in suo potere per sconfiggere la malattia e prolungare la vita del malato. I richiami alla moderazione o all’astensione in certi casi venivano screditati agitando il fantasma dell’eutanasia.

Sull’altro versante, la reazione a quella che veniva identificata come hybris medica, che calpestava il legittimo interesse del malato di porre dei limiti a ciò gli veniva fatto, mobilitava progetti di natura estremistica. In pratica, era come se si volesse erigere una barriera legale allo strapotere dei medici. Così va letto il progetto di legge presentato dal senatore Henri Caillavet nel 1978, identificato dall’opinione pubblica come tutela del cittadino dall’“accanimento terapeutico”.

Caillavet mirava a ottenere il riconoscimento legale del “testamento di vita”, mediante il quale i cittadini, sani o malati, sono autorizzati a domandare che la loro vita non sia prolungata artificialmente, una volta che sia stata posta una diagnosi di malattia incurabile. La legge prevedeva il diritto per ogni persona maggiorenne e sana di mente di «dichiarare la propria volontà che nessun mezzo medico o chirurgico, oltre a quelli destinati a calmare la sofferenza, sia utilizzato per prolungare artificialmente la vita, se è colpita da un’affezione accidentale o patologica incurabile». Caillavet era intenzionato a far esplicitamente riconoscere da un testo di legge che ogni essere umano ha il diritto di «rifiutare la tecnologia medica se questa gli sembra eccessiva, disumanizzante, generatrice di dolori supplementari, e sopratutto tragicamente inutile, quando l’esito fatale non può essere evitato»: questi i termini con cui il senatore aveva presentato i motivi della legge proposta.

Un limite all’azione medica per legge?

L’intervento di Verspieren nel dibattito non si limitava a mettere in evidenza le carenze del progetto di legge. Queste erano macroscopiche, e non potevano sfuggire al suo acume. Per esempio: a chi sarebbe stata applicata la legge? Secondo il testo, i destinatari sarebbero stati i malati e feriti colpiti da un’affezione incurabile e la cui vita non può essere prolungata che artificialmente. Ma, a rigore, le stesse condizioni si verificano anche nel caso di insufficienti renali cronici non suscettibili di ricevere un trapianto, di cardiopatici che hanno bisogno di uno stimolatore cardiaco per sopravvivere e, in generale, di tutti i malati cronici che sono mantenuti in vita solo mediante un trattamento regolare. Non era questa, evidentemente, l’intenzione della legge; ma la sua portata avrebbe potuto essere facilmente ampliata. Il vizio della proposta era insito nell’espressione “prolungare artificialmente la vita”: era troppo

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vaga e dal contenuto troppo incerto. Quali sono, infatti, in medicina i limiti dell’“artificiale”?

Ma, oltre che dalla inadeguatezza del progetto di legge, Verspieren era reso perplesso dal fatto che venissero fissati per legge i limiti delle cure da impartire ai malati. A voler legiferare in troppi ambiti, con l’intento di proteggere la libertà degli individui, si rischia di imprigionarli nelle maglie di una rete giuridica astratta e inadeguata. E soprattutto pericolosa. Il discernimento del medico e le regolamentazioni di natura deontologica sarebbero state sostituite da norme legali. Secondo questo scenario, quando in un paziente si viene a scoprire un’affezione letale incurabile, si presentano due alternative:

― o il paziente ha firmato la sua “dichiarazione” con cui limita gli interventi medici. Allora nella scelta delle cure da somministrargli il medico deve considerare un solo fattore: il carattere “artificiale” o no della terapia; non è obbligato a considerare nessun altro fattore, neppure la volontà profonda che avvertisse nel paziente;

― oppure il paziente non ha firmato la dichiarazione o l’ha revocata. Il medico deve allora «tentare con tutti i mezzi di salvare la sua vita», anche se le terapie usate apparissero tragicamente inutili. Detto in altro modo: in questo secondo caso l’accanimento terapeutico diventa obbligatorio!

Il solo linguaggio adeguato a proposito del rifiuto dell’accanimento terapeutico è il linguaggio etico. Il passaggio dall’ambito etico alla formulazione giuridica non presenta solo difficoltà, ma anche il pericolo di sostituire una medicina “ostinata” con una medicina lassista.

Il richiamo da parte di Verspieren alla centralità dell’etica per trovare la risposta misurata e saggia nei confronti della colonizzazione del morire da parte della tecnologia medica non equivale a una delega di giudizi di questo genere al medico. I professionisti sanitari tendono a difendersi dall’intervento di giuristi ed esperti di etica come da un’intrusione indebita. Ai progetti di legiferare contrappongono il vecchio adagio: «spetta al medico decidere, in scienza e coscienza».

