Guarire tutto l’uomo

Sandro Spinsanti

GUARIRE TUTTO L'UOMO

La medicina antropologica di Viktor von Weizsäcker

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988

pp. 157

INDICE

pg

5       Prefazione  -  IL CONTRIBUTO DI VON WEIZSÄCKER - A UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA MEDICINA - di Luis A. Chiozza (Buenos Aires)

13     Introduzione  -  UN PENSATORE AL DI FUORI DELLE MODE

21     I. LA PERSONALITÀ E L’OPERA DI VIKTOR VON WEIZSÄCKER

21        1. La formazione

24        2. La carriera accademica

30        3. L’apertura alla psicoanalisi

37        4. La produzione scientifica

45       II. IL PROGETTO DI UNA PATOLOGIA PSICOFISICA

45        1. Il superamento della medicina anatomo-fisiologica

48        2. Körpergeschehen und Neurose: le vicende

50        3. Körpergeschehen und Neurose: l’analisi del «caso A»

― Valore tipologico del «caso A»

― Ipotesi di lavoro

― La dinamica della nevrosi

― La quadratura del circolo nevrotico

61        4. Gli sviluppi speculativi

65        5. Il rapporto soma-psiche

69        6. Oltre la svolta copernicana della psicoanalisi

77       III. LA TEORIA DEL «GESTALTKREIS»

77        1. Una teoria dei processi biologici

82        2. Gli sviluppi della teoria

87        3. Principi metodologici di una scienza del vivente

91        4. Analisi del «Gestaltkreis»

A. L’unità della percezione e del movimento

B. Il «Gestaltkreis»

100      Epilogo  -  LA «MEDICINA ANTROPOLOGICA»: CONSEGUENZE ETICHE

100       1. Programma: «umanizzare la medicina

105       2. Il recupero del soggetto

112       3. Un’etica della responsabilità in medicina

  Appendice

119     TESTI ANTOLOGICI

119     I. Il rapporto tra Vicktor von Weizsäcker e Sigmund Freud

119        1. Lettera di S. Freud a V. von Weizsäcker

121        2. L’incontro personale con Freud

124        3. Nota: La religiosità di Viktor von Weizsäcker

127     II.  «L’INTENTO PRINCIPALE NELLA MIA VITA

151     Bibliografia

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PREFAZIONE

Il contributo di von Weizsäcker a una nuova concezione della medicina

Tra il 1946 e il 1950 la casa editrice Pubul di Barcellona pubblicò due libri di Viktor von Weizsäcker, col titolo rispettivamente di Problemas clínicos e di Casos y problemas. Ciò mi permise di entrare in contatto con le sue idee proprio all’inizio della mia formazione medica, quando ero ancora allievo della Facoltà di Medicina. L’influenza esercitata dal suo pensiero, tanto sul mio lavoro presso i pazienti quanto sullo sviluppo del mio modo di intendere la medicina, è stata, fin da quel tempo, costante e durevole. I suoi libri, che rileggo periodicamente già da trent’anni, mi hanno sempre commosso e a ogni lettura mi arricchiscono di qualche nuova luce che era passata inosservata alla lettura precedente.

L’opera di Viktor von Weizsäcker ci impone il compito di ridisegnare, su basi epistemiologiche diverse da quelle attuali, la medicina nel suo complesso, ossia il contatto vivo del medico con la realtà umana del malato.

Attualmente nessuno ignora che la fisica come scienza sia stata obbligata a includere il «soggetto» osservatore nel campo dello studio delle esperienze «oggettive»; nei campi più svariati dello scibile umano assistiamo a un totale rinnovamento dei fondamenti, che sfuma i confini tra le varie discipline. In queste circostanze, le idee di Weizsäcker possono trovare più facilmente la loro ubicazione e le loro relazioni

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nell’edificio della cultura. Inoltre, se si considera l’epoca in cui Weizsäcker portò a termine il suo lavoro, non si può non restare sorpresi dall’apertura della sua mente, dalla sicura intuizione che lo portò a prevedere cambiamenti che, ancor oggi, sono agli inizi, e dalla eccezionale capacità di sopportare la tortura della solitudine che ha comportato l’inevitabile incomprensione del suo ambiente culturale.

Volendo definire, anche se in forma imparziale e imprecisa, in cosa consiste il contributo di Weizsäcker, siamo obbligati a rivisitare l’ambiente culturale nel quale affondava le sue radici. Si tratta dello stesso contesto dal quale emersero due pensatori molto diversi da Weizsäcker, e molto diversi tra loro, le cui opere, tuttavia, hanno molto in comune: Sigmund Freud e Georg Groddeck.

Non posso dedicarmi in questa sede al compito di descrivere diffusamente quell’ambiente che fiorì in Germania, raggiungendo ai suoi tempi i vertici del pensiero occidentale. Ci basti dire allora che troviamo nella gigantesca figura di Goethe la nota privilegiata di quella cultura, nota che ci trasmette, sia razionalmente, sia intuitivamente, in maniera «distica», l’essenza di un modo nuovo di pensare. Proprio per questo motivo Freud, il creatore della psicanalisi, disse che la lettura, ancor giovane, di un saggio di Goethe sulla natura, decise la sua vocazione di medico.

Tanto Weizsäcker quanto Groddeck compresero che la malattia del corpo poteva essere studiata come un aspetto dell’esercizio simbolico. Ambedue capirono che l’importanza del compito che si presentava loro era superiore alle loro forze. Tanto l’uno come l’altro ricorsero a Freud, cercando di lenire il loro senso di solitudine di fronte alla difficoltà dell’impresa. Freud, anche se impegnato in un’altra lotta titanica, mise a loro disposizione la sua simpatia e il suo interesse; diede loro ripetutamente il suo appoggio per la prosecuzione del lavoro, ma rifiutò di essere loro compagno di strada. Forse non si azzardava ad aggiungere un altro motivo di resistenza a quelli che già suscitava la psicanalisi.

Sia Groddeck che Weizsäcker, attraversando i confini di

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una nuova scienza che comportava problemi di nuovo tipo, si dimostrarono esplicitamente restii a tracciare un vero sistema. Si suol dire, a proposito di Groddeck, che non formulò una teoria. Forse è più giusto sostenere che la sua teoria si sviluppa così lontana dai parametri normali di una «formazione di sistemi» da non sembrare una teoria. Il caso di Weizsäcker, come già suggerisco in un’altra sede (Psicoanálisis, presente y futuro, Cimp., Buenos Aires 1984), è diverso. La sua formazione multidisciplinare era così profonda ed estesa che, oltre al significato e valore incontestabile della sua opera, il suo sforzo per tracciare un ponte tra pensiero normale e pensiero apparentemente «impensabile» lascia una sensazione di insuccesso che è, allo stesso tempo, un successo. L’impressione di insuccesso deriva dal fatto che la sua lettura è difficile, nella misura in cui è difficile scoprire, nella sua intelligenza, un sistema. L’impressione che si tratti di «un quasi successo» proviene, credo, dal fatto che il suo pensiero è meno «mistico» di quello di Groddeck, perché offre basi filosofiche e scientifiche più evidenti.

Non è questo il momento più opportuno per cercare di fare un riassunto essenziale dei concetti più importanti che costituiscono l’eredità di Weizsäcker. Il libro di Spinsanti, che ho l’onore di presentare, affronta decisamente questo compito e lo fa in modo pienamente soddisfacente. Tuttavia dirò alcune parole sul significato che ha per la medicina un aspetto fondamentale della sua opera. È l’aspetto che ha avuto più influenza sulla mia formazione intellettuale sia come medico, sia come psicoterapeuta: è anche, perciò, l’aspetto che meglio conosco.

Sono numerosi i concetti di Weizsäcker che ci portano a una visione ampliata della medicina, anche se è necessaria una considerazione più attenta per cogliere i nuovi orizzonti. Io mi limiterò a sottolinearne alcuni. Partendo dalle sue esperienze in neurofisiologia, formula la sua tesi sullo «scambio funzionale» (la funzione è funzione della funzione) e sostiene che l’interrelazione reciproca tra percezione e movimento forma, all’interno dell’atto biologico, un’unità indissolubile.

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Queste convinzioni lo portano ad affermare che gli ammalati sono «oggetti che contengono un soggetto» e a insistere, più tardi, sul fatto che l’atto medico deve essere inteso come un «rapporto reciproco», come un’«amicizia itinerante» con il paziente.

Come ho già detto, non solo la fisica, ma anche la psicologia, dovrebbero riconoscere sempre più l’importanza di includere l’osservatore nell’ambito di ciò che deve essere studiato; e ciò fino al punto in cui, prima l’interrelazione e poi la rete interpersonale ed «ecosistemica», giungono ad essere la meta privilegiata della ricerca psicologica. Nella concezione classica della medicina la realtà del malato è una realtà fondamentalmente fisica. Una realtà che ammette domande circa i meccanismi che costituiscono i rapporti causa-effetto. Una realtà che ci permette di interrogarci sulla sua natura, il suo peculiare modo di essere; in altre parole, una realtà ontologica. Weizsäcker concepisce la realtà del malato in quanto, oltre a ciò, realtà psichica, tanto primaria quanto la realtà fisica. Una realtà che ammette domande circa i significati della relazione simbolo-referente. Una realtà che ci permette di interrogarci circa il suo significato, il suo particolare modo di manifestarsi come pathos. Per questo motivo Weizsäcker potrà parlare di una realtà «patica» e di un pentagramma patico, formato dalle categorie «volere», «potere», «dovere», «essere obbligato», «essere lecito».

Si può dire, metaforicamente, che il pensiero causale spinge il malato «da dietro», dagli antecedenti fino al presente, mentre le categorie patiche di Weizsäcker, agendo come un significato della vita, la trascinano «avanti», dal presente verso la meta. Weizsäcker inserisce qui ciò che egli chiama «la piccola filosofia della storia»: impossibile è ciò che è stato realizzato, possibile, invece, è ciò che non è stato realizzato. Afferma anche che, sul terreno della vita, esiste un «al di là» che contraddice la logica, nel senso che parte di ciò che accade non può essere rappresentato in modo logico.

In altre parole: la vita si esprime sia logicamente, sia antillogicamente.

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Dobbiamo infine ricordare, tra i concetti che compongono la sua antropologia medica, quello che Weizsäcker considerava il suo per eccellenza. Si tratta di ciò che egli chiama la «formazione dell’Es». Con questa formula si riferisce a un fatto che è mediatore allo stesso tempo di una realtà oggettiva e di un’idea. Fuggiremo qui alla tentazione di tracciare le differenze tra questo «Es» di Weizsäcker e quello di Groddeck o di Freud. Probabilmente risulterebbe che tali differenze hanno origine in una realtà di base che è comune a tutt’e tre. Ricorderemo invece l’importante conclusione alla quale arriva Weizsäcker, partendo dal concetto della formazione dell’Es. Un’idea per essere veramente nuova, afferma, deve dare origine ad un fatto veramente nuovo, poiché le due cose coincidono. Si ritorna così, dopo un lungo periplo, e per mezzo di una formulazione che si riferisce a una realtà che trascende i limiti dell’individuo, alla tesi dell’unità psicofisica indissolubile di tutti i fatti biologici.

L’influenza di Weizsäcker e della sua opera sulla medicina abitualmente praticata è stata sicuramente scarsa. In un’epoca come la nostra, in cui i successi della tecnica ci colpiscono quotidianamente con i loro contributi stupefacenti, non vi è spazio né intima disposizione per riflessioni così profonde e apparentemente così lontane dal semplice mondo dei «fatti oggettivi». Ciononostante la crisi ci circonda da ogni parte. Non solo nell’ambito della medicina in quanto processo concreto, tanto diagnostico che terapeutico, ma anche genericamente sul terreno dell’etica, della convivenza umana, della solidarietà e della responsabilità. In altre parole, sul terreno di tutto quanto si riferisce alla costruzione di valori e di convinzioni. Ciò è vero, nonostante l’importanza e l’urgenza con cui si presentano i problemi politici, economici, sociali, alimentari o epidemiologici. Nonostante anche il fatto che i problemi suscitati dalla violenza e dall’aggressione, dal disordine ecologico, dall’incomunicabilità o dalla sovrappopolazione, sembrino erigersi come i punti focali della nostra attenzione immediata. Dobbiamo invece avere la precisa consapevolezza del fatto che il nostro mondo contemporaneo è

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carente di valori e di convinzioni universalmente accettate, che siano all’altezza delle nostre attuali necessità. È per questo che, sottraendoci all’equivoca tentazione a cui ci conduce il senso comune che ora non risponde alle necessità del nostro tempo, dobbiamo ritornare alla filosofia, finora sottovalutata, a meno che non sia metodologia della scienza al servizio della tecnica. Dobbiamo tornare alla filosofia, alla ricerca di conquiste mediate, ma solide; alla ricerca di una sapienza che sia qualcosa di più dell’erudizione, qualcosa di più del «saper come» produrre. Dobbiamo cercare una conoscenza che sia significato, e non mera informazione senza un ordine interno; e ciò al fine di mettere ordine nel nostro caos partendo da metamodelli di pensiero generalmente accettati, da principi che, quando giungano ad essere consenso, possano funzionare da struttura portante in un ambiente di pace e di libertà.

Nel campo della medicina, che è quello che conosco, l’opera di Weizsäcker appare durevole e, anzi, si fa strada dalle fonti sotterranee della nostra cultura contemporanea, confluendo con altre culture, allo stesso modo dei fiumi, che vengono da lontano per arrivare al mare. Da quando iniziai ad approfondire i suoi scritti, ho incontrato, nei modi più insperati, altri spiriti affini, sparsi nel mondo, che lavoravano nella stessa direzione. Non è questa la sede né l’occasione più adatta per tentare un inventario di questo gigantesco lavoro. Mi limiterò a dire che ci troviamo già molto vicino alla confluenza di queste correnti culturali e alla loro accettazione nel mondo intellettuale.

Aggiungerò alcune riflessioni sugli sviluppi che l’opera di Weizsäcker ha suscitato nell’ambito della medicina psicosomatica, che io rappresento. La sua influenza cominciò col rafforzare la nostra convinzione che le malattie che si manifestano come disturbi della struttura o del funzionamento del corpo non rivelano solo un’alterazione dell’uomo intero, compreso anima e spirito, ma che ognuna di esse corrisponde a una particolare e specifica perturbazione dell'anima, distinta da ogni altra. Partendo da questo assunto, e oberati dal

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senso di impotenza di chi comincia a capire senza poter attuare, abbiamo sentito la profonda necessità di trovare un linguaggio capace di produrre un cambiamento nella malattia del corpo.

Nella fase successiva siamo arrivati a capire che, quando interpretiamo una malattia somatica il cui trattamento è difficile, sia perché la sua evoluzione è torpida e cronica, sia perché la sua evoluzione va verso la morte, e scopriamo il suo significato di crisi e punto di rottura nella traiettoria vitale di un essere umano, ci troviamo di fronte a una «malattia psicologica» altrettanto grave, che comporta un’impresa psicoterapeutica di analoga difficoltà. Così ci siamo sentiti per molto tempo disarmati e impotenti di fronte a malattie come il cancro, il diabete o la sclerosi a placche, perseguitati dall’impossibilità di migliorare i dati statistici circa l’evoluzione di queste malattie. Ci sentivamo, allo stesso tempo, obbligati a rifugiarci nella convinzione che la nostra interpretazione doveva portare a qualche tipo di efficacia, o, per lo meno, tradursi in un’adeguata profilassi.

Gli ultimi progressi raggiunti nella comprensione del significato inconscio delle cardiopatie ischemiche ci hanno portato verso nuove esigenze per quanto riguarda il contenuto di esperienza vissuta, la formulazione verbale e l’autenticità controtransferale durante la comunicazione della nostra analisi al malato somatico. In altre parole, abbiamo imparato a distinguere tra un primo approccio, intellettuale, dei significati inconsci di ogni malattia somatica, e una seconda istanza, meglio elaborata nel linguaggio quotidiano della vita, che discende dalla capacità del terapeuta di mantenere aperta una strada attraverso la quale, dal suo inconscio, nasce un’interpretazione piena di autentico affetto e convinzione.

Si arriva così, quasi inaspettatamente, alla stimolante situazione di chi sta esplorando con impegno una macchina mal conosciuta e complessa, che improvvisamente comincia a funzionare. Ci si trova di fronte alla sensazione nuova che deriva dal rendersi conto che, tra le leve che abbiamo spostato, si trova quella che esercita una funzione efficace. Alcuni

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dei nostri pazienti gravi «rispondono» al nostro trattamento. I loro miglioramenti somatici acquistano l’apparenza della prosecuzione di un dialogo simbolico inconscio simile, pur nella diversità, a quello che è solita presentarci la psicoterapia dei conflitti nevrotici. Ciò ci permette di intravvedere il giorno in cui risultati come questi potranno tradursi in una variazione dei dati statistici. Potremo così anche onorare la memoria di Weizsäcker mediante la concretizzazione del suo sogno e dell’eredità che ha lasciato nelle nostre mani.

Infine voglio fare un breve riferimento alla dimensione spirituale dell’opera di Weizsäcker, dimensione che informa tutte le sue idee, e che si estrinseca chiaramente nei suoi concetti di «reciprocità della vita» e di «solidarietà nella morte». È questa la dimensione alla quale Spinsanti dedica la maggior parte della sua attenzione. Oltre all’interesse che suscita la lettura di questo libro, sono sicuro che il lettore sentirà emergere l’invito a un cambiamento che gli apra le porte della trascendenza.

Buenos Aires

Luis A. Chiozza

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INTRODUZIONE

Un pensatore al di fuori delle mode

All’opera di Viktor von Weizsäcker non ha sorriso la fortuna nel corso della sua vita (1886-1957). Si è sentito un outsider, e come tale è stato considerato nell’ambiente accademico tedesco. Non per disprezzo; pur senza mancare di considerazione per la sua opera, molti non riuscivano a trovargli una collocazione nel pantheon delle discipline universitarie. Non essendo pienamente riconducibile né alle scienze della natura, né alle scienze dello spirito, era esposto a rimanere unoutsider presso entrambe. In questi termini il destino di von Weizsäcker è stato interpretato da M. von Rad, introducendo un seminario interdisciplinare tenuto nell’anno accademico 1972-73 all’università di Heidelberg sull’«Antropologia come tema della medicina psicosomatica e della teologia», sulla base appunto del pensiero di von Weizsäcker. È tutta la struttura della scienza e i suoi presupposti metodologici che crollano, quando ci si interroga sul perché essa abbia «mancato l’umano». Von Weizsäcker ha condotto questo tentativo di reinterrogazione fino alle ultime conseguenze, almeno per la medicina. «Il rifiuto che ha incontrato ― nei circoli medici fu considerato volentieri, ma perfidamente, come importante filosofo, da teologi e filosofi invece come grande medico ―, questo rifiuto riflette con precisione il problema: determinate scienze permettono solo determinate

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domande selezionate; qualora non possano rispondere con le proprie premesse, rimandano, nei casi migliori, a una disciplina limitrofa, quando non sopprimono del tutto la domanda» 1.

Von Weizsäcker non è stato profeta nella sua patria; neppure nel resto del mondo ha avuto un riconoscimento travolgente. L’incomprensione tuttavia non va esagerata fino al punto da presentarlo come una voce che grida nel deserto. Von Weizsäcker ha avuto qualche lettore, malgrado l’obiettiva complessità del suo pensiero. Non in Italia, dove nessuna delle sue opere principali è stata tradotta 2. Nessuna traduzione e nessuno studio neppure in inglese. In Francia, invece, è stato tradotto fin dal 1958 il suo libro più teorico, Der Gestaltkreis 3. Henri Ey, il noto psichiatra francese vicino alla filosofia esistenziale, gli dedica pagine lucide e calorose nella prefazione. Presenta l’opera come una specie di nuova logica dell’organismo umano, destinata a farci superare le antinomie strutturali del pensiero dell’uomo che riflette su se stesso.

Per giustificare la traduzione, afferma: «Si tratta di un’opera troppo densa di senso per non essere pubblicata nella nostra lingua, e troppo “opaca”, cioè nella prospettiva stessa dell’autore troppo “viva”, per non correre il rischio di controsensi». Lo stesso Ey rileva la marginalità di von Weizsäcker nell’area culturale francese: il solo autore ― insieme a Bergson ― che citi von Weizsäcker è J.P. Sartre. La sua influenza si estende, però, oltre i debiti esplicitamente riconosciuti.

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Sarebbe interessante, per esempio, verificare la presenza del pensiero di von Weizsäcker nella concezione epistemologica di M. Foucault 4.

Sempre in ambito francofono, l’autorevole «Encyclopaedia Universalis» ha riservato uno spazio significativo a von Weizsäcker. Nel «Thesaurus» gli dedica una voce, dando rilievo al suo apporto alla elaborazione di una filosofia dell’essere vivente (soprattutto con la teoria delGestaltkreis) e riconoscendolo come uno dei fondatori della psicologia fenomenologica 5.

Von Weizsäcker è stato più notato nell’area linguistica spagnola. È stato tradotto più che in altre lingue straniere; successivamente: Problemas clínicos de Medicina Psicosomática (Barcelona 1946), Casos y problemas clínicos (Barcelona 1950), El hombre infermo (Barcelona 1956), El círculo de la forma (Madrid 1962). Numerose volte von Weizsäcker è citato in opere considerevoli della medicina spagnola contemporanee. Basti ricordare La Historia Clínica di P. Laín-Entralgo, La angustia vital di Lopez Ibor, La patología Psicosomática di Juan Rolf. In particolare lo storico della medicina Laín-Entralgo, docente all’università di Madrid, cita di preferenza von Weizsäcker per illustrare la sua concezione personalistica del rapporto terapeutico 6.

La risonanza del pensiero di von Weizsäcker in Spagna è stata favorita anche dalla sua stessa presenza nella facoltà di medicina di Madrid nel 1950, dove ha tenuto alcune lezioni. R. Sarró, che ha introdotto con un saggio su «Weizsäcker en España» la traduzione di Der kranke Mensch, considera quella visita come un seme di riforma della medicina nel cuore dell’università spagnola. Nel suo saggio egli mette

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in risalto la consonanza dell’antropologia medica di von Weizsäcker con il pensiero antropologico di M. de Unamuno e di J. Ortega y Gasset. A suo avviso, la psicoterapia spagnola si è costituita grazie alla convergenza di due correnti di pensiero: quella psicoanalitica freudiana (considerata vera, ma insufficiente), e quella antropologica ispano-tedesca, ispirata a von Weizsäcker 7.

A documentazione della diffusione del pensiero di von Weizsäcker, va citata l’esistenza di un «Centro de Consulta Médica Weizsäcker» a Buenos Aires. Lo dirige lo psicoanalista L. Chiozza, che è stato invitato anche in Italia a tenere un seminario per medici e psicoanalisti su «L’interpretazione psicoanalitica della malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica», introducendo quindi, per via indiretta, i fermenti del pensiero di von Weizsäcker anche nel nostro Paese 8.

Un discorso particolare va fatto per l’area marxista. Nella Repubblica Democratica Tedesca la difficoltà di accesso a von Weizsäcker non è costituita dalla lingua, ma dal suo orizzonte ideologico. Un saggio attento gli è stato dedicato da E. Luther, dell’università di Halle 9. Egli riconosce che i lavori di von Weizsäcker toccano problemi medici, sociali e filosofici autentici, la cui soluzione è di estrema importanza; ma, a suo avviso, la medicina antropologica di von Weizsäcker non può risolvere quei problemi, in quanto parte da posizioni filosofiche false. Il saggio si risolve in un confronto meticoloso tra il punto di vista borghese-idealista, attribuito

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a von Weizsäcker, e quello dell’ortodossia marxista, per dimostrare la loro incompatibilità: «Non è possibile alcun progresso in medicina se non si studia l’uomo come essere sociale, concreto-storico, con presupposti scientifici nella teoria e nel metodo. L’antropologia filosofica non offre affatto tali presupposti. La sola dottrina scientifica delle leggi generali della vita sociale, che può dare una concezione esatta del posto dell’uomo nella natura e nel contesto storico, è il materialismo dialettico e storico» 10.

Ignorato per lo più, sottoposto a critica ideologica all’Est, von Weizsäcker ha avuto tuttavia una piccola schiera di ammiratori. Di discepoli, in senso stretto, non si può parlare. Egli non ha inteso creare una scuola; si è anche sottratto a quei legami personali di natura carismatica che di una scuola costituiscono il fondamento 11. Coloro che hanno conosciuto e apprezzato la sua opera ne spiegano il relativo insuccesso con l’immaturità dei tempi, non ancora aperti alle problematiche epistemologiche di fondo sollevate dallo studioso. Nel discorso commemorativo per la morte di von Weizsäcker, W. Kütemeyer ha affermato che l’importanza del suo pensiero si evidenzia solo oggi, in quanto ci troviamo all’inizio di una nuova epoca di sapere scientifico e di agire scientifico: «Von Weizsäcker ci appare non una grandezza da consegnare al passato, bensì una potenza del futuro. Una forza che libererà la sua piena potenzialità solo nell’avvenire» 12. «Bisognerà aspettare ― secondo A. Auersperg ― che si rimetta

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in discussione quel modo di ricercare e di pensare fatto proprio dalle scienze naturali allorché, dopo la famosa disputa tra Goethe e Newton, è stata data la preferenza al secondo, adottando per la conoscenza della natura il modello fisico-matematico». Auersperg ha dedicato un saggio all’opera di von Weizsäcker, paragonandola con quella di Teilhard de Chardin, come esemplificazioni della ricerca e della filosofia della natura propria di Goethe 13.

Di recente nel mondo accademico di lingua tedesca si registra l’inizio di un interesse molto qualificato per il pensiero di von Weizsäcker. Sono da segnalare alcune dissertazioni: quella di H.D. Reiner sul problema del rapporto corpo-psiche 14; il lavoro di U. Zonn dedicato all’antropologia di von Weizsäcker, in quanto presupposto teorico dell’umanizzazione programmatica della medicina proposta nella «Anthropologische Medizin» 15; il tentativo di W. Dreher di applicare il pensiero di von Weizsäcker a problemi pedagogici 16.

Ci è sembrato che fosse giunto il momento di fare un bilancio della sua opera, a beneficio soprattutto di un pubblico italiano che non abbia possibilità di accesso diretto alle opere di von Weizsäcker (per questo motivo le citazioni sono state tradotte in italiano, salvo inevitabili richiami a termini-chiave o con semantica peculiare). La prospettiva è quella storica. Cercheremo di ricostruire il background dello studioso, l’apporto delle diverse correnti di pensiero ― privilegiando l’incontro con Freud e la psicoanalisi ―, gli sviluppi sistematici del pensiero di von Weizsäcker. È un capitolo di storia che interessa più di una disciplina: la patologia medica, la psicologia, la psicosomatica, l’antropologia filosofica,

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le conseguenze etiche. È soprattutto un momento del viaggio avventuroso dello spirito umano verso la comprensione dell’essere vivente nella sua complessità.

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I

LA PERSONALITÀ E L’OPERA DI VIKTOR VON WEIZSÄCKER

1. La formazione

Il compito di tracciare un quadro biografico di Viktor von Weizsäcker è facilitato dagli scritti autobiografici che egli stesso ci ha lasciato. Due volumi, scritti verso la fine della sua vita, ripercorrono le tappe più significative della sua carriera accademica e degli sviluppi del suo pensiero: Begegnungen und Entscheidungen (1949) e Natur und Geist (1954). Ambedue hanno un carattere strettamente intellettuale: sono un’autobiografia di idee, più che di fatti. Da un capo all’altro di questi scritti autobiografici emerge quell’austera concentrazione sull’essenziale che sembra la tipica «forma mentis» dell’accademico tedesco. Un terzo scritto autobiografico è un breve saggio apparso nel 1955 in un’opera collettiva, a cura di H. Kern, dedicata alle figure che hanno svolto una funzione pilota nell’epoca di trapasso che ha portato a una rifondazione delle discipline tanto della natura che dello spirito: Weigweiser in der Zeitwende. Von Weizsäcker vi ha contribuito presentando il proprio apporto a una medicina dell’uomo: Meines Lebens hauptsächliches Bemühen 17.

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La sua vita è racchiusa tra il 1886 e il 1957. Nacque in una famiglia che ha svolto un ruolo di notevole rilievo nella vita politico-culturale tedesca. Dal punto di vista sociale, apparteneva ― come egli stesso annota con precisione 18― alla «buona borghesia»: non alla «grossa borghesia», perché la sua famiglia non è mai stata ricca; e neppure alla borghesia tout court, perché la madre era di origine nobile e il padre, che era stato presidente del consiglio dei ministri del Wüttenberg, era stato elevato nel 1917 alla posizione di «Freiherr» (barone). Il fratello di Viktor, Ernst, ha seguito la carriera diplomatica; è stato ambasciatore presso il Vaticano nel 1943-45. Più noto in campo scientifico è il nipote Carl Friederich, fisico e filosofo 19.

Orientatosi verso gli studi di medicina, Viktor fu profondamente segnato durante il periodo della formazione universitaria da due maestri: il filosofo Johannes von Kries e l’internista Ludolf Krehl, che frequentò rispettivamente a Freiburg e ad Heidelberg. Ad ambedue dedica due acuti capitoli in Natur und Geist. Era attirato da von Kries da una specie di affinità elettiva; eppure non seguì la sua strada: «È stato più lui mio maestro che io suo discepolo. Perché von Kries era un ricercatore e uno scienziato nel senso più puro e più ricco della parola. Io invece dovevo oscillare nella mia vita tra scienza e pratica, come un pendolo» 20.

Lo avvicinava a von Kries soprattutto l’apertura ai problemi filosofici relativi alla filosofia della natura e all’epistemologia; condivideva il suo rifiuto tanto del vitalismo, quanto del materialismo. Mentre però von Kries rimase nell’ambito della teoria della conoscenza kantiana, von Weizsäcker fu attirato dalla filosofia neo-romantica rappresentata da Windelbald. La principale eredità di von Kries, oltre all’insegnamento propriamente fisiologico, fu la convinzione che la filosofia non può costruire il suo sapere indipendentemente dalla

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ricerca sulla natura: c’è un legame con l’esperienza dei sensi e con la prova sperimentale, quasi un «legame morale (sittlich) della filosofia con la scienza della natura» 21.

La preparazione di von Weizsäcker in fisiologia raggiunse un alto livello accademico. Sviluppò con von Kries un metodo per lo studio dei problemi energetici e termici del cuore; lo perfezionò nel laboratorio di fisiologia all’università di Cambridge, con A.V. Hill, contribuendo allo sviluppo della teoria della macchina muscolare. Nel 1917 presentò per la Habilitation (libera docenza) uno scritto sulla energetica dei muscoli, specialmente del muscolo cardiaco; nel 1920 scrisse una monografia di fisiologia patologica sull’origine dell’ipertrofia cardiaca. Con i suoi studi sulla fisiologia dei muscoli e del cuore si era fatto un certo nome fra i fisiologi. Secondo le sue stesse parole, «era diventato un credente fisiologo della macchina muscolare e si era guadagnato con ciò il diritto di cittadinanza nella scuola tedesca di fisiologia» 22. Eppure già da tempo aveva lasciato la fisiologia sperimentale per dedicarsi alla medicina interna. Dalla scuola di von Kries era passato così a quella di Ludolf Krehl. Lo raggiunse nel 1908 ad Heidelberg, nel policlinico universitario che avrebbe svolto un ruolo così importante nella sua futura vita accademica e clinica. In un primo momento non si rese conto che considerare il cuore, un organo così importante, a mo’ di macchina, era in totale contraddizione con la speculazione sulla filosofia della natura che lo aveva portato a superare il meccanicismo. Il difetto era intrinseco alla medicina interna del tempo: «La fisiologia patologica, legata alla clinica come un motore a una barca a vela, non poteva mai veramente fondersi con essa in un’unità» 23.

Nel tracciare il processo di sviluppo di una nuova concezione dell'internistica von Weizsäcker evidenzia il ruolo svolto, dal punto di vista autobiografico, dai dubbi filosofici nei confronti del meccanicismo e del materialismo predominanti nella

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concezione ottocentesca delle scienze. Fin da studente giunse alla convinzione che la vittoria sulla soggezione al meccanicismo non poteva essere ottenuta con una costruzione teoretica di filosofia della natura aggiunta o sovrapposta alla ricerca scientifica: doveva essere cambiata la ricerca stessa. «Le riflessioni filosofiche sulla scienza si rivelarono come un semplice preludio alla questione: che cosa è l’uomo, come incontra l’essere umano l’altro essere umano? Questo spostamento del centro di gravità ha distolto drasticamente la linea della mia vita dalla filosofia propria dell’università. La filosofia tedesca si incamminò dal neo-kantismo, passando per la breve epoca del neo-hegelismo, verso la fenomenologia e poi la filosofia esistenziale. Il mio cammino andò verso la medicina, e in essa verso l’antropologia medica» 24.

Un altro elemento determinante nell’evoluzione di von Weizsäcker fu l’influenza stessa di Krehl. Oltre al capitolo riservatogli in Natur und Geist, bisogna tenere presente il discorso celebrativo tenuto in occasione della sua morte, per valutare quale posto di rilievo von Weizsäcker gli attribuisca nella storia della medicina clinica 25. Krehl va situato in quel movimento che aveva afferrato la medicina all’inizio del XIX secolo e l’aveva portata ad allontanarsi dalla filosofia della natura del Romanticismo per volgersi alla scienza della natura. La medicina e i metodi di ricerca erano cambiati: la ragione invece del presentimento, la misurazione invece della valutazione, la metodica analisi empirica al posto della sintesi aprioristica e arbitraria tra i fenomeni morbosi e le loro cause. La medicina si evolvette seguendo il motto: ricondurre i fenomeni vitali alle leggi della chimica e della fisica. All'interno

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di questo movimento Krehl assunse una posizione peculiare: lo favorì là dove il movimento si tenne entro i limiti positivistici che lo giustificavano; vi si oppose nella misura in cui pretese di trasformarsi in una teoria del vivente puramente fisico-chimica.

Krehl, che aveva assunto la cattedra di clinica medica ad Heidelberg nel 1907, si attenne agli inizi alla supremazia assoluta della scienza esatta, in questo caso della fisiologia patologica. Il sacrario di questa liturgia scientifica era il laboratorio. Capitava allora che la visita al malato non durasse a lungo, mentre il lavoro del chimico in laboratorio poteva prendere molte ore del giorno e della notte. Krehl avvertì fortemente i limiti di questo approccio: l’uomo malato è un «tutto» vivente organizzato, e come tale qualcosa di più della somma delle sue funzioni parziali.

La svolta avvenne per Krehl sotto la spinta delle esperienze personali durante la prima guerra mondiale. Quattro anni passati al fronte portarono a un cambiamento nella sua concezione della clinica, di tale portata che egli stesso lo definì una «metanoia», una «conversione» 26. Si rese conto che la medicina accademica si era alienata dal pieno significato che la malattia ha per il malato. Il crescente peso della sofferenza psichica e della malattia sociale non riceveva nessun ausilio dal laboratorio; la patologia non aveva neppure le categorie per esprimerne l’esistenza. Krehl fu agitato da dubbi fecondi sulle modalità della clinica fino ad allora invalse e dedicò l’ultima parte della sua vita alla ricerca di una nuova espressione dell’attività medica. Il lavoro di laboratorio

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non fu abolito, ma la nuova clinica spostò il centro di gravitazione nella corsia. Più precisamente, il pensiero e l’attività del medico cominciarono a ruotare intorno alla persona malata, piuttosto che intorno alla malattia. Krehl ha indubbiamente contribuito in modo decisivo al superamento dello stile clinico tradizionale.

Naturalmente anche nella nuova clinica il fatto organico è l’oggetto immediato, e la visita accurata il presupposto per ogni ulteriore valutazione; tuttavia il clinico non si deve arrestare al reperto organico, bensì ha il compito di inquadrarlo nell’insieme della situazione psichica e sociale della persona. La medicina interna proposta da Krehl si volgeva alla terapia. Non nella forma di un ricorso massiccio alla tecnica, ma piuttosto nella direzione opposta: rivolgendosi all’uomo malato. La svolta è sigillata da von Weizsäcker in una formula pregnante: «Non deve essere la scienza a condurre la clinica, e la clinica il medico; piuttosto il medico deve condurre la clinica e assumere la scienza a servizio di questa» 27.

