La fragilità nella storia del pensiero sanitario

Sandro Spinsanti

LA FRAGILITÀ NELLA STORIA DEL PENSIERO SANITARIO

in Rapporto Sanità '98. Priorità e finanziamento del Servizio sanitario nazionale: le fragilità, a cura di Marco Trabucchi e Francesca Vana-ra, Fondazione Smith Kline

Società Editrice il Mulino, Bologna 1998

pp. 139-170

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Dobbiamo destinare le risorse sanitarie alla cura delle persone fragili? Ancor prima di aver proceduto alla necessaria specificazione dei destinatari, ci rendiamo conto che la formulazione stessa della questione rischia di sembrare di natura retorica, in quanto la risposta è obbligata. Un a priori, che è inscindibilmente sociale, politico ed etico, ci impedisce di escludere dall’orizzonte del nostro interesse coloro che hanno bisogno di cure mediche e di assistenza, pur non avendo i mezzi economici di procurarsele in modo autonomo. Abbiamo buoni motivi per essere fieri di una civiltà che inserisca i più fragili nella trama delle cure. Il dibattito si sposta allora sul “come” reperire le risorse per assicurare un’assistenza che diventa sempre più onerosa; il “perché” occuparsi dei fragili viene dato per scontato (oppure riservato all’ambito dell’esortazione morale, delle intenzioni o della spiritualità, là dove si attinge la spinta morale per una attività molto esigente e logorante, quale è quella di occuparsi di malati che non vanno verso la guarigione, ma sono inchiodati nella cronicità). Eppure proprio questo interrogativo si dimostra il più fecondo, perché ci obbliga a renderci conto che le diverse giustificazioni ― il “perché”, appunto ― che possiamo dare alla cura dei più deboli determina le risposte pratiche. Il “perché” e il “come”, in altre parole, sono inestricabilmente connessi.

La presente riflessione è finalizzata a ripercorrere le diverse formulazioni che la cura e l’assistenza delle persone fragili ha avuto nella storia culturale che sta alle nostre spalle. In modo schematico, il pensiero e le prassi sanitarie saranno raggruppate attorno a quattro modelli fondamentali: le concezioni naturalistiche, il modello dell’ideale messianico, l’orientamento liberistico e quello mutuato dallo stato sociale. I

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modelli evidenziano valori diversi e presuppongono concezioni antropologiche e sociali non riconducibili l’una all’altra. Si sono sviluppati in senso diacronico, in epoche successive, e hanno una vitalità che ha permesso loro di trovare formulazioni nuove in contesti differenti.

1. Il modello naturalistico

Il primo dei fili che intessono la tradizione della medicina occidentale si sviluppa a partire da una posizione di riserva, o addirittura negativa, rispetto all’obbligo di fornire cure mediche a determinati gruppi di malati. Secondo questo modello, esistono dei limiti stabiliti dalla natura stessa all’azione terapeutica. L’ampia categoria dei “fragili” può essere utilizzata per designare coloro che si trovano al di fuori dell’ambito in cui le cure sono giustificabili. Al terapeuta si domanda di discernere tra l’una e l’altra categoria, perché rivolgere le cure alle categorie che dovrebbero esserne escluse è sbagliato, dal punto di vista medico o secondo le esigenze dell’etica.

La posizione è rappresentata in modo evidente dall’antica medicina greca, nata dallo sforzo sistematico di riportare sia la spiegazione dei fenomeni patologici, sia la risposta terapeutica della medicina dalla dimensione religiosa ai piano delle cause naturali. Il programma di questa medicina è limpidamente riassunto da un passo di Ippocrate: «Chi segue in tutto un piano razionale, non cambi il piano neppure se non sopravvengono fatti conformi ad esso, qualora resti del suo avviso iniziale» (cfr. Vegetti, 1970, p. 126 ss.). La conseguenza di questa decisa collocazione che demarca la medicina come scienza naturale dalle pratiche religiose e magiche è il carattere “naturalistico” che connota l’arte del guarire. Ciò vuol dire che il medico si colloca a fianco del malato, come suo alleato, per combattere i fatti patologici ― secondo il celebre aforisma ippocratico: «L’arte ha tre momenti: la malattia, il malato e il medico. Il medico è il ministro dell’arte: si opponga al male il malato insieme al medico» ― ma sempre entro il vincolo costituito dal rispetto della “physis”, cioè della natura.

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Non solo la medicina greca è “fisiologica”, ma lo è anche l’etica che la sottende. La cultura moderna ci ha insegnato a contrapporre l’aspetto morale a quello fisico, il regno della libertà a quello della necessità; per i greci, invece, è buono ciò che occupa il suo posto nel kósmos, quale insieme ordinato di cose. Il concetto stesso di etica è quindi rigorosamente naturalistico. Un altro elemento essenziale nel quadro antropologico della medicina greca è la definizione della salute come disposizione “naturale” (katà physin) e della malattia come disposizione “antinaturale” (parà physin). All’interno di quest’ultima vennero ben presto differenziati due tipi di malattie: quelle “per necessità ineliminabile della natura” e le malattie “casuali”. Queste ultime colpiscono l’uomo solo accidentalmente, mentre le altre aggrediscono la sua essenza o sostanza. Pertanto nei confronti delle prime l’arte del medico è efficace, mentre non lo è per le altre. Si può dire che le prime sono “curabili” attraverso la tecnica medica, mentre le seconde sono generalmente “incurabili”; l’unica cosa che il medico può fare è alleviare le sofferenze del malato (cfr. Laín Entralgo, 1970). Per il medico è molto importante sapere quali mali possono essere curati e quali non possono esserlo. Come sentenziano gli aforismi ippocratici: “Quelle malattie che i medicamenti purgativi non curano, le cura il ferro; quelle che il ferro non cura, le cura il fuoco; quelle che il fuoco non cura, devono essere considerate incurabili” (Aforismi, VII, n. 87).

Una lettera utilitarista di questo atteggiamento è quella che lo riconduce all’importanza per il medico ippocratico di saper preveder fin dalla prima visita l’eventuale esito letale del male, affinché la morte non fosse addebitata alla sua incompetenza: la capacità prognostica, infatti, era il principale strumento di cui si serviva una medicina la cui potenzialità terapeutica era quasi inesistente (cfr. la voce “Medicina ippocratica” in Dizionario di storia della salute, Einaudi, 1996). Senza escludere completamente una interpretazione del comportamento dei medici come rivolto a proteggere la loro reputazione e la loro immagine nella società, non possiamo ignorare altre dimensioni del modello naturalista. Un aspetto etico era costituito dall’orientamento a una nozione di giustizia intesa come “aggiustamento” all’ordine della natura. L’ordine

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giusto si identifica con il bene comune; ma il bene comune non è uguale per tutti: dipende dalla posizione che ognuno occupa per natura nell’ambito della società. La giustizia applicata alle cure sanitarie richiede che ciascuno riceva proporzionalmente alla sua posizione 1. In base a questa nozione di giustizia, che indica una proporzionalità secondo natura, per tutta l’antichità e durante il medioevo si distinsero tre grandi livelli di assistenza medica: quello degli strati più poveri della società (servi, schiavi...), quello degli artigiani e quello dei cittadini liberi e ricchi. Secondo il modello naturalista, quindi, non sarebbe giusto trattare i “fragili” dal punto di vista medico ― comprendendo nella categoria quelli che vanno verso la morte, i cronici e coloro che non possono essere restituiti alla salute ― allo stesso modo di coloro che fragili non sono.

Non possiamo ignorare che il discernimento tra ciò che rispettava la natura e ciò che ne violava le leggi aveva anche una connotazione religiosa, che non è andata perduta neppure quando l’arte terapeutica ha assunto come suo campo di azione quello della scienza. La concezione è rispecchiata nel linguaggio del mito. In quello che riporta la vicenda di Asclepio, l’eroe primordiale dell’arte medica, così come è riferito da Pindaro nell’ode Pitica terza, la trasgressione come

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superamento dei confini naturali (hybris) costituisce il pericolo intrinseco della medicina. Asclepio, infatti, iniziato dal centauro Chirone all’arte di “guarire i morbi dolorosi degli uomini”, sarebbe morto fulminato da Giove. La sua colpa: aveva accettato, per denaro, di procedere a un atto terapeutico illecito, salvando dalla morte un uomo destinato dalla natura a morire (“rapire da morte un uomo ormai catturato”).

