La cultura medica tra storia, scienza ed etica

LA CULTURA MEDICA TRA STORIA, SCIENZA ED ETICA

in Nuova Civiltà delle Macchine

anno XIII, n. 3-4 (51-52), 1995, pp. 156-169

156

Spinsanti

Vorrei prendere le mosse proprio dall’immagine dello scollamento che si è prodotto fra il medico, che rappresenta una scienza forte ed efficace, e le attese dei pazienti. Il risultato è una diffusa forma di malessere nei confronti della medicina dei nostri giorni. Su

157

questo punto noi qui stiamo registrando un consenso, pur analizzando la questione da vari punti di vista. Uno storico della medicina ha fotografato gli effetti deleteri di questo scollamento confrontando due scene ideali, che hanno per protagonisti il medico e la difterite, a distanza di pochi decenni. All’inizio del nostro secolo, quando il bambino moriva perché era ammalato di difterite, il medico non poteva fare altro che tenergli la mano. Eppure tutti erano contenti del medico. Oggi se un bambino contraesse la difterite, dopo pochi giorni sarebbe di nuovo in cortile a giocare con gli altri bambini, perché noi abbiamo i farmaci efficaci che guariscono questo bambino. Ma oggi, pur avendo una medicina così efficace, tutti sono scontenti del medico.

Satolli

Se un bambino oggi in Italia avesse la difterite sarebbe un disastro, perché significherebbe che qualcosa non ha funzionato, in quanto la vaccinazione ha praticamente eliminato la difterite nel nostro Paese.

Spinsanti

È verissimo, dal punto di vista epidemiologico. Ma a me l’immagine serve solo a illustrare lo sbilanciamento fra l’efficacia, che prima la medicina non aveva, mentre oggi ne è ampiamente dotata, e la soddisfazione nei confronti della medicina. Se questa, malgrado l’accresciuta efficacia della medicina, è andata sempre più diminuendo, qualcosa deve essere andato storto. Abbiamo visto diverse chiavi di interpretazione. Anche l’etica può fornire una di queste chiavi.

In senso generale, l’etica è profondamente correlata con i problemi epistemologici della conoscenza. L’intreccio emerge con tutta chiarezza quando consideriamo che la medicina — questa medicina di straordinaria efficacia, di cui siamo così fieri — è derivata dal positivismo dell’Ottocento. È la medicina nata dal distacco metodologico dei fatti dai valori e dalla forte convinzione che quello che contano sono i fatti. Lo spirito dell’Ottocento è rispecchiato da Dickens, all’inizio del suo romanzo Tempi difficili. Il romanzo ci introduce quasi in «medias res» mediante la professione di fede di Thomas Gradgrind, un personaggio che si compiace di essere un uomo «eminentemente pratico»: «Quello che voglio sono i fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e nient’altro».

Questa fede nei fatti a scapito dei valori, in realtà, è diventata la causa dei tempi difficili in cui viviamo oggi. Abbiamo infatti uno scollamento tra la fede nei fatti e le nostre attese, che si basano su sistemi di valore. Ai nostri giorni più che mai questa idea semplicistica dell’Ottocento, che bastasse attenersi ai fatti per avere delle certezze, è diventata inconsistente. La medicina — oggi più che mai — è un agire in condizioni di incertezza.

L’incertezza ha diverse dimensioni. Anzitutto quella della conoscenza. Tutti coloro che mi hanno preceduto in questo simposio lo hanno messo in evidenza. La medicina si presenta con una raccolta enorme di dati e dà l’illusione che basti raccogliere dati per avere conoscenze, e che sia sufficiente ottenere conoscenze per avere saggezza. Ma sempre più ci rendiamo conto della fragilità interna di questo tipo di medicina. I dati aspirano al ruolo di punto di partenza — «without data no going», come dicono quelli che vogliono delegittimare ogni altra forma di conoscenza — e di punto di arrivo: se non ci sono dati, non hai neppure il diritto di parlare. Ma quanto sia poco attendibile un sapere costruito solo sui dati, come indicava la fede del positivismo, lo dimostra la diffidenza crescente verso la capacità di questo sapere di essere definitivo. Si dice che nelle Università americane i professori inizino le lezioni in questo modo: «Cari studenti di medicina: la metà delle cose che vi insegniamo oggi fra sette anni saranno dimostrate false. Purtroppo non possiamo dirvi quale metà». La battuta esprime l’incertezza intrinseca di una scienza che non sa quali sono le conoscenze che restano e quelle che cadono.

Uno degli elementi dell’incertezza è che la medicina in quanto scienza ha acquisito, interiorizzando la dinamica di un superamento continuo, quella dimensione velocissima che Baldini prima ha descritto. Un’altra dimensione ancor più profonda dell’incertezza medica che stiamo vivendo è di natura antropologica: rischiamo di non sapere più che cosa è sano e che cosa è malato. Già fin dall’inizio del Novecento è cominciata una critica — dapprima vaga e di carattere intuitivo — che l’essere sano e l’essere malato fossero una costruzione, più che uno di quei «fatti» cari al positivismo.

Si è incaricato Jules Romains, nel famoso Knock o il trionfo della medicina, di affidare al dottor Knock lo slogan che nello sviluppo della pièce diventa un programma operativo: «Il sano è un malato che si ignora». Dice di aver messo questa frase, attribuita a Claude Bernard — bellissimo, questo falso storico! — come epigrafe alla sua tesi di laurea, che ha come titolo: «Sui pretesi stati di salute». Già li cominciava a nascere la prima percezione di quella colonizzazione della salute da parte della medicina, che il sociologo Ivan Illich avrebbe denunciato negli anni ’60 con il non dimenticato Nemesi medica. L ’espropriazione della

158

salute. Una radicalizzazione di questo movimento sta avvenendo ai nostri giorni attraverso la genetica.

Oggi il grande problema è che non è più necessario avere un sintomo, magari silente, per essere considerati malati: anche senza nessun sintomo si può entrare nel dominio della medicina. La scoperta dei marcatori genetici del cancro ci ha aperto questo scenario, che potrebbe anche essere da incubo. La messa in scena di questo dramma può essere rappresentata dalla richiesta ― è un caso clinico riportato dal «New England Journal of Medicine» — di una giovane donna che va dal medico, richiedendo l’asportazione preventiva dei seni.

Satolli

Purtroppo non si tratta di un solo caso, ma di centinaia.