Un quadro fedele dell’atmosfera che regnava nel policlinico di Heidelberg nel periodo post-bellico sotto la guida di Krehl, del pensiero e del comportamento medico, dei possibili risultati di quella concezione della clinica, si può trovare nel volume di Siebeck, Medizin in Bewegung, che di quel movimento si può considerare l’espressione più compiuta 28. L’opera di Krehl non riscosse l’approvazione unanime. Attorno a lui si creò, a detta di von Weizsäcker, una «leggenda»: fu considerato un pensatore, un mistico, ricercatore della verità, un teologo, un deviante dalla medicina accademica. Nella sua stessa scuola von Weizsäcker individua due ali: una più orientata verso una medicina concepita come scienza della natura, l’altra più aperta agli aspetti psichici e politici della malattia. Egli personalmente si orientò in questo senso; diede anzi un contributo ben più decisivo di quello del suo maestro per un rinnovamento della medicina.

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Krehl è stato quasi l’emblema della fisiologia patologica; il suo volume che porta questo titolo (Pathologische Physiologie) ha raggiunto ben 14 edizioni. Egli aveva tuttavia la convinzione che la sua opera sarebbe morta con lui 29. Con von Weizsäcker si cominciava invece a far valere in medicina, analogamente ad altri sforzi in filosofia, una concezione «antropologica» dell’uomo malato. Cambiava l’atteggiamento di fondo verso la malattia: «La malattia dell’uomo non è, come sembrava, il difetto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che egli stesso; o meglio: la sua possibilità di diventare se stesso» 30.

2. La carriera accademica

Lo sviluppo di ciò che von Weizsäcker ha chiamato «medicina antropologica» va inquadrato in un più vasto contesto culturale caratterizzato da un sovvertimento in tutte le scienze, dalla fisica alla teologia. Ciò che avvenne nelle scienze è solo il riscontro a livello del pensiero di quel capovolgimento di civiltà, che ha portato a due guerre mondiali nel corso di una generazione. Quando nel 1911 von Weizsäcker cominciò la sua carriera medica (aveva terminato lo studio della medicina nel 1910 con l’esame di Stato), l’autocoscienza culturale dell’epoca moderna era ancora intatta, specialmente nei laboratori. La medicina si era sempre più appoggiata sulla scienza esatta della natura, né aveva ancora avvertito lo scossone epistemologico che nella fisica aveva incrinato le certezze positivistiche. La fisiologia patologica era intesa al modo della scienza naturale: essa doveva mostrare la vera realtà che si nascondeva dietro le apparenze della malattia.

Von Weizsäcker ha preso coscienza a poco a poco che il piano originario della medicina scientifica, cioè il trattamento delle malattie interne secondo i principi della fisiologia patologica,

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era inattuabile. Anche se ammette di essere stato fin verso il 1920 un «fisiologo credente», il suo atteggiamento nei confronti della medicina accademica è stato di opposizione, già fin dal tempo in cui era studente: non corrispondevano alle sue aspirazioni né la forma che aveva la chimica come modello della medicina, né le finalità che questa medicina poneva a fondamento dell’attività medica31. Era un’epoca di fermentazione.

L’insoddisfazione nei confronti della clinica tradizionale doveva produrre il passaggio a una medicina che assumeva a suo servizio la tecnica moderna con le sue enormi possibilità. Già l’adozione del punto di vista delle scienze naturali aveva significato per la medicina il distacco da ogni residua problematica filosofica e religiosa; il passo seguente sarebbe stato il superamento anche del terreno positivista, verso l’impiego tecnico della conoscenza (si sarebbe, in altre parole, cessato di domandarsi: che cosa ci sta dietro?, per chiedersi semplicemente: che cosa posso fare con ciò che osservo?).

Von Weizsäcker non seguì la via della tecnicizzazione. Si orientò verso un altro orizzonte problematico: quello del significato psichico della malattia. Il suo intento è stato quello di «superare il meccanicismo e il materialismo in medicina, partendo da spinte filosofiche e religiose». A diverse riprese negli scritti autobiografici, facendo il bilancio della propria opera, constata che il suo tentativo era fallito, o riuscito solo parzialmente. A giustificazione di un giudizio autocritico così severo adduce diverse ragioni. Talvolta accentua l’oggettiva difficoltà dell’impresa. Per il rivoluzionamento di cui la medicina aveva bisogno sarebbe stato necessario un riformatore: un Lutero o un Paracelso. Egli personalmente non era né l’uno né l’altro. Ammetteva la mancanza della genialità necessaria e anche di un temperamento da lottatore: le battaglie che erano seguite alle sue prese di posizione non le aveva mai propriamente volute. Si era ritrovato così nel ruolo dioutsider e vi si era attenuto, non senza una certa malcelata compiacenza.

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Una nota costante di amarezza risuona nei bilanci della sua vita accademica. Di primo acchito a un occhio esterno essa sembra caratterizzata dal successo. Assistente di Krehl, nel 1920 ottenne la cattedra di neurologia e la direzione della Nervenabteilung ad Heidelberg (benché fosse ancora legata alla clinica medica, la neurologia era praticamente indipendente). Nel 1941 diventò ordinario di neurologia e fu chiamato a Breslau, dove rimase fino al 1945. Vi diresse anche l’istituto di ricerche neurologiche. Dal 1946 al 1952 ― anno in cui si ritirò dall’insegnamento ― fu di nuovo ad Heidelberg come ordinario di clinica medica. Per la maggior parte della sua vita accademica fu riconosciuto come neurologo. Il suo contributo alla neurologia come specialità non è trascurabile. Ha individuato e descritto, tra l’altro, la sindrome del «disturbo sistematico del senso spaziale» 32.

Nei confronti della qualifica di neurologo von Weizsäcker aveva una posizione ambivalente. Da una parte considerava l’essere neurologo una specie di fallimento rispetto al proprio livello aspirativo professionale («Volevo diventare internista, e sono diventato solo neurologo») 33; dall’altra, vi trovava una condizione di indipendenza dalla «corporazione» degli internisti. La direzione del reparto neurologico gli offriva i vantaggi di un’integrazione alla vita universitaria, senza per questo legarlo all’idea e alla forma della medicina clinica, che non condivideva.

Un’altra ragione che porta per spiegare la scarsa incisività della sua opera è la dispersione dei suoi interessi. Sembra di poter leggere tra le righe degli scritti autobiografici, dove lascia trapelare di più se stesso, un’ammirazione segreta per uomini di una sola idea, che si dedicano anima e corpo allo sviluppo di un solo progetto. Forse von Weizsäcker aspirava a diventare il Freud della medicina interna, ma riconobbe di non possederne la genialità e l’organizzazione mentale 34.

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Continuò ad oscillare tra le discipline, a coltivare numerosi interessi. «Mi devo rimproverare che il frazionamento dei miei sforzi con gli anni aumentò e il pensiero di introdurre gli stimoli della psicoanalisi nella medicina interna non condusse a una concentrazione di tutte le forze su questo compito. Dirigevo una clinica neurologica, ma non avevo per questa specialità la passione propria della corporazione dei neurologi. Mi auguravo di non abbandonare la medicina interna nel suo complesso, ma vedevo sempre meno casi di malattie interne. Continuavo a lavorare con notevole impegno alla fisiologia patologica del sistema nervoso, ma questa mi teneva legato meno che negli anni precedenti. Un ospite olandese affermò che io ero ospite interessante del mio laboratorio. Intervenne poi un’altra scissione: i problemi della medicina sociale (...). Si può capire, ma non lodare, che io per lo più accondiscendessi alle richieste, che piovevano da più parti, di parlare in congressi e davanti ad altri uditori. Sviluppare la patologia psicofisica avrebbe domandato un altro impegno» 35.

3. L’apertura alla psicoanalisi

Nel suo progetto di contribuire alla fondazione di una nuova medicina clinica von Weizsäcker incontrò sul proprio cammino la psicologia; più precisamente la psicoanalisi di Freud. Un incontro determinante, dal momento che la funzione di critica rispetto alla medicina accademica e di stimolo al superamento, occupata dalla filosofia durante i suoi anni di formazione, fu assunta a partire da quel momento dalla psicologia del profondo. Con il vantaggio che la psicoanalisi era essa stessa una clinica, e apparteneva alla medicina pratica. Cosicché, mentre la filosofia non poteva essere reintrodotta nella medicina, se non si volevano creare commistioni arcaiche a danno della medicina come scienza, la psicoanalisi invece

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poteva entrare nella pratica medica. A questo punto dell’evoluzione della sua ricerca von Weizsäcker poteva formulare il suo programma dicendo che il suo intento era quello di «introdurre la psicologia (vale a dire: la psicoanalisi) nella medicina interna» 36.

Von Weizsäcker non ha mai tentato una presentazione critico-sistematica dei suoi pensieri sulla psicoanalisi; tuttavia il dibattito con essa, condotto in modo frammentario e talvolta aforistico, attraversa tutta la sua produzione, dai trattati scientifici agli scritti autobiografici 37. Ha riconosciuto esplicitamente l’importanza che ha avuto l’apertura alla psicoanalisi per la sua vita personale e professionale. Invece di scrivere come Lou Andreas-Salomé il suo «Dank an Freud», (Ringraziamento a Freud), von Weizsäcker si recò di persona dal maestro. La visita avvenne nel 1926, a casa di Freud, ed è dettagliatamente descritta in uno dei volumi autobiografici. Voleva ringraziare l’iniziatore della psicoanalisi perché gli aveva ridato la gioia nella professione medica, liberandolo dalla minaccia di inaridimento; gli aveva anzi allargato gli orizzonti della professione stessa 38. Questa pagina autobiografica, di notevole importanza, è riportata integralmente in appendice.

Senza perdere la sua abituale capacità critica, quando parla di Freud von Weizsäcker non cela l’ammirazione più entusiasta. Le pagine più eloquenti sono quelle scritte a caldo, alla notizia della morte di Freud a Londra, e inserite successivamente nella propria autobiografia 39.

Lo celebra come una figura eminente del periodo di massimo splendore della cultura borghese. L’analisi è dettagliata: dall’ambiente in cui Freud viveva alla sua fisionomia, dallo stile letterario alla grafia. Lo chiama «il Pitagora della psiche»

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e afferma che per ampiezza di orizzonti culturali tra i moderni è paragonabile solo a Hegel. Lo apprezzava molto come «pensatore nel senso stretto della parola», anche se questa qualità per molti critici è rimasta oscurata dal disprezzo di ordine affettivo che Freud aveva per i filosofi. A suo avviso Freud aveva dato il meglio come pensatore negli scritti della vecchiaia, mentre all’epoca in cui redigeva i suoi saggi sulla metapsicologia era troppo condizionato dalla tendenza a pensare in termini di scienze della natura. Tuttavia von Weizsäcker avanza una riserva: «Trovo in lui la mancanza di una qualità che in genere incontriamo negli uomini che chiamiamo grandi: non ha nessuna sensibilità per l’elemento mistico. Voglio credere che ne abbia avuto la disposizione; ma l’ha combattuta. È un comportamento che lo avvicina appunto ai filosofi razionalisti, come Leibniz o Kant» 40.

Von Weizsäcker possedeva numerose lettere di Freud; purtroppo l’epistolario è andato perduto durante la guerra. Si salvò solo la corrispondenza scambiata nel 1932 in occasione della pubblicazione sulla rivista diretta da Freud dello studio Körpergeschehen und Neurose, perché riportata da von Weizsäcker, per il notevole interesse scientifico della lettera, in Natur und Geist.

Benché dopo il colloquio del 1926 non ci siano stati altri incontri personali, i contatti non furono mai interrotti. Ogni volta che von Weizsäcker pubblicava qualcosa che potesse destare l’interesse di Freud, gliene inviava una copia a Vienna; e ne riceveva ogni volta un riscontro cordiale.

L’avvicinamento di von Weizsäcker alla psicoanalisi era avvenuto nel 1925, anno in cui lesse le lezioni di introduzione alla psicoanalisi di Freud 41. Da allora cominciarono i

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suoi rapporti con il movimento psicoterapeutico, la partecipazione alle discussioni, la collaborazione attiva a quella che gli appariva come la forma della medicina propria dei tempi moderni. Il discredito che pesava sulla psicoanalisi nell’ambito accademico si rifletté anche su von Weizsäcker. Perfino con il suo maestro von Krehl la divergenza circa il significato psicoanalitico della nevrosi costituì una frattura a livello culturale, se non personale 42.

Von Weizsäcker si domanda, a un certo punto della sua autobiografia, se la immediata e appassionata militanza psicoanalitica sia stata producente ai fini di un nuovo orientamento del pensiero patologico, o se invece dieci anni di lavoro silenzioso non avrebbero influito di più sul corso della medicina dei numerosi articoli, opuscoli e conferenze con cui cercò udienza presso i colleghi medici 43. Non è possibile dare risposta a tale ipotesi. Quel che è certo è che all’epoca quella di von Weizsäcker fu quasi l’unica voce nel mondo della medicina accademica a levarsi a favore della psicoanalisi. La militanza psicoanalitica va iscritta a suo merito: tuttavia essa contribuì decisamente, durante la sua vita, a isolarlo dall’ambiente medico universitario.

Pur aderendo al movimento psicoanalitico, von Weizsäcker non divenne mai egli stesso un analista. Anzi neppure si sottopose personalmente a un’analisi, come raccontò personalmente a Freud nel colloquio del 1926 44. Volle rimanere nel campo della medicina interna, dandosi come programma quello di coniugare la fedeltà a Krehl con la fedeltà a Freud. Era sua convinzione che la psicoanalisi dovesse essere assunta nella clinica generale, e non rimanere un corpo staccato della medicina.

L’entusiasmo di von Weizsäcker per la psicoanalisi era alimentato dall’orizzonte antropologico di quest’ultima: finalmente

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si tornava a parlare dell’uomo, e non solo di organi e di funzioni! Essa costituiva, a suo avviso, una svolta storica nella stessa concezione generale della pratica medica: «Quell’irruzione della psicologia nella medicina significava qualcosa di completamente diverso rispetto a precedenti connubi storici tra religione e filosofia con la medicina, come abbiamo conosciuto per esempio nella medicina greca, o in Paracelso, o nella medicina dell’epoca romantica. Questa psicologia medica non domandava: chi o che cosa è l’uomo?, bensì domandava al malato: chi sei tu?; e chi poneva in tal modo la domanda doveva contemporaneamente domandarsi: chi sono io? Può darsi che anche la psicoanalisi ai suoi inizi non avesse piena coscienza di questa conseguenza. Ma ben presto il modo in cui si diffuse dimostrò che, per essere oggettiva, doveva diventare soggettiva» 45.

La psicoanalisi offriva a von Weizsäcker un’indicazione di risposta al problema che predominava su tutte le sue preoccupazioni: trovare la base per una nuova pratica della medicina. L’indicazione psicoanalitica consisteva nel richiamo all’importanza fondamentale che ha per la guarigione il rapporto (Umgang) tra medico e paziente 46. Il trattamento della nevrosi mediante la psicoterapia era solo un primo passo verso l’«umanizzazione di tutta la medicina»; la psicoanalisi poteva dunque costituire il punto di partenza della crisi della medicina e del suo rinnovamento.

In un breve saggio von Weizsäcker ha cercato di fare il punto sul significato che riveste la psicoanalisi per la medicina, e per la clinica in particolare 47. Ad essa attribuisce «una nuova concezione dell’uomo malato e un nuovo trattamento medico del malato». Questo sviluppo è legato al concetto di nevrosi. La definizione che ne dà von Weizsäcker riflette già il nucleo della propria antropologia medica, che svilupperà

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in seguito: «La nevrosi è l’espressione del “tipo” uomo, comune a tutti gli esseri umani, e della sua condizione partecipe tanto dell’elemento psichico quanto di quello fisico, in una sfera intermedia tra il mondo subumano e quello superumano. L’espressione “nevrosi” significa semplicemente la soglia che è casuale e individuale, dove la carenza generale dell’essere umano diventa “clinica” e soggettivamente o socialmente conduce a un disturbo pratico» 48. Secondo questa definizione, la nevrosi è connaturata alla condizione umana: teso tra la physis e la psiche, l’uomo deve tenersi in una situazione intermedia; ciò conferisce alla sua esistenza un carattere labile, fluttuante, precario.

Già nella stessa definizione di nevrosi von Weizsäcker fa entrare il riferimento al corpo. Pur adottando il punto di vista psicoanalitico, non ne accettò mai la limitazione ai soli fenomeni psichici. Al centro del suo interesse rimase sempre il fenomeno organico. Condivideva la convinzione di Lou Andreas-Salomé, la quale gli aveva scritto a proposito della psicoanalisi che, nonostante tutti i meravigliosi successi di questa psicologia, aveva sempre la sensazione che il più grande mistero fosse ancora il corpo 49. Il suo progetto, maturato precedentemente e perseguito per tutta la vita, era di mettere in rapporto la nevrosi con la malattia organica. A questo aspetto della sua produzione scientifica dedicheremo una trattazione specifica, analizzando il suo saggio suKörpergeschehen und Neurose.

In merito alla questione, su cui all’epoca si discuteva con passione, se la psicoanalisi fosse una scienza naturale (Naturwissenschaft), von Weizsäcker ritiene che la psicoanalisi

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sia, propriamente, in un primo luogo terapia, e solo in secondo luogo scienza. Ciò significa che si prende una via completamente sbagliata, se si confonde il processo psicoanalitico con un atto conoscitivo dello stesso genere di quello proprio alla scienza oggettiva della natura o alla storia. Nel processo della psicoterapia si tratta di un rapporto tra due esseri umani, in cui la verità viene attuata, la conoscenza si instaura attraverso un movimento; in questo processo il terapeuta è il partner paziente, che deve stare «in uno stato di grande ricettività passiva». L’atteggiamento esattamente contrario è richiesto a chi vuole intraprendere un esperimento con gli animali o una terapia organica nella clinica tradizionale: «L’atteggiamento scientifico e lo strumento critico della somatoterapia clinica è costituito dalla tecnica intellettuale dell’esperimento, quindi ― dal punto di visto psicologico ― rispetto all’atteggiamento psicoterapeutico si tratta dell’operazione inversa dello stato di coscienza» 50. Il processo psicoterapeutico, in cui il terapeuta è coinvolto come soggetto che patisce, è situato prima della conoscenza e del sapere oggettivi. Con terminologia propria, von Weizsäcker parlerà a questo proposito di comportamento «patico» in contrapposizione a quello «ontico».

Rispetto alla medicina intesa come scienza della natura su base razionalistica, la medicina analitica perviene a un’altra immagine dell’uomo, della sua malattia e della relativa terapia. «Per essa l’uomo non è uno stato di cellule, un complesso di organi o una somma di funzioni, bensì un decorso che si sviluppa storicamente e psicologicamente, e precisamente ― questa è la cosa principale ― un decorso tra rapporti di pulsione e coscienza; per essa la malattia non è una materiale deviazione dalla regola, bensì un disturbo dello sviluppo di quel rapporto tra pulsione e coscienza (nevrosi), che

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ha bisogno di correzione solo in una misura che deriva dalle nostre esigenze culturali e sociali; per essa infine la terapia non è solo la soppressione di ogni pericolo materiale per l’esistere materiale di una parte o della totalità dell'organismo, bensì l’eliminazione di ogni forma di vita non desiderata dal punto di vista culturale e sociale» 51.

4. La produzione scientifica

In questo paragrafo intendiamo proporre qualcosa di più articolato che un semplice elenco delle opere di von Weizsäcker. Una bibliografia completa è stata compilata da Cora von Weizsäcker, in appendice al Festschrift a cura di P. Vogel: Arzt im Irrsal der Zeit 52. È aggiornata al 1956; contiene l’elenco di circa 150 articoli scientifici e di una trentina tra libri e opuscoli. Per la completezza manca solo la summa del pensiero di von Weizsäcker, Pathosophie, apparso appunto nel 1956. Qui intendiamo piuttosto individuare le linee principali della ricerca di von Weizsäcker, indicando allo stesso tempo le pubblicazioni di maggior rilievo. Un simile orientamento ci sembra necessario, trattandosi di un autore che ha coltivato interessi molteplici e ha prodotto molto.

Piuttosto che secondo un criterio cronologico e contenutistico, preferiamo disporre la produzione weizsäckeriana su tre diversi piani di astrazione. L’attività speculativa è stata infatti una dimensione permanente della sua vita di studioso. Egli stesso ne ha parlato in questi termini: «Accanto alla ricerca metodica e pianificata nella clinica e nel laboratorio, si è sviluppato un lavoro concettuale di tutt’altro genere che si potrebbe chiamare meditazione, se avesse un carattere metodico. Preferisco chiamarlo lavoro speculativo perché questa parola, che deriva da “specchio”, esprime tanto un elemento proprio dei sensi, quanto la sfumatura dell’arbitrarietà

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(Willkürlichkeit) che ha preso nel corso del tempo. Queste speculazioni, dunque, hanno assorbito una parte notevole del mio tempo e delle mie forze in ogni epoca; una parte che era sottratta all’attività di ricercatore metodica e finalizzata. La conseguenza è stata che io non ho mai posseduto del tutto quella diligenza propria delle api, quella diligenza gioiosa che secondo Adolf von Harnack deve caratterizzare lo studioso. Io ho piuttosto condotto una doppia vita, che si può giudicare carenza o abbondanza, secondo il proprio metro. I tentativi che riassumo con il termine di “antropologia medica” fanno parte della metà nascosta della mia vita, che scorre come l’ombra accanto a quella visibile» 53.

Nel primo gruppo di opere l’attività speculativa è più direttamente connessa con il materiale clinico che analizza in quanto internista. Anche nella presentazione dei casi clinici von Weizsäcker non ha mai dimenticato il suo progetto di gettare le fondamenta di una nuova patologia clinica, che includesse l’uomo nella sua qualità di soggetto. Il materiale protocollare è perciò sempre intrecciato con la teoria. Ne vedremo un esempio eminente nell’analisi dello studioKörpergeschehen und Neurose (1933); lo stesso procedimento è seguito in Studien zur Pathogenese (1935). Altre volte i casi clinici ― che von Weizsäcker ama presentare corredati di dialoghi diretti tra il clinico e il paziente ― sono materialmente separati dalla teoria. Secondo questo schema sono costruiti: Klinische Vorstellungen (1941), Falle und Probleme (1947) e Der kranke Mensch (1951), che è una delle sintesi più felici del suo pensiero clinico. In tutti questi scritti viene attribuito un particolare valore a ciò che il medico vive nell’indagare sulla malattia. All’accusa che in questo approccio si parli più del medico che del malato, von Weizsäcker risponde, con una variante della formula collaudata, che «l’introduzione del medico nella patologia» (Einfuhrung des Arztes in die Krankheitslehre) è una condizione indispensabile per un progresso della medicina 54.

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A un livello superiore di astrazione vanno posti i tentativi di formulare una teoria in senso stretto. Essi culminano nel volume Der Gestaltkreis (1941), preceduto da numerosi studi sperimentali nell’ambito della fisiologia dei sensi. Anche qui von Weizsäcker è il migliore testimone di come la linea del lavoro clinico, in vista di una patologia psicofisica, sia legata alla linea di sviluppo della dottrina del Gestaltkreis, pur biforcandosi considerevolmente dopo il 1933. A suo avviso, «l’idea del Gestaltkreis non era nient’altro che la astrazione teoretica della forma del processo vitale che gli si era presentato nella relazione del medico al malato» 55. Pur facendo parte, dunque, delle elaborazioni teoriche, il volume sul Gestaltkreis rimane legato ai «fatti» osservati nella clinica o provocati con la sperimentazione.

Sul terzo piano di astrazione poniamo le opere che affrontano tematiche generali, centrate sull’uomo, a un livello più o meno esplicitamente filosofico. Sono il prodotto più tipico della «metà nascosta» della vita di von Weizsäcker. Dedichiamo più spazio alla presentazione di queste opere, dal momento che in questo saggio introduttivo, che si concentra sulle problematiche del primo e del secondo livello di astrazione (rispettivamente cap. II e III), il pensiero filosofico-antropologico di von Weizsäcker non viene preso in considerazione. Vanno ricordati anzitutto i due volumi, che abbiamo già abbondantemente citato, di contenuto autobiografico: Begegnungen und Entscheidungen (1949) e Natur und Geist (1954). Più che di opere autobiografiche in senso specifico si tratta di un bilancio intellettuale, in cui la propria vicenda personale di studioso e di uomo viene rimeditata sullo sfondo della vita culturale del tempo 56. Von Weizsäcker era convinto che «tutto quanto è biografico e storico emerge dalla profondità del non-conscio e del non-voluto, e l’io rispetto al suo fondamento sta in un rapporto di dipendenza assoluta da qualcosa che è invisibile e impensabile» 57.

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Nella prima delle sue due opere, Begegnungen und Entscheidungen, ha descritto l’atteggiamento personale e quello del suo ambiente dopo la crisi della prima guerra mondiale. Il titolo promette un’autobiografia; in realtà contiene molto di più. Come nelle sue brillanti lezioni a Heidelberg, alle quali accanto agli studenti di medicina si trovavano anche teologi e filosofi, von Weizsäcker parte dalle sue esperienze per sviluppare un disegno antropologico di vasta portata, che unifica molteplici interessi.

Gli anni presi in considerazione sono quelli che decorrono tra il 1918 e il 1933. La vita professionale ― come medico, fisiologo e psicologo ― è toccata solo marginalmente; per contro, nessuna delle figure di rilievo che hanno inciso nella «Geistleben» dell’epoca della repubblica di Weimar manca all’appello. L’accento principale cade sull’espressione religiosa della «Geistleben» tedesca.

La religione era una realtà molto presente nella vita di von Weizsäcker. Aveva respirato il cristianesimo evangelico in famiglia: suo nonno Carl Weizsäcker era stato un noto professore di esegesi neotestamentaria a Tubinga. Egli stesso nella sua gioventù aveva tenuto discorsi nella Peterskirche di Heidelberg, pronunciandosi per un’unione tra fede e scienza. Condivideva, comeBegegnungen und Entscheidungen documenta esaurientemente, le attese di altri intellettuali tedeschi nel periodo tra le due guerre circa il sorgere di una nuova cultura. Nella caduta del mito dell’oggettività scientifica, che non lasciava alcuno spazio per l’esistenza religiosa, vedeva il presupposto per l’emergere di una nuova problematica, in cui la religione fosse non contro l’uomo, ma a suo servizio. In questo spirito von Weizsäcker diede vita negli anni 1926-30, insieme a M. Buber e a J. Wittig ― un ebreo, un cattolico e un protestante: una forma di ecumenismo insolita per l’epoca! ― a una singolare rivista: Die Kreatur. Non voleva essere una rivista teologica; si proponeva di «applicare» il fatto della creaturalità, come un orizzonte ermeneutico dell’esistenza umana. Von Weizsäcker vi collaborò con tre articoli, nei quali la creaturalità era applicata al rapporto tra medico

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e paziente, al dolore e alla malattia come storia personale del malato 58.

Il bilancio che von Weizsäcker traccia delle velleità di risveglio culturale vivificato dalla religione è pessimistico. Gli sembra che nessuna delle grandi figure che ricorda nei suoi «incontri» sia riuscita nell’intento: né Rosenzweig nel rinnovamento della comunità ebraica, né K. Barth nel risveglio della cristianità evangelica. Il destino delle proprie aspirazioni culturali e religiose gli appare significativo per tutta un’epoca. Lo descrive come «il tentativo di un’impresa spirituale che inizia comprendendosi come religiosa, poi trapassa in una ricerca che appare come non religiosa, termina con un insuccesso, e infine nella totale catastrofe di una guerra totale riceve un significato del tutto nuovo» 59.

Il secondo scritto autobiografico, Natur und Geist, prende in considerazione grosso modo lo stesso periodo, privilegiando però la ricerca scientifico-antropologica che caratterizza la «Geistleben» dell’epoca e il contributo personale che von Weizsäcker vi ha apportato. Il libro è stato scritto nel 1944, a Breslau, dove von Weizsäcker aveva assunto la direzione dell’Otfried-Foerster Institut. La sensazione di essere un outsider della medicina ufficiale ed escluso dalla carriera accademica fa capolino a più riprese; tuttavia von Weizsäcker non rinuncia a presentare in termini appassionati la sua lunga lotta per proporre una scienza medica che recuperi la soggettività umana e ad offrire elementi per un migliore riconoscimento della propria opera.

Questo libro di ricordi aiuta soprattutto a cogliere meglio importanti unità nella formazione di metodi e teorie in von

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Weizsäcker. Un ottimo esempio è fornito dalle pagine che dedica alla elaborazione della sua patologia psicofisica. Illustra l’importanza biografica e storica, dal punto di vista dello sviluppo della scienza, del suo approccio; chiarisce gli equivoci rifacendosi al contesto generale; ripercorre le tappe dei suoi progressivi tentativi di superare la concezione patologico-medica precedente, senza velare le proprie incompiutezze e senza risparmiarsi autocritiche; descrive il movimento che l’ha condotto ad associare i propri pensieri umanitari-religiosi alle inquietudini maturate nell’ambito della propria disciplina, in vista della progettazione di abbozzi sempre più compiuti di una nuova patologia. Le tensioni interne che quest’opera documenta fanno riconoscere l’importanza e le difficoltà del compito che von Weizsäcker si è assunto 60.

Nel cammino verso una sintesi delle sue intuizioni antropologiche, maturate nel contesto quotidiano della professione clinica e dell’attività di ricerca, vanno segnalate due raccolte di saggi, che anticipano le presentazioni più organiche posteriori: Arzt und Kranker (1941) e Diesseits und jenseits der Medizin (1950). Vi confluiscono i suoi sforzi di cogliere l’uomo nella sua totalità, così come si esprime anche nella malattia. I saggi, diversi come valore e finalità, sono unificati dall’insoddisfazione costante verso le spiegazioni di tipo dualista ― corpo e psiche ―, e dall’aspirazione a coniugare due realtà apparentemente non omogenee: verità e salute 61.

La prima presentazione sistematica dell’antropologia medica di von Weizsäcker la troviamo nella seconda parte di Der kranke Mensch (1951), che ha appunto come titolo «Einführung in die medizinische Anthropologie». Prende in considerazione, successivamente, il «dove, quando, che cosa, perché» della malattia (vale a dire: la localizzazione, l’inizio, la diagnosi e il senso della malattia, introducendo la dimensione antropologico-esistenziale accanto a quella biologico-organica),

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l’elemento «patico» nella vita umana, il concetto di «Gestaltkreis», e la morte come compimento della vita.

I diversi abbozzi di sintesi, che costellano la vita meditativa di von Weizsäcker, raggiunsero la forma compiuta nell’«opus magnum» della vecchiaia: la Pathosophie (1956). La più estesa delle sue opere ― quasi 400 pagine ―, la più felice per l’unione della profondità degli scritti teorici al calore dei libri di ricordi, la più audace. Non ci sono più né referti clinici, né dati sperimentali, né materiale autobiografico a far da supporto alla speculazione. Il pensiero spazia verso gli orizzonti di una nuova antropologia, che però, a differenza di quella tradizionale, non considera l’uomo come qualcosa di statico, bensì come un vivente, e quindi come essere «patico». L’uomo, in altri termini, come mediazione concreta tra la vita e la morte. L’introduzione del soggetto nella biografia porta, come conseguenza estrema, alla considerazione dell’uomo come essere morale 62. La «logia» ― che è l’approccio adeguato all’ontico ― si muta in «sophia», per cogliere il vivente in tutte le sue dimensioni.

La sintesi della vecchiaia era stata preceduta da un’operetta dello stesso genere, scritta nel 1944. Nel corso della guerra, von Weizsäcker si rifugiò nel regno della pura contemplazione, appoggiandosi nella speculazione alla «monadologia» di Leibniz. Intitolò Anonyma (sottinteso «scriptura») il breve scritto. L’autore stesso parla di questo lavoro come di una filosofia empirica63: C. Friedrich von Weizsäcker lo qualifica come un «compendio di metafisica condotta empiricamente» 64. L’accento sull’empiria vuol significare che anche nelle opere speculative della maturità e della vecchiaia von Weizsäcker non abbandonerà più il punto di vista della conoscenza concreta dell’uomo che gli derivava dal rapporto clinico. Si può apprezzare la differenza paragonando queste

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opere con gli scritti filosofici della gioventù (così ad es., le lezioni sulla filosofia della natura tenute nel semestre invernale 1919/20 e pubblicate in volume nel 1954: Am Anfang schuf Gott Himmel und Erde65.

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II

IL PROGETTO DI UNA PATOLOGIA PSICOFISICA

1. Il superamento della medicina anatomo-fisiologica

Una semplificazione diffusa del pensiero di von Weizsäcker, da cui egli stesso si è accuratamente distanziato 66, gli attribuisce l’affermazione secondo cui tutte le malattie, comprese quelle organiche, avrebbero un’origine psicogena. Di fronte a simili deformazioni del suo pensiero, che fanno di lui una specie di Groddeck in paludamenti accademici, egli si è visto costretto a precisare con maggior chiarezza l’intento che ha diretto la sua opera. Nell’autobiografia si esprime in questi termini: «Attraverso l’introduzione della psicologia nella medicina interna volevo fondare una patologia generale che non separasse le malattie psiconevrotiche e quelle organiche, bensì le unisse» 67. Solo dopo essere passato attraverso la psicoanalisi von Weizsäcker poteva dare questa formulazione allo scopo che ha sorretto la sua vita scientifica.

La crisi della medicina che si era consumata durante la prima guerra mondiale aveva fatto maturare in lui l’esigenza di un rinnovamento. Dimostratasi inadeguata la filosofia; tramontate anche le speranze poste nel risveglio religioso post-bellico,

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che ebbe la sua espressione più alta nella teologia dialettica di K. Barth, von Weizsäcker incontrò sul suo cammino la psicoanalisi. Più che dai suoi costrutti teorici, fu attratto dalla prassi clinica. In netto contrasto con quello che avveniva in medicina, tutto si concentrava nel colloquio tra due esseri umani. La medicina scientifica, prendendo la strada delle scienze della natura, aveva reso superfluo il rapporto interpersonale; i medici stessi si formavano in laboratorio, non in corsia 68.

Né la situazione sembrava prendere un altro corso da quando la medicina aveva assunto la tecnica a proprio servizio: al contrario, l’incontro tra medico e paziente, la parola di questi, l’ascolto da parte del medico sembravano diventare sempre più superflui. E, quel che è peggio, il malato stesso si è andato formando una concezione della sua malattia e della medicina che è diametralmente opposta a quella psicologica. Von Weizsäcker fu profondamente impressionato dalla prassi clinica psicoanalitica. Essa non rappresentava ai suoi occhi un’anomalia, bensì la realizzazione del rapporto terapeutico al massimo grado di concentrazione. Corrispondeva in tutto e per tutto alla sua concezione di medicina «interna». Laddove per von Weizsäcker «interna» non era una designazione pragmatica, per delimitare una provincia nell’ambito della medicina generale. Essa indicava piuttosto la sostanza stessa della terapia, ricondotta nella sua forma esemplare a un rapporto interpersonale (ein Vorgang zwischenmenschlicher Art).

Von Weizsäcker era convinto che questo atteggiamento medico derivasse dall’essenza del cristianesimo, il cui carattere specifico, che lo contraddistingue dai pagani e dai greci, è proprio l’«interiorità» (Innerlichkeit) dell’essere umano:

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«L’interiorità, concepita come amore, deve sperimentare l’io nel Tu, non in se stesso. Così il termine medicina “interna” acquistò un significato che non fu mai espresso in nessuna lezione o in nessun manuale» 69. Questa concezione, ciò nondimeno, ispirava segretamente il progetto Weizsäckeriano di una nuova medicina clinica. Quando incontrò sul suo cammino la psicoanalisi, riconobbe realizzato in essa l’impulso all’interiorizzazione della medicina (Drang zur Verinnerlichung der Medizin) che era nelle sue aspirazioni 70. Assumendo gli stimoli che provenivano dalla psicoanalisi, von Weizsäcker voleva rendere la medicina interna più aderente alla propria natura, non deviarla dalla sua finalità.