La formula è ambigua, osserva Verspieren. Potrebbe essere intesa nel senso che spetta la medico, e solo a lui, decidere, senza alcun accordo con persone estranee al corpo medico. In questo senso difensivo i medici fanno talvolta appello alla deontologia medica, come struttura normativa sufficiente a guidarli nelle decisioni. L’appello alla “coscienza” può giustificare ogni decisione presa essenzialmente sotto la guida della soggettività del medico. Ma quanto meno la formula ha il merito di riconoscere che la “scienza”, da sola, non è sufficiente per risolvere situazioni perplesse. Per rispettare il malato e la sua volontà, il sapere scientifico non basta: sono necessarie altre qualità umane.

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Proprio il rispetto della volontà del malato, indispensabile per conferire all’atto medico la sua ossatura etica, apre nuovi scenari per la pratica della medicina. Soprattutto di quella relativa al segmento finale della vita. Molto spesso il paziente non è più in grado di prendere la decisione quando le tecniche mediche a finalità curativa si rivelano inutilmente aggressive nei confronti del malato in fase terminale. Lo sforzo che devono fare tutti coloro che hanno una parte di responsabilità è di cercare di interpretare la sua volontà profonda, o ― se questo non è possibile ― di decidere al posto suo, tenendo conto di tutti gli elementi che avrebbero influenzato la sua decisione se fosse stato in grado di essere informato e di decidere da solo. Che sopporti male il trattamento; che “non ne possa più”; che abbia fermamente espresso in precedenza il desiderio di morire a casa sua; che abbia una famiglia premurosa che voglia riprenderlo e assisterlo negli ultimi istanti: ecco altrettanti elementi “non scientifici” di cui è necessario tener conto, se si è animati da un vero rispetto del malato e della sua volontà.

In questo dibattito Verspieren andava progressivamente scoprendo che la posizione dioutsider rispetto alle professioni sanitarie non solo non toglieva autorevolezza alle sue riflessioni e proposte, ma si rivelava piuttosto una favorevole opportunità. I corpi professionali, infatti, rischiano di rimanere chiusi nella visione parziale dell’ethos di cui sono portatori. Mediti, infermieri, psicologi ospedalieri ― senza dimenticare le ottiche particolari dei giuristi, dei medici legali ecc. ― avevano risposte rigide al problema di ciò che fosse giusto fare con i malati in fin di vita. Quello che Verspieren chiamava “etica medica” non era l’insieme di valori promossi da un solo corpo professionale, ma un discorso nuovo che nasceva dalla capacità dei diversi gruppi professionali di mettersi in rapporto.

Era necessario aprire il ragionamento etico, ascoltando ciò che stava dietro. Le divergenze nel ragionamento etico di fronte allo stesso problema, anzi di fronte allo stesso malato, andavano raccolte come un’opportunità per integrare ciò che rimaneva escluso dai discorsi delle singole professioni. La nuova etica medica metteva così a punto il suo metodo. E si andava precisando il senso dell’aggettivo apposto all’etica: non etica “dei medici”, ma “della medicina”, intesa come campo d’azione dove sono attive diverse professioni, ognuna dotata di un sapere specifico.

L’elaborazione di un modello di assistenza al morente ha significato per Verspieren l’uscita dell’etica medica tradizionale. Non è stata un’esperienza indolore. La riflessione, l’ascolto di altri saperi professionali, l’effetto fecondante di modelli di assistenza prodotti da altri contesti culturali facevano emergere la possibilità di organizzare la fase finale della vita in modo che il malato continuasse ad essere un vivente

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fino al momento della morte. Ciò richiedeva però di rimettere in discussione alcuni assiomi dell’etica “medica” (in quanto etica dei “medici”): che fosse obbligatorio fare tutto per prolungare la vita del malato, anche di una sola ora, perché la vita è “sacra”; che bisogna con ogni mezzo evitare che il malato abbia coscienza della sua fine prossima.

La proposta di “accompagnamento” del morente veniva per lo più rifiutata dalla quasi totalità del mondo medico, e il rifiuto giustificato con ragionamenti etici. La trasmissione acritica dei modelli di comportamento da parte della professione non era capace di cogliere i problemi nuovi. L’etica medica non poteva limitarsi ad essere la ricerca di un massimo comun denominatore tra le varie deontologie professionali. Era un luogo di dialogo, ma non di un facile irenismo. Il dibattito non poteva evitare il conflitto e lo scontro, quando fossero necessari.

Teologo cattolico, ma non intellettuale organico

Uno degli aspetti più paradossali dello scontro era l’accusa rivolta al gesuita Patrick Verspieren di essere in contrasto con la dottrina cattolica della difesa della vita e del rifiuto incondizionato dell’eutanasia. Il rigore metodologico ha sempre trattenuto Verspieren dal confondere i due piani di discorso dell’etica medica e della morale cattolica relativa ai doveri del credente nei confronti della vita fisica. Il ragionamento etico che proponeva era affine all’insegnamento morale cattolico, ne riceveva forse anche una segreta ispirazione: ma non era morale cattolica in panni di bioetica.