Spinsanti

Kenneth Schaffner, docente di medical humanities dell’Università di Washington, ha aperto con questo caso un articolo molto approfondito, che sarà pubblicato nel prossimo numero de «L’Arco di Giano» (n. 6,1994, pp. 13-29). Il caso porta all’estremo l’incertezza del confine fra sano e malato: l’essere portatore di un gene, soprattutto nella semplificazione di questa problematica che forniscono i media, diventa equivalente ad essere malato. Per questa via si rimette in discussione uno dei fondamentali principi etici della medicina, che è il principio della beneficità. L’azione del medico, rivolta a curare il male, a rimuovere lo stato patologico e a procurare la salute, non ha più i confini definiti che aveva in passato in un contesto in cui la delimitazione fra salute e malattia diventa così fluida da risultare praticamente inesistente.

La clausola terapeutica di Ippocrate, in cui il medico si impegna a fare il bene del paziente nella misura delle sue conoscenze — «Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che a loro convenga [“dieta” sta qui per “regime terapeutico”] per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa» — entra in fibrillazione, perché non ha più dei parametri certi. L’incapacità di mettere dei paletti di confine fra il patologico ed il sano, a mano a mano che questo campo delle conoscenze aumenta, diventa il presupposto del grande rivoluzionamento che la medicina sta conoscendo nel nostro tempo.

Un altro àmbito di incertezza, ancora più drammatico del precedente, è quello che nasce quando la medicina reintroduce il soggetto, vale a dire quella dimensione che la medicina positivistica pretendeva di aver messo fra parentesi. Quando nell’esercizio della medicina riappare il soggetto, rientra il malato con i suoi valori e le sue preferenze. Oggi la medicina ha a che fare sempre più con la cronicità, piuttosto che con la acuzie. Si tratta di un cambiamento di scenario di enorme importanza.

Il rapporto medico-malato non viene contestato, in linea di principio, là dove l’intervento medico risolve una situazione di malattia acuta. Anche se il medico è uno scorbutico o uno zoticone ma guarisce il malato dalla sua polmonite perché gli dà il farmaco appropriato ed efficace, il rapporto non provoca grandi tensioni. C’è infatti il beneficio arrecato alla salute, che compensa la mancanza di comunicazione e la povertà del rapporto. Tutt’altra cosa, invece, è la gestione delle malattie croniche nelle quali il lungo accompagnamento fa prevalere l’aspetto del prendersi cura rispetto al curare.

Nella cronicità emerge in misura molto maggiore la soggettività. I valori soggettivi determinano scenari diversi rispetto a ciò che è considerato una cura appropriata. Nella acuzie, se la vita è minacciata, è probabile che tutti vogliamo la stessa cosa: il trattamento che risolva la patologia; ma se fossimo, per triste ipotesi, di fronte a uno scenario di malattia cronica, che può evolvere in un senso o nell’altro, con la possibilità che l’intervento terapeutico determini le condizioni della qualità di vita, non è più certo che tutti si orienterebbero allo stesso modo.

Pensiamo a due persone alle quali venga diagnosticato il cancro alla laringe, che può essere rimosso chirurgicamente con l’asportazione delle corde vocali e la conseguente perdita della voce, offrendo però una maggiore probabilità di vita; oppure si può procedere a un trattamento radioterapico che conserva la voce, ma offre minori opportunità di speranza di vita. Solo l’ascolto della soggettività del paziente ci fa capire che per uno non può essere prevalente l’interesse per le maggiori chances nel prolungare la vita (magari perché, per esempio, la voce è il suo strumento di realizzazione professionale, quale attore, conferenziere). I valori soggettivi, le preferenze, il modo personale di concepire la «buona vita» — sto parlando di interventi rivolti a risolvere una patologia — diventano problemi drammatici quando abbiamo scenari diversi, che possono incidere significativamente sulla qualità di vita.

La prospettiva dell’autonomia del paziente — per riferirci al linguaggio ormai intemazionale della bioetica — era ignoto alla medicina del passato. Il medico tradizionale non aveva bisogno di far intervenire attivamente il paziente nelle decisioni cliniche che lo

159

riguardavano, facendo emergere in modo sistematico i suoi valori e le sue preferenze. Oggi questo scenario è cambiato, anche perché non siamo più collocati in un mondo omogeneo dal punto di vista etico ed ideologico. Nella nostra società convive una pluralità di mondi etici: c’è il cattolico vicino al musulmano, il testimone di Geova accanto al razionalista. Tutto questo fa si che non si possa entrare nel mondo dei valori del malato e fare scelte che rispettino la sua autonomia senza un previo ascolto della persona malata.

Una ulteriore componente caratterizza l’incertezza in cui, oggi più che mai, la medicina si trova ad agire: è il problema dell’equità nell’utilizzo sociale delle risorse per le cure sanitarie. La medicina di cui disponiamo oggi non solo è più efficace — con tutta l’ambivalenza legata all’efficacia, che impatta i mondi soggettivi dei pazienti — ma è anche una medicina costosissima, in una società sempre più consapevole della scarsità delle risorse. Ora, ciò provoca un cambiamento che, dal punto di vista dell’etica tradizionale, equivale a uno scardinamento dei punti di riferimento abituali.

Il medico ha fatto un punto qualificante della sua etica quello di non occuparsi degli aspetti economici delle cure sanitarie. Il suo orientamento ideale è tanto più alto quanto più nel curare il paziente si occupa soltanto del suo benessere, senza considerare nessun altro aspetto. Si dedica alla cura del paziente in una specie di aristocratico isolamento. Come diceva il medico di Bismarck: «Quando io curo il malato siamo io ed il malato soli su un’isola deserta». Un atteggiamento di questo genere, per quanto ispirato a un’alta concezione morale, non è più possibile nella nostra società. Soprattutto non è più giustificabile dal punto di vista etico, in quanto il medico deve partecipare a scelte di allocazione di risorse.

Un insieme molto intricato di problemi si presentano nel momento in cui il medico deve scegliere tra vari pazienti in una situazione di scarsità di risorse. Per ricorrere al titolo di una commedia molto interessante di Bernard Shaw, potremmo parlare del «dilemma del dottore». La commedia che porta questo titolo, che è del 1906, mette in scena un medico, a cui viene chiesto da una signora molto attraente di prendere in cura il proprio marito, ottimo pittore, che ha la tubercolosi. Il dottore in primo momento è indotto a dargli la precedenza. «Non capita tutti i giorni — osserva — di trovare una persona che meriti davvero di essere salvata. Dovrò far uscire un altro dall’ospedale; ma troverò sicuramente qualcuno peggiore di lui». Ma durante lo sviluppo della commedia, i suoi interessi si spostano. Attratto dalla giovane moglie del pittore, considera che come vedova potrebbe essere un buon partito per sé stesso. Fa in modo, perciò che il paziente sia affidato a un altro medico, di cui conosce l’imperizia, con esito letale del trattamento.