Un’altra formula che esprime in maniera concisa il progetto di von Weizsäcker di gettare le fondamenta di una nuova patologia generale è quella dell’«introduzione del soggetto in medicina». Un quadro compiuto del progetto secondo quest’ottica si trova nelle lezioni di «terapia generale», tenute nel semestre estivo del 1933 e pubblicate col titolo di Aerztliche Fragen (1935). Per stabilire il concetto di «terapia» von Weizsäcker, dopo aver rilevato che il malato che si scopre al capezzale non è l’essere astratto descritto dalla patologia, bensì un soggetto con un mondo interno e un mondo circostante, che possono ambedue essere malati, prende le mosse proprio dalla psicoterapia. In questa individua due elementi: qualcosa che è specifico per il trattamento metodico delle nevrosi, e qualcosa contenuto in ogni terapia, vale a dire l’elemento personale (dasPersönliche71. Ammette che l’estensione del metodo psicoterapeutico alle altre malattie sia ancora problematico; tuttavia il progetto è chiaro: la nevrosi è assunta in un compendio di «terapia generale» e la sottolineatura della nevrosi simbolizza «l’introduzione del soggetto umano nel pensiero medico orientato in senso anatomico-fisiologico» 72.

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Quando nelle lezioni accademiche von Weizsäcker diceva ai suoi studenti che l’estensione del procedimento psicoterapeutico alle malattie organiche era una questione aperta, in realtà era piuttosto reticente. Proprio in quell’anno (1933), infatti, la «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», diretta da Freud, aveva pubblicato un ampio studio del prof. Weizsäcker, che può essere considerato come il primo tentativo di fondare una patologia psicofisica che integrasse la concezione analitica dell’origine della malattia e della terapia 73.

2. Körpergeschehen und Neurose: le vicende

Dopo anni di solitaria rielaborazione della psicoanalisi in rapporto alle malattie organiche, nell’estate del 1932 von Weizsäcker redasse uno studio abbastanza ampio, dal titoloKörpergeschehen und Neurose, e lo inviò a Freud per una critica. Chiedeva allo stesso tempo il suo autorevole parere circa l’opportunità di pubblicare lo scritto. La lettera che ricevette in risposta fu riportata da von Weizsäcker tanto nella propria autobiografia 74, quanto in una successiva riedizione di Körpergeschehen und Neurose. La lettera conserva un interesse per lo storico che vuol ricostruire le tappe del lento cammino di avvicinamento tra psicoanalisi e medicina clinica, per cui la riportiamo integralmente in appendice. I punti salienti della lettera di Freud sono commentati da von Weizsäcker stesso nell’introduzione dell’edizione del 1947.

Rileva la soddisfazione di Freud per il fatto che un internista, che non proveniva dalla sua scuola, si dedicasse a una verifica dei risultati della psicoanalisi. Il fondatore e leader del movimento psicoanalitico vedeva inoltre con interesse l’estensione dell’indagine al campo ancora inesplorato delle malattie organiche; lasciava però questo compito agli interni

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«Io ho dovuto tener lontano gli analisti da tali ricerche per motivi pedagogici, perché innervazioni, dilatazione vascolare, funicoli nervosi sarebbero state tentazioni troppo pericolose per loro: devono imparare a limitarsi a pensare in modo psicologico. Siamo riconoscenti all'internista per l’ampliamento della nostra prospettiva». Freud mostrava infine una certa riserva nei confronti degli sviluppi teorici (spekulative Gedankengänge) elaborati da von Weizsäcker per l’interpretazione del caso. Tuttavia ― ed era questo il significato più rilevante della lettera ― lasciava via libera agli internisti, a condizione che la soluzione analitica fosse corretta. Offriva inoltre a von Weizsäcker di pubblicare il suo studio nella propria rivista.

Ciò avvenne nel 1933. Nello stesso anno il nazismo assumeva il potere in Germania. Le opere di Freud, insieme a quelle di altri autori invisi al regime, venivano bruciate in un rogo sulla piazza dell’Università dagli studenti di Heidelberg. Von Weizsäcker avrebbe ancora potuto impedire l’apparizione dello scritto nell’«Intern. Zeitschrift für Psychoanalyse», in previsione del fatto che il suo legame con Freud avrebbe potuto essere utilizzato a suo danno; preferì tuttavia lasciare libero corso agli eventi 75.

Lo scritto non ebbe l’eco che ci si attendeva (la rivista di Freud, in ogni caso, non era letta negli ambienti medici). Von Weizsäcker si rese subito conto che la generazione dei suoi maestri non l’avrebbe mai applaudito: già fin dagli esordi era un outsider 76. Eppure l’autovalutazione circa quest’opera è rimasta costantemente positiva. Benché il piano della futura antropologia generale vi sia contenuto solo in modo implicito, von Weizsäcker considera questo studio «decisivo per l’insieme

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della sua ricerca successiva, e quanto a stile e livello forse la meglio riuscita delle sue pubblicazioni» 77; il suo «figlio prediletto», come lo chiama altrove. Diversi anni dopo, nel 1947, dietro sollecitazione di Alexander Mitscherlich, fece ristampare lo studio invariato, premettendovi soltanto un’introduzione in cui fa il punto rispetto agli ulteriori sviluppi delle proprie teorie.

3. Körpergeschehen und Neurose: l’analisi del «caso A»

Valore tipologico del «caso A»

Considerando la storia della medicina, von Weizsäcker nota che in ogni epoca ci sono solo le malattie che i medici percepiscono, e i malati aspettano solo quei mezzi terapeutici che vengono loro offerti. La chiama la «legge del soggetto»: troviamo per lo più ciò che cerchiamo, vediamo per lo più ciò che già sappiamo 78. La natura rimane muta, se non le si pongono le domande appropriate. Le epoche della medicina cominciano, dunque, con scoperte alle quali fa seguito una serie di ricerche di un determinato tipo. L’interpretazione dei sogni di Freud era appunto per von Weizsäcker la scoperta che aveva creato un nuovo «tipo» di ricerca, applicato con successo alle psiconevrosi. Perché si aprisse una analoga epoca nuova per l’indagine psicofisica delle malattie organiche, era necessaria una trovata dello stesso tipo. Von Weizsäcker non si riconosceva il genio necessario; era cosciente però di aver saputo individuare la meta e il cammino, di poter anzi contribuire con qualche pietra alla costruzione di una patologia psicofisica. L’analisi del «caso A» era appunto parte di questo lavoro preparatorio (Vorarbeit). Lo siglò «A» perché sperava che seguisse un «B», che diventasse cioè il caso tipico, il modello di un nuovo approccio della malattia organica 79.

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Si trattava di un disturbo nevrotico della minzione. Il paziente, un giovane di circa vent’anni, aveva fatto ricorso a von Weizsäcker per un’anomalia funzionale nello svuotamento della vescica. Il sintomo era apparso circa tre anni prima; le difficoltà psicologiche e sociali che creava al paziente tendevano a crescere col tempo. Era incapace di urinare in modo naturale e comodo: lo svuotamento della vescica avveniva due volte al giorno, con grande dispendio di tempo, accompagnato da un rituale apposito 80. Riconosciuta la natura nevrotica del sintomo, von Weizsäcker sottopose il suo paziente a una psicoanalisi. Possedeva questo strumento in modo soddisfacente, tanto che Freud stesso nella sua lettera afferma di non aver dubbi sulla correttezza della soluzione analitica 81. Tuttavia l’orizzonte di von Weizsäcker non era quello di uno psicoanalista. La divergenza è già chiara nella finalità che von Weizsäcker si prefiggeva nell’analisi del caso.

L’ipotesi di lavoro

Lo sviluppo del caso nel corso del trattamento avrebbe riservato allo studioso un elemento «sorpresa», fecondo dal punto di vista teorico. Ma già le attese di von Weizsäcker erano diverse da quelle di uno psicoanalista. Non si accontentava di spiegare l’aspetto genetico della malattia, cioè di analizzare la dinamica della nevrosi che aveva prodotto il sintomo. Dal punto di vista psicoanalitico la costruzione del sintomo appariva chiara fino ai minimi dettagli; era invece l’aspetto fisiologico che risultava oscuro. E von Weizsäcker, fisiologo e neurologo, era impressionato daldécalage tra le capacità esplicative dei due approcci: di fronte ai disturbi della minzione, quello psicoanalitico sembrava spiegare tutto, mentre il punto di vista fisiologico, con la teoria riflessologica del sistema nervoso, non spiegava quasi niente. Gli sembrava impossibile ritradurre nelle concezioni neurologiche (centri

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nervosi, nervi conduttori, efflettori muscolari: insomma, il mondo dei dati di fatto concreti dell’anatomia e della fisiologia della minzione) ciò che era diventato visibile e comprensibile alla psicoanalisi. «Eppure un bisogno di unità nella scienza ci spinge a provare nuove ipotesi. Tenteremo di unire la nostra conoscenza anatomo-fisiologica con quella psicoanalitica in modo metodico» 82. Questo il progetto iniziale dello studio; altrove von Weizsäcker lo presenta come un tentativo di «includere il lato corporeo nell’analisi di una nevrosi, per preparare più in generale una comprensione degli accomodamenti (Ausgleiche) psicofisici» 83.

Più chiaramente, nell’autobiografia parla del suo tentativo come rivolto a rispondere alle due questioni che nella patologia delle malattie corporee non ricevono per lo più una risposta soddisfacente: «Perché proprio ora?» e «Perché proprio qui?» 84. Ricorrere al caso o alla predisposizione è una scappatoia. La scienza non può rinunciare a rendere comprensibili fenomeni incomprensibili.

Per quanto riguarda l’analisi del «caso A», von Weizsäcker riconobbe fin dall’inizio l’inutilità di un ricorso alla neurologia classica. Il sintomo non può essere spiegato con il sistema riflessologico, per quanto lo si voglia complicare. Il ricorso alle innervature antagoniste non spiega qui perché lo stimolo non sortisca l’effetto motorio; né la disfunzione è chiarita dal deus ex machina della «disfunzione psichica» 85. Ricorse invece a un’innovazione metodologica di grande importanza: far partecipare il malato alla ricerca del senso non solo psicodinamico ma anche corporeo dei fatti patologici.

Il pensiero da cui hanno preso inizio le sue osservazioni era che «bisogna prendere sul serio le asserzioni del malato come percezioni valide degli eventi che riguardano il suo corpo». Questo pensiero è al tempo stesso un atteggiamento.

Lo scienziato si deve dedicare alle osservazioni più accurate,

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quindi deve assumere un atteggiamento empirico. Ora, mentre la psicoanalisi utilizza le asserzioni del malato come informazione sul loro contenuto psichico, qui viene fatto il tentativo di spiegare senza limitazioni queste asserzioni come testimonianze di un’autopercezione. Perciò dovrebbero rappresentare anche i fatti corporei; anzi, una tale separazione tra ambiti psichici e corporei non dovrebbe affatto essere presupposta, per quanto ci sia diventata ovvia. Così come attraverso occhi e orecchi percepiamo il mondo esterno, attraverso le sensazioni del corpo e le fantasie possiamo percepire i processi interni, le funzioni e la loro cooperazione 86. La fantasia del malato può avere una funzione strutturante (gestaltende Phantasie: p. 54), che anticipa le osservazioni del terapeuta.

Von Weizsäcker non confonde, dunque, i due punti di vista sul sintomo: quello psicoanalitico, che si interroga sulla psicogenesi del sintomo, e quello fisiologico, che si occupa del modo in cui si svolgono i processi materiali; ma introduce come elemento strutturante l’interpretazione che ne dà il soggetto stesso, nella progressiva presa di coscienza resa possibile dall’analisi.

La dinamica della nevrosi

Quando il soggetto A inizia l’analisi, l’interpretazione che dà del suo sintomo è di ordine metafisico-religioso. Riteneva che l’apparato nervoso del midollo spinale adibito alla minzione fosse stato danneggiato da precedenti masturbazioni, e che questa malattia fosse la punizione di Dio per il peccato 87. Nel resoconto redatto da von Weizsäcker è possibile seguire lo sviluppo delle valutazioni del sintomo da parte del soggetto nel corso dell’analisi. Ben presto scompare l’attribuzione del danno al midollo, e la colpa viene riversata sul padre: l’inibizione non è più vista come punizione per la masturbazione;

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essa è piuttosto attribuita a un atteggiamento di dispetto nei confronti del padre, responsabile di avergli inculcato nell’educazione un’ostilità per i processi naturali della vita 88.

Tra i processi decisivi dell’esperienza del sintomo va indicata la presa di coscienza del significato erotico-sessuale del sintomo stesso. Ormai il paziente si esprimeva dicendo che in lui la funzione urinaria e quella genitale erano «confluite», e che il tentativo di separarle di nuovo incontrava una forte resistenza 89. A uno stadio successivo dell’analisi A diventerà ancora più esplicitamente cosciente dello spostamento di investimento libidico nella funzione urinaria: quando era riuscito a reprimere la masturbazione, pensava di essersi liberato dalla pulsione sessuale; invece divenne peccaminoso l’urinare, e rivestito del manto del proibito 90. La contenzione delle urine era vissuta soggettivamente come un grado di maggiore spiritualizzazione; in realtà era solo un’ansia di fronte alla sessualità; più in particolare, il sintomo nascondeva la paura della donna e l’attrazione omosessuale.

Al culmine della presa di coscienza, dovuta anche all’influsso attivo del terapeuta 91, il paziente attribuiva al suo sintomo un significato esplicitamente psicologico. Arrivò perfino a rendersi conto che esso gli rendeva anche un servizio: il fatto di non poter urinare appagava altri desideri 92. L’analisi dunque, a giudizio di von Weizsäcker, «ha fatto sperimentare ad A alcuni legami associativi e gli ha reso possibili certe conoscenze che hanno quasi rovesciato le sue precedenti spiegazioni del sintomo: non è il sintomo che lo ha fatto ammalare, né alcuna altra istanza al di fuori di se stesso, bensì lui ha avuto bisogno del sintomo» 93. Con un’altra formulazione, prodotta dal paziente stesso, ritorna la medesima in

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versione nelle causalità: poiché non poteva amare, riteneva le urine 94. A questo punto il rovesciamento della teoria causale pre-analitica è completo. Il terapeuta ha favorito l’autopercezione del paziente, valorizzando però tutto ciò che veniva dal paziente stesso. In tutti i punti importanti il paziente ha prodotto con le sue autopercezioni conoscenze psicodinamiche di ordine analitico.

Il contributo del paziente, con la sua «gestaltende Phantasie», alla comprensione del significato psicodinamico del sintomo si estende anche agli aspetti fisiologici di esso. Partendo dalla contemporaneità con cui i due processi, urinario e sessuale, di per sé reciprocamente escludentisi, vengono ad avere un’interferenza sia psicologica che fisiologica, il paziente giunge a un insightsulla bisessualità del sintomo. Nella fantasia del paziente la vescica rappresenta l’elemento femminile, il pene quello maschile; la pulsione sessuale si realizza in un tentativo di autoaccoppiamento. L’unione con la donna è sostituita dall’unione con una parte di sé femminilizzata, dall’esterno è spostata all’interno. Questo è il nuovo significato che il sintomo acquista agli occhi del paziente, e che porta il terapeuta a una diagnosi di nevrosi narcisistica.

Successivamente il paziente acquista consapevolezza del ruolo che ha svolto l’ansia nella formazione del suo sintomo: da bambino, mentre si accingeva ad urinare, si provocava un’eccitazione sessuale per eliminare l’ansia di essere visto da altri; a seguito della masturbazione adolescenziale e dei sensi di colpa connessi (egli stesso giudica la masturbazione come una «bancarotta» dal punto di vista morale), con l’inibizione dell’urinare cerca di proteggersi dall’ammettere la masturbazione 95.

In questi pensieri von Weizsäcker evidenzia quella che chiama «l’antilogica del nevrotico». Più precisamente: il paziente ricorre a un espediente per salvare al tempo stesso la propria illibatezza e il proprio piacere. Si tratta di capire come l’eccitazione

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sessuale possa scacciare l’ansia; come però l’attività sessuale conduca appunto all’ansia; come l’ansia poi si sia propagata all’atto dell’urinare, così che questo è diventato una prova dell’innocenza. «Ma il malato capisce improvvisamente che la “conseguenza” ― l’emergere del sessuale nell’urinare ― era propriamente il motivo: doveva avvenire, perché l’ansia sparisse. Con questa inversione di motivo e conseguenza abbiamo trovato una migliore designazione per ciò che a prima vista sembrava illogico; perché, sperimentando tale inversione, al malato diventa più chiaro qualcosa che prima non lo era. Vedere una inversione nel senso di motivo e conseguenza, causa ed effetto, è per lui chiaramente più importante che riconoscere il fatto che l’elemento sessuale e quello urinario si sono intrecciati» 96. In questa valorizzazione di tali svolte, come momento centrale nella dinamica degli sviluppi analitici, von Weizsäcker si sente confortato da analoghe considerazioni fatte da Lou Andreas-Salomé 97.

A questo punto dell’analisi il paziente sa che l’ansia gli rende il servizio di poter avere il sintomo per poterla eliminare. Si tratta ovviamente di un circolo vizioso, che costituisce l’insolubile problema in cui si dibatte il nevrotico. Von Weizsäcker riassume in questi termini lo sviluppo dell’analisi: «Eravamo partiti dall’ipotesi che all'esperienza del sintomo del malato può spettare un valore nella rappresentazione dei processi organici. Abbiamo trovato qualcosa come una mescolanza o una sovrapposizione delle funzioni genitale e urinaria, e inoltre abbiamo rilevato che nell’attrazione che porta ad unire questi due ambiti funzionali c’è un elemento di attrazione bisessuale. Il tentativo ulteriore di comprendere l’origine di questa attrazione ci ha condotto dapprima alle più antiche teorie sull’origine elaborate dal malato; ci troviamo ora ad osservare che queste teorie si comportano reciprocamente come paradossi logici o inversioni» 98.

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La quadratura del circolo nevrotico

L’analisi del «caso A» era stata condotta in modo soddisfacente, tanto dal punto di vista genetico (analizzando da «che cosa» era nata la malattia), quanto da quello dinamico (lotta tra la sessualità e la funzione urinaria per il possesso dell’organo, lotta della libera volontà con il bisogno naturale, lotta dell’io con l’Es). Eppure né l’una né l’altra rappresentazione avevano portato all’eliminazione del sintomo. Non era avvenuta quella svolta che è una trasformazione (die Wandlung, welche eine Verwandlung ist99. Non si era trovata la strada per giungere alla «quadratura del circolo nevrotico».

Questa sopravvenne inaspettatamente, nel corso dell’analisi, attraverso uno di quegli elementi di «sorpresa» a cui il terapeuta deve rimanere costantemente aperto 100. La piena valorizzazione di questo evento portò von Weizsäcker a fare un passo avanti decisivo nell’elaborazione della sua patologia psicofisica. Nell’autobiografia, a distanza di anni, ricostruisce così quel momento, nel contesto del trattamento di A: «Il sorgere di un’angina nel corso del trattamento di una nevrosi era un reperto secondario; il mio merito fu di non prenderlo come una casualità, ma come un fatto significativo. Questo Freud non l’aveva fatto. Mi è successo qualcosa come nella scoperta dei raggi X da parte di Rontgen. La mia preoccupazione era di capire il disturbo della minzione, vale a dire come mai il muscolo occlusore della vescica del paziente funzionasse in modo avversivo. Risultava che qui la psicoanalisi, con la sua scoperta di forze e controforze psichiche, permetteva una comprensione molto migliore della teoria riflessologica del sistema nervoso; di più: la teoria fisiologica non spiegava niente, mentre la psicologia spiegava quasi tutto. In questo stato di cose improvvisai, per migliorare lo schema fisiologico, una “dinamica psicofisica”. Quando però fu inclusa l’angina, ne derivò, quasi inavvertitamente, una specie di nuova antropologia, una visione dell’uomo

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genetico-dinamica, nella quale le idee centrali della psicoanalisi erano ancora presenti, ma che andava sostanzialmente oltre la psicologia, in quanto la costellazione dell’ambiente era inclusa insieme all’organismo nel concetto di uomo... Quando un nevrotico ha un disturbo funzionale alla vescica, si può trovare questo fatto tanto poco misterioso quanto uno sbadiglio per la noia. Ma quando qualcuno per motivi psichici ha un’angina, allora il tema della nevrosi è superato. Si potrebbe pensare a questo punto a una minaccia che incombe sulla medicina in quanto scienza della natura» 101.

Il fatto, semplice ed eloquente, da cui presero l’avvio le considerazioni di von Weizsäcker, consisté in un’angina che tenne il malato per due settimane lontano dalla psicoterapia; una volta ristabilitosi, il sintomo era scomparso: A per la prima volta, dopo parecchi mesi, poteva urinare più volte al giorno senza alcuna inibizione da parte dell’ambiente 102. Allo stesso tempo, anche la psicoterapia sembrava aver fatto una svolta di qualità. Si inaugurava una nuova fase, incentrata sul problema della professione e del rapporto con la realtà.

Come può l’angina avere qualche cosa a che fare con la nevrosi? L’ipotesi appare inverosimile al solo formularla. Ma solo finché si rimane condizionati dalla suddivisione dell’uomo in due ambiti, «psichico» e «somatico», con le rispettive causalità ed espressioni fenomeniche. Von Weizsäcker considera invece anche questo fatto organico come relazionato alla persona che lo subisce; in qualche modo la nuova malattia, come già il sintomo nevrotico, va iscritta nella colonna dell'«avere», in quanto comporta un certo guadagno esistenziale. Il salto nella malattia cambia la situazione in cui il malato si trova; avviene un capovolgimento, una svolta (Umkehrung). La malattia acuta è come un vertice drammatico di una biografia. In questo caso l’angina acquista il significato di un tentativo di sfuggire alla nevrosi, sostituendola con qualcosa d’altro 103.

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Anche nel caso della malattia organica, dunque, bisogna riconoscere al malato una capacità strutturante (eine gestaltende, ja ordende Fähigkeit104. A fondamento della sua concezione von Weizsäcker presuppone che l’ambivalenza della volontà riguardo alla malattia concerne non solo le malattie a espressione psichica, ma anche quelle a espressione somatica. Illustra il suo punto di vista in una pagina di grande chiarezza didattica: «Molti di noi conosceranno quello stato, all’inizio di una malattia infettiva, in cui dubitiamo se siamo solo fiacchi o se invece siamo malati; lottiamo con noi stessi, vogliamo farci forza, espletare i nostri doveri quotidiani. Eppure siamo tentati di volerci risparmiare questi sforzi di volontà esibendo il manifesto “sono malato”. Senza fatica anche il nostro ambiente ci riconosce che non si può esigere niente da un malato. Un analogo conflitto, in successione inversa, si può osservare non di rado nella convalescenza: “non sono ancora sano”, e “potrei, se volessi”. Bisogna salire un gradino più alto, abbandonando tutti i presupposti, per poter affermare ancora di più: che si può impedire con la fermezza d’animo a un’ “influenza”, o anche a una malattia più seria, di prendere il sopravvento, come la si può facilitare con l’arrendevolezza; ma si troverà senza difficoltà un certo numero di persone che ne sono certe. È una considerazione analoga a quella che abbiamo fatto a proposito della psicofisica della minzione: la sequenza causale, apparentemente semplice, di stimolo e movimento a una analisi più accurata si rivela determinata dalla volontà, e la volontà stessa, di nuovo, si mostra ambivalente» 105.

Se la capacità di strutturare la malattia appartiene non solo alla psiche ma anche alla materia, è lecito concludere che il corpo ha più ragionevolezza di quanta solitamente gliene attribuiamo 106. Von Weizsäcker può essere stato condotto a questa conclusione da un’estensione all’ambito somatico del procedimento proprio della psicoanalisi, che insegna a riconoscere

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le ragioni della «pazzia»; ma può anche aver seguito l’intuizione di Lou Andreas-Salomé, per la quale il mistero del corpo era più grande di quello della psiche.

Le illazioni che von Weizsäcker si sentiva indotto a fare, considerando anche una malattia organica come una svolta critica a cui consegue un nuovo equilibrio nella vita del malato, dovevano far fare un passo in avanti decisivo alla sua patologia psicofisica. A conclusione della prima fase del trattamento analitico, considerando i sintomi nevrotici come «svolte critiche», aveva avanzato l’ipotesi che tali interruzioni dovessero essere concepite come mutazioni (Wandlungen) delle costellazioni psicofisiche. Vale a dire: un ordine sembra dissolversi in una situazione critica; attraverso questa subentra, invece, un nuovo equilibrio. Finché dura la nevrosi, dopo la crisi sembra instaurarsi sempre un ritorno al vecchio ordine. «Ma ci sono anche crisi che portano a un vero cambiamento, con eliminazione del sintomo. Mentre la terapia psicoanalitica si attende tali cambiamenti dai noti eventi della riproduzione psichica e della dinamica del transfert, dobbiamo imparare che anche una malattia organica come l’angina può rendere simili servizi. Bisognerà essere ancora più cauti a non introdurre qui un giudizio di valore, come se la malattia organica comporti qualche cosa come un vantaggio terapeutico. In tutti i casi questo guadagno della malattia dovrebbe andare soggetto a una valutazione, così come quello che cum grano salisriconosciamo anche alla nevrosi. Ad ogni modo, il guadagno che procura la nevrosi è propriamente un guadagno per la parte più debole del nostro Io, che vuol sottrarsi a un compito più grande e più pericoloso. Qui sembra succedere che la malattia organica porti al malato il vantaggio di perdere un pezzo di nevrosi; ma ci è lecito dubitare che sia messo in grado con ciò di far fronte al compito di fronte al quale aveva ripiegato nella nevrosi. Ci si convince piuttosto che il malato salta i conflitti, per dedicarsi a un altro ambito dell’esistenza che ora per lui diventa essenziale» 107.

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Procedere (Fortschreiten) dalla produzione di formazioni nevrotiche a quelle «organiche» non è, dunque, necessariamente un progresso (Fortschritt). Resta il fatto che una tale alternanza e reciproca interscambiabilità non trovano spiegazione con l’uso dei concetti metapsicologici di Freud. Von Weizsäcker vi trova un incentivo ad elaborare ulteriormente la propria concezione patologica: «Con il processo organico subentra una svolta o cambiamento dei pensieri che non è logico. L’evento organico e il cambiare ordine di pensieri (“Auf-andere-Gedanken-kommen”) sono connessi. Con l’irrompere dell’evento organico si riordinano giudizi, desideri, sensazioni, perché la loro direzione e il loro oggetto mutano. Se si dà qualche cosa del genere, anche la concezione della malattia ne deve tirare una conclusione» 108.

4. Gli sviluppi speculativi

Nella lettera che Freud inviò a von Weizsäcker dopo la lettura del manoscritto non c’erano solo approvazione e incoraggiamento, ma anche dei dissensi. Questi riguardavano quella parte del lavoro in cui von Weizsäcker cercava di stabilire punti di vista comuni per la malattia psichica e per quella organica. Freud riconosce dei meriti all’approccio di von Weizsäcker: «Ci porta qualche cosa che per noi è nuovo e ci fa tendere l’orecchio, appunto perché osservazioni occasionali ci hanno fatto avvicinare ai confini di questo territorio inesplorato... I punti di vista comuni a ogni malattia ― interruzione, svolta, crisi ecc. ― ci preparano grandi novità». Dopo questo riconoscimento, segue un’esplicita riserva per le argomentazioni speculative che von Weizsäcker sviluppa a partire dall’osservazione dei fatti: «Forse è inevitabile dire che noi siamo più colpiti che convinti dalle ricche argomentazioni speculative, e che alcune astrazioni ci hanno dato l’impressione di una provvisorietà, a cui non è opportuno aggrapparsi» 109.

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La leggera critica non sfuggì a von Weizsäcker; tuttavia, malgrado la somma considerazione per Freud, non lo indusse a rinunciare a difendere la legittimità del procedimento seguito. A suo avviso, le deviazioni dal metodo della psicoanalisi erano inevitabili, dato il tema scelto. Commentando la lettera di Freud, von Weizsäcker scriveva: «Avrei dovuto fargli presente che anche lui non aveva potuto evitare tali nuovi concetti. Anche se la genesi sessuale della nevrosi poteva ancora essere considerata un dato di fatto scoperto senza teoria, tuttavia il suo concetto della rimozione era in ogni caso teoretico, e per di più indispensabile. Così anche a me sorse tra le mani una specie di mondo concettuale, che non era osservato, ma che spontaneamente si presentava insieme alle osservazioni» 110.

Alcuni di questi sviluppi speculativi erano di fatto soltanto provvisori, e furono abbandonati da von Weizsäcker stesso nel corso dell’evoluzione ulteriore del suo pensiero; altri invece contenevano in nuce gli elementi di antropologia generale che cercherà di integrare nella sua patologia psicofisica. Il più importante, e il più originale, di tali elementi è l’adozione del punto di vista biografico. La malattia ― psichica o somatica che sia: non anticipiamo per il momento le innovazioni che von Weizsäcker introdurrà nella psicofisica dualistica ― è inserita nella storia dell’individuo. Questo punto di vista cercava di rispondere a una delle due questioni a cui la patologia clinica era inadeguata a rispondere, e precisamente alla questione: «perché proprio ora?». La risposta andava cercata in una crisi biografica. Il malato studiato da von Weizsäcker nel momento in cui era scoppiata l’angina si trovava in uno stato di crisi psichica, per la quale la nevrosi aveva offerto il terreno e l’analisi l’aratro; uscire dalla crisi aveva significato una svolta di grande importanza a livello esistenziale 111.

Von Weizsäcker sperava che la patogenesi di una malattia

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infettiva offrisse uno schema psicofisico, la cui utilità avrebbe potuto essere provata presso le altre malattie organiche.

Più difficile era rispondere all’altra domanda: «perché proprio qui?». Lo stesso von Weizsäcker è molto critico rispetto ai primi abbozzi sistematici di una patologia psicofisica. Si trattava si stabilire quale fosse la «specifica valenza psichica» dei sintomi organici, cioè che cosa significasse psichicamente un’affezione al cuore, ai polmoni ecc. Ma anche le osservazioni più acute non potevano addurre nessuna valida prova scientifica. «La patologia clinica e l’intuizione psicologica erano qui due navi che si incontrano nella notte. Anch’io più tardi non ho saputo rinunciare a tali progetti, quasi improvvisati, di sistemi psicofisici. Così in una conferenza di aggiornamento sulle malattie circolatorie i disturbi del ritmo furono messi in correlazione col conflitto delle passioni, l’insufficienza della circolazione col fallimento, l’ipertonia e la sclerosi con il logorio, la trombosi con la rinuncia a se stesso. Le provincie della psiche non erano dunque messe in correlazione con i grandi settori organici, bensì la modalità di un processo in un organo era messa in rapporto con stati psichici che si possono chiamare stadi nel cammino della vita» 112.

Per giustificare come tali tentativi sistematici fossero presentati al pubblico malgrado la loro provvisorietà, von Weizsäcker adduce come motivo la volontà di acquistare al proprio punto di vista i colleghi medici: un fine che sembrava non potesse essere raggiunto semplicemente comunicando singole storie di malati. La spiegazione di una malattia di cuore come psicopatia, di una malattia dell’intestino come malattia legata al possesso, e così di seguito, non poteva assurgere al rango di scienza. Von Weizsäcker le qualifica come «allegorie», che diventano subito noiose appena le si ripete con una certa frequenza.

Lo sviluppo speculativo più solido del caso A (a detta di von Weizsäcker, «un caso esplorato fino ai limiti del possibile»),

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è l’integrazione del malato nell’ambiente. La dinamica psicofisiologica del malato, l’intera matassa dei fatti corporei e delle mutazioni psichiche, è posta in relazione con la situazione esterna nella quale si trova l’individuo. Questa dimensione acquista la massima evidenza nel paragrafo che von Weizsäcker ha aggiunto al dattiloscritto sottoposto a Freud. Questi gli aveva suggerito di abbreviare il lavoro; von Weizsäcker invece lo ampliò con la sezione delle «piccole malattie» 113. È una serie di brevi racconti di casi clinici, in cui un’angina gioca un ruolo importante. Pur essendo convinto che erano necessarie prove più convincenti, von Weizsäcker aveva individuato nell’analisi delle situazioni esterne un compito della patologia: «L’astrologia non ci può più convincere dei suoi influssi stellari; non per questo le “costellazioni” dell’ambiente devono essere ridotte a grandezze trascurabili, come fanno troppo spesso le scienze quando si occupano solo di ciò che è elementare»114. E argomenta: se attribuiamo a un germe batterico il potere di suscitare un fatto come una malattia infettiva, perché dovremmo negare un tale significato specifico alle situazioni morali dell’ambiente a cui siamo esposti? Con questa domanda von Weizsäcker apriva la patologia alla considerazione dell’incidenza nel fatto morboso di ciò che più tardi qualificherà come categorie modali dell’esistenza, contrapposte a quelle logiche 115.

Tra gli sviluppi speculativi va infine annoverato il recupero della «totalità» concreta dell’essere umano. Ciò avvenne non per via speculativa, bensì attraverso la «via regia» weizsäckeriana che è il metodo biografico. La totalità si mostra fenomenologicamente come un’unità storica 116. In questo quadro, in cui va inserita la malattia organica, la persona diventa personaggio del dramma. Nella biografia si trova il terreno comune per la parte corporea, psichica e spirituale della persona umana. Queste non sono unite in maniera esteriore,

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casuale e meccanicistica, come il pensiero dualista ha sempre lasciato supporre. Proprio al superamento del dualismo soma-psiche von Weizsäcker ha dedicato una parte notevole del suo lavoro teoretico. Anche nella nostra trattazione a questo problema va dedicata un’attenzione speciale. Emergono intanto i contorni della differenza tra la visione psicoanalitica e quella antropologica di von Weizsäcker: la sua via conduce dalla psiche all’uomo, e questi viene presentato come un dramma dinamico tra corpo, psiche e spirito.

5. Il rapporto soma-psiche

Un problema teorico nel quale von Weizsäcker si doveva necessariamente imbattere nella sua costruzione di una patologia psico-fisica era quello del rapporto tra psiche e soma. Egli auspicava la fondazione di una scienza che si ponesse al di là di tale dualismo. Il volgersi all’uomo malato, favorito dall’assimilazione della psicoanalisi, gli aveva fatto scoprire quel lato della realtà che è il rapporto da uomo a uomo, quello che chiamerà più tardi il comportamento «patico». Tuttavia l’altro aspetto della realtà, quello «ontico», non può fare a meno del pensiero, e quindi della rappresentazione mentale. Il rapporto corpo-psiche fa parte appunto di tali rappresentazioni astratte, prodotte dalla ragione. Il rischio più grosso è di rappresentarci corpo e psiche come sostanze, o cose reali, riducendo a schema statico ciò che è l’originaria lotta della vita umana 117.

Si possono individuare negli scritti di von Weizsäcker tre schemi con cui ha cercato di illustrare il rapporto psicofisico 118. Il primo è quello di una reciproca causalità, psicofisica

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e fisicopsichica. Come patologo von Weizsäcker conosceva bene i fenomeni che rendono evidente la causalità del corpo sulla psiche, come la paralisi di muscoli, i disturbi di organi sensoriali, anestesie ecc.; d’altra parte, anche la psiche agisce visibilmente sul corpo, e non solo nei movimenti volontari: «pensiamo all’arrossire per vergogna, al battito del cuore per paura, al vomito per disgusto» 119. Come filosofo era introdotto alla problematica inaugurata da Cartesio con la designazione di corpo e anima come «sostanze», in particolare alla questione del primato dell’uno o dell’altra. Si trattava per lui di un problema di filosofia della natura, presente nel suo pensiero già fin dalle opere giovanili 120.

La seconda immagine è quella di un rapporto psicofisico parallelo. «Il nostro corpo è in grado di esprimere ciò che vive la psiche, è capace di espressione; e la nostra psiche vive anche ciò che succede al corpo, è capace di impressione. Espressione e impressione sono i segni che il corpo è animato e che corpo e psiche sono inseparabili» 121. Questa immagine è diversa da quella precedente. Nella prima il corpo, come res extensa, era un settore di cui si occupa la fisiologia, senza interrogarsi sul senso delle funzioni e delle strutture; qui invece il corpo viene considerato solo in quanto animato dalla psiche. In questo modo il corpo diventa allo stesso tempo espressione di un inconscio ― ben più ampio dell’inconscio di Freud ―, espressione di qualche cosa che non può essere percepito direttamente; e anche la psiche può ricevere impressioni attraverso l’evento corporeo. Per differenziare l'«elemento corporeo inconsciamente influenzato» dalla corporeità della fisiologia, von Weizsäcker lo chiama Leib, mentre riserva all’altro il termine Körper 122. Nel corpo come Leib l’influenza della psiche arriva a tutte le cellule. Il dualismo psicofisico viene qui superato; il parallelismo di psiche e physis

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configura un rapporto tra corpo e anima che è di reale unità.