Il rapporto tra la riflessione etica di Verspieren e la morale della chiesa cattolica si può ricavare dalla sua opera Biologie, médecine et éthique, pubblicata nel 1987. Si tratta di un’ampia raccolta di testi del magistero cattolico, da lui introdotti e commentati. Ben prima che la società si sensibilizzasse alla bioetica, la chiesa cattolica non aveva cessato di prestare attenzione a ciò che riguardava la persona umana nell’ambito del progresso biomedico. La raccolta di documenti curata da Verspieren attinge abbondantemente dal pontificato di Pio XII (1939-1958) e dai pontefici successivi, nonché da dichiarazioni ufficiali di conferenze episcopali e congregazioni vaticane.

Le questioni prese in considerazione sono l’inseminazione artificiale, il parto indolore, la consulenza genetica, la sperimentazione sull’uomo, i trapianti di tessuti e di organi, le cure da impartire a malati gravi e moribondi. Di ogni novità in campo medico alla chiesa stava a cuore valutare le ripercussioni sulle persone, sulle rappresentazioni collettive e sui sistemi dei valori.

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Mentre valorizza la tradizione dottrinale della sua chiesa, Verspieren non fa alcuno sforzo per creare un sistema di “bioetica cattolica”, né ritiene opportuno presentare gli insegnamenti in modo manualistico. La religione viene considerata in un ruolo che è di ispirazione, ma che non dispensa dalla riflessione filosofica e dalla fatica argomentativa. Né tanto meno esonera dall’esercizio della responsabilità personale. Spesso i documenti non fanno che proporre criteri da applicare in situazioni sempre particolari. Per esempio, viene stabilito il principio: «È legittimo astenersi da cure mediche sproporzionate». In ogni caso particolare bisognerà poi valutare se la cura sia o no proporzionata: e questo è un esercizio specifico della ragione.

Ciò che impedisce, inoltre, che questi interventi dottrinali siano equiparabili a un trattato di etica biomedica è il fatto che, per essere compresi a fondo, devono essere messi in relazione con la fede che li ha ispirati. Benché la morale religiosa sia pienamente comprensibile solo nell’orizzonte della fede, può essere tuttavia d’aiuto a chi si assume il compito di pensare i doveri morali nella situazione attuale di progresso della medicina. Negli intenti del concilio Vaticano II, «la chiesa, con i suoi singoli membri e con tutta intera la sua comunità, crede di poter molto contribuire a rendere più umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (Gaudium et spes, n. 40).

Per quanto riguarda il rendere più umana la morale, Verspieren ha trovato un’ispirazione nella linea proposta già dal magistero ufficiale di Pio XII, che nel prolungamento della vita di un malato inguaribile aveva invitato a considerare i mezzi utilizzati: quelli “ordinari” sono leciti e obbligatori, mentre nessuno è tenuto a utilizzare i mezzi “straordinari”. È stato un sostegno per Verspieren, quando nei dibattiti pubblici veniva accusato di proporre orientamenti in contrasto con l’insegnamento cattolico, poter riagganciarsi a quella linea, anche se la terminologia doveva essere rivista.

Solo a partire da una riflessione d’insieme su tutto il campo della cura dei malati in fin di vita è stato possibile dire qualcosa di pertinente sull’eutanasia. Al tema Verspieren ha dedicato diversi saggi, pubblicati dalla rivista Etudes. Non si è lasciato paralizzare dalla parola “eutanasia”, spesso usata come spauracchio da chi non intendeva lasciar rimettere in discussione la prassi corrente. Ha sottoposto, piuttosto, il termine a una chiarificazione semantica, distinguendo le diverse pratiche che vengono designate con lo stesso termine. Invece di partire dalla parola, bisogna prendere le mosse dai comportamenti.

Lo stesso segretariato della conferenza episcopale francese, pubblicando nel 1976 un documento sui Problemi etici posti oggi dalla morte e dal morire, accreditava a Patrick Verspieren il merito di aver indotto i vescovi francesi a riflettere che con la parola “eutanasia” si fa correntemente

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riferimento ad almeno sei ambiti di problemi: l'addolcimento degli ultimi momenti della vita del malato mediante gesti di cura appropriati e assistenza personale (secondo il significato etimologico della parola); la lotta contro la sofferenza, che può comportare il ricorso ad anestetici passibili di produrre nel malato la perdita della coscienza; la rinuncia al prolungamento della vita a ogni costo, scegliendo un’astensione terapeutica per permettere al malato di terminare in pace i suoi giorni (è in pratica un “lasciar morire”, espressione preferibile a quella corrente di “eutanasia passiva”); ilmettere fine deliberatamente alla vita di un essere umano che soffre troppo, su sua richiesta esplicita o presunta; la pratica dell’eugenismo nei confronti di esseri umani considerati anormali o tarati; la constatazione della morte, quando restano solo le apparenze della vita.