Il «dilemma» del dottore offre materia caustica a Bernard Shaw, quanto mai scettico circa la capacità della professione medica di risolvere i suoi problemi secondo coscienza. Novant’anni dopo la prima messa in scena della commedia, ci sentiamo autorizzati a vedervi un’anticipazione visionaria dei dilemmi di ben altro spessore che si pongono oggi alla società, in questo scorcio di secolo. Ci stiamo affacciando su scelte drammatiche, che riguardano la possibilità di offrire ai cittadini l’accesso a servizi sanitari garantiti dallo Stato.

Non per niente alcuni hanno individuato come data simbolica per la nascita della bioetica la creazione di un comitato, nel 1972, per scegliere tra i vari pazienti che erano destinati alla dialisi. A Seattle, capitale dello

160

stato americano di Washington, sono state inventate le macchine per la dialisi. Si è subito dovuto constatare che le domande erano eccedenti rispetto alla disponibilità di macchine. Per stabilire una lista di priorità tra i vari candidati è stato creato un comitato di etica. Questa è la grande innovazione: il medico deve scegliere e non può più scegliere da solo.

Il senso del comitato è proprio quello di coinvolgere altre persone nelle scelte che in passato erano prerogativa esclusiva del medico. Questi infatti si rende conto che con i suoi criteri clinici non è più in grado di fare queste scelte. Dalla società gli viene rivolta la richiesta di utilizzare le risorse tenendo conto non soltanto del bene del paziente, ma anche degli interessi della società.

Questo è un cambiamento di scenario che i medici fanno molta difficoltà ad accettare, perché ha un effetto dirompente rispetto all’etica medica tradizionale. Implica di misurare la propria azione non solo con il metro dell’efficacia ma anche con quello dell’efficienza, proporsi di fare il massimo con le risorse disponibili, di gestirle bene, di evitare gli sprechi. Siamo lontani rispetto all’orientamento a fare tutto il possibile, utilizzando tutte le risorse disponibili, per il proprio paziente. Ne consegue la necessità di una certa standardizzazione dei comportamenti e degli orientamenti prescrittivi.

Si è accennato prima alle differenze che si riscontrano fra medici inglesi e medici francesi; ma basta passare da una sala operatoria all’altra e vedere quali antibiotici vengono utilizzati nelle stesse situazioni. Questa variabilità non è soltanto un fatto clinico di natura scientifica: è un fatto economico! Uno dei privilegi del medico, in quanto esercita una professione liberale, cioè la sua libertà di prescrizione terapeutica, viene profondamente rimesso in discussione quando gli si contesta la facoltà di prescrivere quello che in scienza e coscienza ritiene sia il trattamento migliore e gli si chiede di adottare una prospettiva che includa la preoccupazione per l’ottimizzazione delle risorse. Il medico deve cercare di combinare la sua preoccupazione per il bene del malato con quelle dell’interesse dell’azienda sanitaria.

Dioguardi

Ma a questo punto si entra nella coscienza!

Spinsanti

Bisogna che la coscienza professionale del medico acquisti una dimensione che in passato non aveva. Credo che questo ci dà ancor di più la dimensione della difficoltà delle scelte. Nel senso che sempre di più le certezze recedono di fronte ad incertezze che sono sia di ordine epistemologico, sia di ordine etico. Rifacendoci alla classica distinzione proposta da Max Weber fra «etica della convinzione» ed «etica della responsabilità», dobbiamo dire che nell’etica medica abbiamo sempre privilegiato il versante della convinzione. Adesso dobbiamo coniugare l’etica della convinzione con l’etica della responsabilità, vale a dire con la considerazione delle conseguenze dell’intervento medico anche rispetto all’uso ottimale delle risorse. Tutto ciò diminuisce il grado di libertà delle scelte. La buona medicina, oggi, oltre ad avere le carte in regola rispetto alle esigenze della scienza, deve saper integrare il punto di vista etico del paziente e sintonizzarsi sulle esigenze della buona gestione delle risorse.

Satolli

Poiché voglio guardarmi dal trarre conclusioni alla fine, propongo di tentare ora un riassunto del percorso seguito sin qui, per poi dare a ciascuno ancora la parola per una messa a punto di pochi minuti.

Siamo partiti mettendo sul tavolo con molta decisione la crisi della cultura medica, che è arrivata vicino a un punto di rottura, attraverso le vicende degli ultimi due o tre secoli. Abbiamo analizzato quali sono gli elementi, abbastanza complessi, della medicina sia come scienza sia come attività clinica pratica, che sono al centro della crisi, e ci siamo poi trovati perplessi davanti ai possibili sviluppi futuri di questa situazione. Nella scena della discussione sono entrati a un certo punto, in maniera alquanto prepotente, i pazienti e la collettività, come interlocutori di questa medicina in difficoltà. Mi sembra che sia emerso il termine — è una delle ultime parole pronunciate — «contrattare».

Ho l’impressione che potremmo proporre, come ipotesi di lavoro, che la medicina non guarirà dalla sua crisi trovando da sé la cura, ma che il rimedio le verrà da fuori. Sarà un rimedio di negoziazione, perché forse il nuovo medico, che è nato nell’Ottocento e che in quel secolo ha raggiunto un buon prestigio — e da allora è rimasto affezionato all’autorevolezza che deriva dall’aver adottato il metodo scientifico e quindi ritiene di dover rispondere delle proprie decisioni solo a un sapere oggettivo —, per qualche decennio si è «distratto» dall’evolversi delle cose e non si è accorto che ormai deve invece rispondere delle sue azioni discutendole con altri, pazienti e società in generale. Saranno forse questi altri che imporranno la necessità della contrattazione con messaggi di crescente urgenza, fino a che si arriverà ad un tavolo di discussione

161

(molte volte si è costretti a ciò proprio dalla controparte).

Spinsanti ha ricordato il Trionfo della medicina, quel dottor Knock per il quale un sano è un malato che non sa di esserlo. È una profezia che si sta avverando: la medicina predittiva genetica trasforma in malati futuri, ma già prevedibili, individui che fino a ieri sarebbero stati considerati perfettamente sani.