Il superamento del dualismo e del pensiero causale è completo solo nella terza immagine, che risolve il problema psicofisico in un movimento circolare, in cui corpo e psiche si possono rappresentare e sostituire reciprocamente. Mentre i precedenti rapporti sono di ordine statico, qui sopravviene una dinamica che introduce nel rapporto un movimento. Le linee di confine tra corpo e psiche tendono quasi a confondersi. Funzioni corporee e psichiche possono rappresentarsi reciprocamente, ma anche sostituirsi l’una con l’altra. Così come gli organi soddisfano i nostri desideri (anche se diversamente da come ce lo immaginiamo), allo stesso modo nella percezione e nell’emozione obbediamo a ciò che avviene nel corpo. Von Weizsäcker adduce alcuni esempi tratti dalla vita quotidiana: «Quando dal punto di vista fisico siamo svogliati, ci lasciamo andare ai nostri pensieri. Invece di fare qualche cosa, pensiamo; sostituiamo le azioni con le parole. Quando invece abbiamo pensieri spiacevoli, allora li sfuggiamo rifugiandoci nell’azione. L’uno e l’altro sembrano sgradevoli, ma possono avere anche un valore positivo. Così come quando un dolore psichico ci spinge a un’opera, come avviene il più delle volte negli artisti. Oppure quando dal viavai degli interessi ci rifugiamo nell’autocoscienza» 123.

Questo modo di considerare il rapporto tra corpo e psiche è particolarmente innovativo nella patologia. Esso autorizza la domanda sul senso, rivolta al malato e alla malattia. Nel fatto morboso può essere riconosciuto un significato che lo equipara agli eventi della vita umana che sconvolgono dal punto di vista esistenziale o religioso. La medicina scientifica si è costruita sulla rinuncia metodologica alle questioni sul senso ultimo; la teologia, a cui questo orizzonte è da sempre familiare, sembra avervi abdicato nel settore che riguarda le vicissitudini del corpo, riservandole alla scienza. Ora la psicologia, che von Weizsäcker considera come l’erede delle scienze morali, ha occupato quel territorio: «La psicologia è apparsa

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perché la scienza della natura è in sé senza Dio, ed è senza l’uomo. Finché la scienza e la religione saranno separate l’una dall’altra, ci serviremo della psicologia» 124.

Con la psicologia la medicina scopre nell’uomo non solo «la natura, bensì più che la natura: l’uomo stesso come soggetto» 125. «La medicina deve diventare psicologica»: questo slogan programmatico di Nietzsche, che von Weizsäcker volentieri fa proprio, è interpretato come un salto di qualità della medicina stessa, una volta assunto come proprio oggetto l’uomo, e non solo il corpo.

Può contribuire a una comprensione più chiara del pensiero di von Weizsäcker tornare, dopo questa presentazione schematica delle varie risposte che si possono dare al problema del rapporto tra psiche e soma, al caso A trattato in Körpergeschehen und Neurose. Già nel contesto di quello studio von Weizsäcker osservava che quando si pongono le parole «psichico» e «somatico» (oppure «fisico» od «organico») l’una accanto all’altra, si è guidati quasi da una inconscia collocazione spaziale. Anch’egli nell’analisi del caso si è accontentato di porre gli schemi fisiologici accanto alle dichiarazioni «psicologiche» del malato, quasi per un confronto. A poco a poco si era sviluppato però un procedimento dinamico, diverso dalla primitiva rappresentazione, retto dall’analogia. Più che una somiglianza geometrico-ottica tra ciò che è psichico e ciò che è corporeo, si era imposta una somiglianza ritmico-fasica di decorsi, nei quali avvenivano delle svolte passando per delle crisi126.

Nella spiegazione del processo von Weizsäcker si allontanava dalla teoria freudiana della libido. Qui ciò che scompariva come sessualità ricompariva come evento biologico non sessuale. Ma ciò che appariva essenziale non era la trasformazione di un’energia (la libido), come se potesse assumere

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diverse forme; essenziale è piuttosto la somiglianza formale della dinamica, la quale permette che un contenuto (per es. quello sessuale) sia abbandonato e sostituito da un altro (per es. l’angina)127.

Il procedimento adottato per l’analisi del «caso A», sviluppato in seguito negli Studien zur Pathogenese, e la risoluzione del dualismo soma-psiche nella circolarità dinamica dell’essere umano come «totalità», appaiono a von Weizsäcker come coerenti. «La malattia organica mediante l’introduzione del soggetto diventa un co-attore a pieno diritto; può assumere il ruolo che svolgeva prima la nevrosi, cosi come la nevrosi nel malato gioca il ruolo che deteneva nella sua vita un altro essere umano. Questo è il concetto del narcisismo. Si potrebbe dire perciò che una malattia organica è una nevrosi rimossa, e a ciò corrisponde l’osservazione che i pazienti in florida nevrosi rimangono spesso immuni da infezioni; se scoppia una malattia infettiva o un’altra malattia, la nevrosi sembra scomparsa. Questa constatazione mi è stata anche confermata da Freud a partire dalla sua esperienza. Così si era trovato un concetto di evento patologico che comprendeva veramente la malattia isterica e organica, e corrispondeva a quel postulato della teoria unitaria»128.

6. Oltre la svolta copernicana della psicoanalisi

Alla fine della propria vita, facendo il bilancio del progetto scientifico perseguito in tanti anni di lavoro, von Weizsäcker ritorna ancora alla svolta costituita da quel caso di angina sopravvenuta durante il trattamento di una nevrosi. Precisa: «Non intendevamo dire che tutte le malattie si possono spiegare psicologicamente. Un’angina rimane un’angina. Ma se le malattie organiche vengono esplorate nella loro

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integrazione nella storia interna ed esterna di una vita, ci si stupisce per la frequenza con cui la malattia subentra al culmine di un’acutizzazione drammatica, per la frequenza con cui essa arresta o sigilla una catastrofe, per la regolarità con cui dà al decorso biografico una nuova svolta. La malattia organica è inserita nella biografia come un elemento storico significativo, dotato di un senso spirituale, come se vi facesse parte. Nel linguaggio della clinica ciò significa che essa si comporta in modo analogo alle cosiddette nevrosi. A questo punto nasce la tentazione di concepire le malattie organiche semplicemente come nevrosi materializzate» 129.

Una prospettiva che appare straordinariamente vicina a quella della psicoanalisi, dove la formazione di un sintomo è fatta derivare da un contesto significativo, dal conflitto, dalla repressione e dall’estraniamento di sé nei rapporti interpersonali. Il motivo per cui l’indagine biografica di von Weizsäcker non è mai arrivata a spiegare i disturbi organici attraverso quelli nevrotici non è il dualismo di comodo adottato nelle scienze per dividere i due ambiti. Von Weizsäcker si è situato al di là della divisione tra corpo e psiche. I suoi tentativi, che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, di dare una nuova formulazione al problema del rapporto tra corpo e psiche lo hanno portato a una concezione della malattia di una tale densità antropologica quale non si riscontra né nella psicoanalisi, né nella medicina organicista.

Già nello studio del «caso A» von Weizsäcker era stato indotto ad osservare che la malattia può perdere, a un certo punto del trattamento, le connotazioni morali e acquistare il carattere di non-Io: «mentre il disturbo della minzione lo aveva considerato ancora per un certo tempo come punizione o effetto della colpa, più tardi, e anche nel caso dell’angina, questo legame con il suo Io è stato tagliato; la malattia è allora un “Es”, un non-Io, un “raffreddore”. Non la si può più psicologizzare o soggettivizzare, è qualcosa di oggettivo, che si può solo indagare e spiegare ulteriormente nella

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sfera della ragione, quindi mediante categorie obiettive, logiche» 130.

In quanto terapeuta von Weizsäcker aveva potuto apprezzare il vantaggio per il malato di un rapporto obiettivo-razionale con la malattia, considerata come proveniente da un impersonale «Es»; così come vedeva la necessità, a un certo punto del trattamento, di abbandonare tale atteggiamento (Es-Stellung zur Krankheit): il confine è vincolante solo per il soggetto che prende la posizione, il quale può anche spostarlo 131. La malattia in quanto formazione dell’«Es» (Es-Bildung) acquista tutto l’interesse teorico e clinico proprio in forza di questa frontiera mobile, la quale rende possibile la dialettica fra l’«essere» (le categorie logiche che rendono conto dei processi naturali-materiali) e il «dover essere» (le categorie modali, nel cui ambito si inserisce la moralità).

Nella sua autobiografia, quando cerca di mettere a fuoco il punto in cui diverge da Freud e in cui si delinea la propria posizione caratteristica, von Weizsäcker indica proprio la concezione della Es-Bildung come principale discriminante. «Il modo in cui ho usato il concetto di “Es” costituisce appunto la divergenza decisiva dalla psicoanalisi. Questa aveva introdotto tale espressione, già usata da Nietzsche, proprio per evitare ciò che io tentavo, cioè che la psicologia si mescolasse con la corporeità. Era molto comodo per la psicologia pre-analitica ricorrere all’influsso di processi corporei o di coincidenze fortuite ogni volta che non riusciva a cogliere il senso di un fenomeno. Solo rinunciando a questa informazione la psicoanalisi poteva fare la scoperta di una dimensione del tutto nuova nello psichico; chiamò la nuova regione psichica “inconscio”, alla quale spetta la caratteristica della “profondità”. Si può dire cum grano salis che il ruolo che prima

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doveva svolgere il corpo, ora, poiché aveva perso significato, gli era stato sottratto e attribuito allo psichico-inconscio» 132.

Le riserve che von Weizsäcker aveva da sollevare nei confronti di questa concezione riguardavano soprattutto l’impoverimento del rapporto col corpo. Limitarsi esclusivamente al versante psicologico non era richiesto dalla natura delle cose, bensì dal bisogno di chiarezza scientifica, perché la scienza può lavorare con successo solo entro confini ben precisati. Von Weizsäcker auspicava che la considerazione esclusivamente psicologica delle cose non dovesse durare per sempre, e che un giorno la psicoanalisi riallacciasse un rapporto con le altre sfere, e quindi con le altre scienze.

Una condizione preliminare era che gli altri due ambiti confinanti, cioè l’organismo corporeo e l’ambiente esterno in cui viviamo, potessero essere messi in una relazione comprensibile con il mondo psichico. «Da questo punto di vista, il periodo in cui la psicoanalisi è sorta, essendo determinato da un pensiero natural-scientifico, era assolutamente sfavorevole. È diverso, invece, quando il fatto corporeo non consiste solo di meccanismi, ma anche di ragione e di senso; diverso anche quando il nostro ambiente non ci sta accanto solo come fenomeno casuale, bensì è esso stesso animato e ci interpella. È sorprendente che l’idea dell’animazione di tutta la realtà corporea (Beseelung alles Körperlichen) non trovi posto proprio nella psicoanalisi, che deve la sua esistenza proprio al bisogno incoercibile della conoscenza della realtà psichica» 133.

Avendo introdotto l’Es nell’organizzazione psichica, Freud non aveva più bisogno di un riferimento al mondo corporeo. Von Weizsäcker, volendo reimmettere la natura materiale nella considerazione scientifica di tutto l’uomo, percorre un’altra strada. A questo punto della teorizzazione, in cui la teoria del Gestaltkreis era solo incipiente, la posizione di

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von Weizsäcker è espressa dalla sua concezione della Es-Bildung. Egli rovesciava la concezione dell’io e dell’Es freudiana, in cui l’Es è un fondamento solido dell’umano (beständig-fester Untergrund des Menschen). L’Io non è una scissione differenziata dell’Es, bensì al contrario è l’io che attraverso il suo sviluppo e la sua attività separa da sé l’Es. Pur rimanendo sempre valida la fase opposta, in cui i rapporti sono rovesciati.

Anche questa concezione affondava le sue radici nella analisi del caso A. «L’osservazione concreta che mi ha condotto a questa posizione era che il malato A, nello stesso momento in cui si era ammalato di angina, aveva anche utilizzato la sua funzione intellettuale per giudicare questo fatto in lui come cosa estranea e per trattarlo come un Es. Questa coincidenza dunque di un fatto corporeo e di un’azione psichico-intellettuale mi aveva fatto impressione; io l’ho sintetizzata in unsolo atto, che anche con la migliore buona volontà non poteva più essere presentato come psichico. Se esiste qualche cosa come psiche e soma, allora l’atto era una cosa anfibia, che apparteneva ad ambedue le sostanze. Si può arrivare a questa concezione di una formazione dell’Es (Es-Bildung) solo quando, come accadde qui, si analizza psichicamente una malattia di angina; allora appare che il malato nei confronti della malattia ha una duplice posizione: a partire dall’Es e a partire dall’io (Es-Stellung, Ich-Stellung). Perché prende coscienza che è lui, il suo Io, che partecipa al sorgere della malattia, attivamente o lasciando fare. Ma cambia più tardi la posizione dell’io con quella dell’Es; l’ambivalenza della volontà, la questione di coscienza cadono. Con la spiegazione dell’“infiammazione” non è più lui, ma solo il suo corpo che è ammalato (nella convalescenza questa sequenza può ripetersi in modo invertito)» 134.

Il modo in cui la materializzazione dell’angina è unita con l’obiettivizzazione intellettuale non è più psicologico. Esso appartiene a una scienza che si pone al di là del dualismo

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corpo-psiche. Von Weizsäcker vi faceva un primo approccio parlando appunto di Es-Bildung, che nella stessa ambivalenza della parola vuol fare intravvedere i due aspetti dello stesso processo. La qualifica di «Es» connota gli eventi non solo psichici, ma anche organici (Körpergeschehen); perché anche il corpo, sia che si riveli come amico che come nemico, rimane qualche cosa di estraneo alla psiche. Ciò che è determinante non è la natura dell’evento stesso, bensì la posizione che il soggetto assume nei confronti di esso. E questo può solo esprimersi in quel procedimento che von Weizsäcker ha chiamato «indagine biografica» (biographische Erforschung).

Il malato deve essere portato a parlare della sua vita. Allora può avvenire un fatto della più grande importanza terapeutica: un’inversione del pensiero causale. «Mentre rifletto col malato in che modo la sua malattia è nata dalla sua biografia, si inverte la direzione del pensiero causale.

È vero: quando è stato colpito dalla malattia alla milza o ai polmoni, ne è derivato che la sua speranza non si sarebbe realizzata; la colpa è della malattia. Ma è egualmente vero se si dice: poiché si accorse che la sua speranza non si sarebbe realizzata, o poiché si scoraggiò, poiché in realtà non lo voleva, per questo si è ammalato.

Ora causa ed effetto sono invertiti. Quando Freud scoprì la psicanalisi, la paragonò alla svolta copernicana: il sole e le stelle non girano intorno alla terra, bensì è la terra che gira, e la nostra tranquilla sicurezza su di essa è stata solo apparenza ingannevole.

In seguito venne l’umiliazione attraverso Darwin, quando questi asserì che l’uomo non deriva dagli dèi, bensì dalla scimmia: un secondo colpo per il nostro orgoglio. La psicoanalisi ci mostra che neppure nella nostra coscienza siamo padroni di casa, bensì dipendiamo da potenze inconsce, in misura molto maggiore di quanto potessimo supporre.

Ora bisogna fare un quarto passo. Comporterà anch’esso uno scoraggiamento come gli altri? Dobbiamo renderci conto che la nostra malattia non è un aereo che possiamo pilotare, bensì è essa stessa una specie di psiche, un uomo nell’uomo,

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spesso nemica, ma anche amica, spesso ostica a ogni apprendimento, ma anche istruttiva per noi. E spesso sembra sciocca; ma poi di nuovo saggia, astuta, ragionevole e passionale.

Quest’ultimo passo non è quindi solo una riduzione, bensì questa volta una speranza. La svolta che si realizza fa nascere nella malattia, come l’embrione nella madre, un «alter ego», un Io nell’io, un essere che non sono io e che tuttavia sono proprio io (si potrebbe anche dire: un rafforzamento del principio femminile).

È chiaro ora che la psicologia in medicina produce un risultato inatteso. Non deve portare solo alla conoscenza della psiche, ma deve anche illuminare il corpo in modo che esso appaia in un’altra luce, in una nuova luce. Il corpo non è più ora ciò che appariva prima, e che l’anatomia e la fisiologia ci insegnavano. La fisiologia rimane, allora, solo una cosa attraverso la quale noi scopriamo una qualità nascosta o sepolta del corpo.

Anche la medicina psicologica si interessa del corpo, ma questo è qualcosa di completamente diverso. Lo dobbiamo chiamare «corpo animato» (Leib). Con ciò intendiamo che la sua materia (da «mater») è il sosia e il compagno che ha la stessa discendenza della psiche, con la quale però non ha un rapporto sempre facile; il corpo è allo stesso tempo il consorte in un matrimonio indissolubile» 135.

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III

LA TEORIA DEL «GESTALTKREIS»

1. Una teoria dei processi biologici

Nel capitolo precedente abbiamo seguito il progetto weizsäckeriano di rivoluzionare la scienza dell’uomo malato, proponendo una patologia comprensiva tanto dell’aspetto somatico quanto di quello psicologico della malattia. Accanto a questo primo livello di astrazione ne abbiamo già segnalato un secondo, culminato nell’elaborazione della teoria del «Gestaltkreis», connotato da un interesse formalmente teorico. Tra i vari piani di astrazione, secondo il giudizio di von Weizsäcker, vigeva una sostanziale continuità. La prevalenza di un piano su un altro è determinata da fatti contingenti.

Lo stesso von Weizsäcker segnala che nel 1933, dopo la pubblicazione di Körpergeschehen und Neurose, era avvenuta una marcata «divaricazione» nella sua attività di studioso, a vantaggio dell’elaborazione teorica.

L’indicazione della data lascia intendere più di quanto von Weizsäcker dica esplicitamente. Con l’avvento del nazismo al potere, infatti, si era creato un clima culturale che gravitava agli antipodi dei valori sottolineati da von Weizsäcker. Era l’epoca in cui trionfava il mito della razza pura, che si alimentava con la celebrazione dei corpi giovani, sani, atletici. Secondo la concezione predominante, bisognava pensare

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a eliminare i «malati», perché restassero solo i sani. La «patosofia», a cui approderà von Weizsäcker, era impensabile in un paese che impazziva per i programmi eugenetici. La ripresa dei temi più propriamente patologici, con l’elaborazione di una «antropologia medica», avverrà nell’ultima parte della sua vita. Avrà luogo in concomitanza con la ripresa post-bellica ed il ritorno all’internistica, consacrato dall’assunzione della cattedra di «Patologia Generale» di Heidelberg (1946).

Il ripiegamento verso l’elaborazione teorica in questo periodo intermedio non ubbidiva però esclusivamente a un’esigenza di prudenza. Von Weizsäcker era convinto che la scienza avesse l’obbligo di sviluppare anche gli aspetti teoretici, oltre che quelli pragmatici. La teoria, a suo avviso, è «l’anima della ricerca scientifica»: «dove la sensibilità e la passione per la teoria ristagnano e sopravvive solo la fede nei fatti, la scienza entra nella sua epoca babilonica» 136.

I contorni della sua epistemologia sono chiari: dal momento che i fatti sono osservazioni ad opera di esseri umani che pongono determinate domande alla natura, la forma e il senso della domanda sono costituiti appunto dalla teoria; i fatti in sé sono muti: essi rispondono solo alla teoria. «Anche le ipotesi sono sempre teorie, le quali però ancora non sono sufficientemente consolidate; e le teorie non sono altro che leggi e forme dei fatti: il loro effetto appartiene dunque ai fatti, come i fatti stessi esistono solo in quanto applicazione di teorie. Se ci dovessero essere fatti casuali, allora varrebbe appunto la teoria della casualità» 137.

Per teoria von Weizsäcker non intende qualcosa di fisso, stabilito dogmaticamente, magari sotto l’influenza di pregiudizi. La definisce piuttosto «un comportamento del pensiero che segue l’oggetto» 138. L’elasticità della sua elaborazione teorica riguardo al rapporto tra psiche e soma, cui si riferisce questa definizione di teoria, illustra come egli intendesse

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se l’articolazione tra teoria e osservazione dei fatti. Teoria e prassi, filosofia ed empiria sono due poli che non vanno separati, bensì inclusi l’uno nell’altro.

Analizzando la crisi della medicina del suo tempo, von Weizsäcker ne individua una radice nell’avversione dei medici, come d’altronde degli altri scienziati delle scienze della natura, nei confronti della riflessione teoretica. I suoi colleghi internisti, che egli invitava, specialmente nei confronti diretti che avvenivano durante i congressi, a riflettere sui fondamenti della loro scienza, non reagivano. Per cui von Weizsäcker mestamente concludeva: «Rispetto a questa mia tendenza a pensare, sono venuto al mondo o troppo tardi, o troppo presto» 139. Altrove individua nella filosofia di Kant la causa dell’assenza di filosofia negli scienziati della natura: la battaglia di Kant contro il dogmatismo ha dato una buona coscienza agli scienziati, che si sentono dispensati dal procedere oltre l’empirismo critico 140. Von Weizsäcker invece si sentiva impegnato nella speculazione anche in quanto medico; perché ― come osserva aforisticamente ― «per il medico il concetto è un amore infelice, ma non un’infelicità» 141.

Non era però in quanto filosofo che von Weizsäcker domandava credito alla sua elaborazione teorica, bensì in quanto scienziato. A suo avviso, il nuovo orientamento nell’interpretazione dell’uomo non si trovava nella sovrastruttura filosofica, ma piuttosto in una rielaborazione della base su cui sono fondate le scienze della natura. È il programma che sta dietro allo slogan che costituisce il leitmotiv della sua opera: «introdurre il soggetto nella biologia» 142.

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Nel periodo del massimo impegno teoretico von Weizsäcker dirigeva la clinica neurologica ad Heidelberg, prima della breve parentesi a Breslau (1941-1946). L’elaborazione della teoria avviene principalmente sotto l’insegna della neurologia, come tentativo appunto di costruire una neurologia teoretica. All’inizio si mosse sul binario tradizionale, seguendo le orme dei suoi maestri: «Pensavo di realizzare nella neurologia il programma di una fisiologia patologica nel senso di von Krehl, e mi avviai perciò per il cammino su cui ero stato messo da Joh. v. Kries» 143. Ciò significava il predominio assoluto dell’anatomia, in una Weltanschauung materialistica; in neurologia si esprimeva nello studio dei riflessi, secondo la fisiologia classica.

Sotto la sua direzione, il laboratorio del reparto neurologico del policlinico intraprese una serie di ricerche sulla sensibilità. Ma già fin dai primi studi sul tatto, in cui viene individuata una labilità della soglia, inspiegabile secondo i principi della fisiologia tradizionale, entra in conflitto con i rappresentanti della fisiologia classica degli organi di senso 144. Sia gli esperimenti che la teorizzazione, tuttavia, rimanevano nell’area della fisiologia, senza risentire l’influenza di interpretazioni psicologiche (proprio in quel periodo la psicologia della Gestalt stava rivoluzionando lo studio della percezione). Nella crisi epistemologica che caratterizzava la ricerca biologica di quegli anni, il suo proposito rimaneva quello di «cercare la nuova strada per costruire la neurologia in modo congruo al suo oggetto, al fine di liberarla dall’assoggettamento a una concezione fisicalista, senza per questo consegnarla alla psicologia» 145.

Il passo avanti decisivo avvenne quando l’interesse di von Weizsäcker si spostò sugli elementi che influiscono sulla strutturazione (Gestaltung) del movimento. Egli notava una singolare omissione: «Mentre la fisiologia dei sensi era sviluppatissima, il movimento volontario non era diventato un tema

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della fisiologia: la volontarietà era per essa una cosa imbarazzante, di spettanza della filosofia della natura» 146. Nelle ricerche che intraprende subentra in primo piano il problema della coordinazione del movimento volontario; ciò porta von Weizsäcker ad abbandonare la concezione riflessologico-meccanicistica della fisiologia. «Il concetto di riflesso e quello di movimento volontario sono inconciliabili nel senso della fisiologia classica; se si vogliono studiare scientificamente i movimenti volontari, ci si deve proporre di distruggere il predominio del concetto di riflesso» 147.

In seguito l’interesse si sposterà verso altri fenomeni, come lo studio dell’equilibrio corporeo e della vertigine. Il procedimento con cui viene progressivamente elaborata la teoria non è speculativo, nel senso della filosofia, bensì legato al metodo scientifico: «Non si aggiunge, con l’aiuto di una speculazione di filosofia della natura, il concetto estraneo alla concezione del mondo meccanicistico, bensì dal dato sperimentale stesso viene dedotta la forma della realtà sottratta al nesso finora prevalente, cioè quello delle scienze esatte» 148. Von Weizsäcker chiarisce ripetutamente che nel suo intento non c’era una filosofia della natura di tipo vitalista o idealista, bensì una «teoria», derivata però dal materiale empirico stesso.

Presentando nella sua autobiografia il lavoro di quegli anni, von Weizsäcker paga un tributo di riconoscenza ai collaboratori che condussero con lui in laboratorio le ricerche che dovevano fondare la teoria del «Gestaltkreis». Nomina J. Stein, P. Vogel, il principe Auersperg, P. Christian, A. Derwort. Anche nell’introduzione al libro Der Gestaltkreis ricorda i compagni di strada (Weggenossen) che hanno collaborato con lui per due decenni per fondare la teoria 149. Tuttavia precisa che non si può parlare in senso proprio di una «scuola» («il tutto assomigliava più a un parco naturale che a un

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orto»). «Se malgrado ciò ne è risultata una costruzione unitaria, ciò va attribuito non alla forza di volontà di un individuo, bensì all’organicità interna dell’oggetto a cui ci siamo dedicati» 150.

2. Gli sviluppi della teoria

Un nuovo modo di vedere la realtà non comincia con una forma definita, bensì si struttura a poco a poco, a partire da molti abbozzi inconsci, che più tardi si cristallizzano in un quadro chiaro: con questa osservazione 151, von Weizsäcker commenta il cammino laborioso che ha percorso la presentazione unitaria dei suoi tentativi di una neurologia teoretica nel «Gestaltkreis». Di fatto questa teoria è stata preceduta da un’altra sintesi provvisoria: quella del «cambio funzionale» (Funktionswandel).

Secondo la definizione che ne dà von Weizsäcker stesso nella spiegazione di alcuni concetti in appendice a Der Gestaltkreis, si tratta di «una sorta di decorso della funzione che viene provocato da uno che gli è simile, ma che si differenzia temporalmente, spazialmente e qualitativamente. Il cambio della funzione nella patologia si fonda su un disturbo dell’equilibrio della funzione normale, in sé ugualmente labile» 152.

In pratica, il Funktionswandel era una concezione neurodinamica, che si opponeva al concetto tradizionale di «funzione elementare». La fisiologia dei sensi che von Weizsäcker aveva imparato da von Kries obbediva allo schema: stimolo eccitatore ― conduttore ― recettore; concepiva la variazione di soglia come conseguenza di uno stimolo impartito al recettore; presupponeva che i neuroni rappresentassero la struttura elementare, da cui ci si immaginava decorressero funzioni elementari. In una prima critica dell'elementarismo,

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del 1927, von Weizsäcker fa notare che quando si cercava di stabilire sperimentalmente che cosa sia una funzione elementare, ne risultavano grosse difficoltà 153. Nel cambiamento di soglia era come se la funzione mutasse attraverso l’esercizio stesso. Veniva introdotto così una specie di autoorientamento (Selbststeuerung), un movimento spontaneo (Selbstbewegung), impossibile secondo i principi del meccanicismo, ma coerente invece con il principio weizsäckeriano dell’«introduzione del soggetto» nella biologia. Sembrava che lo stato dell’organo avesse perduto la sua stabilità e la funzione avesse cominciato ad oscillare.

Il superamento del frammentarismo neurologico avvenne nello studio della sensibilità patologica. La curiosità del ricercatore si diresse verso un determinato gruppo di fenomeni, che non si potevano interpretare né «solo» psicologicamente, né «solo» organicamente: un ambito intermedio funzionale, che si poteva rappresentare fisiologicamente, ma che era anche interpretabile psicologicamente. Nel gruppo di fenomeni di cui si occupava la teoria delFunktionswandel erano dunque comprese sia sindromi organiche che isteriche. Le sindromi patologiche studiate, e spiegate attraverso il campo funzionale, furono soprattutto le agnosie e l’atassia. Una presentazione sistematica dei risultati ottenuti in campo clinico-patologico la si trova nel cap. II di Der Gestaltkreis, dedicato ai disturbi patologici del sistema nervoso.

La speranza di giungere a spiegare i sintomi clinici mediante un’analisi più sottile delle funzioni fisiologiche non si realizzò. Perché le funzioni elementari sono qualcosa che isola concettualmente l’osservatore o il teorico: nel processo vitale esse non appaiono. Qui invece si presenta la «situazione globale». A partire da questa diventano comprensibili le prestazioni (Leistungen) e i compiti dell’organismo. L’elementarismo fisiologico è sostituito dal «principio di prestazione» (Leistungprinzip) e dalla possibilità del campo funzionale per i singoli organi.

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La conclusione a cui giunge von Weizsäcker, dopo l’analisi sistematica dei disturbi del sistema nervoso che ha scelto di considerare, si apre sugli ulteriori sviluppi teoretici: «La breve escursione nel vasto campo dei disturbi atassici e agnostici ha mostrato che la patologia dei movimenti e delle percezioni nella forma della fisiologia classica non poteva essere descritta in modo soddisfacente e ci ha predisposto a sottomettere questo programma scientifico a una verifica. Questa dovrà giungere fino al fondamento dei suoi presupposti concettuali. Se tale è diventata la situazione, non è colpa della fisiologia, bensì del suo modo di pensare in modo classico. Sarebbe più istruttivo e più facile lasciar parlare la massa dei fenomeni della vita. Ma non c’è solo un “bisogno morfologico”, che siamo riusciti ad appagare, bensì anche un bisogno teoretico, al quale abbiamo obbedito. E in una teoria dei processi che avvengono nel sistema nervoso, che comprenda insieme i loro disturbi, una tale revisione della forma della scienza classica, che finora ha predominato, è ormai inevitabile» 154.

In che rapporto sta la teoria del campo funzionale con la fisiologia neurologica classica? Scrivendo le sue memorie, ad anni di distanza, von Weizsäcker ne fa una valutazione misurata, senza apologetica e senza discredito: «Si deve ammettere che la teoria dei neuroni e il principio della conduzione dell’eccitazione erano uno strumento semplice, chiaro e sperimentato della neurologia, e non lo si doveva mettere in discussione o sacrificare senza un motivo cogente. Il campo funzionale apparentemente non ruppe ancora col principio classico: si trattava sempre di funzioni, che venivano rappresentate come intercambiabili, e ciò che si poteva capire di questo cosiddetto cambiamento era che l’eccitazione poteva essere ritardata nel tempo. Con ciò non sarebbe ancora compromesso il saldo legame con l’anatomia e la fisiologia. Ma la teoria del campo funzionale e la sua applicazione mostravano

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però anche tratti che dovevano suscitare dubbi sul fatto che si stesse ancora sul terreno classico»155.

C’era un’intima contraddizione tra il voler interpretare il fenomeno patologico sul modello della fisiologia classica e il cercare allo stesso tempo l’elemento vitale, organismico, biologico dei fenomeni come oggetto proprio della ricerca. L’opposizione tra meccanicismo e vitalismo non era ancora superata. Un passo ben più consistente in questo senso sarà il passaggio alla teoria del «Gestaltkreis», in cui confluirà la poliedrica ricerca in campo sperimentale, clinico e di biologia generale, nonché la problematica filosofica sempre presente sullo sfondo.

I nuovi sviluppi teorici sono stati preparati da una serie di ricerche metodiche condotte nel suo laboratorio all’inizio degli anni ’30. La prima presentazione consolidata dell’idea del «Gestaltkreis» è apparsa nel 1933 156 ― lo stesso hanno in cui appare Körpergeschehen und Neurose: la coincidenza aiuta a visualizzare i diversi piani in cui si svolgeva la molteplice attività scientifica di von Weizsäcker ― .

Le radici più remote di questa teoria, che, superando il dualismo psicofisico, vuol rivoluzionare i concetti fondamentali non solo della fisiologia classica, ma della stessa scienza naturale, affondano in un’esperienza personale. Von Weizsäcker accenna a questo Urerlebnis in termini molto vaghi, come a un momento di ispirazione in cui l’originaria fusione di soggetto e oggetto, antecedente alla percezione di essi come elementi contrapposti (die ursprüngliche Ungeschiedenheit von Subjekt und Objekt), gli si è rivelata in maniera corporea-intellettuale 157.

Oltre a questa esperienza, che si situa su un piano misticointuitivo, possiamo individuare diversi elementi che hanno contribuito all’elaborazione della teoria. Diamo la precedenza,

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in ordine cronologico, alla problematica logico-metafisica che ha occupato la mente di von Weizsäcker fin dalla sua giovinezza. Alcune formulazioni del suo programma (come «superare la posizione kantiana verso l’oggetto», «introdurre il soggetto nella scienza») si riferiscono expressis verbis al problema della fondazione epistemologica della scienza.

In secondo luogo ricordiamo le ricerche di neurologia sperimentale, nonché la verifica delle ipotesi nel materiale patologico che faceva parte della sua attività clinica: abbiamo appena evocato una serie di prove sperimentali, condotte insieme ai suoi collaboratori, che l’hanno portato alla formulazione prima del cambio funzionale e poi del «Gestaltkreis» come teorie per rendere conto dei fatti 158.

L’idea del «Gestaltkreis» si è nutrita inoltre, più che dell’esperienza di laboratorio, dell’ambito di lavoro proprio del medico, cioè la clinica. Questa è il vero luogo in cui è avvenuto il rovesciamento della conoscenza della natura di tipo positivista. L’incontro con il malato, in cui emergeva una diversa percezione dell’essenza dell’uomo, doveva portare sia all’elaborazione di un’antropologia medica, culminata con la Pathosophie, sia alla teoria del «Gestaltkreis», attraverso il procedimento astrattivo proprio di una biologia teoretica.

Von Weizsäcker ha indicato esplicitamente l’imbricazione dell’idea di «Gestaltkreis» con il processo vitale del rapporto medico-malato: «L’idea del “Gestaltkreis” non era nient’altro che l’astrazione teoretica della forma di processo vitale che mi si era presentata nel rapporto del medico col malato» 159. La nozione di “incontro” contiene già in germe l’immagine di circolo. Nell’unità a due tra malato e medico era nascosta la profonda esperienza che la verità di un uomo non può essere trovata a partire da lui stesso come singolo

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individuo, bensì in un processo relazionale, da uomo a uomo. Ciò presuppone che l’atteggiamento di base sia quello “patico”, non quello “ontico”: il malato come oggetto di conoscenza si pone in assoluta distanza dal medico, mentre come paziente entra in una inseparabile vicinanza» 160.

Vogliamo prendere in considerazione, da ultimo, un altro spunto accennato fuggevolmente da von Weizsäcker, per ricostruire tutti gli elementi del suo cammino verso il «Gestaltkreis»: la radice costituita dall’antropologia «banale». «Un’antropologia per così dire banale, che però deriva da una tradizione filosofica, ognuno la porta con sé; la mia consisteva nell’idea di un uomo fatto di corpo, psiche e spirito. (...). Eppure questa antropologia banale in seguito si rivelerà un utile schema per rappresentare il nostro sviluppo. Dal problema dualistico dell’insieme psicofisico gradualmente doveva emergere il triadismo dell’insieme corpo-psiche-spirito» 161. Quello che qui von Weizsäcker non dice esplicitamente, ma lascia intuire al buon intenditore, è quanto lo schema triadico, nella sua versione di antropologia «banale», dipenda dalla tradizione cristiana, in cui von Weizsäcker era immerso anche per scelta cosciente, oltre che per portato dell’eredità culturale.

3. Principi metodologici di una scienza del vivente

L’introduzione scritta per l’edizione del 1946 del «Gestaltkreis» inizia con una riflessione che ci situa d’emblée nel punto nevralgico del progetto Weizsäckeriano di costruire una teoria dell’essere vivente: «Per fare ricerca sul vivente, bisogna essere personalmente partecipi della vita. Si può, certo, fare il tentativo di far derivare il vivente dal non vivente, ma questa

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impresa finora è fallita. Ci si può anche sforzare di rinnegare la propria vita nella scienza, ma a prezzo di un autoinganno. La vita la troviamo nel vivente; non deriva, bensì è già qui; non comincia, perché ha già avuto origine. All’inizio di ogni scienza della vita non sta l’inizio della vita stessa; bensì la scienza è cominciata nel bel mezzo della vita stessa, quando si è risvegliata la domanda. Il salto dalla vita alla scienza assomiglia quindi al risvegliarsi dal sonno. Non si dovrebbe cominciare perciò, come spesso è avvenuto, con la materia inanimata o con il corpo morto, magari enumerando gli elementi chimici che si trovano negli organismi. Il vivente non deriva dal morto»162.