La parola “eutanasia” introduce tra questi diversi problemi un’unità fittizia, che è nociva alla serietà della riflessione. L’etica medica per la quale Verspieren si è sempre battuto comincia con lo sforzo di attenersi a un uso appropriato dei termini. Soprattutto quando si tratta, come nel caso dell’eutanasia, di una parola dalle forti connotazioni emotive, che rischiano di pregiudicare il dibattito.

Dall’eutanasia all’accompagnamento dei morenti

L’apporto di Verspieren all’etica della vita terminale, maturato in interventi episodici e riflessioni parziali nel corso degli anni, ha ricevuto forma compiuta in un libro, pubblicato nel 1984:Face à celui qui meurt. Un libro fortunato, che ha ben meritato le sette edizioni e numerose ristampe in lingua originale, oltre a traduzioni. È una “summa” del suo apporto alla riflessione circa i doveri etici nei confronti dei morenti che la nostra società deve affrontare.

Le tre parole poste a sottotitolo ― “eutanasia”, “accanimento terapeutico”, “accompagnamento” ― sono altrettanti pali indicatori di un percorso. Esso richiede di accettare i limiti dei mezzi medici, prenderne atto e decidere di astenersi da certe terapie perché, in alcuni momenti, le si giudica sproporzionate; di orientare allora le cure verso l’alleviamento del dolore e dei disagi; di restare vicino al malato e dargli la possibilità di esprimere i sentimenti che lo turbano; di non affrettare la morte, ma di vivere giorno dopo giorno con colui che muore.

È la via che Verspieren ha proposto, con determinazione e coerenza, come alternativa a quella costruita sul rifiuto a oltranza della morte e della consapevolezza della sua vicinanza e, quando ciò non è possibile, sul dominio del processo del morire, determinandone il modo e il

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tempo. Quest’ultima è la strada che Verspieren preferisce chiamare dell’“ostinazione terapeutica”. La sua proposta, invece, si riassume nello stare “di fronte a colui che muore”, senza negare la morte.

Nel 1985 i tempi erano maturi per istituzionalizzare il lavoro che Patrick Verspieren andava svolgendo da più di un decennio. Ciò avvenne mediante la costituzione di un dipartimento nell’ambito del Centre Sèvres, l’istituto di insegnamento superiore di teologia, filosofia e scienze umane, diretto dai religiosi della Compagnia di Gesù, a Parigi.

Il neo-costituito dipartimento, presieduto da Verspieren, si trovava di fronte al problema della denominazione. In Francia si registrano riserve ampiamente condivise nei confronti del neologismo “bioetica”. Quando nel 1983 il presidente Mitterand ha costituito il Comitato consultivo nazionale, lo ha denominato Comitato per l’“etica delle scienze della vita e della salute”. Meglio la prolissità che l’aborrita bioetica. Il Centre Sèvres optò per la dizione “etica biomedica”.

Le ragioni della scelta sono ricondotte alle incertezze che permangono in Francia circa la precisa nozione di bioetica; all’intenzione di significare che l’interesse del dipartimento non è rivolto solo alle innovazioni biologiche (come la fecondazione artificiale e l’ingegneria genetica, che il grande pubblico associa con il termine bioetica), ma all’insieme dei problemi posti dall’applicazione all’uomo delle scienze e delle pratiche biologiche e mediche; ma soprattutto al desiderio di distanziarsi da certi orientamenti americani, secondo cui la bioetica sarebbe una disciplina autonoma con una metodologia propria. Al Centro Sèvres si continua a ritenere preferibile di insistere su una connessione con la disciplina che costituisce l’etica in generale.

Una delle prime preoccupazioni del dipartimento è stata l’istituzione di un centro di documentazione, a disposizione degli insegnanti, dei professionisti e dei ricercatori in etica bio-medica. In seguito il centro di documentazione sarebbe stato spostato nello stesso edificio che ospita il Centro Laennec, ad alcuni isolati di distanza. La prossimità e la differenza esprimono chiaramente il cammino percorso: da un’assistenza spirituale e culturale a studenti di medicina di orientamento cattolico a un servizio al paese intero, nel suo bisogno di armonizzare progresso bio-medico e rispetto dell’uomo.

Al Centro Laennec Verspieren aveva come principali interlocutori i medici. Là doveva scoprire che in tema di etica bio-medica non esistono solo contrapposizioni ideologiche classiche, come quelle relative all’aborto o all’inseminazione artificiale con donatore. Ne esistono altre che si basano sui profili deontologici che le professioni trasmettono ai propri membri e sui diversi riferimenti antropologici. La cura dei malati in fine di vita è una di queste.