Però alcuni segnali indicano che sta succedendo anche l’inverso, ed è istruttivo a questo proposito il movimento dei «sourds en colère» in Francia e dei «deaf and proud» negli Stati Uniti. I sordi dalla nascita oggi possono essere sottoposti a un intervento chirurgico di impianto di una protesi (impianto «cocleare» che permetterebbe loro di acquisire un certo udito. Uso il condizionale perché finora i risultati di questi tentativi non sono particolarmente brillanti). Gli operati qualcosa percepiscono, ma è difficile che riescano a distinguere la parola parlata, poiché l’elaborazione corticale del suono è insufficiente, tanto più se l’impianto non è precoce. Di fronte ad interventi di questo genere — che ormai vengono eseguiti frequentemente negli Stati Uniti, ma anche in Europa e in Italia — stanno nascendo movimenti di opposizione costituiti da persone che dalla nascita sono sorde ed hanno figli sordi, le quali rifiutano gli interventi, e non soltanto individualmente. Collettivamente si organizzano contro la medicalizza- zione della loro condizione, sostenendo che la sordità dalla nascita non è una malattia, ma un’espressione della variabilità genetica della specie umana. Secondo loro, le comunità di sordi devono essere considerate alla stregua di minoranze culturali, dotate di una lingua ― quella dei segni — e di una storia che meritano rispetto; se eseguiti a tappeto, gli interventi chirurgici produrrebbero insomma una sorta di genocidio culturale di una minoranza.

Mi sembra un buon esempio delle spinte contrarie al Trionfo della medicina: sono malati (tradizionalmente considerati tali) che rifiutano di esserlo. Qualsiasi medico a cui venisse chiesto oggi se la sordità dalla nascita è ima malattia risponderebbe di sì. I «sourds en colère» sostengono l’opposto.

Per concludere, propongo che il rimedio dei mali di cui soffre la medicina oggi possa venire dal di fuori attraverso un processo di negoziazione, che tenga conto delle preferenze, sia a livello individuale (medico-paziente) sia collettivo. Spinsanti ha elencato alcuni motivi per cui è importante che il medico in futuro prenda in considerazione le preferenze: uno di questi, da non trascurare, è la stessa crescita delle possibilità terapeutiche. Il bambino malato di talassemia, fino a poco tempo fa, aveva una sola possibile cura, che consisteva in trasfusioni di sangue associate a farmaci che eliminano l’eccesso di ferro accumulato nell’organismo. In effetti, oggi con una terapia di questo genere, di tipo medico, un talassemico può vivere abbastanza bene per molti anni. Proprio in Italia però è stato proposto un altro tipo di intervento risolutivo: il trapianto di midollo, che se attecchisce produce una guarigione definitiva. Il guaio è che alcuni trapiantati (molto pochi in verità) muoiono in conseguenza dell’intervento, mentre i bambini curati con la terapia medica fanno una vita da malati — perché devono subire frequentemente trasfusioni e infusioni di chelanti — ma campano. I genitori quindi devono scegliere: rischiare sùbito la morte del figlio, a fronte di una possibile guarigione totale, o preferire per lui una vita da malato.

Per fare un altro esempio, un malato di cuore oggi spesso può scegliere fra terapia medica, angioplastica (la dilatazione delle coronarie con palloncino) e by pass. La scelta non può essere solo del medico perché ― per quanto si moltiplichino i trial clinici di confronto tra le diverse opzioni, e si sappia in alcuni casi quale sia la migliore — sono più numerosi i casi in cui la differenza è minima e si tratta di decidere se rischiare la vita sùbito, per esempio con l’intervento di by pass, per poi essere privi di disturbi per tutto il resto della propria vita; oppure seguire una terapia medica che non comporta alcun rischio di morte immediata, ma che spesso non elimina i dolori di cuore; o, infine, scegliere un intervento di angioplastica, che comporta un rischio minore di morte, però spesso richiede la ripetizione della procedura nei mesi successivi.

Dioguardi

Il problema in questo caso specifico non è un assoluto, dipende dal mezzo che hai in mano. Io a Milano ho un eccellente angioplasta che posso utilizzare. Non lo possono utilizzare a Siracusa... È difficile schematizzare.

Satolli

La scelta comunque non può prescindere dalle preferenze del paziente. Ecco perché mi sembra che una soluzione, in senso positivo, di molti aspetti della crisi che affligge la cultura medica possa venire proprio dalla cosiddetta negoziazione.

Si potrebbe addirittura sostenere che la medicina degli ultimi due secoli, abbracciando il corretto programma di fondarsi su basi scientifiche, abbia però tralasciato di contrattare anche questo aspetto con il resto della società. Alcune reazioni irrazionali per cui si

162

ricorre anche alla magia — oltre che alle cosiddette medicine alternative — forse derivano dal fatto di aver mancato il compito (da parte della struttura medica nel suo complesso) di discutere collettivamente anche la scelta di scientificità.

Se questa può essere una sintesi del percorso che abbiamo seguito fino ad ora, possiamo cominciare un secondo giro di interventi seguendo lo stesso ordine di prima.

Dioguardi

Il punto da chiarire sono le definizioni dei tipi di medico disponibili nella società moderna. Il problema è stato affrontato dal Collegio dei clinici internisti. Sono stati individuati tre tipi di professionisti.

Il primo tipo è il cosiddetto «generalista», che ha una cognizione non profonda ma abbastanza vasta del sapere medico. Ad esempio, deve conoscere la biologia, deve avere cognizioni di ostetricia, anche se non è necessario che sappia far nascere un bambino. Deve avere dimestichezza con i problemi dell’ambiente ed avere conoscenze sociologiche. Egli si occupa del malato come persona.

Il secondo tipo di medico è l’internista. Egli non si occupa dei problemi socio-sanitari, si occupa quindi del malato come organismo. Vede il problema dal punto di vista olistico, quindi ha l’attitudine di passare dal particolare al generale per identificare nuovi particolari del problema che affronta.

Infine il terzo tipo di medico è lo specialista. Egli sa tutto (o quasi tutto) su un determinato organo o apparato.

Spinsanti

Scusi professore, tutti e due vedono l’organo?

Dioguardi

I tre livelli sono organo, organismo e persona. L’internista vede l’organo alla luce delle ripercussioni che la sua patologia ha su tutto l’organismo. Questa mi sembra — per adesso — una suddivisione giudiziosa.