Nella concezione naturalistica la vera forza terapeutica è la “vis sanatrix naturae”. Il medico possiede solo una potenza che gli viene prestata, per breve tempo, per porsi a servizio della natura stessa. Egli è un medico tanto più bravo, quanto più si piega all'insight dell’inevitabile 2. Anche per la medicina il naturalismo richiede un discernimento che si fonda su una virtù che Aristotele ha chiamato “phrònesis” e i latini “prudentia”, vale a dire la “capacità di distinguere ciò che è buono”. La “physis” costituiva la base dell’etica, la norma della moralità essendo data dall’applicazione del logos (ragione) alla conoscenza dell’ordine della physis. In altre parole: è buono ciò che segue l’ordine della natura, è cattivo ciò che altera questo ordine.

L’assunzione della medicina “fisiologica” dell’antichità da parte del cristianesimo medievale ha rafforzato questa concezione naturalistica: l’uomo deve adattarsi all’ordine della natura, che in ultima analisi è un ordine divino, in quanto Dio è creatore della natura e delle sue leggi; ciò facendo egli realizza

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la “giustizia” (nel senso fondamentale di “giustezza o aggiustamento” alle leggi naturali) e la “virtù”. Ma l’orientamento alla lex naturalis, come partecipazione alla lex aeterna, non offre più un criterio di discernimento per l’uomo della nostra epoca. Caratteristica della tecnica moderna, a differenza di quella greca e medievale, è di produrre “artificialmente degli esseri naturali” (per usare una formula del filosofo spagnolo Xavier Zubiri). Non produce più solo degli “arte-fatti”, contrapposti alle realtà naturali, ma interviene in zone sempre più ampie dell’essere vivente, producendo le stesse cose della natura e dotate della stessa attività naturale.

L’“artificialità” non è più, in sé, un criterio negativo di valutazione morale 3.

Alla diversa logica della tecnica si sovrappone il posto che nella cultura contemporanea viene attribuito al desiderio. Ambedue tendono a porre la soggettività al di sopra di ogni norma

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etica; anzi, la bontà morale dell’azione viene correntemente commisurata sulla sua rispondenza al desiderio: è bene ciò che porta al soddisfacimento di ciò che è sentito soggettivamente come desiderabile. Non si accetta un principio regolatore del desiderio, come se questo non avesse altra regola che se stesso. La logica tecnica, d’altra parte, induce a perseguire ogni fine realizzabile, spingendo il progetto di dominio della natura fino alla completa disposizione del proprio corpo. In fondo a questo progetto si delinea la figura mitologica dell’autopòiesis, cioè l’autocreazione dell’uomo.

Più che altri settori della medicina nei quali pur si esprime il ruolo principe che assume il desiderio ― da quello più ovvio della medicina estetica al ricorso alle tecnologie nell’ambito della cosiddetta “procreatica”, con il variegato ricorso alle tecnologie applicate alla riproduzione― il prolungamento della vita illustra la ripercussione che l’atteggiamento moderno verso la natura ha nei confronti della fragilità. La riemergenza del problema dei limiti è dovuto alla riflessione sistematica su questo tema che da circa dieci anni sta svolgendo il filosofo della medicina Daniel Callahan, nell’ambito dello Hastings Center di New York, di cui è stato direttore. Lo ha fatto con opere che hanno suscitato un acceso dibattito. Ricordiamo: Setting limits: Medical goals in an anging society (1987), What kind of life: The limits of medical progress (1990) e The troubled dream of life: Living with mortality (1993). Anche la ricerca internazionale promossa e coordinata dallo Hasting Center: “Gli scopi della medicina: nuove priorità” (1997) si muove nella stessa direzione.

Daniel Callahan è stato uno dei primi ad avvertire che la bioetica, che negli anni ‘80 è diventato un discorso pubblico di ampia risonanza, era chiamata a spostare la sua attenzione dai problemi derivanti dai diritti personali e dalla tutela dell’autonomia dei pazienti nelle scelte cliniche ai problemi della giustizia. Piuttosto a disagio nei confronti della bioetica standard (quella centrata sui dilemmi morali e sulle scelte talvolta tragiche che l’individuo è chiamato a fare, ed eventualmente sulle linee-guida che possono aiutare a risolvere tali conflitti), Callahan è invece interessato ai cambiamenti che la medicina introduce nella società, nel nostro modo di

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considerare la vita, nella cultura di cui facciamo parte.

Una di tali trasformazioni critiche è la conquista della vecchiaia da parte della medicina, a partire dalla acquisita capacità di prolungare la vita umana. Tentar di procurare cure sanitarie sempre più efficaci per gli anziani è diventata la più estesa delle frontiere della medicina. Un ideale anche di natura morale: si rifiuta come una discriminazione indegna della medicina l’idea che l’età del paziente possa essere una variabile da prendere in considerazione, qualora ci siano i mezzi tecnici di potergli portare i benefici (gli standard di trattamento vogliono essere programmaticamente ciechi nei confronti dell’età).

Callahan mette in discussione gli assunti fondamentali di tale concezione. La versione semplificata della sua tesi, messa in circolazione dai media, è stata identificata con la proposta di sottrarre le cure mediche alle persone anziane, dopo una certa età: intanto perché è dubbio che queste cure diano agli estremi anni strappati alla morte una qualità tollerabile; e poi perché, anche se lo volessimo, ben presto non ce lo potremmo più permettere, per l’aumento delle spese per la sanità e la modifica della curva demografica.

Ma il progetto di Callahan ha maggior spessore di quello che la divulgazione semplificata del suo pensiero lascia indovinare. La crisi dell’allocazione delle risorse è il solo punto di partenza per interrogativi più fondamentali: se dobbiamo cominciare a fare delle scelte e a stabilire delle priorità nella distribuzione delle risorse, diventa prioritario decidere che cosa vogliamo che la medicina nel suo insieme faccia per noi. In altri termini, la crisi finanziaria della sanità ci offre una preziosa occasione, anche se dolorosa, di sollevare degli interrogativi di fondo sulla salute e sulla vita umana, sugli obiettivi della medicina e della sanità contemporanea. Le poste in gioco sono quindi sostanzialmente le questioni antropologiche.

In questo quadro vanno lette le considerazioni di Callahan sulla necessità di “porre dei limiti”. La sua proposta non si riduce a un razionamento delle scarse risorse sanitarie, ma fondamentalmente richiede di considerare la vita umana come limitata. Callahan parla di “natural life span”: la vita si sviluppa “naturalmente” entro un arco temporale, che comprende

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un inizio, una crescita, una decadenza e una fine, con la morte come suo correlato naturale. Siamo incapaci, e lo saremo inevitabilmente anche in futuro, di fare felici gli anziani spendendo sempre più per la loro sanità. L’incapacità è connaturata a una cultura che non sa pensare la vita umana nell’orizzonte del limite. Anche se, per ipotesi, le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite ― aiutando sempre più persone a vivere sempre più a lungo ―, non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada.

Anche quanto Callahan ha scritto sull’allocazione delle risorse va ricondotto a una riflessione sui limiti del progresso medico. Il problema della sanità non è quello che appare in superficie, cioè una questione di maggiori finanziamenti, di efficienza e di giustizia nell’accesso alle cure. È piuttosto una crisi circa il significato e la cura della salute, circa il posto che la ricerca della salute deve avere nella nostra vita; in definitiva, riguarda il “tipo di vita” (What kind of life) ― la “buona vita” ― da condurre. Per questo la soluzione della crisi non sarà offerta dal ricorso a terapie meno costose o a nuove e più efficienti strategie di servizio sanitario. Bisogna imparare a “vivere con la mortalità” (Living ivith mortality).

La direzione in cui Callahan propone di muoverci presuppone una distinzione tra gli interventi medici destinati a curare le malattie e quelli rivolti a prendersi cura del malato. Come società, non possiamo permetterci di curare ognuno, ma dobbiamo invece sentirci obbligati a prenderci cura di tutti. Compito della società è di migliorare il carattere della vita nel suo insieme, di contenere il periodo di morbilità che affligge l’ultima parte della nostra vita, di prevenire morti premature. Parallelamente, siamo chiamati a favorire il cambiamento che ci permette di trasformare il nostro modo di comprendere la malattia, la vita, la salute e la morte: in definitiva, di rimediare a una pericolosa mancanza di direzione morale. L’argomentazione antropologica di Callahan sui limiti “naturali” da rispettare sfuma in una perorazione per il recupero di un atteggiamento rispetto alla vita ispirato alla saggezza: «La medicina moderna è stata la beneficiaria della fede nel progresso e della volontà di perdonare i fallimenti

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della tecnologia ― e questo è abbastanza insolito ―, forse perché abbiamo lasciato che la nostra fede e la nostra speranza si allontanassero dal senso comune. È ancora tempo di fermarsi e di capire che siamo ancora creature finite e limitate» (Callahan, 1994, p.85).