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Al Centro Sèvres l’orizzonte è diverso. Il dipartimento fa parte di una istituzione cattolica: la riflessione etica che promuove non può che essere radicata nella tradizione cristiana. La società francese, ormai decisamente pluralista, ha istituzionalizzato nel suo Comitato nazionale la rappresentanza delle diverse famiglie religiose e spirituali. Dal 1988 al 1990 anche Verspieren ha fatto parte del Comitato, in rappresentanza della tradizione cattolica.

Una fonte di tensione può essere semmai la pressione del Vaticano sui teologi, affinché svolgano il ruolo di ripetitori della dottrina ufficiale. Un ruolo che non è congeniale a Verspieren. Non che possa essere considerato uno spericolato teologo d’assalto. Le sue carenze, agli occhi dei fautori vaticani dell’allineamento di tutti gli studiosi cattolici, sono semmai di omissione. Verspieren non si esprime su temi rispetto ai quali non sente la necessità personale di intervenire e per i quali reputa costruttivo, dal punto di vista sociale, l’intervento. Come in tema di aborto, per esempio. Deludendo così quegli ambienti della chiesa che vorrebbero la sua partecipazione a una ripetizione corale del discorso ufficiale.

Il prezzo da pagare per questa navigazione solitaria? Non essere consultato da Roma, non partecipare alle commissioni vaticane. Un prezzo, tutto sommato, che non sembra affliggere Patrick Verspieren.

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Patrick Verspieren, Biologie, médicine et éthique (raccolta di testi del magistero cattolico, con introduzione, notizie introduttive e note), Le Centurion, Paris, 1987; tr.it. Biologia, medicina ed etica, Queriniana, Brescia, 1990.

Patrick Verspieren, «La cura dei malati terminali», introduzione a Sandro Spinsanti (a cura di), La morte. Antropologia, diritto, etica, ed. Paoline, Milano, 1987, pp. 5-17.

Patrick Verspieren, «Étique médicale et soins palliatifs», in C.H. Rapin (a cura di), Fin de vie. Nouvelles perspectives pour les soins palliatifs, Payot, Lausanne, 1989, pp. 274-280.

Patrick VerspierenFace à celui qui meurt. Euthanasie, acharnement therapeutique, accompagnement, Desclée de Brouwer, Paris, T ed. 1991; tr. it. Eutanasia? Dall’accanimento terapeutico all'accompagnamento dei morenti, Ed. Paoline,Cinisello Balsamo, 1985.

Patrick Verspieren et al., Etats Végétatifs Chroniques, Ed. de l’Ecole Nationale de la Santé Publique, Rennes, 1991.

267

Aborto, 22, 29, 44, 55, 63, 67, 84, 85, 86, 90, 93, 117, 133, 181, 182, 188, 207, 213, 217, 230, 251, 252, 266

Accanimento terapeutico, 258, 264

Accompagnamento dei morenti, 262, 264

Aids, 24, 47, 55, 67, 163, 181, 184, 244

Allocazione delle risorse, 30, 49, 50, 104, 116, 123, 124, 184, 221, 229

Ambiente, 133, 138, 167, 210, 216, 217, 229

Animali, 229, 247

Antropocentrismo, 168, 248

Autodeterminazione, 119, 124, 154, 157, 163, 176, 183, 191, 204, 222, 261

Autonomia, 137, 184

Bioetica clinica, 16, 55, 60, 114, 118, 120, 129, 223

Bioetica transculturale, 19, 163, 232, 255

Commissioni nazionali, 36, 97, 121, 162, 265, 266

Comitati di bioetica, 10, 18, 28, 36, 37, 39, 46, 48, 66, 68, 88, 97, 110, 112, 115, 117, 136, 139, 181, 232

Compassione, 116, 119, 191, 206, 232

Comunità, 190, 191, 194

Counseling bioetico, 16, 28, 29, 48, 63, 96, 97, 110, 113, 120, 130, 132, 151, 152, 157, 181, 183, 219, 223

Consenso informato, 46, 95, 136, 156, 162, 165, 242, 127

Coscienza morale, 15, 66, 109, 157, 184, 207, 224, 236, 242, 260

Costi/benefici, 155, 157, 194

Curare/prendersi cura, 50, 58, 193, 221, 232

Cure palliative, 245, 246, 258, 264

Demografia, 19, 22

Deontologia medica, 8, 23, 64, 155, 259, 260, 265

Diagnosi prenatale, 29, 47

Diritti umani, 14, 68, 93, 104, 106, 134, 137, 152, 156, 160, 164, 175, 191, 222, 234, 249

Diritto e bioetica, 82, 135, 156, 167, 175, 229, 242, 260

Ecologia, 42, 214

Embrione, 81, 83, 87, 90, 168, 178, 189,217

Equità, 194

Esercizio professionale della bioetica, 8, 17, 18, 28, 113, 116, 132, 202, 218, 219, 223, 224,