In questa pagina vengono date le coordinate del punto di partenza della costruzione teoretica di von Weizsäcker. Abbiamo escluso precedentemente come momento germinale l’antropologia filosofica deduttiva. Pur essendo il suo un sapere scientifico, non si costruisce però partendo dall’anatomia del cadavere o dalla fisiologia degli animali vivisezionati negli esperimenti, come è tradizionale nella fisiologia classica; il punto di partenza è quello clinico-medico, vale a dire l’essere umano vivente 163.

Le conseguenze epistemologiche sono di grande peso. La distinzione corrente tra gli epistemologi tedeschi tra «erklären» (spiegare) e «verstehen» (comprendere), viene sconvolta. Il comprendere, considerato appannaggio della conoscenza di tipo ermeneutico, viene rivendicato per un settore abitualmente riservato alla conoscenza natural-scientifica (e quindi allo spiegare). Ciò può avvenire solo se non spezzettiamo analiticamente i fenomeni vitali, né li costruiamo sinteticamente a partire dagli elementi fondamentali, bensì ci facciamo «personalmente partecipi della vita».

Se la partecipazione alla vita e la comprensione della vita si includono reciprocamente, non possiamo assumere senza modifiche il concetto classico di scienza e aggiungervi semplicemente

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la vita, per formare una «scienza della vita», o biologia. In altri termini: la scienza del vivente non può procedere sul modo della «conoscenza oggettiva»; essa è una modalità del rapporto (Umgang) dei soggetti con gli oggetti.

Mentre la scienza risolve l’incontro tra soggetto e oggetto nell’obiettività, la teoria del «Gestaltkreis» parte dal presupposto che l’uomo è più che un oggetto tra oggetti; in lui il mondo si fa visibile, attraverso l’uomo e all’uomo il mondo parla 164. L’uomo è dunque il centro originario, a partire dal quale il mondo riceve forma; a sua volta il mondo stesso influisce su quel centro. Ritroviamo quindi l’idea di circolarità, che è iscritta nel termine stesso di «Gestaltkreis». La scienza del vivente non è più un sapere pietrificato: la scienza si lascia muovere dal suo oggetto e imprime un movimento all’oggetto stesso.

Questa «movimentazione» della scienza avviene mediante l’osservazione del movimento del vivente nella struttura della teoria stessa. Possiamo cercare di chiarire questo concetto servendoci di un esempio con cui lo stesso von Weizsäcker illustra la circolarità tra soggetto e oggetto nell’atto del tastare: «Se a occhi chiusi tasto una chiave, la forma e la sequenza degli stimoli sui miei organi del tatto dipendono dalla forma e dalla sequenza dei miei movimenti di tatto; la struttura dello stimolo (Reizgestalt) è perciò determinata da due lati: dall’oggetto e dalla reazione. Il processo globale possiamo ora comprenderlo come un processo circolare, in cui la catena delle cause e degli effetti si inverte in rapporto a ciò che conferisce al processo la sua struttura» 165. La forma della chiave, secondo l’esempio, non può essere stabilita unilateralmente, né a partire dall’oggetto, né a partire dal soggetto. Non possiamo neppure stabilire quali forze guidano

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e quali sono guidate. La struttura dello stimolo dipende dal movimento del tastare, come a sua volta la struttura dello stimolo determina il movimento del tastare. La struttura dello stimolo non è quindi determinata unilateralmente dall’oggetto, bensì da due lati: dall’oggetto e dal movimento che consegue. Abbiamo così tracciato il «Gestaltkreis», con la sua serie causale che subisce un processo di inversione.

Nella prefazione alla IV ristampa (1948), von Weizsäcker ha aggiunto delle osservazioni di tipo metodologico, sulla sua teoria derivandole dall’analisi del termine stesso. Osserva che «Gestaltkreis» ha il vantaggio di non evocare una chiara immagine visiva; il vantaggio, precisamente, di impedire un malinteso. «Il malinteso subentrerebbe qualora si tirasse la conseguenza che qui si sia giunti a una teoria attraverso la quale la percezione e il movimento sono portati a una tale unità che ne deriva un riposo, un equilibrio, una psicofisica senza contraddizioni. Ma non è questo il caso, né era questo lo scopo che si voleva raggiungere» 166. La specificazione è importante per quanto attiene all’applicazione del «Gestaltkreis» alla patologia. Se il «Gestaltkreis» fosse l’immagine di un equilibrio che viene distrutto nei casi di malattia, si potrebbe dire che è malato un essere il cui «Gestalkreis» non si realizza più. Ma non è così. L’essenza del «Gestaltkreis» è piuttosto la trasformazione e il divenire (Inbegriff eines Wandels und Werdens).

La difficoltà oggettiva del concetto di «Gestalkreis» dipende in parte da questa incapacità di rappresentarselo con immagini. Un’altra ragione individuata da von Weizsäcker può essere la rottura che esso domanda con il pensiero routinario: «Non è un danno se il libro è quasi inavvicinabile per i non specialisti; ma una mancanza di chiarezza per il lettore istruito sarebbe una grave obiezione. Quello però che da parte degli eruditi è stata chiamata mancanza di chiarezza, o almeno difficoltà, è in realtà qualcos’altro: è il contrasto con i concetti che non ci sono abituali»167.

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4. Analisi del «Gesyaltkreis»

A. L’unità della percezione e del movimento

Come primo passo von Weizsäcker cerca di presentare i due processi della percezione e del movimento, che dal punto di vista scientifico vengono considerati per lo più separatamente, nel loro reciproco intreccio; mediante questo tipo di approccio anche il rapporto dell’uomo col suo mondo si configura differentemente.

Il movimento dell’essere umano ― e in generale dell’essere vivente ― è un «movimento autonomo» (Selbstbewegung). Nel linguaggio quotidiano si dice di un animale: si muove, dunque vive. Concetti come «spontaneità» e «movimento autonomo» significano che «prendiamo in considerazione un soggetto, un essere che è attivo da sé e in rapporto a se stesso» 168. Se ci riferiamo, ad esempio, al mantenimento dell’equilibrio corporeo, è chiaro che il vivente è esposto a movimenti dall’esterno (per es. varie perturbazioni). Forze che agiscono dal di fuori colpiscono un essere capace di movimento spontaneo. Così avviene, per fare un esempio, quando si cammina: l’ambiente, cioè la natura del terreno, influenza il movimento autonomo. L’osservazione accurata del mantenimento dell’equilibrio corporeo e dell’adattamento al terreno nelle sue varietà ha fornito il seguente risultato: i movimenti in un ambiente naturale (non quindi quelli ottenuti con esperimenti su cavie o ricavati dall’anatomia dei cadaveri) non possono essere spiegati mediante le classiche coordinazioni dei riflessi. Azioni come lo stare in piedi (malgrado perturbazioni dall’esterno) e il camminare (malgrado i mutamenti del terreno), sono garantite dalla diversità delle innervazioni e delle coordinazioni. A partire da queste osservazioni, von Weizsäcker formula un «principio del conseguimento dello stesso risultato per vie diverse», valido per le azioni (Leistungen), contrapposto al «principio della conduzione per l’identica

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via», che si applica nel caso delle funzioni (Funktionen169.

L’analisi si sposta quindi sulla percezione. A differenza di quanto avviene per lo più negli esperimenti sulla fisiologia dei sensi, la percezione nell’essere vivente non si limita a un oggetto posto di fronte. Essa non può essere considerata separatamente dal riferimento alla vita. È sempre la percezione di un essere che si muove. Ciò facendo, noi percepiamo il nostro organismo come mosso, così come il movimento apparente degli oggetti dell’ambiente.

Prendiamo la percezione visiva. Se vogliamo percepire qualcosa, dobbiamo muoverci. Nell’uso linguistico diventa chiaro quando consideriamo le espressioni: «rivolgere gli occhi verso qualcosa», «seguire qualcosa con gli occhi» ecc. Se ci muoviamo, per esempio, attraverso la stanza, gli oggetti ci appaiono animati (è solo grazie alla naturalezza della prospettiva geometrica che possiamo valutarli come movimenti non oggettivi, bensì apparenti). Questi movimenti apparenti che derivano dal movimento del soggetto non sono necessari solo dal punto di vista geometrico, vale a dire della prospettiva, ma anche biologicamente. Distinguendo i movimenti percepiti in reali e apparenti, diventa possibile un orientamento nel mondo. Gli esperimenti, fatti da von Weizsäcker insieme ai suoi collaboratori, hanno dimostrato che, quando ci muoviamo, l’azione del percepire consiste nel mantenere la stabilità dell’ambiente. Riconoscere il movimento apparente è la condizione per quell’azione che consiste nel mantenere costante l’ambiente (Umweltkonstanz).

In sintesi, movimento e percezione sono azioni che si condizionano reciprocamente. La percezione «appare» mediante il movimento, così come il movimento, a sua volta, viene «condotto» dalla percezione.

Dopo l’analisi del movimento e della percezione, la prima parte, introduttoria, di Der Gestaltkreis sfocia in una trattazione

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dell’«atto biologico» 170. Dall’impossibilità di separare il movimento dalla percezione, senza che in qualche modo quel fatto unitario venga spezzato con violenza, von Weizsäcker conclude che «siamo legati all’ambiente e ai suoi oggetti con rapporti ben determinati, vi siamo ― per così dire ― incollati» 171. Questa modalità di contatto con l’ambiente von Weizsäcker la chiama «coerenza» (Kohärenz). Siamo sempre uniti all’ambiente, ma non siamo «montati» su di esso, come lo è l’animale. Le nostre coerenze vengono sempre di nuovo infrante, lacerate, per potersi subito di nuovo riannodare. Proprio questo continuo infrangersi e riannodarsi può forse far capire che cosa si intenda per «azione» (Leistung).

Per non perdere di vista un oggetto che si muove, dobbiamo rimanere uniti ad esso. Ciò avviene attraverso i nostri movimenti. In quanto nella percezione sono rivolto verso un determinato oggetto, devo «sacrificare» una determinata parte dell’universo visivo, a favore dell’oggetto prescelto. L’atto del vedere viene perciò reso possibile e determinato dal movimento autonomo. Un ottimo esempio può essere l’osservazione del volo di una farfalla. Se non ci muovessimo insieme ai movimenti del volo della farfalla, essa ci scomparirebbe dagli «occhi», il collegamento sarebbe spezzato e sostituito da qualche altro. Con il concetto di «atto» von Weizsäcker cerca di esprimere l’unitarietà dell’evento del vedere e del muoversi; e siccome si tratta di una osservazione che deriva dall’ambito di ciò che è vivente, parla di «atto biologico». L’azione ha successo solo se la percezione e il movimento formano questo atto unitario, dove sono reciprocamente intrecciati e confusi.

Questo punto di vista permette di superare la vecchia spaccatura tra soggetto e oggetto. La «monogamia con l’oggetto», che costituisce l’atto complessivo, è condizionata dall’azione negativa del «prescindere da». L’azione positiva del

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«dirigere lo sguardo» e quella negativa del «non considerare» sono nascoste l’una nell’altra. Percepisco la forma (Gestalt), appunto perché non osservo lo sfondo; ovvero: percepire la forma significa non percepire lo sfondo.

Un nascondimento analogo sussiste tra la percezione e il movimento. Abbiamo visto che il percepire è condizionato dal movimento, e quando appare una percezione è presente anche un movimento. Ma il movimento è nascosto rispetto alla percezione; vale a dire: quando sono attivo mi appare qualcosa ― la percezione è movimento ― ma la mia attività mi rimane celata. Il «prescindere da» della psicologia della Gestalt, la rimozione nella psicoanalisi e il reciproco nascondimento della percezione e del movimento rinviano tutti a un rapporto di esclusione che von Weizsäcker generalizza stabilendo il «principio della porta girevole» (Prinzip der Drehtür): «Se passo attraverso una porta girevole, vedo l’interno di una casa solo quando entro dentro; quando esco, non lo vedo più. Questo paragone può spiegare come il principio dell’intreccio (Verschränkung) sia un principio oggettivo della biologia. L’azione negativa non è dunque un’azione di un genere particolare, bensì questa espressione vuol indicare che nella conoscenza delle azioni biologiche abbiamo a che fare con l’esclusione del movimento» 172.

B. Il «Gestaltkreis»

La fisiologia classica era convinta che la legittimità della ricerca e la validità degli enunciati fossero garantite quando all’osservazione empirica facesse seguito la teoria esplicativa. L’oggetto (il mondo in generale) era solidamente dato, e doveva essere conosciuto gradualmente attraverso nuove osservazioni e tentativi di spiegazione teoretica. Questo processo doveva durare finché l’oggetto non apparisse «puro» e «definitivamente stabilito». Tale concezione sembrava valere

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indiscutibilmente per l’incontro con l’oggetto; altre non erano ammissibili.

Ma se il fenomeno non derivasse dal processo materiale, bensì fosse «l’uomo che insieme alla natura fa apparire ciò che appare»? 173. Il quadro di riferimento della scienza della natura classica ne risulterebbe sovvertito. Compito della scienza, in questa prospettiva, non è più quello di spiegare i fenomeni, bensì di generare la realtà, in un’unione di uomo e natura.

Per spiegare tale unione tra l’essere umano e l’oggetto, von Weizsäcker ricorre all’esempio del gioco degli scacchi: «Il giocatore non è uno scienziato, ma anch’egli è tanto un “osservatore” che un “teoretico”. Non che egli spieghi le mosse dell’avversario mediante la teoria (regole del gioco, calcolo); bensì è necessario che egli le supponga e poi aspetti se seguono o no. Se le conoscesse, non ci sarebbe partita; se non fosse possibile una supposizione, non ci sarebbe gioco. La realizzazione del gioco è dunque legata essenzialmente all’osservanza delle regole del gioco e alla libertà delle mosse, quindi al legame tra supposizione e osservazione, non al legame tra causa ed effetto secondo una legge. Non posso essere contemporaneamente giocatore e avversario, e la realtà del gioco si attua solo a condizione che io rimanga nell’indeterminatezza della mossa avversaria. Questa (parziale) indeterminatezza è la condizione oggettiva di tale evento. Possiamo parlare di un indeterminismo metodologico nell'origine di tale genere di realtà. Uno scienziato che conosca solo causa ed effetto è come l’osservatore curioso che guarda il gioco dal di fuori, sbirciando da una parte e dall’altra, ma non fa il gioco; conosce le regole del gioco, ma non ci fa niente con esse» 174.

Riconoscendo che è la possibilità e non la necessità che costituisce la realtà, è di nuovo possibile reintrodurre nella scienza l’idea di creazione, che una scienza della natura che presumeva

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di essere una scienza esatta aveva creduto di dover ' eliminare. Percezioni e movimenti sono incontri creativi con il mondo, sono qualcosa di originario e allo stesso tempo un risultato. Di fronte all'infinita ricchezza delle possibilità che offre l’esistenza umana, gli elementi e le funzioni anatomo-fisiologiche hanno il compito di limitare le possibilità di realizzazione. Se ci dessimo a tutto ciò che è possibile della realtà, la vita stessa si distruggerebbe. La limitazione è perciò una condizione della vita.

L’ultimo passo compiuto da von Weizsäcker nell’elaborazione della sua teoria del «Gestaltkreis» è il recupero di un concetto del reale che potremmo chiamare «parmenideo». L’introduzione del soggetto in biologia gli ha permesso di riportare a un ordine unitario ciò che era stato contrapposto come il lato soggettivo e oggettivo della natura. La modalità di ricerca che ha preso inizio in campo clinico e ha condotto a precise osservazioni in campo sperimentale, non poteva prescindere dal fatto della soggettività: proprio attraverso di essa, piuttosto, divenne sempre più forte l’intuizione di un profondo legame del soggettivo con l’oggettivo. Sono soprattutto i momenti critici della vita che fanno riconoscere tutta l’importanza del soggettivo.

Il fenomeno della «crisi» ha ricevuto un’adeguata descrizione e spiegazione nella filosofia esistenzialista. Prescindendo dall’esperienza di sé nella vita quotidiana, von Weizsäcker tiene presenti soprattutto i fatti critici che cadono sotto osservazione in campo clinico: collasso, mutazioni dello stato di coscienza nella schizofrenia, depressione, estasi, piacere, ebrezza 175. Le situazioni di crisi interrompono l’ordine della catena di cause normalmente riconosciuto nella vita, pongono in questione radicalmente l’esistenza dell’uomo, la sua soggettività. Il soggetto supera la crisi in quanto questo evento non prevedibile e tempestoso fornisce un nuovo quadro di vita, completamente diverso dal precedente, il quale, di nuovo, possiede quell’ordinamento stabile e quella struttura comprensibile che permette una nuova analisi causale.

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Il processo della vita consiste in una sequenza discontinua di atti biologici, di cui ognuno ha il carattere di un’azione (Leistung) originale, improvvisata e «gestaltica». La genesi della sequenza degli atti dipende dall’unità originaria del soggetto con l’oggetto, in una congruenza reciproca. Von Weizsäcker ricorda a questo punto la nozione di «accomodamento» (Anpassung) tra atti organici e processi naturali esteriori, familiare alla biologia già dal tempo di Darwin.

A un primo sguardo potrebbe sembrare che la vita, vista dalla prospettiva dinamica del «Gestaltkreis», si realizzi esclusivamente in modo attivo, autogeno. Ma il divenire dell’organismo soggiace anche all’ordinamento della morte: «non si potrebbe parlare dell'organismo e della vita in modo conforme a verità senza dire che la vita non è un processo lineare, ma che viene anche subita» 176. La modalità «patica» di esistenza del vivente si contrappone a quella «ontica». Nella crisi, nella svolta si forma il «soffrire la vita», e l’elemento «patico» emerge come una dialettica tra libertà e necessità. Perché anche nella crisi l’essere umano resta per una parte legato al mondo. Per un’altra parte, invece, la svolta è aperta, e potenzialmente tutto è possibile. Ciò che si intende con i concetti di «necessità» e «libertà», in ambito soggettivo viene descritto con «dovere» (müssen) e «volere» (wollen): «Il patico può essere descritto come origine del volere e del potere»177.

In quanto esseri viventi, siamo legati mediante un «rapporto fondamentale» (Grundverhältnis) con la realtà, il cui fondamento, però, non può mai diventare oggetto di conoscenza. In esso vige «un rapporto con un fondamento non oggettivabile, e non, come nella causalità, un rapporto tra cose conoscibili, come per esempio tra causa ed effetto» 178. La comprensione del vivente mediante il «Gestaltkreis» si apre, a questo punto, su una conoscenza della realtà che tradizionalmente è di spettanza della metafisica. Nella trasformazione

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incessante del divenire appare, in un eterno ritorno, l’origine durevole: la pace dell’essere.

La vita è solo apparenza; ma ciò che appare è l’essere stesso: in questo senso von Weizsäcker si allinea con Parmenide. «La sequenza delle forme assume dunque un ordine, non però quello del susseguirsi cronologico, bensì la sequenza dei fatti e delle conoscenze, dei livelli di vita e delle specie come ritorno. L’ordine della vita è così paragonabile non alla linea retta, bensì al cerchio, e non alla linea del cerchio, ma piuttosto al suo ripiegarsi su se stesso. Le forme si susseguono; ma la forma di tutte le forme non è la loro conseguenza, bensì il loro incontro in un eterno ritorno all’origine. Questo è l’inconscio motivo che ha portato alla scelta del nome “Gestaltkreis”. Esso è la rappresentazione del circolo della vita che si fa visibile in ogni apparenza di vita, un balbettio intorno all’essere» 179. Le parole che concludono il libro dedicato al «Gestaltkreis» rivelano tutta la portata dello sforzo teoretico di von Weizsäcker: oltre la spaccatura cartesiana tra soggetto e oggetto egli ha inteso superare anche l’opposizione tra essere e divenire, tornando agli interrogativi di fondo di Parmenide ed Eraclito.

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Epilogo

LA «MEDICINA ANTROPOLOGICA»: CONSEGUENZE ETICHE

Un libro recente dello psicanalista argentino Luis Chiozza si presenta con una curiosa prefazione: «Mio padre, quando ero bambino, mi spiegò un giorno, mentre gustavamo tutt’e tre una scatola di datteri, che piacevano molto a mia madre, che chi semina datteri non arriverà a mangiarli, a meno che sia giovane. Questo deve avermi fatto impressione, perché non l’ho mai dimenticato. Ci sono idee che sono come datteri: tardano molto a crescere; colui che le semina non vedrà i loro frutti. Ma i datteri esistono e li seminiamo, mentre mangiamo quelli che altri hanno seminato» 180.

Chiozza non dice se, nel formulare questa similitudine, avesse in mente Viktor von Weizsäcker. La cosa non è improbabile, dal momento che il libro appare in una colonna che si chiama «Biblioteca del Centro de la Consulta mèdica von Weizsäcker» e Chiozza non fa mistero, in questa come in altre sue pubblicazioni, del debito che ha nei confronti di von Weizsäcker per la propria concezione della malattia e della prassi terapeutica. Si può trovare seducente l’idea che qualche seme di dattero, mangiato ad Heidelberg qualche decennio fa, sia andato a crescere e a fruttificare in Argentina...

La metafora probabilmente sarebbe piaciuta allo stesso von

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Weizsäcker. L’influsso che egli ha esercitato nel rinnovamento del pensiero e della prassi non ha avuto un carattere eclatante, né una rapida diffusione. Non ha costruito un sistema; tanto meno ha voluto formare una scuola. Egli era consapevole che il rinnovamento che proponeva non era un semplice palliativo ai mali della medicina o un fronzolo aggiunto ad essa, bensì presupponeva una sua destrutturazione e ricostruzione in profondità. L’impresa è così ardua che ci vorrebbe un genio per realizzarla: «Mancava il Paracelso del nostro tempo; io in ogni caso non avrei potuto diventarlo, sia per mancanza di disposizione, sia per debolezza di convinzione» 181.

Scegliendo di sedere tra due sedie, von Weizsäcker non ha optato per la via della facilità. Ma le questioni scomode che egli ha posto sono risuonate al di fuori dell’ambito ristretto di singole discipline specialistiche, come semi di datteri, appunto, che vanno a fruttificare in terreni molto lontani da quello di origine. Come il terreno dell’etica. Il suo pensiero, la sua antropologia, nata dalla pratica medica e da una profonda riflessione su di essa, possono essere significativi per l’etica medica? È una domanda che acquista un notevole interesse in un periodo in cui le questioni etiche sono diventate centrali nella riflessione che accompagna i progressi della biologia e della medicina.

1. Programma: «umanizzare la medicina»

Negli interessi culturali del momento l’etica medica si presenta come un vecchio cavallo, su cui nessuno era disposto a scommettere, che improvvisamente sorprende con una rimonta che lo porta alle prime postazioni. Negli Stati Uniti, in particolare, i problemi etici della biologia e della medicina ― sotto il nome di «bioethics» ― hanno assunto nell’interesse generale il posto che alcuni anni fa occupavano i diritti

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civili, il femminismo, le proposte dei movimenti di controcultura o il pacifismo. Il movimento «human values in medicine», sostenuto da un ingente sforzo finanziario dal «National Endowment for the Humanities», è riuscito a invertire la tendenza che vedeva la medicina navigare sempre più lontana dalle questioni del senso e dei valori, che sono di casa nella filosofia e nella religione. Come dato di fatto, sappiamo che in pochi anni sono sorti corsi di «Humanities» o di bioetica nella quasi totalità di scuole di medicina. Oggi negli Stati Uniti, afferma Edmund Pellegrino, direttore del Kennedy Institute for Bioethics di Washington, su 125 facoltà mediche 116 hanno l’insegnamento di etica medica. Parallelamente va crescendo la creazione di comitati di etica negli ospedali e nelle istituzioni sanitarie 182. L’Europa sta seguendo la scia dell’America. Tra le numerose iniziative merita di essere citata almeno quella che ha il maggior peso di ufficialità: il Consiglio di Europa sta lavorando da alcuni anni alla creazione di un manuale su «La medicina e i diritti dell’uomo», destinato ai medici e studenti in medicina, per formarli a riconoscere e risolvere i problemi medico-legali, deontologici e morali che emergono nel campo della biologia e della medicina. All’etica medica, quindi, si fa sempre più ricorso per arginare la disumanizzazione della prassi medica e per tutelare l'«umano» in medicina.

Non possiamo che rallegrarci di questa esplosione di interesse. Tuttavia l’entusiasmo non è disgiunto da una certa riserva. Analizzando la produzione corrente, si ha facilmente l’impressione che l’attuale ricorso all’etica medica navighi su acque basse, rischiando ogni momento di arenarsi. Anche quando l’etica medica è concepita in modo rigoroso e ineccepibile dal punto di vista formale ― si pensi, in particolare, all’uso della logica per aiutare il medico nel processo del «decision making» 183 ― la causa dell’umanizzazione della

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medicina sembra servita solo superficialmente. Non si giunge alla vera radice dei problemi, al motivo per cui la medicina si rivolge contro l’uomo. Può essere quindi proficuo rivolgerci a von Weizsäcker, in quanto maestro nel porre questioni scomode, nello sconvolgere gli schemi interdisciplinari aprendo fronti interdisciplinari. Come apparirebbe agli occhi di Viktor von Weizsäcker l’etica medica oggi trionfante?

Anzitutto un’osservazione: von Weizsäcker ― fisiologo, medico, psicanalista, filosofo, teologo ― pur essendo aperto a tanti interessi, ha dedicato all’etica medica un’attenzione solo marginale. Sa, naturalmente, che la professione medica ha sempre coltivato, insieme alla diagnostica e alla terapia, un insieme di norme per regolare concretamente il comportamento medico: è il ricorso abituale all’etica medica, sotto forma, in particolare, di «ethos ippocratico». Riferendosi a questa tradizione, in cui il giuramento di Ippocrate ha il valore di «magna charta» costituzionale, i medici sono soliti affermare che un’alta carica di idealità anima la loro professione.

La posizione di von Weizsäcker rispetto a questa etica medica è piuttosto disincantata. Ne parla situandola nel contesto del problema della fiducia, all’interno del rapporto tra medico e paziente 184. In questo rapporto si instaura abitualmente fin dall’inizio una deformazione: in un rapporto che, essendo un incontro tra persone, dovrebbe essere paritetico, il trattamento insinua l’esigenza di una diversità: al medico va tutta l’autorità e il potere, mentre da parte del paziente è richiesta la fiducia. Quando questo rapporto si rompe o si incrina ― nel senso, per esempio, che il malato si accinge a ritirare la sua fiducia ― i medici adottano una strategia di difesa che consiste nel barricarsi dietro alla scienza, concepita come una grandezza impersonale 185.

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Un altro elemento di questa strategia è il richiamo all’etica medica: con questo riferimento la corporazione medica si tutela contro l’opposizione, e conferisce così all’etica medica un carattere di autodifesa professionale. L’etica medica ha quindi, secondo von Weizsäcker, un «carattere profilattico» 186.

La stessa etica medica svolge un’altra funzione di protezione per i medici: non solo nei rapporti di natura collettiva o sociale, ma anche in quelli privati, come sono appunto i rapporti che si creano nell’ambito di una consultazione medica. Anche qui il medico, che si dichiara idealmente discepolo di Ippocrate e professa di seguire un’etica medica, vuol rimediare a un deficit, reale o possibile, di fiducia. Stabilisce un ordine, un comportamento corretto, e vi si attiene. L’aspetto problematico di questa etica medica, osserva von Weizsäcker, sta proprio qui: questi regolamenti interni nella professione medica fanno sorgere l’impressione che, se il medico è discreto, se non allaccia relazioni amorose con i pazienti, se non procura l’eutanasia e non fa esperimenti sugli esseri umani, insomma se rimane «corretto», allora tutto è a posto. Mutuando un’espressione satirica di Mark Twain, il quale parla dell’«uomo buono, nel peggior senso della parola», si potrebbe dire che il rispetto delle norme deontologiche può servire a creare «il buon medico, nel peggior senso della parola»... Questa concezione dell’etica medica esercita un’azione tranquillante e ci impedisce di vedere un’infrazione nascosta, che risale a tutt’e due, al medico e al malato, e proprio per questo non emerge necessariamente in un’etica medica

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codificata. Sia il medico che il paziente rimangono tragicamente prigionieri della concezione contemporanea della medicina e della terapia, che è superata e che deve essere sostituita 187.

Le riserve di von Weizsäcker nei confronti dell’etica medica dipendono, dunque, da diversi ordini di considerazioni: essa ha carattere ideologico (maschera e giustifica, cioè, i rapporti di potere come sono concretamente esercitati all'interno della società e della professione); è stata storicamente inefficace a prevenire gravissimi abusi, come è avvenuto sotto il nazionalsocialismo188; porta il dibattito sulla umanizzazione della medicina a un livello troppo superficiale, senza cogliere la radice dei mali della medicina. In altre parole, von Weizsäcker prende le distanze da un progetto di umanizzazione che non parta da una critica epistemologica della medicina. Non basta aggiungere la morale alla medicina, lasciando quest’ultima tranquillamente installata nel suo statuto di scienza della natura che esclude lo specifico umano dalla sua teoria e dalla sua prassi.

È facile condividere il giudizio di von Weizsäcker sui progetti di umanizzazione che partono dalla morale. Il più sovente ciò a cui si fa riferimento non è neppure la disciplina filosofica che considera il comportamento umano alla luce dei valori, bensì, in senso molto più riduttivo, ci si riduce in pratica a «far la morale» ai medici o al personale sanitario.

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Si richiamano i medici e gli infermieri agli ideali umanitari e filantropici tradizionalmente connessi con le professioni terapeutiche, accusandoli di allontanarsi da essi in modo più o meno vistoso. I risultati di simili campagne di moralizzazione sono per lo più nulli, quando non addirittura controproducenti: coloro che si sentono accusati si chiudono in una difesa personale o corporativistica, o rispondono alle critiche, percepite come aggressione ostile, con altrettanta ostilità. Sulla base di una tale reciproca incomprensione non si può costruire nessun progetto di riumanizzazione della medicina. Si scava, piuttosto, un fossato sempre più ampio di indifferenza, proprio in un ambito in cui il rapporto di fiducia è tutto.

Dove ci porterebbe, invece, il progetto di riumanizzazione auspicato da von Weizsäcker? La sua strada passa per l’antropologia. Quella che all’inizio può sembrare una deviazione, si rivela invece, a una considerazione più profonda, come la via più diretta al cuore dell’etica. Una ricostruzione sistematica del suo progetto è possibile attraverso le formule predilette, che ricorrono costantemente nei suoi scritti: «introdurre il soggetto in biologia», «svolta dalla malattia al malato», «portare la psicologia in medicina». Tutt’e tre convergono sul programma globale della «Anthropologische Medizin». Presentiamo le tre formule, e i relativi approcci del problema patologico, distintamente, al fine di mettere meglio a fuoco i tre diversi ambiti in cui si è estesa l’attività scientifica di von Weizsäcker: la ricerca psicofisica sul vivente, la clinica e la psicoanalisi.

2. Il recupero del soggetto

Citiamo per prima la formula più spesso ripetuta per riassumere il suo pensiero: «introdurre il soggetto nella biologia». Nell’espressione è implicita una protesta contro l’approccio tipico delle scienze della natura, che all’inizio del secolo dominava la ricerca in campo biologico e medico. Il metodo

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analitico-sperimentale aveva prodotto una concezione meccanicistica anche dell’essere vivente.

Da studente i dubbi di von Weizsäcker contro il meccanicismo e il materialismo erano stati di natura filosofica 189; l’esperienza brutale della guerra, ma soprattutto la crisi di valori che seguì, lo aiutò a rendersi conto dei limiti intrinseci nell’ideale dell’oggettività scientifica in campo medico190. La medicina come scienza della natura, con tutto il suo apparato tecnico e concettuale, è messa in discussione quando risulta che i suoi presupposti generali sulla natura dell’uomo malato sono, se non falsi, decisamente insufficienti 191.

Rivendicare l’introduzione del soggetto nel campo delle scienze biologiche voleva dire sciogliere l’incantesimo dell’oggettività, ritrovare quelle componenti della malattia come fatto dell’essere vivente che sfuggono al microscopio. Il programma dell’introduzione del soggetto ha influenzato anche le originali ricerche di von Weizsäcker in biologia e nella fisiologia della percezione, culminate nella teoria del Gestaltkreis. Il suo approccio alla soggettività spezza il tradizionale rapporto soggetto-oggetto e instaura una concezione della totalità nella quale il soggetto stesso è incluso a titolo di modulatore espressivo.

Si può presentare in modo globale il progetto perseguito da von Weizsäcker anche parlando della svolta dalla malattia al malato, che culmina nella «medicina antropologica». Questo movimento riconosce la propria paternità nell’opera clinica e teorica di von Weizsäcker; tuttavia gli apporti concettuali che sono confluiti nella «medicina antropologica» provengono da diverse fonti. Nell’insieme presuppongono quella «crisi della medicina» che divide in due versanti la storia

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della medicina contemporanea. Essa è caratterizzata soprattutto dalla ricerca di un nuovo contatto con la vita dell’uomo, rivolgendosi all’uomo malato, invece che alla sola ricerca della causa della malattia.

Anche questo era qualcosa di nuovo che aveva fatto irruzione dopo la catastrofe della guerra mondiale. Si trattava di una nuova medicina clinica, che trovava in Ludolf von Krehl la figura di maggior prestigio e nella sua Pathologische Physiologie un rispettabile tentativo della medicina nel primo terzo del secolo di armonizzare i risultati della patologia sperimentale con la considerazione della personalità del malato. «Le malattie come tali non esistono; noi conosciamo solo uomini malati. Quel che prendiamo in considerazione non è l’uomo in quanto tale (anche questo non esiste), bensì il singolo malato, la singola personalità» 192: questo programma di von Krehl costituiva un rivoluzionamento di quella clinica che derivava dalla medicina come scienza naturale.

Quando nel 1920 von Weizsäcker, abbandonati i lavori di patologia sperimentale, passò all'insegnamento di neurologia all’università di Heidelberg, nella quale von Krehl aveva assunto nel 1907 la cattedra di clinica medica, entrò direttamente nell’orbita del grande clinico. Lo stimò e ne fu molto influenzato. Egli ha dedicato al maestro un lucido discorso commemorativo, in cui ha messo in evidenza che cosa comportasse per la medicina incamminarsi per la strada antropologica. Voleva dire, tra l’altro, che non è solo la scienza che struttura la malattia: «è il malato che la struttura, perché egli è una libertà, anzi un mondo a sé, dotato di volontà, consegnato alla fede; è una personalità, nel bene e nel male. E il medico struttura la malattia con lui, perché è della stessa materia. E perciò è necessario anche strutturare il medico» 193.

Nello stesso bilancio dell’opera di Krehl, von Weizsäcker riconosceva due ali nella sua scuola: la prima più incline alla

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vecchia scienza della natura, la seconda più sensibile alle dimensioni psichico-politiche della malattia. Von Weizsäcker va situato in quest’ultima. Contribuì validamente a spostare il centro di gravitazione della medicina verso problemi come: psiche e corpo, lavoro e malattia, nevrosi e politica sociale.

L’opera a cui von Weizsäcker ha dedicato la sua vita può essere anche descritta con una terza formula: l’introduzione della psicologia in medicina. La psicologia a cui andava il suo interesse non era certo la psicologia di Fechner o lo «strutturalismo» di Wundt, quella psicologia cioè che nasceva con il programma di usare il metodo delle scienze sperimentali per capire la mente. Contro di essa von Weizsäcker aveva le stesse riserve che lo avevano portato ad allontanarsi dalla medicina come scienza della natura. La psicologia che destava l’interesse del neurologo di Heidelberg era quella dinamica. Solo questa gli permetteva di rendere giustizia al soggetto e di introdurre la variabile «personalità» nella medicina clinica.