2. Il modello messianico

Il mondo classico è arrivato indubbiamente a formulare l’ideale a cui il medico deve aspirare e gli obblighi che acquisisce nei confronti del malato in termini di misericordia, di solidarietà, di fratellanza universale: in una parola, come “etica della filantropia”. In particolare, quando sul filone della concezione ippocratica si è innestato l’umanesimo stoico, ha preso forma un modello di pratica della medicina che richiedeva al medico specifiche virtù professionali. L’espressione più compiuta si trova negli scritti di Scribonio Largo (I sec. d.C.), per il quale il medico come filantropo deve misericordia et humanitas a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza fra gli uomini. L’amore dell’umanità, che si esprime in un sentimento di simpatia universale, diventa la virtù professionale del medico (Laín Entralgo, 1969).

È legittimo chiedersi se l’ideale etico del medico formulato dal cristianesimo delle origini si collochi in posizione di continuità o di rottura con il modello di umanesimo medico espresso dal mondo pagano. La risposta alla domanda non è semplice: è imbricata con le questioni fondamentali del rapporto tra fede e storia, chiesa e cultura, trascendenza della salvezza offerta e incarnazione del messaggio. Possiamo individuare due linee di orientamento, che identifichiamo rispettivamente come sincretistica e apologetica. La prima ha “cristianizzato” l'ethos medico che si era coagulato intorno al giuramento ippocratico, considerando quell’etica come naturaliter cristiana. L’alta considerazione del medico in ambiente cristiano, in quanto la sua attività lo fa assomigliare al Cristo terapeuta, ha favorito l’assimilazione dell’ideale storico del medico filantropo, che esercita la professione con amore disinteressato nei confronti di tutti coloro che hanno bisogno della sua opera.

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La seconda linea è quella che ha evidenziato piuttosto i cambiamenti che il cristianesimo ha introdotto nell’eredità greco-romana, con l’intenzione di metterne in evidenza la superiorità. Questo orientamento si è espresso soprattutto nel tema del “Christus medicus". Nella letteratura patristica il motivo del “Cristo medico” è presente in Girolamo, Ambrogio, Agostino e in diversi Padri minori. L’analisi teologica delle citazioni (Hübner, 1985) ha messo in evidenza che la tematizzazione di Cristo come medico non è stata fatta per dibattere questioni etiche; l’immagine del “Christus medicus” era utilizzata piuttosto per interessi dogmatici, o piuttosto catechetici: i Padri latini se ne servivano per spiegare come avviene la redenzione, presentando il Cristo come il medico che per mezzo della grazia risana la natura corrotta. Gli aspetti pratici dell’attività terapeutica del medico sono accennati solo di sfuggita. Nel rapporto tra medico e paziente si evidenzia un contrasto: mentre è il malato che deve rivolgersi al medico, il medico divino assume lui l’iniziativa con il paziente; si parla del gusto amaro delle medicine che vengono prescritte e dell’efficacia del farmaco che guarisce le cause: sono solo spunti retorici per illustrare il processo della salvezza inteso in senso teologico. Oltre alle implicazioni per la dottrina della soteriologia, il motivo del “Christus medicus” ha svolto anche una funzione apologetica: il titolo di “Medicus” è stato attribuito a Cristo per contrapporlo a Esculapio, il dio greco della medicina. La tesi è stata difesa nel XIX secolo da A. von Harnack e da altri storici, i quali ritenevano che la devozione popolare a Esculapio costituisse una minaccia per il cristianesimo (Harnack, 1892). Il culto asclepiadeo era concentrato in alcuni santuari; i più celebri tra i circa 200 santuari nell’ambito greco-ellenistico si trovavano a Epidauro, Kos, Pergamo, Roma. Il santuario di Epidauro, in particolare, è stato descritto come una Lourdes dell’antichità...

La ricerca storica contemporanea tende a minimizzare la contrapposizione di Cristo medico a Esculapio (Schadewaldt, 1967). L’ostilità degli apologisti cristiani nei confronti di Esculapio è della stessa natura di quella che ha indotto la chiesa antica ad avversare le divinità greco-romane e la mitologia pagana, senza che al dio della medicina possa essere attribuito

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un ruolo particolare di contraltare all’immagine del Salvatore proposta dal cristianesimo. Tuttavia è legittimo sostenere che tra i due culti esisteva una diversità fondamentale circa l’universalità della salvezza. A differenza di Esculapio, che si accosta solo a qualcuno, il Cristo “Soter” porta la salvezza a tutti. Questa concezione di natura religiosa non è stata priva di conseguenze per quanto riguarda il rapporto tra medico e malato. I cristiani non hanno certo inventato la medicina, che nel mondo classico aveva autonomamente sviluppato sia una grande tradizione scientifica, sia un nobile ‘ethos’ ; ma il cristianesimo ha trasferito in essa una esigenza di universalità, che affonda le radici nella dottrina teologica dell’universalità della salvezza rivolta a tutti gli uomini, senza distinzione. In forza di questa universalità il medico cristiano si sente rigorosamente impegnato verso qualsiasi uomo sofferente. Notava l’imperatore Giuliano, nel IV sec.: «Ciò che fa forti [i cristiani] è la loro filantropia nei confronti degli estranei e dei poveri... È vergognoso per noi [pagani] che i galilei non esercitino la misericordia solo con quelli che condividono la loro fede, ma anche con quelli che venerano gli idoli» (cfr. Schipperges, 1965).

Una prima conseguenza pratica: la deontologia medica classica, che escludeva gli inguaribili dal trattamento, non poteva più essere accettata dal punto di vista cristiano. Il medico del mondo classico si asteneva dal curare i malati per i quali non c’erano prospettive di guarigione, non per carenza di etica professionale, ma per un motivo fondamentalmente religioso. La medicina ippocratica, infatti, affidava come compito al medico quello di agire secondo la physis e il logos.

Non forzare la natura era quindi espressione di una certa ‘pietas physiologica’. La sequela del Cristo conduceva invece ad anteporre la ‘philantropia’ alla ‘physiophilia’, superando la concezione di una natura divinizzata. La cura dei malati più abbandonati e dei derelitti diventò perciò un segno caratteristico della caritas cristiana e della missione della chiesa. I primi ospedali, sorti nel IV sec., dopo la svolta costantiniana, sono un’espressione di quella cura dei malati senza discriminazione, con predilezione per coloro che la scienza medica abbandona, che deriva direttamente dall’insegnamento evangelico.

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Dietro il motivo teologico del ‘Christus medicus' come simbolo della salvezza universale pulsa il ricordo storico della dedizione di Gesù ai malati. Esso ha influenzato la pratica sanitaria propria della chiesa antica. Ne è derivato anche un nuovo tipo di rapporto con il malato, che si discosta da quello in vigore nella medicina dell’antichità. Anche quando il modello etico derivato dall’ideale della filantropia avrà raggiunto la sua espressione più compiuta, nella medicina precristiana si nota una considerevole distanza e freddezza nel rapporto tra medico e paziente. La comunità cristiana, invece, non abbandona i malati, ma li fa piuttosto oggetto di un’attenzione particolare.

Il motivo del ‘Christus medicus’, benché si sia sviluppato con preoccupazioni principalmente dottrinali, ha svolto anche il compito di fornire nuovi parametri di comportamento in ambito sanitario. In obliquo, ha connotato un modo nuovo di fare il medico, con una passione per l’uomo colto nella dimensione della fragilità. Un indice che il motivo non avesse solo valore simbolico in riferimento alla redenzione è costituito dal fatto che è stato usato con predilezione proprio dai Padri che, come Agostino e Ambrogio, si sono occupati di più della cura dei malati. Il medico che si ispira al cristianesimo trova perciò nella sequela di Gesù un nuovo ‘ethos’. Poiché il Cristo nel motivo del ‘Christus medicus' viene descritto come il ‘medico eccellente’ che si interessa solo del bene del paziente (Clemente Alessandrino,  212), anche il medico cristiano deve concepire se s:esso come strumento di Dio, con la ‘philanthropia divina come motivazione. Come afferma Gregorio di Nissa ( 395) in una lettera al medico Eustasio, suo amico (Opera III, 1, 1): «Per tutti voi che esercitate la medicina, l’amore degli uomini è un’abitudine quotidiana. Mi sembra perciò che giudichino bene, senza esagerare, quelli che pongono la vostra scienza al di sopra di tutte nella vita».