Ethos ippocratico, 103, 105, 144, 155, 170, 205

Etica analitica, 48, 204

Etica applicata, 54, 59, 128, 180, 219, 235

Etica civile, 109

Etica della situazione, 13

Etica medica, 17, 22, 63, 71, 74, 76, 94, 101, 103, 123, 124, 209, 227, 255, 261, 264

Eugenismo, 256, 264

268

Eutanasia, 24, 67, 77, 85, 87, 90, 131, 152, 182, 213, 251, 253, 259, 262, 263

Fecondazione assistita, 213, 265, 266

Femminismo e bioetica, 16, 58, 221, 229, 235

Filosofia della medicina, 88, 123, 173, 179, 197,203

Formazione in bioetica, 24, 33, 53, 54, 68, 98, 109, 128, 175, 199, 225

Genetica, 29, 35, 94, 134, 169, 192, 229, 251, 253, 255, 265

Handicap, 195, 217, 251, 253

Individualismo, 163, 191

Ingegneria genetica, 37, 42, 47, 123

Inizio della vita umana, 25, 29

Insegnamento della bioetica, 38, 77, 119, 223, 236

Interdisciplinarietà, 13, 64, 72, 135, 212, 214, 227, 240

Letteratura e medicina, 53, 55, 56, 76, 77, 78, 104, 105, 131, 169, 230

Libertà, 85, 164, 192, 193, 211

Linee-guida, 47, 49

Malattie terminali, 24, 47

Mass media e bioetica, 9, 10

Medical humanities, 16, 52, 53, 54, 56, 60, 71, 79, 100, 105, 112, 122, 145, 147, 148, 167, 171, 173, 176, 188, 197, 198, 202, 228

Medicina legale, 151, 157

Metodo, 13, 14, 27, 43, 59, 64, 69, 100, 107, 114, 119, 153, 157, 178, 229, 262

Morale religiosa, 8, 14, 17, 21, 23, 26, 45, 46, 53, 65, 83, 108, 118, 182, 224, 262, 263, 266

Neonati malformati, 12, 24, 29, 90, 134, 151, 231, 232, 249, 253

Neonatologia, 65, 137

Paternalismo medico, 14, 22, 136, 205

Persona/personalismo, 13, 22, 38, 81, 89, 106, 118, 183, 189, 232, 246, 250, 262

Pluralismo, 67, 83, 107, 142

Policies, 46, 67, 96

Politiche sanitarie, 81, 84, 90, 116

Privacy, 151, 193

Principi in bioetica, 46, 48, 59, 101, 104, 105, 117, 119, 162, 191, 229, 230

Procreazione assistita, 26, 27, 38, 47, 63, 134, 139, 168, 182, 183, 207, 217, 229, 255

Qualità della vita, 19, 211, 252

Rapporto medico/paziente, 14, 55, 57, 58, 59, 76, 113, 126, 137, 138, 146, 148, 164, 165, 204, 206