In uno scritto autobiografico dal titolo: «L’intento principale della mia vita», von Weizsäcker ha fatto le dichiarazioni più esplicite sul posto che intendeva riservare alla psicologia in medicina: «Il progetto di introdurre la psicologia in medicina non consiste solo nel fatto che il gruppo ristretto delle malattie psichiche ― come l’isteria, le nevrosi ossessive o le psicosi ― debbono essere considerate come psichiche. Questo è stato sempre fatto. Si tratta piuttosto della questione se ogni malattia ― della pelle, dei polmoni, del cuore, del fegato o dei reni ― sia anche di natura psichica. Posto che sia così, il modo di vedere esclusivo delle scienze della natura, che è invalso finora, conteneva un errore, un errore che naturalmente doveva avere anche determinate conseguenze. Se infatti l’origine e il decorso delle malattie sono anche di natura psichica, si può allora supporre che il processo psichico non sia presente solo in modo secondario, ma debba piuttosto avere una funzione propria e decisiva, di guida all’evento, mentre l’elemento corporeo è solo un prodotto secondario di quello psichico. Ma se è così, ne segue una

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vera e propria rivoluzione della nostra concezione della natura umana e della sua malattia; perché, allora, in questo campo regnano le leggi della psicologia ― sempre che in questo campo esistano leggi» 194.

Questa e analoghe affermazioni hanno guadagnato a von Weizsäcker la fama di rappresentante della medicina psico-somatica. Il mondo accademico ha voluto vedere il suo contributo alla medicina interna nell’aver messo in evidenza l’influsso della psiche sulla malattia. Von Weizsäcker non era d’accordo con questa formulazione 195. La medicina psicosomatica non era ancora il superamento della dicotomia cartesiana in medicina: von Weizsäcker la chiamava «medicina prima della crisi». La sua medicina antropologica perseguiva un programma molto più radicale. Con un’altra formula suggestiva, von Weizsäcker parla di «introduzione della morale nella conoscenza». Ecco la citazione nel suo contesto, così come la troviamo nello stesso scritto autobiografico: «Se è vero che ogni malattia contiene sia un valore che un disvalore biografico; se io la mia malattia la ricevo tanto quanto la faccio; se essa è la soluzione di un conflitto, anche se non una buona soluzione; se il processo patologico è un oggetto che contiene un soggetto; se, per ricorrere ancora a un esempio, il danno al muscolo cardiaco è solo una traduzione e una rappresentazione materiale di un fallimento nell’amore, di un’angoscia che deriva da una colpa o che si esprime attraverso una colpa: se tutto questo è vero, non abbiamo introdotto solo la psicologia nella patologia, ma con la psicologia abbiamo introdotto anche l’oggetto del sentimento e della volontà, la colpa stessa, l’amore stesso, l’odio stesso e così via: la cupidigia, la vergogna, l’astuzia, la ragione, il fiorire e il tramonto delle passioni. Anche per la conoscenza delle passioni la cultura riflessa, che ha rinunciato all’ingenuità, ha creato una specie di scienza, il cui nome è la morale. In altre

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parole, il vero senso della psicologia moderna è l’introduzione della morale nella conoscenza» 196.

Da quando è stata fondata la medicina scientifica ad opera dei greci ― da quando cioè si è scoperto che nelle cose della malattia vige la stessa oggettività che regola la natura ― la medicina ha voltato le spalle alla religione; con la svolta positivistica, ha rinunciato anche all’uomo. «Finché scienza e religione ― affermava von Weizsäcker ― sono separate runa dall’altra, ci serviamo della psicologia».

Alla psicologia, che introduceva nella scienza medica una densa problematica antropologica, von Weizsäcker ha avuto accesso ad opera di Freud. È universalmente riconosciuto a von Weizsäcker il merito di essere stato tra i primi rappresentanti della medicina accademica a prendere sul serio la psicoanalisi. Ciò gli ha valso la simpatia degli psicoterapeuti, ma lo ha isolato tra gli internisti. D’altra parte, von Weizsäcker non è diventato egli stesso psicoanalista: ha inteso rinnovare la medicina clinica a partire da una base antropologica in cui confluivano anche le conoscenze della psicoanalisi, ma rimanendo egli stesso internista. Introducendo la psicologia nella medicina interna, voleva fondare una patologia generale che non separasse le malattie psicosomatiche e organiche, ma le unisse 197.

Abbandonando il dualismo cartesiano, per lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche, von Weizsäcker progettava una medicina all’insegna di una duplice fedeltà: la fedeltà a von Krehl e la fedeltà a Freud. La sua fu una fedeltà creativa. Con la sua medicina antropologica apriva alla comprensione della malattia un ambito che la medicina come scienza della natura si era precluso. Per dirlo in modo sintetico, con le sue stesse parole: «La malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio la sua possibilità di diventare se stesso» 198.

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Questa formulazione si articola in due parti: l’essere e il poter/dover essere, cioè l’antropologia e l’etica. Da una parte, dunque, il malato è la sua malattia. Questa è un’affermazione molto cara a von Weizsäcker, spesso ricorrente nei suoi scritti. Essa presuppone una concezione antropologica in cui l’essere umano è visto come totalità integrata. Per recuperare la visione della totalità, bisogna andare controcorrente rispetto alla medicina contemporanea, che ha preso la via della frammentazione e della specializzazione. Il terapeuta ha perso di vista il fatto che dietro il singolo organo malato c’è la totalità del soggetto.

Una brillante invenzione letteraria, contenuta nel romanzo di S. Rushdie I figli della mezzanotte, può esserci di aiuto per illustrare la situazione creatasi nella medicina dei nostri giorni. Nel romanzo, che è ambientato in India, un giovane medico, specializzatosi in Europa, viene chiamato a visitare la figlia di un signore locale. La ragazza accusa un dolore intestinale. Secondo i costumi locali, il medico potrà visitarla solo mediante un espediente: un grande lenzuolo, su cui è stato praticato un buco, nasconde il resto del corpo, salvo la parte malata. Scomparsi i dolori intestinali, dopo qualche giorno è la volta del ginocchio destro, poi della caviglia sinistra, poi della spalla... e così via. Il lenzuolo con il buco, manovrato dalle domestiche, si sposta, lasciando vedere, l’uno dopo l’altro, frammenti di corpo. Solo dopo tre anni, finalmente, un provvidenziale disturbo agli occhi della ragazza permetterà al buco del lenzuolo di inquadrare il suo volto. Vedendosi, il medico e la paziente si scambieranno un sorriso di intesa e di amore. La sequenza delle malattie si rivelerà allora come un astuto stratagemma della ragazza. Le singole parti del corpo appartenevano a un soggetto desiderante, che si fa riconoscere come tale ed è capace di accendere un analogo desiderio.

La medicina antropologica di von Weizsäcker, introducendo il soggetto, attua una duplice operazione: recupera la totalità, in una prospettiva olistica, e indica la presenza, dietro ogni malattia, di un soggetto desiderante. Questi struttura

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la sua malattia, ne fa un elemento della propria biografia, dice, con il linguaggio del corpo, qualcosa a se stesso e al suo ambiente. Solo se si tiene presente ciò che la malattia è (antropologia), tenendo uniti fattualità e significato, si può aprire la malattia al poter essere del malato (etica); ovvero ― usando l’espressione di von Weizsäcker ― considerare la malattia in quanto essa offre al malato «la possibilità di diventare se stesso».

3. Un’etica della responsabilità in medicina

La proposta antropologica ed etica di von Weizsäcker lascia vedere la sua peculiarità solo nel paragone col modello che prevale nella medicina corrente. Questo si basa sul presupposto implicito che solo l’esperto, cioè il medico, sa spiegare la malattia, mentre il malato è all’oscuro rispetto a ciò che sta avvenendo in lui. Inoltre questi non ha praticamente rapporto con la propria malattia, né con la propria salute. Se cade malato, è perché diventa «vittima» di un capriccio della natura, di un virus o di un germe patogeno, oppure di un programma genetico sbagliato... Anche la guarigione, in questa prospettiva, è qualcosa che avviene al di fuori della persona del malato. Essa va attribuita al medico che ha fatto la diagnosi giusta, o ha prescritto l’antibiotico appropriato, o al chirurgo che ha fatto l’operazione necessaria. Il solo contributo del malato è di attenersi alle prescrizioni del medico e di non intralciare la sua opera. L’azione del medico è tutta rivolta all’eliminazione del disturbo. Quando ciò avviene, l’individuo torna in salute. La malattia? Un inutile incidente! In questa concezione tutto ha una sua coerenza interna: «la medicina diventa una scienza degli errori, la clinica un’officina per le riparazioni, la tecnica l’eliminazione dei disturbi»199.

La vera questione etica di tutta la medicina emerge quando

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tocchiamo quel rapporto fra medico e paziente che sostiene la struttura della medicina scientifica. In questo rapporto avviene una trasmissione di responsabilità al medico: chi si scopre un disturbo, che intralcia il proprio benessere, si aspetta dal medico che glielo elimini; e il medico attende da se stesso la capacità di eliminarlo. La malattia (il sintomo, il disturbo) viene privata di ogni senso personale. Von Weizsäcker parla di Es-Stellung nei confronti della malattia: essa è un non-Io, qualcosa di spiacevole che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno. Al polo opposto troviamo la Ich-Stellung, che si realizza quando il malato accetta di essere il soggetto «strutturante», tanto della propria malattia, quanto della propria guarigione 200.

La teoria e la prassi della medicina preferiscono adottare la Es-Stellung. La responsabilità di questa situazione va attribuita ai medici? La resistenza dei medici ad accettare il soggetto ― e quindi il significato personale della malattia in medicina ― è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento del programma di antropologizzare la malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione all’essere malato e dove si è chiamati ad assumersi la propria responsabilità. Von Weizsäcker, da acuto osservatore, nota: «I malati si aggrappano all’Es per sfuggire all’“Io”, ed esercitano una seduzione sul medico perché percorra con loro questa via che offre minore resistenza. La seduzione è dunque reciproca». L’opposizione a interpretare psicologicamente la malattia è perciò, semmai, il risultato di una collusione tra il medico e il paziente. Questa opposizione è così forte ― osserva ancora ― che è difficile credere che derivi dalle creazioni più superficiali della psiche: «Si ha l’impressione che

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il malato non solo sperimenti la naturale estraneità della sua malattia all’io, ma ne abbia bisogno»201. I medici si comportano da medici perché tanti pazienti desiderano rinunciare alla loro responsabilità per la propria salute.

Il vero rinnovamento in medicina non può avvenire se non si giunge a intaccare il rapporto fondamentale tra medico e paziente. Proprio dall’etica riceviamo quindi la principale spinta a costituire una scienza medica come scienza del soggetto.

Che cosa cambierebbe, se si accettasse di riconsiderare la pratica medica da questo punto di vista? Non sono in grado di disegnare profeticamente questo nuovo volto della medicina. Vorrei dare però un contributo a questa progettazione, immaginando che il futuro rapporto medico-paziente, all’interno di una concezione della malattia che si ispiri al modello antropologico di von Weizsäcker, e quindi pienamente umanizzata, obbedisca al modello di rapporto interpersonale soggiacente alla cosiddetta «preghiera della Gestalt». È anch’essa un singolare seme di dattero, che dal suolo tedesco ― Fritz Perls, il fondatore della «Gestalt therapy», era berlinese ― è andato a fruttificare in terra d’America, per tornare ora a noi in Europa. Dice testualmente quel programma:

I do my thing You do your thing.

I’m I,

You are you.

I’m not in this world to live up to your expectations

And you are not in this world to live up to mine.

If we meet that’s beautiful.

And if not it can’t be helped.

L’orizzonte utopico di questa «preghiera» è un mondo in

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cui ognuno prenda la sua responsabilità: esattamente quella che gli spetta, e non più di quella. Ognuno fa la «sua cosa»: la cosa del malato è di appropriarsi della sua malattia, condizione per diventare protagonista della sua guarigione. La condizione di ignoranza del medico rispetto al significato biografico-esistenziale della malattia non è un handicap. Né al medico è richiesto di fingere una onniscienza che non ha. Il suo non-sapere a livello biografico lascia uno spazio che eventualmente il malato stesso può riempire con il suo poter/voler sapere.

La «cosa» del medico non è di guarire il malato: solo questi lo può fare. Il malato può intendere la guarigione come semplice eliminazione di un sintomo o, più profondamente, come crisi biografica che gli permette di diventare se stesso. Il medico che agisce nei limiti della propria responsabilità non sovrappone i suoi fini a quelli del malato: si tiene quindi lontano da ogni forma di «accanimento terapeutico». Quando medico e malato smettono di raccontarsi la favola che è il medico a procurare la salute al malato, cessano anche di vivere secondo le aspettative l’uno dell’altro.

Anche la cessazione della compiacenza reciproca crea uno spazio per la libertà e la responsabilità. Il paziente può completare allora la sua «cosa», facendo della malattia un’esperienza di apprendimento, che cambia la vita. E il medico porta a termine la sua, senza pretese di grandiosità, senza paludamenti missionari o filantropici, nell’umile grandezza di un’arte tecnica.

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Appendice

TESTI ANTOLOGICI

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I

IL RAPPORTO TRA VIKTOR VON WEIZSÄCKER E SIGMUND FREUD

1. Lettera di S. Freud a V. von Weizsäcker

Wien IX 16-10-1932

Berggasse 19

Chiarissimo Professore,

l’invio del Suo manoscritto non ha bisogno di scuse, anzi provoca il ringraziamento, perché leggendolo ho goduto di appagamento e stimolo in rara misura. Vorrei fare partecipi di ambedue anche i miei amici, perciò vedrò molto volentieri la pubblicazione del Suo studio ― in una redazione abbreviata, se vuole, nella nostra rivista, se lo desidera.

Le Sue esitazioni, che a me conviene opportunisticamente rimproverare, non so né apprezzarle né capirle, ma io penso che non è su questo punto che Lei desidera la mia critica aperta. Non La spingerò perciò a nessun passo, che Lei non voglia fare volentieri. Non posso dubitare che la soluzione analitica del Suo caso sia corretta. Egli è, conformemente alla fortissima componente omosessuale, un paranoide ― certo meno facile da capire che una pura «nevrosi da transfert». Ma appunto questo genere di malati si distingue spesso per la sua capacità di autopercezione psichica e di espressione nel «linguaggio corporeo»: sono perciò particolarmente istruttivi.

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La spiegazione del disturbo della funzione, in questo caso la minzione, mediante l’erotizzazione imposta agli organi urinari, corrisponde perfettamente alla teoria analitica, che io ho tentato di spiegare una volta con il banale paragone di un padrone che abbia iniziato una tresca amorosa con la cuoca, certo non a vantaggio della cucina. Lei ci mostra il fine meccanismo del disturbo, in quanto indica le innervazioni opposte, che devono eliminarsi o confondersi a vicenda. Io ho dovuto tener lontano gli analisti da tali ricerche, per motivi pedagogici, perché innervazioni, dilatazione vascolare, funicoli nervosi sarebbero state tentazioni troppo pericolose per loro: dovevano imparare a limitarsi a pensare in modo psicologico. Siamo riconoscenti all’internista per l’ampliamento della nostra prospettiva.

L’altra parte del Suo lavoro, in cui Lei cerca di stabilire i punti di vista comuni per la malattia psichica ed organica, ci porta qualcosa che per noi è nuovo e ci fa tendere l’orecchio, appunto perché osservazioni occasionali ci hanno fatto avvicinare ai confini di questo territorio inesplorato. Siamo diventati attenti ai fattori psicogeni delle malattie organiche; abbiamo potuto capire che spesso una malattia subentra a una nevrosi; anche la stupefacente immunità di alcuni nevrotici rispetto a infezioni e raffreddori e la perdita di essa dopo il miglioramento psichico non ci è passata inosservata. I punti di vista comuni ad ogni malattia-interruzione, svolta, crisi ecc., ci preparano grandi novità. Forse è inevitabile dire che noi siamo più colpiti che convinti dalle ricche argomentazioni speculative che Lei adopera, e che alcune astrazioni ci hanno dato l’impressione di una provvisorietà, a cui non ci si deve aggrappare. Anche in alcuni dettagli vorrei osar fare qualche obiezione. La frase di Scheler, che ciò che è psicologico è illogico, non mi fa impressione: una di quelle trovate brillanti per le quali io ce l’ho sempre avuta con i filosofi. Come dato di fatto c’è solo che per l’inconscio non esiste alcuna frase contraddittoria e che solo il lavoro del pensiero dell’io deve fare una sintesi. Anche la concezione del sintomo delle nevrosi attuali devo difendere dalla sua critica. Siamo

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lieti di avere incontrato qui la causa tossica diretta, e ci opporremo con tutta la forza se qualcuno in nome della coerenza psicoanalitica ci attribuisse di spiegare psichicamente i dolori di testa e i disturbi di stomaco che fanno seguito a una sbornia. È strano che si sia scontenti di noi, se per una volta ci siamo sforzati di tener conto dell’influsso organico diretto.

Non intendo proseguire nel cercare questi piccoli contrasti. Il Suo lavoro, l’intero orientamento della Sua attività, ci aprono prospettive così piene di speranza, che sarei deluso, se conducessero solo a una corrispondenza e a uno scambio di pensiero tra Lei e me.

Con distinti ossequi, Suo

Freud

P.S. Voglia disporre della sorte del manoscritto.

2. L’incontro personale con Freud

Una volta in vita Viktor von Weizsäcker e Sigmund Freud si sono incontrati personalmente. L’incontro avvenne nel 1926, mentre von Weizsäcker era docente di neurologia ad Heidelberg. L’episodio rivestiva una grande importanza simbolica per von Weizsäcker, che lo racconta dettagliatamente nella sua autobiografia (Natur und Geist, München 1964, pp. 123-125). Ne riportiamo una traduzione.

«Ho preso io l’iniziativa della visita. Desideravo ringraziare quest’uomo perché attraverso il suo aiuto mi si è spalancata una nuova dimensione nella professione medica e la mia attività professionale, che minacciava di essere rigida e arida, ha ricevuto un’infusione di vita. Mi riferisco all’apertura alla dimensione psichica del fenomeno vivente. Un passo nient’affatto ovvio, che ha significato anche l’intervento in un ambito privato, personale e vulnerabile, il quale avrebbe fatto tutta la resistenza possibile, anzi si sarebbe vendicato per l’intrusione non desiderata. La medicina di scuola non forniva criteri per stabilire i modi e i limiti di un tale modo

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di procedere. Si giungeva invece a posizioni di conflitto con autorità come la chiesa, la filosofia o la società. Questo contesto rende comprensibile quel che mi è rimasto nel ricordo di quel colloquio.

Ho spiegato a Freud che non mi sono mai sottoposto personalmente a un’analisi. Non l’ha presa in modo tragico. Gli ho detto che quel po’ di nevrosi che certamente avevo anch’io, potevo anche tenermela. Rispose che non è assolutamente necessario analizzare ogni caso: a molte persone fa bene frequentare un uomo significativo; si sa anche che alcune nevrosi si guariscono attraverso una grande felicità o un grande dolore. Il medico però non le ha a disposizione, per cui deve scegliere un’altra strada.

Si passò poi a parlare di quanto siano ampi i campi di applicazione. Freud riteneva che per la psicoanalisi ci sarebbe stato materiale ancora per una cinquantina d’anni. Ricordò, per esempio, la psicologia delle tribù matriarcali in Africa, presso le quali il complesso di Edipo si rivolge, invece che contro il padre, contro il fratello della madre, perché è questi che rappresenta l’autorità della famiglia.

Alla mia domanda sul conflitto con le autorità vincolanti, in particolare della religione cattolica, mi sembra che Freud abbia dato una risposta evasiva. Disse infatti: “Noi (cioè gli psicoanalisti) crediamo sempre di aver trovato la strada per rispettare e risparmiare questi ambiti nel malato”.

Il futuro di un’illusione di Freud è apparso solo alcuni anni più tardi, e io non posso credere che le sue idee sul carattere nevrotico e illusorio della religione non si fossero ancora formate. Anche alcuni tentativi epistolari da parte mia di indurlo a parlare di questo argomento non ebbero alcun successo. Invece per un’altra strada ho potuto portarlo là dove si trovava di fronte a problemi che altrimenti teneva nascosti, e forse a dubbi insuperabili. Gli ho domandato cioè se la psicoanalisi sia un processo terminabile o interminabile. Dopo una pausa, disse con esitazione e a bassa voce: “Interminabile, credo”. Con ciò si diceva certamente di più che con quell’affermazione discutibile che si poteva sempre risparmiare

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la religione degli analizzandi. Mi sembra che nella risposta sia contenuto che la psicoanalisi va oltre la vita temporale della psiche. Ma questo lo fa anche la religione, e allora non si può più sfuggire alla questione se la psicoanalisi non abbia preso il posto della religione. Freud però non fece fatica a lasciare anche questa volta il terreno scottante, dicendomi che voleva comunicarmi in confidenza che alcuni dei suoi scolari, quando sono per così dire nevrotizzati dall’eccessivo materiale analitico ricevuto nel lavoro terapeutico, si sottopongono essi stessi di nuovo all’analisi; ciò avviene ogni certo numero di anni. C’era più benevolenza che rispetto nel modo in cui Freud parlava dei suoi adepti. Nel complesso mi sembrò che Freud fosse tediato dalla sua scuola e non ne avesse più bisogno.

Al momento del commiato divenne chiaro che l’incontro non era del tutto scivolato liscio al di sopra dei sotterranei tempestosi della lotta spirituale. Eravamo già in piedi; e siccome non sempre si trova subito la parola per concludere, interruppi la pausa che si era creata con un’osservazione forse più onestamente sentita che appropriata. Dissi cioè improvvisamente che mi sembrava una coincidenza singolare che la mia visita cadesse proprio nel giorno dei morti (Allerseelentag: letteralmente, in tedesco: “il giorno di tutte le anime”). Era appunto quel giorno. L’esito inatteso fu che Freud stupito domandò: “Come?”. Io caddi piuttosto in confusione e cercai di chiarire che “come professione secondaria ero anche un po’ mistico”. A queste parole si rivolse bruscamente verso di me e mi disse con uno sguardo quasi inorridito: “Ma è terribile!”. In modo conciliante dissi: “Voglio dire con ciò che c’è anche qualcosa che noi non sappiamo”. Al che egli: “Oh, in ciò io sono più ignorante di lei!”. Il suo tono afflitto e la rapida deviazione dal tema hanno dimostrato, credo, che questa volta lo diceva proprio sul serio e forse hanno anche mostrato che un po’ mi voleva bene. Deve aver detto ancora qualcosa sull’intoccabilità della ragione, ma io non l’ho ascoltato, oppure ho dimenticato. Per salutarmi mi ha dato la mano con un ampio movimento di tutto il braccio. Si era

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creata una simpatia, rimasta immutata anche in seguito».

3. Nota: la religiosità di Viktor von Weizsäcker

L’«incidente» con cui si è concluso l’incontro con Freud (quell’accenno al soprannaturale non programmato, sfuggitogli quasi come un «lapsus») ci offre l’opportunità di completare la presentazione della personalità di V. v. Weizsäcker con un accenno alla dimensione religiosa della sua esistenza. La religione era una realtà molto presente nella vita di von Weizsäcker. Aveva respirato il cristianesimo evangelico in famiglia: suo nonno Cari era stato un noto professore di esegesi neotestamentaria a Tubinga. Egli stesso nella sua gioventù aveva tenuto discorsi nella Peterskirche di Heidelberg, pronunciandosi per una unione tra fede e scienza: così come altri intellettuali tedeschi del periodo tra le due guerre, vedeva nella caduta del mito dell’oggettività scientifica, che non lasciava alcuno spazio per l’esistenza religiosa, l’emergere di una nuova problematica, in cui la religione fosse non contro l’uomo, ma a suo servizio 202. È l’ambiente culturale che vide la folgorante affermazione di K. Barth e della teologia dialettica.

Della singolare esperienza costituita dalla creazione di una rivista teologica a dimensione ecumenica, «Die Kreatur», pubblicata tra il 1926 e il 1930, abbiamo riferito più sopra. I tre articoli pubblicativi da von Weizsäcker costituiscono una coraggiosa esplorazione della categoria teologica della «creaturalità», interrogata con sensibilità di medico 203. Tuttavia von Weizsäcker era alieno da qualsiasi facile concordismo o strumentalizzazione apologetica. La religione costituiva, come si è espresso una volta, «la metà nascosta della sua esistenza».

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Interrogato, in occasione dell’accademia evangelica tenutasi a Bad Boll, sulla sua posizione di fede, von Weizsäcker ― insignito di un dottorato in teologia «honoris causa» ― rispose seccamente: «Io? Io sono ateo!» 204. Schivo e ombroso nelle manifestazioni pubbliche della sua religiosità, von Weizsäcker attingeva segretamente nell’antropologia cristiana gli stimoli al rinnovamento della medicina. Aveva fatto suo con entusiasmo ciò che Andreas Lou Salomé gli aveva detto in una lettera: che malgrado tutti gli stupefacenti successi della psicoanalisi, le restava l’impressione che il mistero della corporeità fosse ancora maggiore di quello della psiche 205. Nessuno sarebbe forse riuscito a far ammettere a von Weizsäcker che ciò equivaleva per lui alla fede nell’incarnazione. Probabilmente perché la sua religiosità era incarnata nella scienza e rifiutava di parlare un altro linguaggio.

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II

«L’INTENTO PRINCIPALE NELLA MIA VITA»

Lo scritto autobiografico di Viktor von Weizsäcker che qui presentiamo in traduzione è apparso nel 1955 nell’opera curata da H. Kern: Wegweiser in der Zeitwende. Von Weizsäcker è stato individuato come uno dei «pionieri» che, nella metà del secolo XX, indicano con chiarezza il cammino da percorrere per andare incontro al nuovo secolo in modo creativo. Il curatore dell’opera nell’introduzione sottolinea il posto particolare che spetta alla medicina antropologica nel ricondurre all’unità e alla totalità (Ganzheitsbemühen) gli sforzi per curare l’uomo malato, situandosi alla confluenza tra scienze naturali e scienze umane. La presentazione del proprio lavoro, sotto la forma letteraria del curriculum vitae, offrì a von Weizsäcker, le cui forze stavano rapidamente declinando, l’opportunità di fare alla vigilia della propria morte un sintetico bilancio e di cercare le fila nascoste che legano una produzione così poliedrica. Il testo è riprodotto in traduzione per gentile autorizzazione dell’editore Reinhardt.

La mia biografia è molto semplice. Sono nato il 21 aprile 1886 a Stoccarda, terzogenito dell’allora consigliere ministeriale Karl Weizsäcker. Mio padre mi consigliò di fare degli studi che mi assicurassero di che vivere; scelsi così la medicina e credo di aver rifiutato la proposta di Windelband, al cui seminario su Kant avevo partecipato attivamente per tre volte, di passare alla filosofia. Divenni quindi discepolo di

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Johannes von Kries, assistente di von Krehl; ho fatto con ritardo quella che viene chiamata una carriera accademica. Solo una volta nella mia vita ho tenuto, per la durata di un semestre, il semestre invernale del 1945, una lezione obbligatoria di medicina in quanto direttore commissariale dell’istituto di fisiologia in Heidelberg.

Nel 1941 sono stato chiamato a Breslau a succedere a Ottfried Förster come ordinario di neurologia; vi sono rimasto fino al 1945, ricoprendo anche la carica di direttore dell’istituto di ricerca di neurologia.

Non ho mai fatto parte di un partito politico. Tuttavia la mia attività è stata anche politica, in quanto mi sono impegnato con parole, scritti e azioni in quella che è stata chiamata «Medicina socio-politica», e ho prestato servizio più volte come medico della riserva. In quanto tale, l’11 novembre 1944, sono stato nominato capitano medico e mi sono presentato all’ufficiale sanitario più anziano della guarnigione, dott. Hänisch, con le parole: «Meglio tardi che mai».

Dopo il 1946 sono tornato all’università di Heidelberg come ordinario di medicina clinica generale (Allgemeine Klinische Medizin) e vi sono restato fino al settembre 1952, quando sono diventato «emeritus».

La mia vita è trascorsa perciò per la maggior parte del tempo all’università senza successo.

Da studente ho avuto notizia del pensiero di Freud e ho letto le sue lezioni di introduzione alla psicoanalisi solo per la prima volta nell’anno 1933. In seguito il mio cammino è stato influenzato da Freud, ma se ne è anche distanziato. Fino ad oggi ho cercato di nasconderlo, per paura di essere considerato un antisemita. Benché io tenda a descrivere la mia situazione personale dicendo che la corporazione ha ucciso me e io la corporazione, non sono molto convinto che la mia situazione sia stata causata solo dalla fuga dalla medicina ufficiale. Ne potrei dare la colpa, a egual titolo, alla politica nazista o anche a faccende personali.

È giusto che si conosca in dettaglio il mio rapporto con la medicina; è quanto voglio presentare in questo scritto come l’intento della mia vita.

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Chi vuol fare oggi delle affermazioni scientifiche su un argomento così importante per tutti, come è la malattia, si trova in una situazione allo stesso tempo interessante e scomoda. Non è più ovvio, infatti, in che modo si debba fare scienza, quale valore abbia la scienza per la vita, addirittura quale forza e quale diritto abbia la ragione nella nostra realtà.

Questa incertezza diventa ancor più sensibile quando, come appunto accade nella medicina, ognuno, e non solo lo scienziato, ha il diritto di ascoltare enunciati attendibili, non solo i monologhi problematici che la scienza conduce nel proprio ambito. Esponendo ora alcuni elementi dal punto di vista attuale della ricerca medica, non posso evitare di diffondermi anzitutto nella critica che, dal punto di vista della scienza attuale, dobbiamo fare all’insieme della nostra attività di aiuto al malato. Lo dobbiamo fare, perché la portata e il valore della scienza razionale si sono dimostrati più limitati di quanto i nostri padri e i nostri nonni avessero supposto.

Per trattare questo argomento nel modo più semplice e comprensibile, voglio proporre un esempio concreto, che mostra chiaramente come i fondamenti della nostra ricerca e della nostra azione si siano spostati. L’esempio riguarda il significato della psicologia in medicina.

È immediatamente chiaro che l’introduzione della psicologia in una concezione che prima si ispirava esclusivamente alle scienze naturali deve provocare una trasformazione significativa; la psicologia, infatti, è soggettiva, non si commisura solo sulla ragione, ma anche sul sentimento, e non si può fondare solo sulle percezioni sensoriali e sulla logica. La psiche non si vede, e il suo comportamento non obbedisce solo alle leggi della logica.

Non ci deve stupire che alcuni dei miei colleghi medici rifiutino l’introduzione della psicologia in medicina. Ma qui prescindiamo ― con mia viva soddisfazione ― dalle polemiche interne alla nostra professione.

Il progetto di introdurre la psicologia in medicina non consiste solo nel fatto che il gruppo ristretto delle malattie psichiche ― come l’isteria, le nevrosi ossessive o le psicosi ―

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debbano essere considerate come psichiche. Questo è stato sempre fatto. Si tratta piuttosto della questione se ogni malattia ― della pelle, dei polmoni, del cuore, del fegato o dei reni ― sia anche di natura psichica. Posto che sia così, il modo di vedere esclusivo delle scienze della natura, che è invalso finora, conteneva un errore, un errore che naturalmente doveva avere anche determinate conseguenze. Se infatti l’origine e il decorso delle malattie sono anche di natura psichica, si può allora supporre che il processo psichico non sia presente solo in modo secondario, ma debba piuttosto avere una funzione propria e decisiva, di guida dell’evento, mentre l’elemento corporeo è solo un prodotto secondario di quello psichico. Ma se è così, ne segue una vera e propria rivoluzione della nostra concezione della natura umana e della sua malattia; perché, allora, in questo campo regnano le leggi della psicologia ― sempre che in questo campo esistano leggi.

Abbiamo toccato un punto scottante. Non si tratta di aggiungere agli affidabili solidi insegnamenti della fisica, della chimica, della fisiologia e della patologia anche quelli della psicologia e della psichiatria. Non si mira a un aumento delle discipline, bensì a una trasformazione delle discipline come sono invalse finora, avendo capito che la sostanza materiale del corpo organico dell’uomo è qualcosa di diverso da quello che ci aveva insegnato finora la fisiologia.

Un’affermazione così audace deve naturalmente fare i conti con ogni genere di opposizioni: all’esterno viene contraddetta, combattuta; all’interno provoca la paura di non essere troppo temerari, dubbio, fuga e compromessi. Alla fine ci si aspetta che la verità trionfi da sola. Ciò vorrebbe dire che sono le cause, le prove, il successo e l’affermazione che, nella storia, portano la verità alla luce: una concezione della storia, questa, molto ottimistica, che non ha un fondamento particolarmente solido.

Lasciamo questa descrizione non precisamente interessante della situazione, nella quale si trovano una quantità di affermazioni paradossali, e rivolgiamoci a un aspetto completamente diverso del nostro tema. Se io dico: questa tubercolosi

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polmonare della fidanzata del conte di Cavour è la conseguenza di un fidanzamento fallito, dico qualcosa che non solo è difficile da dimostrare, ma qualcosa che, a dire il vero, ognuno crede. Possiamo affermare che noi viviamo con delle intuizioni che la scienza non può e non vuole dimostrare. L’uomo moderno si rivela qui come un essere che crede ciò che non sa, e crede di più di quanto sa. Tuttavia ha nei confronti della scienza una venerazione, i cui motivi al momento ci sfuggono. Lo specialista tisiologo è disposto più di qualsiasi altro, se è un buon medico, a credere che molte tubercolosi derivano da delusioni amorose. Anzi, si può dire che tanto più ha una formazione derivante dalle scienze della natura, tanto più è capace di riconoscere il nesso vero e proprio, completamente diverso da quello naturalistico. La scienza naturale, dunque, non impedisce oggi l’intuizione psicologica, ma piuttosto la favorisce. Come è possibile?

È un problema molto ampio. A me sembra che ciò sia possibile perché è cambiato il senso della scienza. La scienza è diventata una modalità di comportamento dell’uomo e non ha più la pretesa della pura o assoluta verità. Essa è utile (anche pericolosa), ma non è più un fine, bensì un mezzo al fine.

A questo riguardo, un inciso storico. Nella storia della scienza dell’epoca moderna c’è solo, se non vado errato, un’unica scienza che non ha mai interamente rifiutato il primato del credere sul sapere, ed è la teologia. In essa, perciò, il senso e il valore del comportamento scientifico dell’uomo dovevano contenere sempre qualcosa di problematico. E quando troviamo questa situazione al di fuori della teologia, per esempio in medicina, siamo autorizzati ad aspettarci che tutte le esperienze di contraddizione, menzogna, fallimento, false soluzioni, alle quali è esposto colui che crede più di quanto sappia, sono già state fatte da coloro che hanno avuto in sorte ― il Cielo sa come ― il destino di essere teologi. Non solo i teologi; la teologia infatti si è sempre trovata nel caso di un sapere umano che non deriva da se stesso, bensì da ciò che non si sa ma si crede, oppure si sa in quanto si crede.

Poiché questa descrizione è possibile solo con parole molto

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inadeguate («credere» e «sapere» sono infatti espressioni soggettive), andiamo ora oltre il problema della scienza. Questa strana tensione tra la scienza e la realtà della vita, che pesa soprattutto nell’esperienza del teologo, deve manifestarsi anche in un’altra professione, cui compete un posto di responsabilità: quella del medico. Cominciamo già a intuire che l’introduzione della psicologia nella professione sanitaria è forse molto utile, moderna e degna di essere promossa; ma dietro ad essa si cela qualcosa di più importante della modernizzazione e del miglioramento tecnico. Si cela l’impresa veramente audace di superare se stessi, come nel momento in cui la scimmia si propose di diventare un uomo, o il cane di diventare una scimmia, o la pianta un animale, o la terra si propone di diventare un vivente. È come se la razza dell’uomo si proponesse di diventare Super-uomo, come l’ha chiamato Nietzsche. Così è come se la patologia medica con la psicologia si proponesse di abbracciare più che la natura: la Super-natura.

Questo progetto è infatti qualcosa del genere. Senza dubbio si mira a un progresso. Tutto deve favorire un progresso dell’uomo oltre se stesso: tecnica, metodo, scienza, anche l’astuzia e l’arte. Per questo la psicologia deve essere introdotta nella medicina, perché essa scopre nell’uomo non solo la natura, bensì ciò che va al di là della natura, lui stesso. Se dietro ad essa si nasconde un progetto così audace, sarebbe forse più saggio non parlarne. Infatti è difficile capire come Nietzsche, dallo spirito così infinitamente sottile, fosse trascinato dalla pazzia o dall’ebbrezza di proclamare a gran voce un Super-uomo. Ma, nel suo sforzo di superare l’abisso tra l’agire profano e quello religioso, ha lanciato alla medicina uno slogan per il suo prossimo compito, che solo adesso essa comincia a capire: essa deve diventare psicologica. Riconosciamo ora più chiaramente di che cosa si tratta: «diventare psicologica» vuol dire liberare l’esagerato proposito della scienza e la religione dal loro incantesimo. O almeno proporsi di farlo.