Indirettamente viene espressa una grande considerazione per il medico che agisce come il Cristo, dando alla ‘philantropia’ lo stesso orizzonte della ‘soteria’. In questo senso anche il rapporto medico-paziente ha ricevuto una nuova dimensione dall’avvento del cristianesimo. Il confronto fra l'‘ethos’

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del medico dell’antichità greco-romana e quello che si è venuto gradualmente formulando all’interno della comunità cristiana ci permette di individuale l’elemento che specifica l’etica medica ispirata alla sequela messianica. Il principio formale dell’etica delle primitive comunità cristiane è l’azione modellata su quella del Cristo storico. In questa prospettiva il malato diventa un luogo privilegiato della prassi messianica e l’attività terapeutica acquista, secondo il significato etimologico originario di therapeuein, il valore di un ‘servizio’. Per riprendere una espressione del cristianesimo medievale, che si riferiva agli infermi chiamandoli “i signori malati”, questi non sono oggetto di assistenza, ma piuttosto dei “signori” da servire. Questo ideale etico si demarca da quello naturalistico, in misura analoga a quanto le virtù teologali si differenziano dall’intenzione filantropica.

Che cosa, in concreto, implichi l’assunzione del modello messianico nei confronti dei malati, emerge dai tratti che conosciamo della comunità cristiana delle origini. In essa il malato è considerato un membro cui spetta un posto privilegiato all’interno della comunità. Gli occhi del credente vedono la sua vera realtà, al di là di ciò che gli occhi della carne riescono a scorgere. E anche là dove la visione degli occhi, sia pure illuminati dalla fede, fa difetto, le mani hanno accesso diretto alla realtà della salvezza. Secondo la formulazione di Mt 25,37-40, nel malato c’è Gesù stesso («Signore, quando ti abbiamo visto malato o prigioniero, e ti abbiamo visitato?...In verità, ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me»). La mano del credente, posta nella sequenza messianica, si apre a condividere, secondo le esigenze radicali della comunità fraterna (cf At 2,44-47) e a «sostenere i deboli e gli infermi» (cf 1Ts 5,14). È ancora la prassi della mano quella che vediamo nell’unzione con l’olio, che allevia il dolore e salva il malato (cf Gc 5,14-16).

La speranza si traduce in una pratica dell’assistenza ai malati atipica rispetto a quella della società, compresa la pratica d’Israele nell’Antico Testamento. Guardando all’assistenza agli infermi messa in atto dalla comunità cristiana dei primi secoli, Origene ( 255 ca.) poté scrivere, con tono di leggero trionfalismo apologetico: «Con i loro bei discorsi, Platone e

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gli altri saggi greci sono simili a quei medici che trattano solo le classi elevate e disprezzano la gente del volgo; mentre i discepoli di Gesù si preoccupano che tutta la tavola riceva un alimento sano» (Contra Celsum, 7,60).

L’attività terapeutica che si sviluppa sulle orme del Messia affonda le radici nelle virtù teologali e fiorisce in comportamenti di ampiezza universale, altruistici e disinteressati nella motivazione. La professionalità del medico che vi si ispira non ha bisogno di complicati codici deontologici, in previsione dei diversi casi che si possono presentare. Anche perché questa medicina, ricca di sentimenti di amore e di accoglienza, è stata tradizionalmente povera, fino ad epoca molto recente, di mezzi terapeutici veramente efficaci. L’ospedale, che raccoglie pellegrini e poveri, non è un luogo dove viene praticata la guarigione, ma piuttosto dove colui che non può guarire viene amorevolmente assistito, fino alla sua morte. Della città ospedaliera di Cesarea, fondata da Basilio ( 379), Gregorio Nazianzeno ( 390) scriveva: «La malattia vi era sopportata con pazienza; la disgrazia era considerata con gioia e veniva messa alla prova la compassione di fronte alla sofferenza altrui» (In laudem Basilii, 43).

Non molto di più si può dire degli ospedali medievali, la cui funzione era quella di permettere ai malati di fare una morte cristiana. In quelle istituzioni si praticava un’etica della morte, più che un’etica della malattia (a differenza di ciò che avveniva nella medicina per ricchi e altolocati: la minuziosa deontologia scolastica valeva per il medico che si occupava delle classi privilegiate, in senso sociale ed economico). Che questa prospettiva non sia oggi del tutto anacronistica lo dimostrano iniziative come quelle di Madre Teresa di Calcutta, rivolte a raccogliere i morenti della strada e permettere loro una morte umana. È una riemergenza, ad alta densità simbolica, dell’etica della sequela messianica, che ha dato frutti così luminosi in ogni epoca della storia della chiesa: dagli ospedali dell’antichità e del medioevo alle diverse istituzioni create per assistere handicappati fisici e mentali, considerati dalla società come casi-limite che non rientrano nello standard di coloro che fruiscono dell’assistenza medica (come i vari ‘cottolenghi’, cronicari ecc.). L’estensione di questa attività di assistenza

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ai malati di Aids dei nostri giorni non è che un’ulteriore illustrazione della mobile frontiera della medicina messianica.

La prassi che ha ricevuto il nome di ‘accompagnamento dei morenti’ è diventata un argomento di grande attualità anche nel mondo occidentale sviluppato. Anzi, soprattutto in questa parte del mondo. Un infausto concorso di diversi fattori culturali ha spinto i morenti ai margini estremi della nostra società, facendone i più poveri tra i poveri. La ‘tabuizzazione’ della morte, infatti, stringe intorno al morente una cortina di reticenze, di dissimulazione o di menzogne, che produce come risultato finale la solitudine più totale di colui che affronta la morte.

La scienza medica, d’altro lato, è tutta sbilanciata sul fronte della lotta contro la malattia e del prolungamento della vita. Persegue questo obiettivo anche quando l’azione terapeutica si manifesta come insensata e controproducente: più che prolungare la vita, infatti, prolunga l’agonia e impedisce che la fase finale della vita si concluda nella dignità che spetta a un essere umano. Il ‘furor sanandi’ che porta talvolta il medico a impiegare tutto l’arsenale terapeutico di cui dispone, senza domandarsi se ciò sia favorevole e se faccia effettivamente il bene del malato, ha creato una situazione diffusa di morte sempre più disumana. L’impegno medico, per quanto lodevole nelle sue intenzioni, è disastroso nei risultati; non aggiunge, infatti, vita alla vita, ma solo sofferenze a un morire dilatato nel tempo.

Non è per caso che proprio negli ambienti segnati da una sensibilità cristiana verso gli ultimi sia sorta di recente una nuova attenzione verso i morenti. L’etica messianica mostra di voler raccogliere la sfida che viene dalla nostra cultura tanatofobica, identificando il nuovo bisogno di presenza e rispondendo all’appello muto dei morenti del nostro tempo. Iniziative concrete, come quella degli hospices, sono state intraprese nel nome della carità cristiana. Prototipo di questa istituzione è il St. Christopher’s Hospice di Londra. L’intento dell’hospice è quello di fornire congiuntamente l’assistenza medica più adeguata insieme a quella affettivo-relazionale. Ciò implica in primo luogo la scelta dell’ambiente più adatto per concludere la vita. In contrasto con la tendenza a medicalizzare

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tutti i fatti della vita biologica, dal nascere al morire, con il corollario costituito dall’ospedalizzazione, coloro che si dedicano a umanizzare il morire tendono a riportare l’evento del decesso nel suo luogo naturale: la casa. Quando non è possibile trasportare l’ospedale in casa, fornendo domiciliarmente le cure necessarie, la struttura dell'hospice costituisce un valido compromesso. Si tratta, infatti, di una realtà intermedia tra l’ospedale e l’albergo, nella quale viene prestata attenzione al comfort da fornire al morente e ai suoi familiari nella stessa misura con cui ci si preoccupa della terapia, in particolare di quella rivolta a lenire il dolore.

Il protagonista di questo tipo di ‘medicina messianica’ è meno il medico in prima persona, quanto la comunità nelle sue diverse articolazioni. L’intervento della realtà comunitaria è decisivo per tutte quelle cure nelle quali il sintomo non è una disfunzione passeggera che va rimossa, ma piuttosto l’indice di un malessere profondo. Si pensi, come esemplificazione, ai fenomeni di alcolismo e di tossicodipendenze. La medicina concepita come intervento professionistico settoriale fallisce regolarmente con questo tipo di mali, anche se dotata di mezzi terapeutici efficaci, mentre hanno successo le ‘cure’ povere, ma ad alta concentrazione affettiva (gruppi di self-help come gli Alcolisti anonimi, comunità terapeutiche...). Il Christus medicus che emerge in queste situazioni come archetipo del guaritore è la personalità corporativa, che può essere accostata a quello che, da S. Paolo in poi, è chiamato ‘corpo mistico’.