Regolazione delle nascite, 12, 22, 45, 63, 93, 127, 182, 217

Responsabilità, 14, 165, 170, 222, 224, 241, 242, 263

Ricerca clinica, 95, 98, 136, 165, 241

Sacralità della vita, 252, 262

Secolarizzazione, 45, 64, 108, 142, 228

Sistemi etici, 8, 70, 215

Sperimentazione animale, 250

Sperimentazione con soggetti umani, 42, 47, 68, 90, 96, 160, 187, 213, 241

Suicidio, 66, 151, 181, 207

Sterilizzazione, 27

Tolleranza, 66, 83, 256

Trapianti di organi, 131, 139, 181

269

Abel Francese, 21-31

Adorno Theodor W., 106

Agazzi Evandro, 91

Alexander Shama, 111

d’Aquino Tommaso, 142, 180

Archimede, 40

Aristotele, 180

Arquiola Elvira, 147

Arrupe Pedro, 24

Asclepio, 115, 172, 175

Auden Wystan H., 56

Bankowski Z., 139

Beauchamp Thomas, 191, 231

Beecher Henry, 160

Bentham Jeremy, 249

Berghmans Ron, 69

Bernard Claude, 238

Bernard Jean, 31-41, 110

Bertolucci Bernardo, 118

Boné Edouard, 24, 30, 183, 184, 185

Bonhoeffer Dietrich, 53, 94

Borja Francesco, 23

Boverman M., 99

Brody Baruch, 16, 91

Brody Howard, 16

Brown J.S., 238

Bunts Frank E., 125

Burns Chester, 53

Caillavet Henri, 259

Callahan Daniel, 42-51, 95, 228

Canguilhem Georges, 171

Capron Alexander, 16

Carrol John, 197

Carson Ronald, 52-61

Champey Y., 69, 166

Changeux Jean Pierre, 36

Chevallier Paul, 34

Chiarelli Brunetto, 218

Childress James, 15, 191, 208, 231

Chirone, 171, 172, 174, 175

Claudel Paul, 32

Cole Thomas, 53

Confucio, 136

Couceiro Vidal Azucena, 110

Crile George W., 125

Curie Marie, 52

Curren Charles, 23, 132

Dario Rubén, 172

Dausset Jean, 241, 242

De Chardin Teilhard Pierre, 211, 212

Delfosse Maria-Luce, 185

De Los Reyes López Manuel, 110

De Shazo Sidney, 44

De Wachter Maurice, 11, 62-69, 254

Diepgen Paul, 143

Dobzhansky Theodosius, 216

Doi Takeo, 137, 139

Donnelly Strachan, 43

Dumont F., 246

Dunphy Englebert, 116

Dupresne J., 246

Edmark, 111

Edwards, 134

Einstein Albert, 40, 79

Engel Siegfried W., 72, 79

von Engelhardt Dietrich, 70-79

270

Engelhardt Hugo Tristam, 80-91, 200, 203, 208, 209

Falise, 24

Fletcher John, 67, 92-99, 203, 223

Fletcher Joseph, 12, 13, 19,94

Flexner Abraham, 172

Foubert P., 99

Franck Isaac, 199

FraserG., 132

Freedman B., 132

Gaare R.D., 166

Gadler E., 218

Galilei Galileo, 76

Gaylin Willard, 44, 101

Gide André, 32

Gilligan Carol, 221, 222, 225, 234

Gillon Raanan, 16

Goethe Johan Wolfang, 175

Gracia Diego, 100-110, 147, 148

Graham Martha, 7

Gustafson James, 60

Hamburger Jean, 258

Hartwell Shattuck, 132

Harvey John C., 24, 30, 207

ten Have Henk, 15

Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 72, 88, 147

Hehir Bryan, 199

Heidegger Martin, 147, 180

Hellegers André, 11, 12, 13, 22, 23, 30, 62, 198, 220, 227

Henkelmann T., 79

Hobbes Thomas, 59

Hoffmaster B., 132

Hudson Jones Anne, 53, 56, 57

Hume David, 204

Imhotep, 52

Ingelfinger Franz, 223

Ippocrate, 52

Jackson J.H., 88

Jacob François, 37, 178

Jaspers Karl, 74

Jefferson Thomas, 92

Jonas Hans, 239

Jonsen Albert, 99, 111-124

Joyce James, 32, 33

Kafka Franz, 55, 76

Kanoti George, 125-132

Kant Immanuel, 176, 180, 204, 232, 247

Kaser R., 79

Kimura Rihito, 133-139

Kierkegaard Søren, 118

Kopelman L., 236

von Krehl Ludwig, 145

Kramer A., 79

Krugman Saul, 161

Kübler-Ross Elisabeth, 258

Kuhn Thomas S., 76

Kuhse Helga, 271, 254, 256

Kurosawa Akira, 136

Ladd John, 256

Ladrière Jean, 178, 180

Laín Entralgo Pedro, 101, 102, 103, 140-149, 171

Lamb M.L., 246

Langan J., 139, 207

Lazzari Giuseppe, 25

Leopold Aldo, 217

Léry Nicole, 150-158

Levine Robert J., 159-166

Lewin Kurt, 100

Lewis Thomas, 238

Lietman P.S., 166

Lipsett Mortimer, 96

Lonergan Bernard, 244, 245, 246

Lower William L., 135

da Loyola Ignazio, 142

Macklin Ruth, 16

Mainetti José Alberto, 167-176

Mainetti José Maria, 171, 174, 175

Malherbe Jean-François, 177-185

Mann Thomas, 33, 76, 78

Martin Y., 246

Marx Karl, 147, 247

May William, 199

Me Cormick Richard, 16, 23, 199

Mead Margaret, 211, 218

271

Menendez Pidal Ramón, 101

Mieth D., 237

Milgram Stanley, 186, 187, 195

Mill John Stuart., 204

Mitterand François, 37, 265

Monnier Adrienne, 32

Monod Jacques, 37

Montiel Luis, 147

More Ellen, 57

Morrein Haavi, 16

Mosé, 148

Moskop J.C., 236

MoulinM., 185

Murray Thomas H., 186-196

Nejelski P., 166

Newton Isaac, 76

Nietzche Friedrich Wilhelm, 53, 180

Nizetic B.Z., 79

O’Connell Lawrence, 15

Okamura, 138

Old K.W., 246