Perché il nostro proposito acquisti più chiarezza, dobbiamo

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addentrarci un po’ di più nell’argomento. Prima dal punto di vista storico, poi da quello contenutistico e infine da quello pratico. Tuttavia dobbiamo farlo in modo sobrio e non con un tono trionfalistico. All’inizio troviamo la domanda infantile del perché. Perché ci si ammala?

Pitagora, 540 anni prima di Cristo, che gli antichi ritenevano uno dei più grandi medici (come riporta Giamblico), disse: «Gli dei non sono colpevoli delle sofferenze e tutte le malattie e i dolori del corpo sono il prodotto delle dissolutezze».

Si deve osservare un gran numero di prescrizioni di moderazione, specialmente nel mangiare e nel bere, altrimenti si distrugge l’armonia, cioè il dominio del numero. La bellezza, la prestanza del corpo e della psiche, il benessere, e quindi la salute, li conseguiamo solo attraverso la misura della dieta, corretti rapporti tra cibi e bevande e la loro giusta preparazione: i cibi non cotti sono i migliori. Per colazione Pitagora si accontentava di miele e pane; di giorno non ha mai gustato vino, si cibava di cavoli crudi e solo eccezionalmente di pesci di mare. Il vino eccita, la carne va evitata.

Mi rendo conto che ci troviamo a disagio di fronte a questa dieta. C’è tuttavia una differenza tra uno che si sottopone liberamente a un’ascesi, perché si è innamorato della virtù, e qualcuno che ha fame e freddo perché è costretto. È cosa onorevole fare della necessità una virtù; ma creare per motivo di virtù una necessità artificiale, non riusciamo più a capirle. Un tratto però ci convince di questa antica medicina: si dà al corpo quello che gli spetta. Il malato non è ingannato con una politica di magie e con incantesimi superstiziosi, bensì la natura viene interrogata, sottoposta a ricerca, e di qui nasce una medicina scientifica. Anche se non attribuiamo alla dieta un significato così preminente, siamo tuttavia discepoli di quegli uomini che hanno fondato la matematica e la geometria, la meccanica e la medicina. Il loro potente materialismo significa per noi pur sempre la superiorità della conoscenza scientifica della natura sulla magia non scientifica. Il presupposto è la cacciata dei demoni e di spiriti naturali con facoltà animiche.

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Il caso sembra così chiaro e concluso; ritengo che la maggior parte dei miei colleghi pensi proprio così: il caso è chiaro e concluso. E c’è anche un’alleanza per così dire sotterranea: il materialismo scientifico, la scienza materialista, che anche il borghese nascosto venera, sono in comunicazione con il socialismo, che in primo luogo si interessa del pane e del formaggio (bread and cheese), del benessere delle masse, del livello di vita. Questo è il motivo per cui borghesi e socialisti in fin dei conti si capiscono reciprocamente, e almeno dal 1789 hanno realizzato un modo di convivenza. Il problema è però se questa base può reggere contro qualcosa d’altro. Io personalmente non lo credo.

Ma la medicina e la psicologia? La malattia, anche se è considerata psicologicamente, vuol essere considerata in modo materiale; ciò significa qui in modo realistico. Però, possiamo richiamarci a questo scopo a Pitagora?

Non gli dei, afferma Pitagora, bensì le dissolutezze degli uomini sono responsabili delle malattie e dei dolori del corpo. Quindi non solo la natura, bensì l’uomo stesso. Se ciò fosse vero! Ma può l’uomo prendersi una tale responsabilità per la sua malattia? Egli preferisce attribuirla piuttosto al destino, alla natura, o a Dio.

Incontriamo talvolta persone che ci assicurano di aver cessato di credere all’esistenza di Dio, perché è impensabile un Dio che permette il male, che cade sugli innocenti attraverso la guerra, la politica e la malattia. Un ateo di questo genere nega Dio per salvarne l’onore. Non sono sicuro che sia logico. Mi sembra che abbia più ragione Giobbe, il quale all’inizio delle sue prove dice: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia lodato il Nome del Signore». Qui non è né la natura, né l’uomo che porta il male, bensì Dio. Ma è noto che, quando le peggiori malattie colpiscono il suo corpo, Giobbe non persevera. Diventa un dubbioso. Litiga con Dio. Quando la sua situazione peggiora, diventa un ribelle, che ritiene di conoscere qualcosa. Allora interviene Dio stesso, gli appare e gli ridà la salute in misura ancora maggiore di quanta ne avesse posseduta prima. Soltanto quando la sua situazione

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fu ristabilita, Giobbe si umiliò e riconobbe la propria colpa. Allora disse: «Ora riconosco che ho parlato senza saggezza, che è troppo grande per me e io non capisco. Perciò mi accuso e faccio penitenza in sacco e cenere».

Come era possibile? Quando gli andava male, Giobbe non poteva riconoscere la propria colpa; quando di nuovo gli andò bene, la riconobbe. Egli era un uomo; così è fatto l’uomo, così si comporta rispetto al problema della colpa. Ma la Bibbia dimostra anche perché.

La causa principale della ribellione a Dio di Giobbe erano stati i suoi tre amici, i quali cercavano di persuaderlo che era colpevole e che doveva riconoscere la propria colpa e fare penitenza. Senza questi tre amici Giobbe non sarebbe mai sceso alla lite e alla ribellione. Volendolo accusare, catechizzare ed educare, essi suscitarono la sua ribellione e la sua collera. Non è stata una mossa saggia da parte loro accusare, catechizzare ed educare chi era colpito dalla disgrazia; in questo modo si ottiene il contrario.

È quanto chiamiamo oggi psicologia. Con la psicologia lo comprendiamo, e con un comportamento psicologico lo evitiamo. I tre amici non erano psicologi, e il libro di Giobbe lo dichiara esplicitamente. Afferma: «Il Signore condannò i tre amici e non diede loro niente». I tre amici avevano forse buone intenzioni, erano cioè idealisti; ma il Signore li condannò e non diede loro niente.

Rinunciamo alla condanna degli amici e atteniamoci al fatto che essi non ebbero successo; e ciò non a causa delle argomentazioni che addussero, ma per il loro comportamento.

Il corso delle cose non dipende solo dalle cose, ma dal nostro rapporto con esse. Nel discorso dei tre amici mancava la reciprocità; non avevano considerato, infatti, che ad essi andava bene, meglio in ogni caso che a Giobbe, e perciò il loro discorso ebbe l’esito contrario. Bisogna considerare chi invita chi a fare penitenza, chi offre a chi un «trattamento» medico.

La psicologia è il problema della reciprocità; in termini moderni, è in ultima analisi un problema sociale. La psicologia

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è propriamente sempre un rapporto sociale, e non si può separare l’uno dall’altra. Abbiamo toccato ora il punto più importante, sul quale dobbiamo riflettere, se vogliamo sapere che cosa può significare la psicologia in medicina.

Sarà necessario esemplificarlo. Dobbiamo considerare i mezzi e le vie che un medico può scegliere a tal fine. Ma abbiamo già compreso che la fondazione della medicina scientifica ad opera dei greci, cioè la scoperta dell'oggettività delle scienze naturali nelle questioni della malattia, conteneva un pericolo: quello di piantare in asso l’uomo nella lotta col suo Dio, in quanto ad essa manca la reciprocità umana. Il cristianesimo, che fa suo il problema di Giobbe e lo sviluppa, non è stato capace di appropriarsi dell’oggettività delle scienze della natura e di fonderla nella reciprocità religiosa; è nata così una medicina oggettiva, ma priva di psicologia. Non voglio dire che il cristianesimo o Giobbe, in fondo, siano una psicologia. Dico piuttosto: la psicologia è apparsa, perché la scienza naturale è in sé senza Dio, ed è senza l’uomo. Finché la scienza e la religione sono separate l’una dall’altra, ricorriamo alla psicologia.

Quando, circa quindici anni fa, abbiamo prodotto uno studio sull’angina psicogena, solo una parte di noi aveva avuto uno stretto contatto con la psicoanalisi di Freud. La nostra intenzione non era quella di poter spiegare tutte le malattie in modo psicologico. Anche un’angina rimane un’angina. Ma se si studia come le malattie organiche si inseriscono nella storia biografica esterna ed interna, si constata con stupore con quale frequenza la malattia interviene al culmine di un 'escalation drammatica, con quale frequenza essa evita o risolve una catastrofe, con quanta regolarità essa offre una svolta al corso della vita. La malattia organica è, in una biografia, qualcosa di significativo dal punto di vista storico, è inserita in essa come un elemento che ha un significato spirituale, come se appartenesse ad essa. Usando il linguaggio clinico, si può dire che si comporta in modo del tutto simile alle cosiddette nevrosi. Sorge ora la tentazione di considerare le malattie organiche semplicemente come delle nevrosi materializzate.

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In questo momento ci avviciniamo in modo straordinario alla psicoanalisi. La sua psicologia, infatti, concepisce la formazione di un sintomo come derivante da un contesto significativo, da un conflitto, dalla rimozione e dall’autoalienazione nel rapporto di un essere umano con gli altri. Lo stesso sembra succedere nel sorgere delle malattie organiche (non sempre, ma molto spesso). Ci avviciniamo anche a ciò che i malati spesso dicono, quando la cultura non ha fatto loro smarrire l’ingenuità, e cioè: «Mi sono ammalato per le preoccupazioni», o «Mia nuora o mia moglie isterica sono colpevoli della mia malattia». Quando passano ciò sotto silenzio, dicono: «Mi sono raffreddato». Anche questa è un’espressione che ha un profondo significato psichico.

Un’altra osservazione ancora ci induce a una concezione psicologica. Se confrontiamo le cause esterne con quelle interne, per esempio un bombardamento o la perdita di un bene, con la sofferenza di un bambino abbandonato o di una lite coniugale, il peso maggiore è quello delle sofferenze che hanno cause interiori rispetto a quelle esterne. Io propendo a pensare che non è la disgrazia esterna che fa ammalare, ma piuttosto quella interna, il fallimento della capacità di affrontarla psicologicamente, la lotta della psiche con se stessa. Ci avviciniamo così di nuovo a Pitagora, quando egli afferma che le cause delle malattie sono le dissolutezze, e con ciò accusa l’atteggiamento interno.

Una tale ricerca biografica mostra, tuttavia, che i disturbi organici e quelli nevrotici non sono la stessa cosa. Finora possediamo pochi studi psicoanalitici di malattie organiche, sufficienti però a capire perché la derivazione psicologica spesso fallisce, in quanto qui qualcosa di importante è diverso. Voglio formulare il mio pensiero in questo modo: l’evento corporeo contiene sempre qualcosa di estraneo alla psiche. È vero che il mio corpo può essere il mio nemico e il mio amico; ma io non so molto di lui, mi rimane estraneo. È un’osservazione che ha fatto anche la psicoanalisi; chi la conosce sa che essa ha formulato il concetto di «Es» ed è stata influenzata molto profondamente dalla sua predominanza. Il mio metabolismo,

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quindi, le mie funzioni cellulari, la mia circolazione sanguigna e i miei organi interni mi rimangono sconosciuti, non percepibili, anche se studio anatomia e fisiologia. Il mio diritto di considerarli miei è problematico. Come dobbiamo interpretare questa situazione? Noi siamo una parte della natura, anche della natura organica. Il trasporto dell’acqua, degli elementi chimici, delle calorie e delle altre forme di energia attraverso il nostro corpo è inserito nella grande circolazione dell’acqua, delle sostanze, delle energie nella natura esterna, e ne costituisce una parte. Dopo la teoria della relatività questo indissolubile inserimento è diventato ancor più rigoroso. Da quando la fisica dei quanti domina la nostra concezione della natura, la localizzazione di ogni particella elementare e della sua energia è diventata indeterminata. La fisiologia tende ancora a rappresentarsi il corpo per lo più con le categorie della fisica classica. Ma, secondo la fisica post-classica, relativistica e quantistica, ha perso questo diritto; e verrà il tempo in cui anche nella biologia dovremo abbandonare la rappresentazione del tempo e dello spazio, degli eventi localizzati e dell’energia localizzabile.

Una tale concezione della natura scoprirà di essere sorprendentemente vicina ai concetti della psicologia. L’unità psicofisica così resa possibile non la descrivo ricorrendo alla filosofia della natura o alla metafisica, perché si tratta qui di passi che le scienze speciali dell'esperienza devono compiere a partire dai loro propri bisogni, senza prestiti di nessun genere da una metafisica extraterritoriale o dalla teologia. Ciò mostra però che la differenza metodologica tra la ricerca fisica e quella biologica è diventata sempre più esigua, così come la distanza tra le scienze della natura e la psicologia diventa sempre minore.

Questa divagazione, che domanderebbe una trattazione autonoma, sembra rafforzare di nuovo le speranze che noi poniamo nella scienza. Tuttavia credo che il tema psicologia e medicina contenga anche qualcosa d’altro, ancor più interessante o di validità più generale. Se è vero, infatti, che ogni malattia contiene sia un valore che un disvalore biografico;

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se io la mia malattia la ricevo tanto quanto la faccio; se essa è la soluzione di un conflitto, anche se non una buona soluzione; se il processo patologico è un oggetto che contiene un soggetto; se, per ricorrere ancora a un esempio, il danno al muscolo cardiaco è solo una traduzione e una rappresentazione materiale di un fallimento nell’amore, di un’angoscia che deriva da una colpa o che si esprime attraverso una colpa: se tutto questo è vero, non abbiamo introdotto solo la psicologia nella patologia, ma con la psicologia abbiamo introdotto anche l’oggetto del sentimento e della volontà, la colpa stessa, l’amore stesso, l’odio stesso e così via: la cupidigia, la vergogna, l’astuzia, la ragione, il fiorire e il tramonto delle passioni. Anche per la conoscenza delle passioni la cultura riflessa, che ha rinunciato all’ingenuità, ha creato una specie di scienza, il cui nome è la morale. In altre parole, il vero senso della psicologia moderna è l’introduzione della morale nella conoscenza. Si può dire che la psicologia è un derivato, un erede della scienza morale. Sarebbe facile dimostrare che anche la psicoanalisi nei suoi concetti principali (rimozione, Io e poi Super-io) è, propriamente parlando, una scienza morale. Perché allora psicologia, e non direttamente morale?

Se consideriamo l’Etica di Spinoza, o i grandi moralisti del XVII o XVIII secolo ― Montaigne, Bacone, Gracián o Rousseau ―, comprendiamo subito perché non possono esercitare su di noi un vivo potere. In parte sono arcaicizzanti, appoggiandosi alla filosofia degli antichi, come Epicuro o lo Stoicismo; in parte mancano proprio di ciò che a noi interessa in modo particolare, cioè la forza e l’efficacia sul nostro corpo. Manca loro la vis formativa che trasforma. Queste morali sono ragionevoli, ma questa appunto è la loro debolezza. Risvegliano la coscienza, ma non portano il sonno. Chi soffre di insonnia, ora prende il Veronal, chi ha dolori la morfina, chi è cardiopatico lo Strophantin. Questo è ciò che chiamiamo progresso della scienza; quest’ultima può spingersi fino a pensare a un’eliminazione delle malattie. Da quando conosciamo i nuovi preparati, niente ci impedisce

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di ritenere la vittoria sulla tubercolosi possibile già per domani. E, perché no, anche quella sul cancro? Sappiamo che la speranza media di vita è salita dall’antichità da 25 a circa 60 anni.

Facciamo ora un esperimento mentale. Immaginiamoci ciò a cui il decorso delle cose ci autorizza pienamente: che cioè la medicina naturalistica giunga a eliminare teoreticamente tutte le malattie organiche. Non importa se in cinquecento o in cinquemila anni. Quale situazione si creerà allora? Ve lo dirò: la guerra morale degli uomini tra di loro assumerà allora dimensioni tali che essi penseranno nostalgicamente al tempo delle malattie come a un’età dell’oro.

Che cosa siano le vostre nevrosi di oggi, o le inadeguatezze matrimoniali, o l’odio politico o l’inefficienza sociale, non lo so. Ma oso affermare che gli uomini non potranno vantarsi di essere sani, quando saranno scomparse le malattie organiche. Solo allora la loro malattia morale raggiungerà la piena virulenza. È un giudizio che deriva da osservazioni che possiamo fare già oggi.

Questo esperimento mentale è l’unica sfida che pongo alla vostra fantasia, che però voi non avete il diritto di rifiutare. Uso questo esperimento solo per illustrare qual è il reale contenuto del recente ingresso della psicologia nella medicina.

Abbiamo affermato dapprima che la fisica, la biologia e la psicologia hanno iniziato un forte movimento che le porta l’una verso le altre, così che possiamo aspettarci una nuova unità della scienza. Poi abbiamo considerato che la psicologia, in quanto erede delle scienze morali, introduce nella nostra concezione naturale dell’uomo l’elemento etico delle passioni. Infine dobbiamo renderci conto che la malattia della medicina costituisce solo un avvio, una materializzazione, o anche una prevenzione di quella lotta umana che noi chiamiamo morale, perché è umana, riguarda le passioni, tocca i nostri costumi ed è sicuramente anche l’oggetto della teologia e della religione. L’affermazione di una nuova corrente nella medicina, che sto esponendo, si può sintetizzare così: la polmonite, il diabete, le malattie cardiache hanno a che

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fare con la nostra lotta umana e con il nostro essere uomini, ne costituiscono una rappresentazione.

Certamente è possibile essere scambiati con la Christian Science, l’Antroposofia e simili orientamenti eretici: il che non mi sarebbe affatto gradito. A livello popolare esistono anche cure ciarlatanesche, di natura superstiziosa, che io devo disapprovare. Hanno tutte però un motivo nel fatto di contenere un implicito rimprovero nei confronti della medicina di scuola e un certo diritto a farlo, in quanto questa fa una promessa che non mantiene. La medicina come scienza della natura non raggiunge la psiche, mentre, d’altro lato, la teologia, la pratica religiosa e l’istruzione morale non raggiungono il corpo.

Non è possibile in questo contesto esporre i risultati della nuova ricerca e sviluppare maggiormente i suoi metodi e i suoi problemi. Passiamo quindi dall’esposizione del contenuto alle questioni pratiche, attendendoci dai rapporti pratici una certa luce retrospettiva su quelli contenutistici-teoretici. Devo però fare due osservazioni: negli Stati Uniti si è sviluppata attualmente una medicina cosiddetta psicosomatica, che supera di molto quella realizzata in Germania, non però in profondità, bensì in ampiezza. Una seconda osservazione: l’opposizione degli psichiatri tedeschi nei confronti della indispensabile psicoanalisi contribuisce fortemente a questa arretratezza. Quando mi sono dedicato come internista a questi compiti, ho potuto rendermi conto ben presto che, se voglio rappresentare una medicina psicosomatica, devo anche difendere la psicoanalisi di Freud.

Quali sono quindi le conseguenze pratiche di questo mio nuovo orientamento, di questo modo di concepire la malattia? Cominciamo col caratterizzarla ancora una volta. Non sembra che da quanto abbiamo detto finora emerga un quadro unitario? Il collegamento con l’antichità, con la medicina chiamata per lo più «ippocratica», cioè con la medicina scientifica, razionale del corpo, mantiene la sua valorizzazione, non però come una verità, bensì come strumento di dominio, come un modo di comportarsi dell’uomo tra gli altri

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uomini, come mezzo al fine. Come richiamo alla disciplina e al realismo rivolto allo spirito, che si dissipa o si disperde in attività ludiche. E questo è quel «robusto materialismo» che si può ricavare anche da Pitagora, il cui posto tra i presocratici, del resto, rimane molto oscuro e attraverso il concetto di numero rimanda all’astoricità della mistica.

Di fronte ad esso troviamo però quel dubbio così attuale sul valore della scienza, anzi sul potere stesso della ragione.

Se l’«homo sapiens» è un essere ragionevole, perché è allora così irragionevole? Se noi conosciamo tanto, perché crediamo molto più di quanto conosciamo? E ciò specialmente quando siamo indeboliti e minacciati dalla malattia?

In questo caso non abbiamo fiducia nella scienza a causa del suo sapere, bensì perché, nel nostro stato di necessità, crediamo a ciò da cui speriamo qualcosa. Così trascendiamo noi stessi, il malato col suo medico, e in questo trascendimento consiste il nostro «voler essere uomini più della natura», che è appunto il progetto globale della psicologia.

Nella psicologia, infatti, l’uomo vuol riconoscere e percepire se stesso, non vuol essere oggetto, bensì percepirsi come soggetto: e ciò avviene attraverso la malattia e nella malattia. Essa deve essere lo scandaglio e la pietra di paragone, da cui io imparo chi sono veramente.

Passiamo ora alle conseguenze pratiche. Non sono i miei colleghi, ma i pazienti che ci costringono a ricondurre all’unità la recalcitrante dualità del corporeo e dello psichico. Sono i pazienti per primi che vorrebbero far derivare la loro malattia dalle vicende del loro destino, che vogliono raccontare la loro biografia e infine, quando ne mettiamo alla luce il senso interno e inconscio, farlo proprio, ma con opposizione. Il nostro primo compito è di ascoltare ciò che il malato ricorda della sua vita. Il primo atto metodico della medicina psicologica è l’esplorazione biografica. Senza grande clamore, avviene in ciò qualcosa che assomiglia a una svolta.

Mentre rifletto col malato in che modo la sua malattia è nata dalla sua biografia, si inverte la direzione del pensiero causale. È vero: quando è stato colpito dalla malattia alla

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milza o ai polmoni, ne è derivato che la sua speranza non si sarebbe realizzata; la colpa è della malattia. Ma è ugualmente vero se si dice: poiché si accorse che la sua speranza non si sarebbe realizzata, o poiché si scoraggiò, poiché in realtà non lo voleva, per questo si è ammalato. Ora causa ed effetto sono invertiti. Quando Freud scoprì la psicoanalisi, la paragonò alla svolta copernicana: il sole e le stelle non girano attorno alla terra, bensì è la terra che gira, e la nostra tranquilla sicurezza su di essa è stata solo apparenza ingannevole. In seguito, venne l’umiliazione attraverso Darwin, quando questi asserì che l’uomo non deriva dagli dèi, bensì dalla scimmia: un secondo colpo per il nostro orgoglio. La psicoanalisi ci mostra che neppure nella nostra coscienza siamo padroni di casa, bensì dipendiamo da potenze inconsce in misura molto maggiore di quanto potessimo supporre.

Ora bisogna fare un quarto passo. Comporterà anch’esso uno scoraggiamento come gli altri? Dobbiamo renderci conto che la nostra sofferenza non è un aereo che possiamo pilotare, bensì è essa stessa una specie di psiche, un uomo nell’uomo, spesso nemica, ma anche amica, spesso ostica a ogni apprendimento, ma anche istruttiva per noi. E spesso sembra sciocca; ma poi di nuovo saggia, astuta, ragionevole e passionale.

Quest’ultimo passo non è quindi solo una riduzione, bensì questa volta una speranza. La svolta che si realizza fa nascere nella malattia, come l’embrione nella madre, un «alter ego», un Io nell’io, un essere che non sono io e che tuttavia sono proprio io (si potrebbe anche dire: un rafforzamento del principio femminile).

È chiaro ora che la psicologia in medicina produce un risultato inatteso. Non deve portare solo la conoscenza della psiche, ma deve anche illuminare il corpo in modo che esso appaia in un’altra luce, in una nuova luce. Il corpo non è più ora ciò che appariva prima, e che l’anatomia e la fisiologia ci insegnavano. La fisiologia rimane, allora, solo una cosa attraverso la quale noi scopriamo una qualità nascosta o sepolta del corpo.

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Anche la medicina psicologica si interessa del corpo, ma questo è qualcosa di completamente diverso. Lo dobbiamo chiamare «corpo animato» (Leib). Con ciò intendiamo che la sua materia (da «mater») è il sosia e il compagno che ha la stessa discendenza della psiche, con la quale però non ha un rapporto sempre facile; il corpo è allo stesso tempo il consorte in un matrimonio indissolubile.

Nel frattempo il dialogo e la visita del malato si sono sviluppati, diventando una terapia. Abbiamo prescritto qualcosa; dal livello del sapere siamo passati a quello del fare. Nel far ciò si è formato un secondo metodo, che in rapporto al primo, quello psicobiografico, si distanzia ancora di più dalla fisiologia della medicina ufficiale.

Il malato dice: «Qui mi fa male», «Questo non posso farlo». Già questo è una sofferenza, un accenno ad essa, ed è preso in considerazione. Ma il malato dice anche: «Mi sembra che qualcosa mi stringe», oppure: «Mi sento come se avessi una pietra in me», oppure: «È come se il cuore fosse nello stomaco», oppure: «È come se cadessero delle gocce in me».

Ora, il medico che ha una formazione psicologica comincia a cercare un significato profondo a queste parole, mentre il medico che ha studiato solo la fisiologia se ne distoglie, chiamandole «illusioni sensoriali» o «fantasie». Noi invece abbiamo trovato che queste affermazioni del malato contengono un valore di verità, in quanto la percezione sensoriale interna del malato è una autopercezione. Essa ha il pieno valore di una rappresentazione simbolica della sofferenza. Noi quindi la prendiamo sul serio, mentre il medico fisicalista non la prende sul serio.

Infine il malato ha anche dei sogni. Di nuovo, abbiamo imparato dalla psicoanalisi che l’analisi del sogno è una via insostituibile e veramente incomparabile per scoprire la verità nascosta di ciò che dobbiamo sapere da un malato.

Sintomi, sensazioni e sogni li abbiamo interpretati come parabole di eventi corporei nascosti, come traduzioni di un fatto materiale in una lingua comunicabile. E questo è un secondo metodo della medicina antropologica.

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Voglio terminare qui con le note metodologiche; si può infatti facilmente immaginare che, accanto e dopo l’indagine biografica e l’analisi delle autopercezioni, esista una lunga serie di altri metodi e problemi, i quali in parte non sono facili da spiegare, in parte non sono stati ancora elaborati e sono poco maturi.

Dobbiamo affrontare ancora due problemi. Il primo suona: risulta da questo approccio un’antropologia determinata, una dottrina relativa alla natura dell’uomo, e quale? Il secondo problema è quello della terapia: quali vantaggi derivano al malato? I due problemi sono interconnessi.

Non abbiamo dato la preferenza a nessuna teoria di filosofia della natura sul rapporto tra corpo e psiche. Se qualcuno ha un ictus e si paralizza, oppure se perde un occhio e diventa cieco, crediamo alla causalità psicofisica. Ma se qualcuno arrossisce, o ha un vomito da gravidanza, crediamo allora a un parallelismo psicofisico. E se qualcuno ha un’ulcera gastrica invece di una depressione (invece di una prodezza eroica, un’automutilazione), oppure se invece di denunciare un reumatismo articolare scrive una poesia, parliamo allora di vicariazione e crediamo a una commutazione psicofisica. Una teoria precisa, che costituisca una filosofia della natura, ci intralcerebbe solo in senso costrittivo. La teoria è un comportamento del pensiero che segue l’oggetto.

Ma l’osservazione ci ha insegnato anche altre cose più accurate. Se si analizzano dal punto di vista della psicologia malattie infettive, del ricambio e della circolazione, si rafforza sempre più l’impressione che, sulla soglia del disturbo, c’è un conflitto, e che il conflitto è di natura relazionale. Abbiamo tutti qualche volta osservato che, dopo che la vita ci ha portato i più gravi e spaventosi conflitti, perdite e catastrofi, e noi vi siamo casualmente sopravvissuti, possiamo ancora lasciarci fortemente agitare da una ridicola sciocchezza, da una situazione veramente banale al confronto. È proprio quello che avviene quando, al posto di una pericolosa grave malattia, un mal di denti o un’eruzione cutanea ci mettono a terra. Che cosa significa ciò? Si fonda sul fatto che

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un piccolo disturbo deriva da una qualche fondamentale grave insufficienza, si manifesta come suo rappresentante. Ma qual è la grave insufficienza, quale il conflitto fondamentale? Risulta anzitutto che i rapporti umani dai quali provengono, qualora siano disturbati, sempre nuovi disturbi, sono quelli con il padre, la madre, gli innamorati, i figli, quindi i rapporti familiari e di sangue più prossimi e più vitali.

Tuttavia abbiamo sperimentato che l’utilizzazione pratica della psicologia nella medicina interna, per esempio, incontra una importantissima resistenza, alla quale non si era preparati. Ma è proprio questa resistenza che ci permette di vedere che questa impresa fa parte di qualcosa che è più grande e più importante della medicina.

Ci si potrebbe aspettare, infatti, che la principale opposizione sia il modello di pensiero proprio delle scienze della natura, al quale i medici, per tradizione e per l’educazione che hanno ricevuto, si aggrappano e che è entrato così profondamente nelle concezioni e nelle attese del pubblico. Ma un’opposizione molto più forte deriva da qualcosa d’altro: deriva dall’idealismo, non dal materialismo. Ecco come stanno le cose.

Prendo le cose un po’ alla lontana. Quando, parlando in generale, affermiamo che le grandi emozioni ci possono indebolire, così che siamo più esposti alla malattia, non si fanno obiezioni. Chiunque ammette tali influssi psichici. Ma se io propongo a un determinato malato di mettere in rapporto la sua angina o la sua ulcera gastrica con il proprio fallimento nei confronti di un conflitto, costui mi contraddice energicamente.

Non siamo pronti a vedere la trave nel nostro occhio, e ci comportiamo come Giobbe. E le nostre idee, quando sono delle convinzioni, le difendiamo come i nostri beni più sacri. È difficile riconoscere la propria colpa, ma è ancor più difficile ammettere di aver contribuito a far sorgere la propria malattia, soprattutto una malattia di cui non si è consapevoli.

L’osservazione ci ha insegnato cose ancor più precise, che

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cioè alla porta delle malattie non ci sono solo i conflitti personali con coloro che ci sono più vicini e con i parenti, ma anche i conflitti delle idee, dei comandamenti, della fedeltà ad essi, della dedizione ad essi. La generazione e la morte, ma anche la fede e la morale, la Chiesa e lo Stato portano i conflitti nei quali e per mezzo dei quali ci ammaliamo.

Quando la psicologia osa toccare questo ambito, va a urtare con il corpo e lo spirito. Essa ci incoraggia a prendere in considerazione anche le nostre convinzioni, le nostre idee. Anch’esse partecipano alla nostra angina, alla nostra ulcera o alla nostra malattia cardiaca; la psicologia diventa qui il critico delle idee che abbiamo incorporato nella nostra persona. Essa arriva perfino ad affermare che le idee ci hanno fatto ammalare, anzi sono esse che hanno agito in modo distruttivo. Le idee sono ora distruttive e l’uomo idealistico è un uomo distruttivo.

Una cosa simile esiste in realtà. Se il medico può dire qualcosa sul problema dell’uomo distruttivo, può affermare, sulla base di una ben fondata esperienza: l’uomo distruttivo è nei casi peggiori un idealista.

La psicologia non può far tutto; tanto meno può soddisfare la pretesa di verità che hanno le idee. Ma può con ogni certezza riconoscere, di caso in caso, che sono le idee che ossessionano l’uomo, lo disuniscono, lo dividono, lo dilaniano e lo uccidono. Qui infatti essa deve dire: ciò su cui voi credete di litigare, non è ciò su cui voi di fatto litigate. Credete di litigare per il vostro diritto, per la vostra fede, per la verità; ma il vostro è un litigio per il litigio.

La psicologia non può certo spiegare astrattamente che cos’è il litigio in sé e per sé; ma essa può svelare l’illusione dei litiganti e può dire di se stessa che ha eliminato dal mondo qualche litigio che meritava di scomparire. A me sembra che un giorno essa metterà in ombra la scienza oggettiva della natura, la cui funzione di unire gli uomini e i popoli è più che problematica. Perché? Io ritengo che la psicologia nel suo rapporto con l’uomo è più calorosa, più amabile, più accettante. Mi riferisco naturalmente a una psicologia che non spiega,

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ma capisce. E se è corretta la nostra idea, che anche la malattia organica è in realtà una lite, un’appassionata contrapposizione di cellule, tessuti, organi e funzioni, allora la psicologia può produrre anche qui un’azione risanatrice.

Questo sarebbe il maggiore successo di cui una medicina impregnata di psicologia potrebbe menar vanto, mentre in realtà non lo vuole. Non le si lascia né il tempo, né la calma, né soprattutto il potere di cui avrebbe bisogno per giungere a menare questo vanto: la sua lotta contro l’idea distruttrice o ― se si vuol risparmiare il termine di Platone ― contro le ideologie distruttive, non è l’unica lotta che le si chiede.

Una medicina psicologica entra naturalmente in conflitto anche con la struttura tecnica della medicina, che già sotto diversi aspetti è diventata esageratamente tecnica. Questo aspetto è strettamente legato all’economia moderna, all’industria, alle fonti di reddito dei medici, all’enorme bisogno dei pazienti di essere ingannati e ad altre cose ancora.

Questo contesto ci porta direttamente al capezzale della nostra moderna cultura, che è malata. Qui noi medici non siamo soli e non siamo gli unici, ma ci troviamo in vasta compagnia di tutti coloro che circondano questo gigantesco letto d’ospedale, non a causa del suo cosiddetto materialismo, bensì perché questo suo materialismo ha assunto i tratti di un idealismo distruttivo, ovvero di una ideologia distruttrice.

Aggiungiamo una parola conclusiva rivolta all’uomo. Le accuse contro di lui suonano spesso così: la ragione è buona, ma gli uomini la usano in modo sbagliato o non la usano per niente. Oppure: la scienza è vera, ma l’uomo ne abusa. Dobbiamo darla in mano solo a persone nobili, ovvero dobbiamo educare degli uomini che siano capaci di utilizzarla solo per il bene dell’umanità. Ovvero anche: la religione è buona, ma gli uomini l’hanno tradita (come se gli uomini prima fossero stati religiosi!).

Ciò suona come se gli uomini si comportassero da sottouomini, come se avessero la possibilità di scelta di diventare super-uomini. Ma da dove sappiamo che la ragione, la scienza, la religione e la morale sono buoni in sé, mentre l’uomo in

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sé non è buono? È lui che le ha create, o quanto meno le ha trovate e fatte proprie. Ma da uomo a uomo non ne sappiamo niente. Troviamo le idee già presenti nell’uomo e osserviamo: una volta che le abbia, l’uomo non può più tornare all’ingenuità, meno che mai attraverso l’ordine o la violenza.

In quanto medici, anche nel senso ampio di medici della grave malattia del nostro tempo, noi non sappiamo se l’uomo per natura è originariamente cattivo o buono. Invece osserviamo che esiste un reale ritorno all’ingenuità. E questo è costituito dalla malattia.

Quando entriamo in clinica, ridiventiamo subito bambini. Troviamo pace e calore nel letto come li abbiamo trovati nell’utero. Un’infermiera si china su di noi come una mamma. Il vitto speciale che porta è simile a quello di allora, quando ricevevamo latte e pappe. Ora si apre la porta e appare un padre, sotto l’aspetto di un medico. Questo infantilismo del rituale clinico è simile a una scena dell’infanzia, che corrisponde esattamente all’ingenuità che ci viene conferita dalla malattia e dai suoi bisogni. Questo infantilismo è però il contrario della spiritualizzazione e ci dice: Tu puoi cominciare da capo, sei libero da un’ideologia distruttrice. Qualcosa di questo genere intende anche la psicologia.

Non sgrideremo perciò l’uomo, né ci limiteremo a disapprovare la malattia. La psicologia in medicina non cede alla tentazione di creare un'«idea dell’uomo». La terapia è un processo che non ha fine. Il suo realismo pratico significa che essa accetta l’insufficienza e rispetta l’eterna ingenuità della malattia, come il suo vero segreto.

Heidelberg, maggio 1955

Viktor von Weizsäcker

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BIBLIOGRAFIA

A) Opere di Viktor von Weizsäcker, in ordine cronologico

1927 Stücke einer medizinischen Anthropologie in von Weizsäcker, Arzt und KrankerÜber medizinische Anthropologie, in von Weizsäcker e D. Wyss, Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen 1957.

1928 Medizin, Klinik und Psychoanalyse in von Weizsäcker e D. Wyss: Zwischen Medizin und Philosophie.

1932 Biologischer Akt, Symptom und Krankhheit in von Weizsäcker e D. Wyss: Zwischen...

1933 Gestaltkreis, dargestellt alspsychophysiologische Analyse des optischen Drehversuches, in Archiv. f. d. ges. Physiologie, vol. 23, 630.