La prospettiva messianica sembra modificare l’opera propriamente terapeutica del medico; in realtà, invece, la dilata. L’atteggiamento verso la malattia e la guarigione che abbiamo chiamato ‘messianico’ si differenzia da due altre prospettive di natura religiosa, ampiamente rappresentate nel mondo biblico e presenti anche al di fuori di esso: quella sacerdotale e quella profetica. Dal punto di vista della religiosità sacerdotale la malattia è un’impurità; il malato va, di conseguenza, segregato dalla comunità, in particolare da quella culturale (cf Lv cc. 12 e 13). La prospettiva profetica adotta, invece, il linguaggio del ‘dono-debito’ (o peccato): la malattia è considerata come la manifestazione corporea del peccato del cuore, come castigo di una trasgressione etica, come segno di

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un cammino fuori dell’alleanza (cf Dt 28,15-22). Nella considerazione sacerdotale la risposta alla malattia è la purificazione, mentre in quella profetica è la conversione. I rischi dei due atteggiamenti si manifestano nelle rispettive estremizzazioni: il legalismo per l’una, il moralismo per l’altra.

Al tempo di Gesù i due linguaggi sulla malattia coesistevano. Gesù differenzia il suo atteggiamento messianico tanto dal legalismo (cf Mc 7,1-16), quanto alla ricerca di una colpa personale dietro ogni manifestazione patologica (il conflitto con l’estremizzazione della prospettiva profetica riveste nell’episodio del cieco nato i toni della polemica teologica: cf Gv 9,1-3). Nella prospettiva messianica l’infermità va relazionata all’azione di Dio: in particolare a quella che si manifesta attraverso il suo Messia, il Vangelo che egli annuncia con il ministero della parola e con quello della mano, con l’annuncio del perdono e con i gesti della compassione, è una forza che fa vivere. La salute che egli concede non è semplicemente un’assenza di sintomi morbosi, ma un riflesso, sul piano della persona totale, della soterìa, cioè della vita nella sua massima espressione: dal piano somatico a quello spirituale. La terapia messianica elimina i sintomi e guarisce gli affetti, apre all’azione di Dio e reintegra i rapporti comunitari. Si tratta di un’azione risanante totale, che supera quella che la scienza e la società riconoscono come specifica all’opera sanitaria organizzata dalle professioni e in un sistema ufficiale di cure.

3. Tradizione liberale, giustizia e medicina

Il movimento liberale, che crebbe in Europa nel XVIII e XIX secolo, ebbe una profonda ripercussione anche sull’organizzazione delle cure sanitarie. Il pilastro centrale del liberalismo è una concezione antropologica che privilegia l’individuo quale artefice del proprio destino; l’accento è posto sulle libertà politiche e culturali, con una diffidenza marcata verso lo Stato e il suo ruolo intrusivo, quand’anche i suoi interventi fossero pensati a beneficio dei più deboli. Nella tradizione liberale lo strumento più efficace per la distribuzione dei beni è considerato il sistema economico del libero

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scambio, o mercato. La posizione liberale è classicamente rappresentata dalla raccomandazione che Adam Smith fa all’uomo, che ha “costantemente bisogno dell’aiuto dei suoi fratelli”: non attenda l’aiuto dalla benevolenza degli altri uomini, ma dal loro interesse: «Egli avrà maggiori possibilità di ottenerlo e riuscirà a volgere a proprio favore la cura che quelli hanno del proprio interesse e a dimostrare che torna a loro vantaggio fare ciò di cui li richiede. Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che noi aspettiamo il pranzo, ma dalla considerazione che essi fanno del proprio interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità ma al loro interesse e non parliamo mai delle nostre necessità, bensì dei loro vantaggi». La celebre immagine della “mano invisibile”, che dallo scontro degli interessi privati fa scaturire l’armonia dell’insieme, viene a identificarsi praticamente con il mercato.

La teoria liberale della giustizia ha acquistato nuovo vigore e attualità nella veste moderna, attribuitale da Robert Nozik in Anarchia, stato e utopia (1974). Si può considerare “giusto” solo lo Stato che si limita alla protezione dei diritti individuali dei cittadini, impedendo che siano violati: «È giustificato solo uno Stato minimo, limitato alle strette funzioni di protezioni contro la violenza, il furto, la frode, l’osservanza dei contratti ecc.; uno Stato con maggiori funzioni violerebbe il diritto delle persone di non essere obbligate a fare certe cose, e non è giustificabile. Da quanto detto scaturiscono due notevoli conseguenze: vale a dire, che lo Stato non può utilizzare il suo apparato coercitivo per obbligare dei cittadini ad aiutarne altri, o per proibire alla gente delle attività per il loro bene o per proteggerli».

La teoria libertaria dei diritti individuali rivendica solo il diritto negativo alla salute (in altre parole: lo Stato deve impedire che qualcuno attenti alla mia integrità fisica), non il diritto positivo all’assistenza sanitaria. Per la tradizione liberale ― e per il neoliberalismo economico del nostro tempo ― il diritto all’assistenza sanitaria non esiste, almeno come un capitolo della giustizia (dove finisce la giustizia si apre il terreno di altre virtù: per quanto la giustizia affermi che non siamo obbligati a contribuire al benessere degli altri, la carità ci ordina di aiutare coloro che non possono rivendicare il diritto al nostro aiuto).

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La filosofia liberale ha avuto una ripercussione importante nell’organizzazione delle cure sanitarie. Secondo la concezione della “medicina liberale”, il mercato sanitario si sarebbe dovuto reggere secondo le leggi del libero scambio, senza intervento di terzi; l’intervento dello Stato nei rapporti tra medico e paziente è considerato come una ingerenza indebita. Per tutto il XIX secolo la deontologia medica ha disapprovato che il medico diventasse uno stipendiato ― di istituzioni private o dello Stato. L’ostilità degli ordini professionali medici alle forme socializzate di assistenza sanitaria, in nome del modello liberale, si è espressa in tutti i paesi. Quando le assicurazioni obbligatorie di malattia sono diventate la quasi totalità dell’assistenza sanitaria, i medici si sono opposti a quello che veniva definito “pagamento da parte di terzi”, così come l’American Medicai Association negli anni ‘30 del nostro secolo era contraria all’assicurazione sanitaria nazionale: sosteneva che l’interferenza pubblica attraverso i sistemi assicurativi era dichiaratamente contraria agli interessi del paziente, difesi dall’etica medica tradizionale 4.

Per i poveri, che non potevano accedere al sistema liberale di prestazioni sanitarie, era previsto il ricorso alla “beneficienza”: carità individuale o di istituzioni religiose, grandi ospizi o istituti per “pauperes infirmi” («Tra i due si realizzava uno scambio reciproco di significati, facendo dell’uno e dell’altro, alternativamente, un attributo e un sostantivo: l’infermo povero e il povero infermo. Essi esprimevano una categoria

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composita, senza troppa distinzione tra indigenza economica ed emergenza sanitaria: la folla ― in una parola ― dei malati inguaribili»: Cosmacini, 1998). Ma anche la risorsa della beneficienza fu avversata in nome del liberalismo. È così che l’economia politica si guadagnò, nell’ambito linguistico inglese, l’appellativo di “dismal science” ― scienza spietata.

Secondo l’interpretazione più radicale del liberalismo, fornita da Malthus, la beneficienza è non solo un’attività “antieconomica” (dato che i malati non pagano le prestazioni ricevute), ma anche “nociva”. La miseria, infatti, è una conseguenza “assolutamente necessaria” delle leggi di natura e da essa derivano la malattia e la morte prematura di gran parte della popolazione. Le istituzioni benefiche, anche se attivate con i propositi più caritatevoli, alla lunga riusciranno solo a procrastinare le sofferenze degli esseri condannati dalla natura stessa allo sterminio. Malthus attacca in modo particolare le poor laws inglesi, che a suo avviso tendono a peggiorare la situazione generale dei poveri: «Si può dire che, in una certa misura, queste leggi creano i poveri che poi manterranno. E dato che le provviste del paese, in conseguenza dell’aumento della popolazione, devono essere distribuite in parti minori per ognuno, appare evidente che il lavoro di chi non gode della pubblica assistenza avrà un potere d’acquisto inferiore, e quindi crescerà il numero delle persone obbligate a ricorrere all’assistenza» (Malthus, 1977; ed. orig. 1798). Lungi dall’essere un’azione virtuosa, l’assistenza offerta alle frange più fragili della società risulta dannosa 5.