Io credo che il riduzionismo abbia generato molti problemi che sono stati posti oggi sul tappeto. La medicina tende sempre più ad affrontare i problemi con la mentalità di andare alla ricerca del sempre più piccolo, pensando di identificare una unità minima dal cui studio ottenere leggi generali. Ma oggi è dimostrato che con questa impostazione metodologica non è possibile giungere a questo risultato, perché con il riduzionismo si ottiene un aumento di problemi minori con il procedere verso il «più piccolo», senza risolvere quello maggiore di partenza.

Un’altra cosa che oggi ho sottolineato è che esiste una crisi della medicina che dipende da una scarsa teoretica. La medicina va avanti per tecnologie, tanto è vero che i maggiori risultati non li ha avuti la internistica ma la chirurgia. I medici, a una fase in cui la diagnosi era tutto, sono passati a quella in cui sono esplose la chimica e la farmacologia. Il medico da diagnosta si è trasformato in terapista, ma ad un certo punto medico e malato si sono accorti che la chimica non è una panacea. Inoltre hanno constatato che neanche la chirurgia risolve ogni problema. Per esempio, il trapianto sul piano metodologico attira una grande attenzione ma fa anche sorgere grandi problematiche. Una di queste è la scelta del paziente: a quale malato dobbiamo dare la precedenza? Ogni centro ha il suo tipo di soluzione (a parte le raccomandazioni).

Ma un altro importante problema che va ricordato è il linguaggio della medicina. Questa area del sapere dispone di una semantica raffinatissima, ma ha una pragmatica, cioè un linguaggio che è quello discorsivo, il quale consente una sola possibilità di dimostrazione, il sillogismo aristotelico. La medicina manca di un linguaggio simbolico. Secondo i matematici, è impossibile che il medico possa usare un linguaggio simile al loro perché le variabili in medicina sono troppe. Questa è una risposta che non mi soddisfa molto. Penso però che vada cercata una soluzione.

Un altro punto da discutere sono le nozioni che noi continuiamo a considerare verità eterne. Abbiamo punti di riferimento come il tempo e lo spazio che consideriamo ancora con visione ottocentesca. Ma il tempo non è solo quello dell’orologio. Con misure del tempo differenti da quelle dell’orologio abbiamo ottenuto col calcolatore nuove rappresentazioni sia del decorso della malattia, sia dell'invecchiamento.

Per esempio, ho calcolato il numero totale dei battiti che un cuore può portare a termine durante un periodo di vita teorico di 150 anni. Sono circa 48 miliardi di battiti per 70 battiti al minuto. Se si stabiliscono condizioni temporanee per cui il cuore batte a 160 battiti, i 150 anni si accorciano. Come si vede, esistono modi per affrontare la domanda «che cos’è l’invecchiamento?» anche da questo punto di vista.

Questo tipo di astrazione che definiamo ipostatica (secondo Peirce) è ignorata dalla medicina che mantiene approcci, ai suoi problemi, che utilizzano solo l’astrazione prescissiva e che portano al comandamento «give me data». Ogni astrazione ipostatica è esclusa nell’area medica perché fuori del controllo dei sensi e

163

della comprensione con il senso comune. Il controllo con la ragione è considerato inutile quando esclude il senso comune. Questo rifiuto porta a una crisi nella medicina perché ferma il concetto di malattia al limite dei sensi ovvero al paleopositivismo ottocentesco. Tutto ciò si ripercuote sull’etica medica perché l’etica segue i salti di livello della conoscenza.

Un brevissimo commento sulla tolleranza della scienza medica. La scienza in generale è sempre stata intollerante con il suo utilizzo. Nell’area medica si trovano difficoltà enormi. Per esempio, le trasfusioni di sangue per il testimone di Geova non sono compatibili. Per alcune religioni è inconcepibile donare un organo, per altre donarlo ad un soggetto di un altro credo. Sono condizioni nelle quali la medicina si trova a navigare, che fanno del medico il timoniere di una barca assai difficile da guidare.

Infine, lasciatemi dire che la medicina continua ad andare avanti per scoperte che arrivano da altre aree tecniche. La tecnologia le ha fatto perdere molta capacità creativa. Essa sempre più accetta ciò che le viene offerto da altre scienze. E questo il motivo per cui la chirurgia è la branca che ha fatto veramente passi avanti. La medicina pensa sempre meno, sempre più si rifugia nella tecnologia, scambiandola per scienza. Tomo a quanto avevo detto all’inizio del mio intervento. Prendete il libro di Strumpel e prendete l’Harrison: vedrete che in fondo la teoretica è identica.

Satolli

Sentiamo ora Viano. Sono rimasto colpito dal suo accenno all’ingresso della medicina nell’organizzazione militare, che ha comportato l’adozione di un nuovo punto di vista, che mi sembra inevitabilmente in conflitto con il forte accento posto tradizionalmente dal medico sull’individuo. Una prospettiva assai simile si pone forse oggi per quanto riguarda le esigenze di contenimento della spesa sanitaria...

Viano

La medicina militare è la prima realizzazione su un modello a scala ridotta di quello che tende poi ad essere la medicina ottocentesca, soprattutto in Francia e in Germania. In Inghilterra questa trasformazione arriva dopo, gli operatori sanitari non istituzionalizzati conservano per molto tempo una rilevante importanza e il rapporto fra medicina ufficiale e medicina alternativa rimane a lungo indeterminato. La medicina contemporanea si distingue da quella ottocentesca perché in essa ritornano rapporti contrattuali che sembravano una caratteristica della medicina antica o di quella medievale. La cosa può sembrare curiosa nel momento in cui si afferma la medicina ad alta tecnologia, che richiede un’organizzazione complessa e investimenti importanti. Ma naturalmente ci sono delle differenze. Perfino la vecchietta che va tutte le settimane dal medico della mutua ha nei confronti della medicina un atteggiamento ben diverso da quello del grande borghese ottocentesco, che non avrebbe mai discusso ciò che il medico faceva: voleva un buon medico e poteva cambiarlo. Noi abbiamo zie e nonne che escono dallo studio del medico di base dicendo: non mi ha neppure fatto fare l’emocromo, anche se non sanno esattamente che cosa sia e a che cosa serva l’emocromo. Il medico deve perciò tener conto di una domanda diffusa di medicina, che spesso è solo un bisogno indotto e si basa più su immagini che su conoscenze autentiche.

Ma intorno al medico stanno emergendo ben altre figure, molto più importanti, come le assicurazioni e i magistrati. I ginecologi sostengono che la diffusione dei parti cesarei è in parte dovuta alla paura del magistrato. E si tratta di un processo che tende a mantenersi, perché fa diminuire il numero di ginecologi capaci di operare manualmente. La pretesa sociale diffusa di medicina, l’inserimento del medico nell’organizzazione sanitaria, lo stesso fatto che il medico diventi sempre di più un operatore tecnico, la presenza di figure di controllo dell’operato medico esterne alla corporazione sanitaria sono tutti elementi che determinano la perdita di prestigio sociale del medico a meno che si tratti del grande medico.