Oringer Nelson, 146

Orlowski J.P., 132

Ortega y Gasset José, 143, 145, 146

Osler William, 122, 123

Ovidio, 168

Paolo VI, 11, 127, 226

Paracelso, 34

Pascal Blaise, 121

Pasteur Louis, 52

Pauli H.G., 79

Peadabody Francis, 58

Pearson L.R., 225

Pellegrino Edmund, 89, 90, 91, 139, 197-207

Percival Thomas, 206

Phillips John, 134

Pholand V., 79

Pigmalione, 167, 168, 169

Pindaro, 115

Pio XII, 262, 263

Platone, 40, 147

Polleggini O., 256

Popper Karl, 178

van Potter Rensselaer, 208-218, 227

Preston, R.A., 218

Prometeo, 172

Purtilo Ruth, 16, 219-225

Quist N„ 99

Ramon y Cajal Santiago, 101

Ramsey Paul, 13, 14, 19, 22, 23, 26, 113

Rapin C.H., 266

Reich Warren, 13, 91, 166, 226-237, 256

Ricoeur Paul, 171

Rodin Auguste, 177

Romains Jules, 169

Röngten Wilhelm Conrad, 52

Rousseau George, 56, 61, 210

Roy David, 65, 178, 238-246

Ruffié Jacques, 32

Russo M. 256

Saunders Cecily, 258

Salt Henry, 247

Sartre Jean Paul, 53

Scheler Max, 145

Schields Clyde, 111

Schipperges Heinrich, 71, 171

Scribner Belding, 111

Scribonio Largo, 206

Sechi Juan Carlos, 171

Seidler Eduard, 16, 71

Self J. Donald, 61

Selzer Richard, 55

Siebeck Richard, 145

Siegler Mark, 15, 119, 120, 124

Singer Peter, 247-256

Skinner B.F., 239

von Slyke Donald, 238

Snow Charles P., 142, 202

Spinsanti Sandro, 237, 266

Sporken Paul, 14, 15, 19

Steigleder K., 237

Stuyt, 24

Sudhoff Karl, 144

Svensson P.G., 79

Swanson Cari, 212

Thomasma David, 16, 203, 207

272

Tolstoj Lev Nikolavic, 105

Toulmin Stephen, 121, 124

Unamuno Miguel de, 142

Valéry Paul, 32

Vanderpool Harold, 53

Veatch Robert, 15, 139, 199, 203, 207, 230

Vedrinne Jacques, 158

Vesalio Andrea, 52

Vespieren Patrick, 257-266

Viafora Corrado, 110, 185, 246

Vinicky Janice, 132

Walpole Horace, 178

Walters Leroy, 199

Weizsäcker Viktor von, 73, 74, 145, 146

Wertz D., 99

White M., 99

Wildes Kevin W., 30, 91

Winkler Mary, 53,

Winslade William J., 53, 61, 119, 124

Wittgenstein Ludwig, 253

Wynne B.E., 246

Zubiri Xavier, 101, 102, 145, 146

[quarta di copertina]

La bioetica

Negli ultimi decenni del XX secolo è andata prendendo corpo la preoccupazione di trovare nuove regole morali, socialmente condivise, per guidare i nostri comportamenti nei confronti della vita. I progressi e la tecnicizzazione della medicina, le scoperte della genetica, l’uso degli esseri umani e di organismi animali nella ricerca, l’impatto del nostro stile di vita sugli equilibri ecologici e sul futuro stesso della vita sul nostro pianeta: altrettanti capitoli della presa di coscienza più generale di una nuova responsabilità, che sta crescendo parallelamente all’acquisizione di nuovi poteri sulla vita. A questo movimento di idee si fa generalmente riferimento con il neologismo bioetica.

Il volume di Sandro Spinsanti si distingue tra la pubblicistica dedicata alla bioetica. Non affronta la disciplina in modo sistematico, né mediante una esposizione ordinata di aree tematiche. Per introdurre alla bioetica sceglie la via biografica, tracciando il ritratto di 25 studiosi che hanno svolto il ruolo di veri e propri pionieri della bioetica. Ricostruisce così, attraverso il filtro dei percorsi intellettuali e umani di ciascuno, il periodo appassionante degli inizi, quando la disciplina era ancora progetto, nutrito da un fluido movimento di idee. Ne risulta un quadro ampio nel disegno, preciso nell’informazione e vivace nell’esposizione. Una bioetica non per specialisti o iniziati, ma per ogni persona che voglia essere informata per partecipare responsabilmente alle scelte sulla vita che riguardano individui e società.

Sandro Spinsanti ha insegnato Etica medica presso l’università Cattolica del S. Cuore e Bioetica nella facoltà di Medicina dell’università di Firenze.

Ha diretto il Centro internazionale di studi sulla famiglia (Milano) e il Dipartimento di scienze umane dell’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina (Roma).

È coordinatore della ricerca presso l’ospedale Fatebenefratelli, Roma.

É membro del Comitato nazionale per la valutazione tecnico-scientifica e umana dei servizi e degli interventi sanitari.

Tra le sue opere più recenti, Bioetica e antropologia medica, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1991;Bioetica in sanità, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.

Ha fondato e dirige la rivista di medical humanities L’Arco di Giano.

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