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Sottostante alle concezioni liberaliste più rigide emerge un moralismo che attribuisce ai “fragili” la volontà di trarre profitto dalla loro situazione. Sempre secondo Malthus, se si concede “ confortevoli ritiri dove rifugiarsi nei periodi più duri”, i soggetti verso i quali si esercita un’assistenza sociale o sanitaria saranno indotti ad accomodarvisi, rifuggendo alle loro responsabilità. Troviamo un’eco satirica di questa concezione liberista estrema nel celebre romanzo satirico di Samuel Butler: Erewhon. Nel mondo capovolto che immagina, il malato deve essere indotto a sentirsi colpevole della sua malattia. Commentando il processo che si conclude con la severa condanna di un ammalato per il “grave delitto di tubercolosi polmonare”, Butler esplicita la logica che sottende la paradossale condanna: «Il giudice era fermamente convinto che la punizione inflitta al debole e all’ammalato fosse il solo modo di prevenire il diffondersi del decadimento fisico e delle malattie e che, alla resa dei conti, l’apparente severità della sentenza avrebbe risparmiato alla società una sofferenza dieci volte maggiore di quella subita dall’accusato»: Butler, 1975, p. 89). Il paradosso del malato colpevolizzato è stato realizzato dalla nostra società dal diffondersi dell’atteggiamento etichettato come “victim blaming”. Si stanno studiando diversi modelli che vanno dal taglio del salario in caso di malattia “per colpa” (per esempio, un incidente stradale in stato di ubriachezza), ai malati “parziali” (ci si reca al lavoro con una gamba rotta, perché la frattura è stata provocata sciando).

La posizione liberista è riapparsa con vivacità nell’orizzonte culturale contemporaneo con il neoliberismo economico. Non si tratta solo di un dibattito culturale: stagioni intere di politica economica e sociale ne sono state influenzate, come l’epoca di Reagan negli Stati Uniti e quella della Thatcher in Inghilterra. Anche sul riordino del nostro Servizio sanitario nazionale, avviato negli anni ‘90, spira un vento neoliberista, in particolare per il ruolo attribuito al mercato nel produrre l’efficienza dei servizi.

La bioetica ha sentito l’influenza del pensiero liberale, soprattutto con riferimento al dibattito sull’assicurazione sanitaria obbligatoria. Il pensiero contrattualista, influenzato dalle posizioni di Rawls e Nozik sulla giustizia, ha portato

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alcuni studiosi a negare il diritto all’assistenza sanitaria. «Un diritto umano fondamentale ― afferma Tristam Engelhardt ― a fornire l’assistenza sanitaria, anche se limitata a un minimo decente di assistenza sanitaria, non esiste». A suo avviso, ogni tentativo di giustificazione di una prestazione sanitaria deve fondarsi sul principio di beneficità, non su quello di giustizia (la necessità dell’assistenza ― in altre parole ― si può giustificare solo con il dovere di fare del bene, non con la rivendicazione di diritti economici, sociali e culturali).

Un paragrafo molto eloquente di Engelhardt è dedicato alla necessità di “convivere con le diseguaglianze e la tragedia”: «Arti e scienze sanitarie sono attività di uomini e donne finiti, in possesso di risorse finite, che vivono ed esercitano le loro professioni rispettando limiti morali, che non consentono loro di tentare tutto ciò che vorrebbero per conseguire il bene. Tutte le attività umane sono caratterizzate da limiti. Ciò è particolarmente doloroso nel caso della medicina, che deve convivere con le sofferenze di individui indifesi e innocenti e tentare di confortarli, assisterli e, quando è possibile, guarirli. La lotteria naturale e quella sociale, l’esistenza di diritti di proprietà privati, e le conseguenze delle libere scelte, sia individuali, sia pubbliche, destinano gli individui a vivere vite diverse, quanto a opportunità e a soddisfazione. Fino a un certo punto, sarà opportuno tentare di eliminare queste diseguaglianze. Ci saranno dei limiti ai tentativi moralmente ammissibili. Questi limiti stabiliranno quando le diseguaglianze e i risultati sfortunati non saranno iniqui» (Engelhardt, 1991, p. 392).

Una versione più mite del liberalismo, ma non priva di conseguenze nel sistema delle cure rivolte ai più fragili, è quella che propone il passaggio dalla copertura universalistica all’assegnazione di un “bonus” ai cittadini, affidando a loro la responsabilità delle scelte assicurative. È noto che la proposta di un “bonus” è stata originariamente avanzata nel 1955 dall’economista Milton Friedman, in un’ottica neo-liberale, per dare efficienza al sistema scolastico: i cittadini, dotati di un voucher, o buono di acquisto a destinazione vincolata, avrebbero deciso di spenderlo nelle strutture scolastiche, pubbliche o private, che avessero trovato più adeguate. Questo

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sistema è finalizzato a innescare una competizione tra i fornitori di servizi, che condurrebbe a un miglioramento della qualità dei servizi erogati.

L’estensione di tale idea all’ambito sanitario è stata sostenuta dall’Institute of Economie Affairs di Londra. In Italia la proposta è stata fatta propria da Mario Timio: con il “bonus” i fondi statali andrebbero non alle strutture sanitarie, pubbliche o private, ma ai singoli cittadini, che pagherebbero con esso il premio di un’assicurazione sanitaria o di un piano assicurativo di propria scelta (Timio 1996; 1997). La proposta è stata ampiamente dibattuta con vari interventi su L'Arco di Giano (Mapelli, 1997; Petrangolini, 1997; Infantini, 1997).

Questa versione moderna della vecchia ricetta liberista, che preferisce la distribuzione in denaro alla distribuzione in natura dei servizi, è vista come sinonimo di libertà di scelta per tutti i cittadini e vuol coniugare mercato, concorrenza e solidarietà. Ma non sono irrilevanti le preoccupazioni di chi teme che anche in questa forma moderata di medicina liberale i più fragili avrebbero una condizione svantaggiata e si dovrebbe riscoprire per loro qualcosa che assomiglia da vicino alla pubblica beneficienza. La proposta ha tuttavia il merito di costringerci a confrontarci con il modello di welfare sanitario che vogliamo scegliere.

4. Fragilità e "welfare community”

Il quarto modello entro cui pensare la risposta alle varie forme di fragilità è quello che le affida all’intervento attivo della pubblica amministrazione. Il contesto è in questo caso quello dello “stato sociale”. Dobbiamo anzitutto renderci conto della relativa novità della organizzazione che affida allo stato la risposta ai bisogni dei più fragili. Un volume recente dedicato alla riforma della pubblica amministrazione sottolinea in apertura i cambiamenti costanti nei confronti di ciò che affidiamo allo stato e ciò che attribuiamo ad altre forme di solidarietà allargata: «Un tempo erano le armerie dello stato a fabbricare le armi e nessuno avrebbe mai pensato di lasciare una cosa così importante alle industrie private. Oggi, nessuno

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si sognerebbe mai di affidarla allo stato. Un tempo nessuno si aspettava che lo stato si facesse carico degli indigenti, il “welfare state” non esisteva prima che Bismarck ne creasse uno nel 1870. Oggi, non solo la maggior parte delle amministrazioni dei paesi sviluppati si fa carico degli indigenti, ma addirittura stanzia fondi per garantire l’assistenza sanitaria e pensionistica a tutti i cittadini. Un tempo, nessuno si aspettava che spegnere gli incendi fosse compito della pubblica amministrazione. Oggi non potrebbe esistere un’amministrazione nel cui contesto non sia previsto un dipartimento dei vigili del fuoco» (Osborne, Gaebler, 1995, p. 24).

Una progressiva estensione dei compiti dello stato ha portato alla prevalenza del modello universalistico di tutela della salute. Un pregiudizio favorevole cade sui più fragili, quando si accetta il principio ― politico e morale insieme ― che nessuno deve essere escluso dalla rete della solidarietà allargata che gli fornisce le cure di cui ha bisogno: se tutti sono uguali, il debole è “più uguale degli altri”! Il “favor iuris” cade a favore del più fragile.