Di fronte a queste situazioni è facile che si formi un miraggio: si immagina un passato inesistente, spesso connotato in modo positivo, rispetto al quale il presente è raffigurato come una condizione di crisi, e da questa si dovrebbe uscire tornando in qualche modo al passato. Spinsanti certamente lo sa meglio di me: ci sono delle posizioni bioetiche difensive, che vogliono riportare la medicina sotto il controllo dell’etica e che sono modi per ricondurre la medicina contemporanea a un passato spesso idealizzato.

Forse sarebbe importante capire quali cambiamenti l’irruzione di beni e servizi medici sta inducendo e indurrà nei nostri comportamenti, nelle nostre scelte, nelle nostre preferenze. Si può anche dire che si tratta di merce e che non tutte le merci sono buone. Ma sappiamo quanto sia difficile cacciare le merci cattive dai mercati, e le società che aboliscono il mercato per cacciare le merci cattive hanno di solito merci scadenti. Molto spesso le merci che in sé non sono né del tutto buone né del tutto cattive, quando vengono accettate, fanno cambiare i nostri comportamenti e i nostri modi

164

di pensare.

Il caso dei trapianti è significativo da questo punto di vista. I trapianti hanno costituito un fatto importante di tecnica medica e chirurgica ma, di là dai loro effetti terapeutici, stanno cambiando il nostro modo di pensare. È mutato il nostro concetto di morte e la nostra stessa immagine della vita, la metafora antica con cui la rendevamo: il segno della vita non è più il battito cardiaco o il respiro, tutti segni che anche un profano poteva cogliere, ma l’attività cerebrale, che si può rilevare solo con una macchina. In conseguenza di questa trasformazione si può parlare di un cadavere a cuore battente: ed è stata la domanda di trapianti che ha permesso in tempi rapidi un mutamento che in altre condizioni avrebbe urtato contro difficoltà religiose e ideologiche estreme.

Probabilmente non ci siamo ancora accorti di quanto sia stata profonda questa trasformazione, che non si limita al concetto di morte e all'atteggiamento di fronte al cadavere. Infatti si sta affacciando l’idea che tutto il corpo umano è un deposito di beni biologici, pronti all’uso. E questo vale non solo per il cadavere, ma anche per il vivo, un passaggio che prospetta sùbito il problema della commercializzazione del corpo umano. Oggi la condanna di un commercio del genere è fortissima, ma si sa che le condanne sono forti e i divieti duri quando si profilano richieste altrettanto forti: in queste condizioni le condanne rischiano di durare poco e il problema più grave è evitare che i divieti siano aggirati. A un indiano con aspettative di vita modeste potrebbe convenire vendere un rene a un inglese, facendoselo prelevare in Inghilterra in condizioni di sicurezza, per ottenere una buona somma di denaro e avere maggiori aspettative di vita. A uno della generazione precedente alla mia un ragionamento di questo genere non sarebbe neppure passato per la testa. Ciò vuol dire che sta cambiando qualche cosa nei nostri modi di vita, nelle nostre aspettative, nelle nostre scelte, proprio perché stanno cambiando le risorse mediche disponibili. Penso che cosa avrebbe pensato mio padre se gli avessi detto che un cadavere è un bene biologico.

Eravamo partiti dal problema dell’incertezza. Io credo che noi dobbiamo distinguere tipi diversi di incertezza. Abbiamo una incertezza che non controlliamo, dovuta allo stato delle nostre conoscenze. In tutti i campi pensiamo che conoscenze oggi valide tra un certo numero di anni non varranno più ma ci dobbiamo attenere a ciò che oggi sappiamo. Tuttavia tra le conoscenze mediche che possediamo ce ne sono alcune di carattere deterministico o quasi deterministico. Molte situazioni di carattere infettivo hanno un andamento praticamente deterministico. Ma ci sono altre situazioni per le quali abbiamo conoscenze probabilistiche, applicabili a gruppi di individui, che pongono dei problemi quando devono essere riferite ai singoli. Per esempio, in alcuni casi di malattie tumorali possiamo avere alcune indicazioni di gruppo, ma poi è difficile dire che cosa capiterà a un individuo, che sopravvivenza avrà, quanti anni vivrà e così via. Altre situazioni di incertezza si profilano quando ci troviamo di fronte a un individuo con il suo destino biologico, ma anche con le sue scelte. Qui interviene la comunicazione del medico con il paziente.

Io credo che ci vorrebbe un addestramento bilaterale alla comunicazione. Un medico che si esprima in termini probabilistici è un professionista serio, ma occorre anche che il paziente sappia cogliere quel segno di professionalità e che non si allarmi sentendo parlare di probabilità. Una mia nonna, che doveva subire una banale operazione di ernia, chiese al chirurgo: «Lei mi garantisce il cento per cento di riuscita?».

Il chirurgo, che era una persona onesta rispose: «No, di nulla, neppure dell’asportazione di un callo, garantisco il cento per cento». La nonna si spaventò (aveva paura per mille altre ragioni) e un giorno l’ernia strozzò e lei morì. In realtà i cittadini dovrebbero essere addestrati a comprendere un corretto linguaggio medico prima di ammalarsi, già a scuola nell’àmbito dell’educazione sanitaria, di cui parlavamo prima: quando si deve dire a una persona che ha il cancro è un po’ tardi per educarlo a capire che cosa vuol dire avere il cancro. D’altra parte il medico dovrebbe imparare a dare le informazioni rilevanti: se le informazioni sono troppe, il paziente è paralizzato e non può distinguere i punti sui quali può fare una scelta. Ma il medico dovrebbe anche imparare a percepire la risposta del paziente, cioè a capire quale tipo di scelta essa riveli.

Ormai si affaccia all’orizzonte la svolta genetica, che promette di mettere a disposizione un approfondimento del livello delle conoscenze, come quando dal livello molecolare si è passati a quello atomico o a quello subatomico: si dovrebbero poter fare previsioni molto ampie partendo dalla conoscenza di pochi dati originari. Potrebbe essere la realizzazione di una di quelle unificazioni che ogni tanto si incontrano nella storia della nostra scienza e delle quali parlavamo prima.