1935 Ärztliche Fragen. Vorlesungen uber allgemeine Therapie, Leipzig. Studien zur Pathogenese, Leipzig.

1941 Arzt und Kranker, Leipzig. Klinische Vorstellungen, Stuttgart.

1946 Anonyma, Bern.

1947 Falle und Probleme. Anthropologische Vorlesungen in der medizinischen Klinik, Stuttgart.

Körpergeschehen und Neurose. Analytische Studie uber somatische Symptombildungen, Stuttgart.

1949 Begegnungen und Entscheidungen, Stuttgart.

1950 Der Gestaltkreis. Theorie der Einheit von Wahrnehmen und Bewegen, Stuttgart.

1951 Der kranke Mensch, Stuttgart.

1954 Natur und Geist, Göttingen.

1955 Am Amfang schuf Gott Himmel und Erde. Grundfragen der Naturphilosophie, Göttingen.

Meines Lebens hauptsächliches Bemühen, in H. Kern (ed.), Wegweiser in der Zeitwende, München, Basel.

1956 Pathosophie, Gòttingen.

È in corso di pubblicazione presso l’ed. Suhrkamp l’opera omnia (Gesammelte

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Schriften) di V. von Weizsäcker, in 10 volumi ordinati cronologicamente e tematicamente.

Riportiamo il piano dell’edizione:

vol. 1 Natur und Geist

Begegnungen und Entscheidungen

Sono le due opere autobiografiche, che offrono anche una panoramica sulla sua opera

vol. 2 Empirie und Philosophie

Herzarbeit/Naturbegriff

Illustra gli inizi delle sue ricerche in fisiologia e gli studi sulla filosofia della natura, fino agli anni successivi alla prima guerra mondiale

vol. 3 Wahrnehmen und Bewegen

Die Tätigkeit des Nervensystems

Raccoglie i lavori di neurologia

vol. 4 Der Gestaltkreis

Theorie der Einheit von Wahrnehmen und Bewegen

I riflessi della neurologia nella concezione del «Gestaltkreis»

vol. 5 Der Arzt und der Kranke

Stücke einer medizinischen Anthropologie

Testi di antropologia medica e sul rapporto medico-paziente

vol. 6 Körpergeschehen und Neurose

Psychosomatische Medizin

Testi sulla medicina psicosomatica

vol. 7 Allgemeine Medizin

Grundfragen medizinischer Anthropologie

Sulla medicina generale

vol. 8 Soziale Krankheit und soziale Gesundung

Soziale Medizin

Lavori sull’aspetto sociale della medicina

vol. 9 Fälle und Probleme

Klinische Vorstellungen

Le lezioni accademiche sul periodo successivo alla seconda guerra mondiale e il tentativo di una sintesi di antropologia medica

vol. 10 Pathosophie

L’ultima opera e «summa» delle riflessioni sulla medicina biografica

B) Studi e saggi su von Weizsäcker:

H. Ehrenberg, Das Verhältnis der Arztes Weizsäckers zur Theologie und das der Theologen zu Weizsäckers Medizin, in Vogel (ed.), Viktor von Weizsäcker.

W. Kuetemeyer, Anthropologische Medizin in der inneren Klinik in: Vogel (ed.), V. von Weizsäcker.

― Viktor von Weizsäcker zum Gedächtnis in V. von Weizsäcker e D. Wyss, Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen 1957.

P. Vogel (ed.), Viktor von Weizsäcker: Arzt im Irrsal der Zeit, Göttingen 1956.

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C. F. von WeizsäckerGestaltkreis und Komplementarität in Vogel (ed.), V. von Weizsäcker.

U. ZonnZum Menschenbild Viktor von Weizsäcker, Zurich 1970.

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M. von Rad (ed.), Anthropologie als Thema von psychosomatischer Medizin und Theologie, Stuttgart 1974.

R. Sarró, Weizsäcker en España, intr. a V. von Weizsäcker, El hombre enfermo, tr. spagn., Barcelona 1956, pp. V-XXII.

S. Spinsanti, «Guarire “tutto” l’uomo: la medicina antropologica di V. von Weizsäcker», in Medicina e Morale, 1980/1, pp. 5-16.

S. Spinsanti, «L’antropologia medica di V. von Weizsäcker: conseguenze etiche», in Sanità, scienza e storia, 2, 1985, pp. 29-40.

Th. HenkelmannViktor von Weizsäcker (1886-1957). Materialen zu Leben und Werk, Springer Verlag, Berlin, Heidelberg, New York, Tokio.

P. Hahn-W. Jacob (a cura di), Viktor von Weizsäcker zum 100. Geburtstag, Springer Verlag, Berlin, Heidelberg, New York, Tokio 1987.

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[seconda di copertina]

SANDRO SPINSANTI, teologo e psicologo, è nato ad Ancona nel 1942. È docente di Bioetica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze e la Pontificia Università di San Tommaso. Dirige il Dipartimento di Scienze Umane presso l’Ospedale Fatebenefratelli dell’isola Tiberina, a Roma ed è direttore del Centro Internazionale Studi Famiglia di Milano. Tra le sue pubblicazioni di etica medica presso le Edizioni Paoline: Etica cristiana della malattia, Roma 1971; Umanizzare la malattia e la morte, Roma 1980; Documenti di deontologia ed etica morale, Milano 1985; Per un ospedale più umano (in collaborazione), Milano 1985; Etica bio-medica, Milano 1987. Ha collaborato con alcune voci al Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 19856 e al Nuovo dizionario di spiritualità, Roma 19854. Collabora regolarmente come giornalista pubblicista conFamiglia Cristiana e Jesus.

[terza di copertina]

MEDICINA DOMANI

La collana, realizzata in collaborazione con l’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio-Fatebenefratelli, nasce sull’orizzonte della medicina del duemila: la medicina della salute, più che della malattia, e della piena salute. Una medicina che richiede, quindi, lo sviluppo dell’uomo in tutte le dimensioni dell’essere: fisiche, psichiche, spirituali, etiche e sociali. I singoli volumi approfondiranno, via via, questi grandi temi, abbinando il pregio della chiarezza espositiva a quello del rigore scientifico.

[quarta di copertina]

MEDICINA DOMANI

Per la medicina è tempo di rifondazione. Il progetto potrebbe sembrare presuntuoso, se non fosse giustificato da un malessere quasi intollerabile, che sperimentano tanto coloro che dispensano i servizi sanitari, quanto quelli che li ricevono. Nella ricerca di un’uscita dal labirinto di una medicina sempre più efficiente e sempre più disumana, ci si rivolge ai grandi pionieri. Viktor von Weizsäcker (1886-1957) è uno di questi. Fisiologo, medico, psicanalista, filosofo, ha diagnosticato nel modo più lucido i mali della medicina moderna e ha proposto i rimedi ai quali oggi è rivolto il massimo dell’interesse. Il suo progetto di riportare «il soggetto» in medicina e di ricucire lo strappo tra scienze della natura e le scienze dell’uomo ci fa intravvedere la possibilità di una vera «medicina antropologica». Illuminata dal soggetto, la malattia rivela il suo profondo significato: «La malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì lui stesso; o meglio, la sua possibilità di diventare se stesso».

Il saggio che Sandro Spinsanti, docente di bioetica all’Università di Firenze, dedica a von Weizsäcker fa conoscere per la prima volta in Italia un pensatore creativo e innovatore. Oltre a un’esposizione attenta del suo pensiero — in particolare i punti di contatto e di divergenza con la psicanalisi di Freud — il volume fornisce in appendice la traduzione di alcuni testi di von Weizsäcker.

1 M. von Rad, Anthropologie als Thema von psychosomatischer Medizin und Theologie, Stuttgart 1974, pp. 7ss.

2 Una via di accesso indiretta al pensiero di von Weizsäcker è offerta al lettore italiano dalle traduzioni di saggi in cui è dato un certo rilievo alla medicina antropologica. Segnaliamo, tra le traduzioni più recenti, G.Ammon, Psicosomatica, Roma 1977, pp. 58-65; D. Wyss, Storia della psicologia del profondo, vol. I, Roma 1979, pp. 391-413 (va segnalato che D. Wyss è stato un discepolo di von Weizsäcker e ha curato un volume di scritti di von Weizsäcker al confine tra medicina e filosofia, cui ha aggiunto un proprio saggio sul rapporto di von Weizsäcker con la filosofia e l’antropologia dell’epoca contemporanea: cfr. V. von Weizsäcker-D. Wyss,Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen 1957).

3 V. v. Weizsäcker, Le cycle de la structure, tr. fr. Paris 1958; la prefazione di Ey alle pp. 7-17.

4 È già indicativo il fatto che M. Foucault appaia come traduttore di Der Gestaltkreis. Quando nella Nascita della clinica Foucault parla della clinica come tentativo di fondare una scienza sul solo campo percettivo e osserva che «la malattia è sfuggita a questa struttura girevole del visibile che la rende invisibile e dell’indivisibile che la fa vedere, per dissolversi nella molteplicità visibile dei sintomi che ne esprimono senza residuo il senso» (tr. it. Torino 1969, pp. 114ss.), si rifà inequivocabilmente al Drehtürprinzip (principio della porta girevole) di von Weizsäcker.

5 Encyclopaedia Universalis, vol. 20, p. 2068.

6 Vedi ad es. P. Laín-Entralgo, Il medico e il paziente, tr. it., Milano 1969.

7 R. Sarró, «Weizsäcker en España», in V. v. Weizsäcker, El Hombre enfermo, tr. spagn., Barcelona 1956, pp. V-XXII.

8 L. Chiozza, «Lo studio patobiografico quale integrazione della conoscenza psicoanalitica con la pratica della medicina generale», negli atti del seminario: L’interpretazione psicoanalitica della malattia somatica nella teoria e nella pratica clinica (organizzato dal Centro psicoanalitico di Roma il 17-18 febbraio 1979), pro manuscripto, pp. 114-124. Per il contributo originale dato da L. Chiozza alla medicina psicosomatica e per il suo debito a von Weizsäcker, si veda L. Chiozza, Corpo, affetto e linguaggio, tr.it., Torino 1981 e i suoi interventi in Quaderni di psico-terapia infantile 7 (1982).

9 E. LutherHistorische und erkenntnistheoretische Wurzeln der medizinischen Anthropologie V. v. Weizsäckers, Wissenschaftliche Beitrage der M. Luther-Universität Halle Wittenberg 1967/12, Halle (Saale) 1967.

10 E. Luther, ibid, p. 35. Già dall’inizio del saggio è esplicita la volontà di considerare il pensiero di von Weizsäcker come una semplice varietà della medicina psicosomatica: «Dal punto di vista del critico marxista della psicosomatica, la differenza tra la medicina “psicosomatica” e quella “antropologica” di von Weizsäcker è secondaria»: ibid., p. 5. Sulla medicina antropologica di von Weizsäcker cade quindi la stessa condanna sommaria che il marxismo riserva alla medicina psicosomatica, giudicata inconcepibile in termini materialisti. Lo stesso E. Luther ha dedicato uno studio al tema specifico: Über die gesellschaftlichen Wurzeln der psychosomatischen Medizin, Wissensch. Ztschr. der M. Luther-Univ. Halle Wittenberg, Math-Nat. Reihe X/5, pp. 823-839.

11 Io sono ponte, non fortezza, ero solito dire a quanti sì attendevano da me, o addirittura sollecitavano, una guida nel senso di un irradiamento di forza e di potenza»: V. v. Weizsächer, Begegnungen und Entscheidungen, p. 14.

12 W. Kütemeyer, «Viktor von Weizsäcker zum Gedächtnis», in V. v. Weizsäcker-D. WyssZwischen Medizin..., cit., p. 20.

13 A. AuerspergPoesie und Forschung: Goethe, Weizsäcker, Teilhard de Chardin, Beitrage aus der allgemeinen Medizin 19 (1965).

14 H.D. ReinerDas Leib-Seele-Problem in der psychosomatischen Medizin V. v. Weizsackers, München 1965.

15 U. Zonn, Zum Menschenbild V. v. Weizsäckers, Zürich 1970.

16 W. DreherDas pathosophische Denken V. v. W.s. Ein Beitrag der medizinischen Anthropologie zu einer anthropologischen fundierten Pädagogik, Bern-Frankfurt 1974.

17 H. Kern (a cura), Wegweiser in der Zeitwende, München-Basel 1955, pp. 243-263.

18 B. E. (Begegnungen und Entscheidungen), p. 80.

19 Maggiori informazioni sulla famiglia Weizsäcker si possono trovare nella Brockhaus Enzyklopädie.

20 N. G. (Natur und Geist), p. 5.

21 N. G., p. 12.

22 N. G., p. 29.

23 N. G., p. 30.

24 N. G., p. 100. Si veda il capitolo che von Weizsäcker dedica alla «Südwest-deutsche Philosophie» in N. G. pp. 13-25. Nel periodo degli studi universitari la filosofia lo appassionò talmente che pensò di abbandonare la medicina per dedicatisi interamente. La filosofia rimase un interesse costante della sua vita. Per l’analisi di von Weizsäcker come filosofo rimandiamo al saggio di D. Wyss in Zwischen Medizin und Philosophie, cit., dove il pensiero di von Weizsäcker viene messo in relazione con quello di Leibniz, Kant, Goethe, Scheler, nonché con i maggiori rappresentanti della corrente antropologica moderna.

25 V. v. Weizsäcker, Ludolf von Krehl, Gedächtnisrede, Leipzig 1937; cfr. anche K. Hansen, «Ludolf von Krehl», in Medicus viator, Tübingen 1959, pp. 47-70.

26 L’evento della guerra (Kriegserlebnis) ebbe, secondo von Weizsäcker, una ripercussione profonda nei medici che vi presero parte: «L’esercizio della medicina nelle condizioni che il medico incontra presso le truppe, negli ospedali da campo, ci mostrò con tutta chiarezza che cosa era di importanza vitale e che cosa non lo era. Imparammo che c’è un modo conservatore di curare anche un’appendicite. Si vide che la terapia consiste solo per metà in operazione, medicina e dieta, per l’altra metà invece nel fornire trasporto, letto, riscaldamento e assistenza. Si imparò a conoscere il significato morale della volontà di lotta, il fondamento psichico della volontà di guarire. La nevrosi si rivelò come un problema vitale, come un fattore importante di guerra. Non c’era il laboratorio, ma settimane e mesi di attesa e di vuoto spaventoso»: N. G., p. 38.

27 V. v. Weizsäcker, Ludolf v. Krehl, cit., p. 11.

28 R. SiebeckMedizin in Bewegung, Stuttgart 1949.

29 Cfr. N. G., p. 33.

30 V. v. Weizsäcker, «Wege psychophysischer Forschung», in Artz und Kranker, Breslau 1941, p. 198.

31 Cfr. N. G., p. 36.

32 Per una descrizione dettagliata delle sue ricerche in neurologia, cfr. N. G., pp. 76ss.

33 Cfr. N. G., p. 35.

34 «Mancava il Paracelso della nostra epoca; io, in ogni caso, non avrei potuto diventarlo, sia per mancanza di disposizione, sia per debolezza di convinzione»: N. G., p. 138.

35 N. G., pp. 128ss.

36 N. G., p. 35.

37 Da segnalare soprattutto: «Medizin, Klinik und Psychoanalyse», in Krisis der Psychoanalyse 1, 1928 (riprodotto in Medizin und Philosophie, pp. 23-50); «Nach Freud», in Merkur 3 (1950); e il cap. «Freud-Die Psychotherapeuten» di Natur und Geist, pp. 98-164.

38 N. G., pp. 43 e 123.

39 N. G., pp. 118ss.

40 N. G., p. 155. Proprio a Freud, invece, von Weizsäcker aveva presentato se stesso come un mistico (benché in modo scherzoso, come «impiego accessorio»), durante il loro incontro del 1946. L’affermazione aveva introdotto un momento di tensione tra i due interlocutori. Per una ricostruzione dell’episodio e una discussione dell’atteggiamento religioso di von Weizsäcker, cfr. S. Spinsanti, «Guarire “tutto” l’uomo: la medicina antropologica di von Weizsäcker», in Medicina e Morale 1980/2, pp. 186-199.

41 Questa è la data riferita in N. G., p. 43. Un altro scritto autobiografico, Meines Lebens... p. 243, riferisce la lettura della stessa opera al 1933, ma deve trattarsi evidentemente di un refuso.

42 Cfr. N. G., p. 36.

43 N. G., p. 43.

44 N. G., p. 123. È da segnalare la risposta di Freud. Secondo il fondatore della psicoanalisi, non è necessario che ogni caso venga analizzato: molti ricevono un beneficio frequentando una personalità significativa; si sa anche che alcune nevrosi guariscono passando attraverso una grande gioia o una grande disgrazia.

45 N. G., p. 44.

46 Nel cap. dedicato a von Weizsäcker da D. Wyss, Storia della psicologia del profondo, I, Roma 1979, vedi il paragrafo che illustra il passaggio dalla «relazione» al ciclo gestaltico, pp. 391 ss.

47 V. v. Weizsäcker, «Medizin, Kiinik und Psychoanalyse», in Zwischen Medizin und Philosophie, cit., pp. 23-50.

48 Ibid., pp. 36s.

49 B. E., p. 58. In N. G., p. 127 s., von Weizsäcker dedica alcune pagine elogiative a Lou Andreas-Salomé, che chiama «la sibilla del nostro mondo spirituale». Di questa donna, «esperimentata nei mondi della solitudine», loda la libertà nei confronti dell’«azienda» psicoanalitica e la rielaborazione personale, altamente originale, della dottrina. Conclude il ritratto con questa osservazione, che contribuisce a chiarire ulteriormente il rapporto di von Weizsäcker con la psicoanalisi: «La mia venerazione per Freud e la mia ammirazione per la sua opera non hanno mai avuto bisogno di prova. Ma l’effetto della psicoanalisi assomiglia in parte a quello di un nodo scorsoio che si stringe inesorabilmente; non si può aderirvi senza allo stesso tempo gridare aiuto, o almeno lottare incessantemente con essa. Il caso raro che qualcuno abbia compreso abbastanza profondamente questa scienza e purtuttavia sia restato con la propria personalità, non mi è mai capitato di incontrarlo con più chiarezza che in Lou Andreas-Salomé. Le sue lettere e il suo ricordo li conservo come un gioiello della mia memoria».

50 V. v. Weizsäcker, «Medizin, Klinik...» cit., p. 41.

51 Ibid., p. 47.

52 P. Vogel (ed.), Viktor von Weizsäcker. Arzt im Irrsal der Zeit, Göttingen 1956. La bibliografia di v. W. alle. pp. 318-326.

53 N. G., p. 149.

54 N. G., p. 160.

55 N. G., p. 147.

56 «Un’esposizione per metà autobiografica e per metà di storia generale»; B. E., p. 61.

57 N. G., p. 67.

58 I tre articoli sono riprodotti in Artz und Kranker, Breslau 1941, sotto il titolo cumulativo: «Stücke einer medizinischen Anthropologie». Von Weizsäcker riferisce — in B. E., p. 30 — che i tre saggi di antropologia medica furono letti da Hofmannstahl, che ne ha tenuto conto trattando del problema del patologico in Der Turm. Sull’esperienza della rivista, cfr. la testimonianza dello stesso M. Buber, «Die Kreatur», in P. Vogel (ed.), V. v. Weizsäcker, Arzt im Irrsal..., cit. pp. 5ss.; von Weizsäcker riteneva che la sua collaborazione a «Die Kreatur» gli avesse creato nei circoli medici la fama di outsider, di filosofo e letterato, e gli avesse pregiudicato la carriera universitaria: B. E., p. 30.

59 B. E., p. 46.

60 “Per una valutazione dell’opera, cfr. H. Ruffin, «Natur und Geist. Eine Besprechung der Lebenserinnerungen Von Weizsäcker», in P. VogelVon Weizsäcker Arzt im Irrsal, cit., pp. 314-317.

61 Von WeizsäckerArzt und Kranker, Breslau 1941, p. 6.

62 «L’introduzione del soggetto nella patologia e nella medicina significa che ogni essere umano qui deve essere considerato anche come un essere morale»: Von Weizsäcker, Pathosophie, Göttingen 1956, p. 7.

63 Von Weizsäcker, Anonyma, Bern 1946, p. 26.

64 Cfr. V. von Weizsäcker, «Gestaltkreis und Komplementaritat», in P. Vogel (ed.), V. von Weizsäcker, Arzt im Irrsal..., cit., p. 21.

65 Tuttavia il filosofare non è mai concepito da von Weizsäcker come un’attività teoretica astratta, bensì come un’attività etica. Come punto di partenza del filosofare scarta la meraviglia e il dubbio, e assume invece la responsabilità: «Noi facciamo storia. Ne consegue responsabilità, corresponsabilità. Alla chiara coscienza di tale responsabilità vogliamo dare il nome di filosofia (...) Vogliamo sviluppare un chiaro senso di responsabilità e una chiara coscienza del contenuto della responsabilità che portiamo tutti nei confronti della natura e del modo in cui la concepiamo»: V. v. Weizsäcker Am Anfang schuf Gott Himmel und Erde.Grundfragen der Naturphilosophie, Göttingen 1955, p. 6.

66 Cfr. N. G., p. 104.

67 Ibid., p. 103.

68 «I docenti dell’università che dovevano formare i medici avevano passato i propri anni di insegnamento più importanti dietro i cancelli degli istituti di ricerca o nel laboratorio con gli animali da esperimento. Trattavano di più con cani e gatti che con persone malate. So che questa descrizione è eccessiva e si riferisce a deformazioni. Ma non la posso ritrattare, perché queste deformazioni oggi sono diventate ancora più grandi ed hanno fatto scuola in modo preoccupante, vale a dire presso i pazienti stessi»: N. G., p. 130.

69 N. G., p. 41.

70 Ibid., p. 130.

71 V. v. WeizsäckerÄrztliche Fragen. Vorlesungen über allgemeine Therapie, Leipzig 1935, p. 11.

72 Ibid., introduz. alla II edizione.

73 V. v. Weizsäcker, «Körpergeschehen und Neurose. Analytische Studie über somatische Symptombildungen», in Intern. Zeitschr. für Psychoanalyse 19 (1933) 16-116.

74 N. G., pp. 125ss.

75 Cfr. ibid., p. 135. Questo sodalizio con una persona compromessa agli occhi del regime, quale era Freud, fu una scelta o un fatalismo? Von Weizsäcker si è posto la stessa domanda a proposito di un’altra collaborazione pericolosa, avvenuta pochi anni prima, quella cioè con M. Buber, sul cui invito accettò di fondare la rivista «Die Kreatur»: «Non potei e non posso ancora rendermi conto se questa incapacità di dire di “no” dipendesse dalla vanità di esibirmi come scrittore (M. Buber era un autore famoso, molto in vista), oppure avessi a che fare con la guida di un “demone” in senso socratico», in B. E., p. 31.

76 N. G., p. 131.

77 Ibid., p. 135; «Mein liebstes Kind», in K. N., p. 7.

78 Cfr. N. G., p. 131.

79 Cfr. ibid., p. 132.

80 K. N., p. 16.

81 Ibid., p. 5.

82 Ibid., p. 16.

83 Ibid., p. 80.

84 N. G., p. 133.

85 K. N., p. 39.

86 Ibid., p. 133.

87 Ibid., p. 17.

88 Ibid., p. 20.

89 Ibid., p. 25s.

90 Ibid., p. 98.

91 Von Weizsäcker riteneva che il trattamento terapeutico dovesse proporsi «una certa educazione intellettuale o un influsso sul pensiero del paziente»: p. 25.

92 Ibid., p. 29.

93 Ibid., p. 30.

94 Ibid., p. 36.

95 Ibid., p. 50.

96 Ibid., p. 52.

97 L. Andreas-Solomé, Mein Dank an Freud, Wien 1931; cit. da von Weizsäcker a p. 52.

98 Ibid., p. 53.

99 Ibid., p. 78.

100 Ibid., p. 80.

101 N. G., p. 134s.

102 K. N., pp. 83 e 87.

103 Ibid., p. 93.

104 Ibid., p. 113.

105 Ibid., p. 90s.

106 Ibid., p. 113.

107 Ibid., p. 118.

108 Ibid., p. 121.

109 Ibid. p. 6.

110 N. G., p. 134.

111 Ibid., p. 146.

112 Ibid., p. 140.

113 K. N., pp. 138ss.

114 Ibid., p. 150.

115 Un primo accenno in tal senso in K. N., p. 126.

116 Cfr. N. G., p. 161.

117 «Rappresentato otticamente, questo rapporto diventa senza passione, apatico. Originariamente, invece, non è così. Originariamente in questo rapporto si odia e si ama, si separa e si unisce, si litiga e ci si riconcilia. La debolezza della ragione deriva dal fatto che essa sorge solo quando si è eliminata la passione, e quindi è secondaria»: Von Weizsäcker, «Der Begriff der allgemeinen Medizin», in Beiträge aus der allgemeinen Medizin, 1947, n. 1, p. 35.

118 Cfr. la dissertazione di H.D. Reiner, Das Leib-Seele-Problem in derpsychosomatischer Medizin V. v. Weizsäckers, cit.

119 V. von Weizsäcker, «Von der seelischen Ursachen der Krankheit», in Diesseits und jenseits der Medizin, Stuttgart 1950, p. 119.

120 Cfr. V. von WeizsäckerAm Anfang schuf,.., cit., p.

121 V. von WeizsäckerFälle und Probleme, cit., p. 22.

122 «Leib - das ist Seele des Körpers und gleichsinning Körper der Seele»: V. von WeizsäckerDer Begriff der Allgemeinen Medizin, cit., p. 35.

123 V. von WeizsäckerVon der seelischen Ursachen..., cit., p. 122.

124 V. von WeizsäckerMeines Lebens hauptsächliches Bemuhen, cit., p. 122.

125 «Superiamo noi stessi, il malato insieme al medico, e in questo superamento, in questa trascendenza consiste il nostro “voler-essere-uomini, più-che-natura”» (Mehr - als - Natur - Menschsein - Wollen), che è appunto il proposito segreto della psicologia», Ibid., p. 256.

126 K. N., p. 74.

127 Ibid., p. 77. «L’essenziale era lo spostamento della dinamica dall’accomodamento psichico a quello psicofisico, non dall’ambito sessuale a quello non sessuale»: N. G., p. 143.

128 N. G., pp. 161ss.

129 V. von WeizsäckerMeines Lebens..., cit., p. 251.

130 K. N., p. 125. A questo punto von Weizsäcker introduce la distinzione tra Sollbereich (che è l’ambito delle categorie morali; qui la decisione si articola tra il «volere» e il «potere») e l'Istbereich (come ambito delle categorie logiche, dove vige l’«è» o «non è»).

131 Ibid., p. 130.

132 N. G., p. 143.

133 Ibid., p. 144.

134 Ibid., p. 145.

135 V. von WeizsäckerMeines Lebens..., cit., pp. 257ss.

136 N. G., p. 83.

137 Ibid., p. 83.

138 V. v. WeizsäckerMeines Lebens..., cit., p. 259.

139 N. G., p. 93.

140 Ibid., p. 15. La critica all'illuminismo, in particolare nella sua espressione positivista, era nell'aria: cfr. M. Horkheimer-Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it., Torino 1966 («L’uscita dal cerchio fatato della realtà è — per lo spirito scientifico — follia e autodistruzione come per lo stregone primitivo l’uscita dal cerchio magico che ha tracciato per l’esorcismo. Il dominio della natura traccia il cerchio in cui la critica della ragione pura ha relegato il pensiero», p. 34).

141 V. von Weizsäcker, Der Gestaltkreis, nuova edizione «Suhrkamp Taschenbuch», Stuttgart 1973, p. 4 (le citazioni saranno tratte da questa edizione, che è la più recente e facilmente reperibile; si farà riferimento al libro mediante la sigla G. K.).

142 G. K., p. 4.

143 N. G., p. 46.

144 Ibid., p. 51.

145 Ibid., p. 60.

146 Ibid., p. 48.

147 Ibid., p. 57.

148 Ibid., p. 65.

149 G. K., p. 4.

150 N. G., p. 74.

151 Ibid., p. 67.

152 G. K., p. 292.

153 V. von Weizsäcker e J. Stein, «Der Abbau der sensiblen Funktionen», in Dtsch. z. Nervenhk 99 (1927) 1ss.

154 G. K., p. 130.

155 N. G., p. 58.

156 V. von Weizsäcker, «Gestaltkreis, dargestellt als psychophysiologische Ana- lyse des optischen Drehversuches», in Pflügers Arch. f. d. ges. Physiologie, vol. 231 (1933) 630ss.

157 N. G., p. 68.

158 «FW e GK non erano teorie “speculative”, tali da poterle sostituire con altre senza toccare i fatti. Erano dati di fatto, invece, che le soglie non fossero delle costanti di natura e che i movimenti volontari non potessero essere ricondotti ai riflessi. FW e GK erano tentativi intrapresi, a maggiore e non a minor diritto, per portare i fatti a una forma generale, come lo erano stati il concetto di funzione e il concetto di riflesso»: N. G.,p. 70.

159 N. G., p. 147.

160 P. Wyss ha messo in evidenza l’importanza strutturale che ha il concetto di «relazione» (Umgang) nel pensiero di von Weizsäcker (Storia della psicologia del profondo, vol. I, pp. 391ss), che l’ha sviluppato nella propria proposta di una «psicoterapia integrativa» (cfr. voi. II, pp. 261ss).

161 N. G., p. 71.

162 G. K., p. 3.

163 Cfr. N. G., p. 85.

164 Questa formulazione che troviamo negli articoli giovanili raccolti sotto il titolo: Stücke einer medizinischen Anthropologie in Arzt und Kranker, p. 67ss), risente della filosofia personalista di M. Buber. Gli articoli sono apparsi, infatti, originalmente nella rivista «Die Kreatur» che von Weizsäcker pubblicava insieme a M. Buber.

165 V. von Weizsäcker, «Über medizinische Anthropologie, in Arzt und Kranker, p. 45.

166 G. K., p. 6.

167 Ibid., p. 7.

168 Ibid., p. 23.

169 In sintesi, un Leistungsprinzip contrapposto a un Leitungsprinzip: cfr. ibid., pp. 27ss.

170 Esistono diversi atti biologici, come quello del vedere, dell’udire, del tastare, del gustare...; oppure, dal punto di vista prevalente del contenuto, gli atti biologici della lotta, del gioco, dell’orientamento ecc.

171 Ibid., p. 33.

172 Ibid., p. 50. Per ammissione di von Weizsäcker (nota a p. 279) il paragone della porta girevole è stato usato prioritariamente da Lou Andreas-Salomé, nel suo Mein Dank an Freud, Wien 1931.

173 G. K., p. 222.

174 Ibid., pp. 222ss.

175 Ibid., p. 250.

176 Ibid., p. 268.

177 Ibid., p. 270.

178 Ibid., p. 274.

179 Ibid., p. 277.

180 L.A. ChiozzaPsicoanálisis: presente y futuro, Buenos Aires 1983.

181 V. von WeizsäckerNatur und Geist, Göttingen 1954, p. 138.

182 Per una esauriente informazione si veda E. Pellegrino e T. McElmihneyTeaching ethics, the Humanities and Human Values in medical schools: a ten-years overview, Washington 1984.

183 Cfr. R.M. Veatch, «Medical Ethics education», in Encyclopaedia of bioethics, vol. 2, pp. 870-875, New York 1978.

184 Ne tratta diffusamente nel cap. 43 della Pathosophie, Göttingen 1967, pp. 341-347: «Der Arzt und der Kranke. Die Vertrauensfrage».

185 L’accentuazione autoprotettiva del carattere scientifico della medicina può avere, secondo von Weizsäcker, un esito autodistruttivo: «Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione (“Stand”), la corporazione dei medici o degli scienziati, diventerà l’oggetto (“Gegenstand”) di una grave aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi mettendosi dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo»: ibid., p. 344.

186 Il carattere corporativistico dell’ethos ippocratico difeso dalla professione medica è stato denunciato da diverse voci. Si veda, tra gli altri, Paul Lueth, Die Leiden des Hippokrates, Darmstadt 1975. Per Guy Caro, La médecine en question, Paris 1974, i medici promuovono il proprio vantaggio nel far credere che l’etica medica a cui si ispirano difenda contemporaneamente gli interessi propri e quelli dei malati. Si fanno, come i proprietari di cui parla Emmanuel Mounier, «professori di virtù per difendere i loro interessi».

187 V. von WeizsäckerPathosophie, cit., p. 346. Considerazioni convergenti a quelle qui esposte ha svolto von Weizsäcker in uno scritto (Euthanasie und Menschenversuche, in Psyche I, 68, 1948) in cui prende in considerazione il comportamento di quei medici che nei campi di concentramento hanno fatto esperimenti sugli esseri umani ed hanno seguito il programma di eutanasia. Essi hanno calpestato le idee dell’umanesimo. Tuttavia von Weizsäcker osserva che è lo stesso orientamento naturalscientifico della medicina che li educa a vedere nell’uomo solo un oggetto. Questa circostanza non discolpa moralmente gli accusati, ma induce a vedere il loro comportamento da un’altra angolatura. Si risolve, in definitiva, in una imputazione contro la medicina, che tratta la biologia come una scienza della natura.

188 Si può aggiungere, a questo proposito, che proprio in epoca nazista il giuramento di Ippocrate ha goduto della massima considerazione ed è stato fatto oggetto di strumentalizzazioni e celebrazioni retoriche. Nel 1942 ne appariva una edizione (B.J. Gottlieb, Hippokrates, Gedanken ärztlicher Ethik aus dem Corpus Hippocraticum, Praga 1942), con prefazione dello stesso Himmler. Questi afferma che lo scritto ippocratico «contiene un patrimonio ariano, che dalla distanza di duemila anni ci parla una lingua viva».

189 «Già da studente ero convinto che la vittoria sulla schiavitù del meccanicismo non si potesse ottenere mediante un sistema di filosofia della natura parallelo o sovrapposto, bensì mediante una trasformazione della ricerca», in Natur und Geist, cit., p. 100.

190 Si vedano le considerazioni svolte più sopra (n. 187), che autorizzano von Weizsäcker ad accusare l’approccio medico nel suo insieme di mancare l’umano, proprio perché considera l’uomo come un pezzo di natura tra gli altri.

191 Natur und Geist, p. 101.

192 L. von KrehlKrankheitsform und Persönlischkeit, Leipzig 1929, p. 17.

193 V. von WeizsäckerLudolf von Krehl. Gedächtnisrede, Leipzig, p. 10.

194 V. von WeizsäckerMeines Lebens hauptsächliches Bemühen, in H. KernWegweiser in der Zeitwende, München-Basel 1955, p. 245.

195 V. v. WeizsäckerNatur und Geist, p. 98.

196 V. v. Weizsäcker, «Meine Lebens...», cit., p. 253.

197 V. v. Weizsäcker, Natur und Geist, pp. 103ss.

198 V. v. WeizsäckerWege psychophysischer Forschung, in Arzt und Kranker, 1, p. 198.

199 V. v. WeizsäckerPathosophie, cit., p. 346.

200 Cfr. V. v. WeizsäckerDer kranke Mensch, Stuttgart 1951, p. 352. I significati personali della malattia somatica — quelli che si mostrano quando si assume nei suoi confronti la Ich Stellung — sono stati studiati di recente da Dieter Beck, Krankheit als Selbstheilung, Frankfurt/M. 1981 (tr. it. La malattia come autoguarigione, ed. Cittadella, Assisi 1985); Beck si riferisce esplicitamente alla concezione antropologica di von Weizsäcker della malattia.

201 V. v. Weizsäcker, Grundfragen medizinischer Anthropologie, Tübingen 1948, p. 27.

202 Von Weizsäcker ha descritto l’atteggiamento personale e del suo ambiente dopo la crisi della prima guerra mondiale nel libro di memorie: Begegnungen und Entscheidungen, Stuttgart 1949.

203 M. BuberDie Kreatur, in P. Vogel (a cura), Viktor von WeizsäckerArzt in Irrsal der Zeit, Göttingen 1946, p. 5 s.

204 H. EhrenbergDas Verhältnis des Arztes Weizsäckers zur Theologie und das der Theologie zu Weizsäckers Medizin, in P. Vogel, cit., pp. 7-20.

205 V. WeizsäckerBegegnungen und Entscheidungen, p. 58.

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