L’orientamento universalistico, per quanto nobile, ha dovuto confrontarsi con una realtà sociale ed economica avara nei confronti dei progetti più generosi di assistenza misurata sui bisogni. Così è avvenuto, in particolare, per la sanità italiana estesa a tutti, secondo il Servizio sanitario nazionale del 1978. Come si è espresso il Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-96, «la prima caratteristica di una prospettiva contemporanea è quella di presentarsi come un orizzonte di risorse limitate. Non esiste più il sogno utopistico di uno stato che si proponga di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini; in sanità sarà sempre più pesante la divaricazione tra domanda e offerta, perché la società invecchia ed è sempre più affetta da malattie degenerative. Questi cambiamenti di scenario impongono la dura necessità di fare delle scelte, sia a livello macro sia a livello microeconomico».

La necessità di fare delle scelte ― una condizione che, sul finire di un secolo che ha visto l’ampliamento progressivo della copertura sanitaria a tutti i cittadini, si impone a tutti i sistemi sanitari dell’area dello sviluppo ― fa emergere in medicina problemi etici che non hanno riscontro in nessuna altra

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epoca. Non solo quelli, ormai ben identificati, che si è soliti catalogare come questioni di bioetica (in pratica, questioni relative alla necessità di porre dei limiti a quello che siamo in grado di fare con la potentissima medicina tecnologica che è la nostra). Oltre ai problemi di bioetica, si fanno oggi urgenti i dilemmi sociali circa l’estensione delle cure, nella prospettica delle risorse limitate.

All’inizio del nostro secolo i problemi etici delle scelte in sanità si ponevano ― quando si ponevano ― in una prospettiva individuale. Una rappresentazione letteraria è quella offerta da G.B. Shaw nella pièce Il dilemma del dottore (1906). Il dilemma si presenta come una questione di priorità, legata a un potere di vita o di morte: quando le risorse sono scarse e non bastano per curare tutti, è compito del medico decidere quale vita meriti di essere salvata?

Il “dilemma” del dottore ― che si trova a scegliere tra la vita di un giovane pittore geniale e quella di persone senza rilievo sociale ― offre materia caustica a Bernard Shaw, quanto mai scettico circa la capacità della professione medica di risolvere i suoi problemi secondo coscienza e determinato a mettere in guardia i possibili pazienti dall’affidarsi a essa. Novant'anni dopo la prima messa in scena della commedia, ci sentiamo autorizzati a vedervi un’anticipazione di dilemmi di ben altro spessore che si pongono oggi alle società industriali avanzate, in questo scorcio di secolo. Ci stiamo affacciando su scelte drammatiche che non riguardano più solo le “micro-allocazioni” (scegliere tra diversi candidati, che hanno bisogno di un trattamento disponibile in misura limitata, e quindi entrano in conflitto tra di loro), bensì le “macroallocazioni”: quante e quali risorse la nostra società è disposta a destinare alle cure sanitarie? In che maniera garantire l’accesso ai servizi sanitari che la società decide di fornire a tutti i cittadini, indipendentemente delle loro capacità economiche? In questo più ampio scenario i dilemmi non sono più solo quelli del singolo dottore, ma della società intera.

Il modello di stato sociale che nella maggior parte dei paesi è stato creato nella seconda metà del secolo sta perdendo terreno ovunque: la società civile non è più capace di prevenire e riassorbire le situazioni di emarginazione sociale. Le

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ripercussioni più gravi della restrizione dello stato sociale si registrano nella sanità. Se il patto di civiltà che ha dato origine allo stato sociale si rescinde, vedremo inevitabilmente divaricarsi le opportunità dei cittadini di accedere alle cure sanitarie: i ceti economicamente più forti si scrolleranno dalle spalle il peso costituito dalle categorie più fragili e si costruiranno una sanità a propria misura. Le famiglie, che già ora sono in prima linea nel fornire cure e assistenza nelle situazioni di cronicità, saranno sempre più gravate dalle richieste di supplire alle carenze di uno stato sociale in ritirata.

Pur riconoscendo la necessità di rivedere quegli aspetti dello stato sociale che sono all’origine di comportamenti consumistici e di diseconomie, procedendo a un coraggioso riassetto istituzionale e organizzativo dell’esistente, lo stato sociale in quanto tale va difeso come una irrinunciabile conquista di civiltà. Le turbolenze che accompagnano la nostra navigazione, mentre cerchiamo di traghettare lo stato sociale verso un’organizzazione della sanità più efficiente e più equa, sono molto serie; non tanto drammatiche, comunque, da farci ritenere che la nave andrebbe a fondo se non ci decidessimo a scaricare in acqua alcuni passeggeri. Un “dilemma del dottore” di questa entità neppure Bernard Shaw lo poteva immaginare. La humanitas ci induce a impegnarci con tutte le forze della ragione e della volontà perché una vergogna di questo genere ci sia risparmiata.

La riflessione filosofica, politica, etica ed economica degli ultimi anni si è dedicata attivamente al problema di una allocazione delle risorse che cerchi di conciliare l’universalismo della loro destinazione con le esigenze di una gestione economica. La stagione delle scelte allocative è stata inaugurata dal modello, che ha ormai assunto un valore emblematico, elaborato dallo stato americano dell’Oregon. La commissione incaricata ha stabilito delle correlazioni di diagnosi e di trattamenti con un ordine di priorità, privilegiando i trattamenti efficaci che assicuravano un alto quoziente di Qaly, cioè di anni di vita attesa di buona qualità (cfr. Bucci, 1996). La distinzione tra le patologie a cui tutti ― compresi i poveri, con il ricorso alle risorse dei sistemi assicurativi pubblici ― avevano diritto, da quelle lasciate alla disponibilità economica degli individui veniva fatta

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tracciando una linea che divideva in due parti la lista delle prestazioni. Il modello Oregon è così discutibile che la Corte Suprema degli Stati Uniti lo ha respinto, in quanto incompatibile con i diritti dell’individuo. In ogni caso ha però un valore storico, quale primo tentativo, metodologicamente grossolano, di fare ciò che, secondo il Presidente del Senato dell’Oregon, dovrà essere un compito di tutte le società avanzate: stabilire una lista delle priorità (Kitzhaber, 1993).

Due altri modelli, elaborati da altrettante commissioni nazionali, meritano un’attenta considerazione: quello olandese (Le scelte in sanità, 1991) e quello svedese (Priorità nell’assistenza sanitaria, 1997). Alla domanda fondamentale ― qual è l’assistenza che vogliamo garantire a tutti i cittadini (il basic package), indipendentemente dalla loro capacità economica, in forza del principio di solidarietà che sta alla base dello stato sociale ― la Commissione olandese risponde indicando dei criteri procedurali per procedere alle scelte. I criteri sono rappresentabili come quattro successivi filtri o setacci: entrerà nel pacchetto base da offrire a tutti i cittadini soltanto quella domanda di salute che riuscirà a passare attraverso tutt’e quattro i setacci. Il primo filtro proposto è quello di presentarsi come “cura necessaria”. La Commissione propone come criterio di necessità il fatto di garantire l’assistenza del cittadino come membro della comunità. Se questo è il criterio che mette in moto la solidarietà, il demente, ad esempio, o il malato in coma vegetativo permanente hanno diritto alle cure necessarie perché possano essere cittadini. Qualunque sia il costo, la cura necessaria supera il primo filtro. I più fragili ricevono una tutela sicura da questo meccanismo procedurale. L’efficacia, l’efficienza e la responsabilità individuale sono gli altri tre criteri che filtrano la domanda.

Anche il lavoro della Commissione svedese parte dal presupposto che, se si vuole mantenere la fiducia del cittadino nella sanità, devono essere formulate apertamente e discusse le motivazioni fondamentali che stanno alla base delle misure adottate e delle priorità scelte. È necessario attivare un processo che porti a una più chiara definizione della sanità nei confronti della società e a una più netta delimitazione delle varie responsabilità. Come criterio per la scelta della

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priorità in campo sanitario la Commissione ha indicato una “piattaforma etica” costituita da tre principi: il principio della dignità umana (ogni essere umano ha una uguale dignità e gli stessi diritti, indipendentemente dalle caratteristiche individuali e dalle funzioni svolte nella comunità), il principio del bisogno e della solidarietà (le risorse devono essere dedicate a quei settori che presentano i maggiori bisogni) e il principio del costo-efficienza (nello scegliere fra differenti settori di attività o diverse misure terapeutiche, si deve mirare a un rapporto ragionevole fra costo ed effetti ottenuti, misurati in termini di miglioramento della salute e della qualità di vita. Il principio del costo-efficienza deve essere applicato solo per confrontare metodi di trattamento della stessa patologia).