Ma di là dalle acquisizioni teoriche, la genetica lascia già intravedere problemi rilevanti di comportamento relativi alla prevedibilità di certi eventi rilevanti dal punto di vista sanitario. La genetica può produrre previsioni deterministiche, relative a un individuo che a un certo momento sicuramente si ammalerà. Comunicargli la previsione significherà porgli gravi

165

problemi, per il momento neppure compensati dalla possibilità di interventi. D’altra parte il silenzio assoluto rischia di generare sofferenze per le altre persone con le quali quel soggetto entrerà in rapporto. Come sempre accade quando si profila una novità la prima reazione è quella del divieto assoluto: assicurazioni, datori di lavoro, familiari non devono sapere nulla. Probabilmente questa, come prima risposta, va anche bene, perché non si sa che cosa fare. Ma è ima risposta che alla lunga tende a non difendere o addirittura a danneggiare i soggetti che dovrebbe tutelare, vietando loro, per esempio, di assicurarsi, magari con un contratto agevolato da un contributo sociale.

Inoltre la crescita delle conoscenze genetiche farà riaprire prima o poi il discorso sull’eugenetica. Anche in questo caso bisognerà dare risposte articolate. Da un lato, interventi ai livelli profondi del patrimonio genetico potrebbero produrre risultati molto efficaci e diffusi sui livelli più superficiali, ma senza che noi conosciamo la portata degli effetti prodotti e con il rischio di impoverire la varietà biologica. Dall’altro, sono possibili interventi più circoscritti utilizzando le conoscenze genetiche per esercitare una procreazione responsabile.

L’opinione pubblica non dovrebbe aspettarsi dalla medicina contemporanea soluzioni semplici e globali: potremo avere problemi, scelte da operare, consapevolezze anche tristi, di fronte alle quali sorgono nuove responsabilità. Prima Spinsanti faceva il caso in cui si può scegliere di salvare la voce o una possibilità di sopravvivenza più lunga. Questa non è più una novità, ma è un’alternativa che nell’Ottocento non si sarebbe neppure posta. E queste scelte delineano nuovi compiti per il medico che deve anche essere in grado di costruire possibili scenari di vita ai pazienti ai quali prospetta problemi di scelta.

Di fronte alla complessità dei compiti e alla constatazione che la medicina contemporanea cambia le concezioni tradizionali della vita, della morte, della malattia, della sofferenza, della procreazione e così via, sorge spesso la tentazione di semplificare tutto, di tornare indietro, magari con un supplemento di regole etiche. Ma forse, per usare un esempio terra terra, è come con l’automobile: è entrata nella nostra vita, ci avvelena, ci uccide, ma non se ne va più, cambiamo noi e non l’automobile, che ci costringe a mutare i nostri modi di pensare, perfino le nostre metafore. Così anche le tecniche e le conoscenze mediche possono cambiare le nostre convinzioni etiche e le nostre regole morali.

Proprio per questo la possibilità di avvalerci liberamente della medicina potrà diventare nel futuro prossimo un terreno di scontro morale. Fondamentalismi etici e religiosi potranno scegliere il terreno delle pratiche sanitarie per manifestarsi e per cercare di dividere il corpo sociale. Fino a quando si tratta del paziente è facile riconoscergli la libertà di scelta; se un testimone di Geova rifiuta la trasfusione, potrà porre un problema se esercita la patria potestà. Ma se un rifiuto di questo genere è formulato dal medico, tutto si fa più difficile. Le legislazioni sull’aborto hanno introdotto l’obiezione di coscienza dei medici e adesso si incomincia a parlare dell’obiezione di coscienza dei farmacisti in relazione alla vendita dei profilattici. Di fronte alla molteplicità di condotte aperte dalla medicina contemporanea si può reagire offrendo ai cittadini il ventaglio di scelte più ampio possibile. Ma questa soluzione rischia di minacciare la libertà di scelta degli operatori sanitari che, per garantire un’equa distribuzione di libertà, dovrebbero garantire a ciascun cittadino le stesse opportunità.

Dioguardi

Lei ha sollevato il problema della qualità, della condotta e della spettanza di vita che spetta al malato. La difficoltà enorme nel fare questo pronostico dipende dal fatto che il medico ha a che fare con l’organismo, sistema non deterministico ma stocastico. Perché il paziente oggi crede meno nel medico? Penso che molto derivi dal fatto che tutto l’insegnamento universitario sia impostato sul criterio di causa-effetto, concependo la causa in termini positivistici come una forza la quale determina un effetto eguale e contrario (o di senso opposto). Von Neumann nel 1934-35, Reichenbach nel 1946, affermarono per primi che il concetto di causa-effetto non è applicabile a nessuno dei fenomeni naturali. Questo concetto oggi è sostituito dal concetto di stimolo-risposta, che tiene conto dell’entità e del tipo dello stimolo e della qualità della risposta. Queste due entità non sono quasi mai nel rapporto di uno a uno.

Gli esseri viventi hanno una modalità di risposta che viene definita asintotica: essendo sistemi non lineari certi stimoli possono venire assorbiti così che dopo la perturbazione, che costituisce la risposta, essi tornano allo stato di partenza, tanto è vero che il sistema cambia. Ma tutto ciò non è prevedibile.

Il prototipo di questo comportamento non pronosticabile è stato identificato da Lorenz studiando il comportamento meteorologico sul pianeta. Col suo attrattore Lorenz ha dimostrato che stimoli anche assai piccoli, anziché essere assorbiti dal sistema, possono comportare risposte impensatamente grandi. «Cosa può determinare in Louisiana un battito d’ali in Provenza?...». Ma queste affascinanti novità scientifiche

166

trovano barriere insormontabili nella didattica accademica. Siamo ancora nell’era di Maragliano, che alla fine degli anni ’30 sentenziava che agli studenti delle Università vanno insegnate solo certezze ed elementi concreti! Ogni astrazione ipostatica (sempre per usare il termine di Peirce) è inutile filosofia!

Satolli

Mi sembra che questa sera stiamo andando sin troppo d’accordo, per cui vorrei provare a spezzare questo clima idilliaco. C’è una affermazione forte fatta da Viano, quando ha paragonato la medicina attuale all’automobile: abbiamo dovuto adattarci noi al mezzo, con tutti i suoi pregi e difetti, e non viceversa.

È un’osservazione che forse contrasta con la mia prospettiva ottimistica della negoziazione, perché a proposito dell’automobile non abbiamo avuto la possibilità di negoziare alcunché — oppure, se ci abbiamo provato, abbiamo perso su tutta la linea. Che cosa ne pensa Baldini?