«L’ordine assegnato a questi tre principi vede il principio della dignità umana prevalere su quello di bisogno e solidarietà, mentre quest’ultimo precede il principio di costo-efficienza. Poiché il principio di bisogno e solidarietà predomina su quello di costo-efficienza, le malattie gravi e le gravi compromissioni della qualità della vita devono avere la precedenza su malattie e compromissioni di minor entità, anche se l’assistenza alle patologie più gravi è di gran lunga più costosa. Il principio costo-efficienza non può pertanto giustificare l’astensione dalle (o una riduzione della qualità delle) cure dedicate ai morenti, ai malati gravi o cronici, agli anziani, ai dementi, ai ritardati mentali, ai gravi handicappati, o altre persone la cui cura non abbia un ritorno economico per la società» (Commissione del parlamento svedese..., 1997, p. 120).

La scelta delle priorità in sanità, indotta dalla pressione economica, può essere una occasione per ripensare gli scopi stessi della medicina: è quanto suggerisce la ricerca internazionale, promossa dallo Hastings Center di New York, Gli scopi della medicina: nuove priorità (1997). È la stessa direzione verso la quale indirizzava il Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-96, quando indicava l’inversione di rotta, cui il momento attuale costringe, come una opportunità per “un miglioramento che si sviluppa sotto il segno della qualità, più che della quantità” e invitava a un “cambiamento di paradigma” che consiste nell’immaginare un servizio alla salute che accetti in senso positivo la sfida dell’autolimitazione.

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5. Conclusione

Abbiamo considerato i quattro modelli di risposta al “perché” e al “come” occuparci dei più fragili dal punto di vista sanitario in senso diacronico. Dovremo però tener presente che sono anche simultaneamente presenti, in senso sincronico, nel nostro orizzonte. Proprio come la trama di un tessuto è l’intreccio di fili disposti non nella stessa direzione, ma in direzioni opposte, così la trama delle cure con cui la nostra società avvolge le persone fragili è costituita da orientamenti diversi. Alcuni ― come il modello naturalista e quello liberale ― tendono piuttosto a limitare l’impegno, mentre altri ― il modello messianico e quello ispirato alla concezione sociale ― indirizzano in senso contrario. I modelli si limitano e si completano reciprocamente. La politica sanitaria è l’arte di tenerli insieme.

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Vegetti M., “Le scienze della natura e dell’uomo nel V secolo”, in Geymonat L. (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970, vol. I.

NOTE

1 Questo aspetto della “giusta medicina” nella prospettiva naturalistica può essere illustrato con chiarezza dalla posizione di Platone, che nella Repubblica polemizza con la medicina “pedagogica” estesa a tutti. A ognuno nella società ideale deve essere dato secondo la misura appropriata, che è determinata dal posto che occupa: «Un falegname, quando è ammalato, vuole dal medico una pozione che gli faccia vomitare la malattia, o che lo liberi da essa con una evacuazione intestinale, con una cauterizzazione o un’incisione. E se gli viene prescritta una lunga dieta, o gli si consiglia di portare un copricapo di lana o di fare altre cose simili, se ne va immediatamente, dicendo che non ha tempo di stare malato né vale la pena di vivere in queste condizioni, curando la malattia senza potersi occupare del lavoro che lo aspetta. E quindi manda a farsi benedire il medico e riprende la sua vita e, o guarisce e vive il resto dei suoi giorni badando alle sue cose, oppure, se il suo corpo non riesce a superare la malattia, muore, liberandosi così da ogni preoccupazione» (Repubblica, III, 15; 406). Su questa stessa base Platone ha sviluppato la nota distinzione tra medicina degli schiavi e medicina degli uomini liberi.

2 Con una audace interpretazione di alcune fiabe della raccolta dei Fratelli Grimm ― corredate da innumerevoli parallelismi in altre tradizioni e culture ― il teologo e psicanalista Eugen Drewermann ha saputo ricostruire la permanenza del tema nel nostro immaginario (Drewermann, 1990). Il punto di partenza per descrivere il rapporto tra il medico e le malattie mortali nella cultura tradizionale è la fiaba “Comare Morte” (“Gevatter Tod” ― il padrino Morte ― nell’originale tedesco). Protagonista è un medico che ha ricevuto dalla Morte, sua madrina di battesimo, il dono di riconoscere se il paziente presso cui è chiamato a prestare la sua opera professionale è destinato a vivere o a morire: se la morte ― che solo lui ha il privilegio di vedere ― si trova al capezzale del malato, questi vivrà; se invece sta ai suoi piedi, è destinato a morire. Il medico per due volte ― essendosi ammalato il re e successivamente sua figlia ― dà scacco alla morte, ricorrendo all’astuzia di far girare il letto, così che la morte venga a trovarsi al capezzale dell’infermo, ma paga la trasgressione con la propria vita.

3 Anche l’etica moderna presuppone un rapporto dell’uomo con la natura che è fatto di trascendimento, più che di adattamento. L’agire dell’uomo non è dettato dalla natura, ma eccede quanto la natura suggerisce. «Ciò che ho fatto, te lo giuro, mai un animale lo avrebbe fatto». È la prima frase intellegibile che un pilota, caduto nella neve delle Ande e dato per disperso dopo vane ricerche, pronuncia a coloro che gli vanno incontro quando riappare dopo sette giorni, durante i quali ha camminato ininterrottamente, giorno e notte, per non restare congelato. Saint Exupéry, che dedica un capitolo commosso a questo suo collega in Terre des hommes, identifica in questo “ammirevole orgoglio di uomo”, gerarchia di valori che caratterizza l’essere umano (Saint-Exupéry, 1953, p. 165). Fare ciò che un animale, mosso dall’istinto di conservazione, non avrebbe mai fatto, è tipico dell’uomo che, per senso di responsabilità ― «Mia moglie, se crede che io sono vivo, crede che sto camminando. I compagni credono che sto camminando. Hanno fiducia in me. E sono un mascalzone se non cammino», si ripete l’aviatore per contrastare la voglia di fermarsi ― sovrasta i comportamenti naturali. Il trascendimento della natura fa parte non solo dell’etica eroica, ma dell’etica moderna in quanto tale, così come si rappresenta il modo di essere dell’uomo sulla terra. Questa prospettiva è particolarmente importante per giustificare la cura dei più fragili che è propria della specie umana. Essa supera le esigenze della ragione e la misura stessa che si può derivare dalla natura, nel senso di comportamenti istintivamente rivolti alla sopravvivenza della specie. Potremmo anche qui assumere come modello l’orgogliosa dichiarazione dell’aviatore: facciamo con i più fragili cose che gli animali non farebbero mai! L’economia “biologica” delle società animali viene surrogata da una rete medico-sanitaria a maglie strette.

4 L’uso ideologico dell’etica medica, per proteggere e prolungare un sistema che assicura alla maggior parte dei medici una situazione di classe privilegiata, è stato denunciato da diversi critici della medicina liberale. Secondo l’analisi della medicina liberale fatta a Guy Caro, il riferimento ai principi deontologici farebbe parte delle armi con cui i conservatori difendono l’ordine sociale esistente e si oppongono ai cambiamenti storicamente necessari: «Associando, sotto il concetto di medicina liberale, da una parte dei principi che condizionano in parte la qualità della medicina e suscitano con ciò la fiducia del malato nel suo medico, e dei principi, d’altra parte, che permettono al medico di controllare il livello dei suoi redditi, i medici potevano far credere che gli interessi del malato e quelli dei medici colludessero. Facendosi, come i proprietari di cui parla Emmanuel Monnier, “professori di virtù per difendere i loro interessi”, guadagnano su due campi: quello del loro livello di vita e quello della stima in cui erano tenuti» (Caro, 1974, p. 58).

5 In un saggio molto documentato Emma Rothschild ha sostenuto che le concezioni di sicurezza sociale presenti nell’economia politica del liberalismo degli ultimi anni del XVIII secolo erano due, e nettamente contrapposte, associate rispettivamente a Condorcet e a Malthus. Benché sia prevalsa l’opposizione alla sicurezza sociale che Malthus derivò dalle idee di Adam Smith e l’influenza di Malthus sul pensiero economico successivo sia stata maggiore di quella dell’illuminista Condorcet, nel pensiero di Smith e dei suoi amici lo sviluppo sociale non è un ostacolo ma piuttosto una condizione per la crescita economica. Secondo E. Rothschild, le idee di integrazione sociale di Condorcet e gli altri illuministi possono dare un contributo ai nostri dibattiti in materia di politica economica e sociale (Rothschild, 1997).