Baldini

Storicamente la figura del medico ha acquisito potere, un alto status sociale da poco tempo, e più precisamente nella metà del secolo passato. Negli ultimi mesi ho condotto una ricerca sui galatei medici pubblicati tra Settecento e Ottocento. Da questi emerge una realtà che è completamente diversa dalla nostra. Allora il medico aveva a che fare con una agguerrita serie di concorrenti di ogni tipo (ostetricanti, uffiziali di salute, chirurghi d’armata, chirurghi condotti, medici titolati e medici senza titoli e senza nome, levatrici, ecc.), ma anche con tutta una serie di ciarlatani (l’erborista, l’omeopatico, il chirurgo ortopedico, l’operatore erniario, il guaritore di malattie veneree, i faccendieri praticoni, gli acconciaossa, le comari, ecc.).

Inoltre, aveva uno status sociale, in genere, basso e retribuzioni nella maggioranza dei casi da fame. Spesso in questi galatei ci si lamenta che il gran medico riceva una retribuzione inferiore a quella del generale o a quella dell’ingegnere. Questo stato di cose cambia, come abbiamo detto, nel secolo passato. Il sapere medico si consolida e si amplia, la stagione eroica della batteriologia crea un forte consenso sociale intorno alla figura del medico ed egli diventa un funzionario pubblico, che ha un potere sempre maggiore e a poco a poco assurge agli stessi livelli retributivi di generali ed ingegneri e addirittura li supera.

Tuttavia, in questi ultimi decenni, abbiamo assistito ad una lenta perdita di credibilità da parte del medico nei confronti di vasti strati della popolazione. Le cause di questo stato di cose sono molteplici. In primo luogo, il medico non è più unico possessore del sapere medico, ma questo si è diffuso tra vasti strati sociali attraverso opere divulgative e seguitissimi programmi televisivi. In secondo luogo, il medico ha stabilito con il paziente un rapporto sempre più freddamente burocratico. In terzo luogo, il paziente ha finito con l’aspettarsi dalla medicina un miracolo al giorno e, poiché questo non può verificarsi, tende a stabilire un rapporto conflittuale con i medici, che spesso finisce con l’essere risolto in tribunale.

Un aspetto importante dell’attuale dibattito nel campo delle scienze biomediche è senz’altro quello, come ricordava Spinsanti, delle tematiche proprie della bioetica. Se è vero, come è vero, quello che diceva Bacone, che «sapere è potere» la prima cosa che balza agli occhi è che il sapere medico in questi ultimi decenni è cresciuto a dismisura e che parallelamente anche il potere di intervento del medico si è ampliato enormemente. Seneca, se ricordo bene, diceva che c’è un solo modo per venire al mondo e tanti per andarsene, sta ad ognuno di noi scegliere il migliore. Oggi non solo i modi per andarsene da questa vita sono decisamente

167

aumentati ma anche quelli di venire al mondo si sono moltiplicati in un modo che Seneca, senza alcun dubbio, non immaginava neppure lontanamente. Tutto questo, però, se da un lato pone interrogativi etici che i medici del tempo di Seneca non avevano, dall’altro complica i rapporti tra medici e pazienti. Cento anni fa il medico non aveva da prendere molte decisioni, era la natura che le prendeva al posto suo, ma tutto questo ormai è radicalmente cambiato.

I medici si trovano, dunque, a dover fronteggiare problemi troppo grandi per le loro spalle e i policlinici si popolano di figure quali: i moralisti, i filosofi, i teologi, gli esperti di bioetica, ecc. Stephen Toulmin, un filosofo della scienza di lingua inglese, agli inizi degli anni Ottanta ha scritto che l’etica era come disciplina ormai in coma profondo, quando le scienze della vita l’hanno risvegliata e le hanno affidato la soluzione di nuovi problemi di decisiva importanza. Un’ultima cosa a cui volevo accennare riguarda il linguaggio della medicina. Anni fa ho pubblicato un’opera (Parlar chiaro, parlare oscuro) nella quale era incluso un capitolo dedicato al «Medichese». Per la sua stesura mi ero servito dei lavori di numerosi linguisti, ma anche di quelli di medici quali A. Murri e E. Djalma Vitali, nonché delle riflessioni, contenute nei Galatei medici ai quali facevo riferimento poco prima, riflessioni incentrate sui processi comunicativi che si debbano attivare tra medico e paziente.

Stasera, Dioguardi si è lamentato del fatto che il linguaggio della medicina sia un linguaggio essenzialmente discorsivo e che, quindi, non ha ancora raggiunto la soglia della perfezione che è quella del linguaggio simbolico. Indubbiamente il linguaggio simbolico consente un rigore, una precisione, una chiarezza che il linguaggio discorsivo in genere non ha. Tuttavia, io, più modestamente, mi accontenterei che i medici si impegnassero nel mettere un po’più di ordine nel loro linguaggio discorsivo.

Per fare solo un esempio, che prendo in prestito da un saggio di Djalma Vitali, della malattia «splenomegalia mieloide idiopatica» esistono dodici sinonimi in inglese, tredici in tedesco, trentuno in francese. Tutto questo caos linguistico si è verificato nonostante il fatto che esista una classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’O.M.S., sistematicamente revisionata con la consulenza di trecento patologi appartenenti a cinquanta Paesi; ma essa è ignorata dalla maggior parte dei medici, talvolta è rifiutata da scuole cliniche che pervicacemente seguono una loro mini-tradizione terminologica in ossequio alle civetterie e ai capricci semiotici del «maestro». In fisica e in matematica, ma anche in astronomia e nella geografia, non c’è spazio per siffatti capricci linguistici.

Occorre dunque mettere un po’ d’ordine e ciò anche perché se c’è un linguaggio specialistico che è in piena e diluviale espansione è proprio quello delle scienze biomediche. L’ultima edizione del Dizionario della lingua italiana del Devoto-Oli contiene circa centoquarantamila lemmi, l’edizione precedente ne aveva solo centomila. Ebbene, questi quarantamila lemmi in più appartengono non al linguaggio ordinario, ma ai linguaggi specialistici e gli incrementi dovuti alle scienze biomediche assommano quasi al 30% del totale.

Ecco perché mettere un po’ d’ordine non è affatto cosa da poco ed è, tra l’altro, quanto mai urgente.

Satolli

Molti degli argomenti che abbiamo accennato richiederebbero, da soli, alcune ore di discussione, e allora forse cominceremmo anche a essere in disaccordo. Faccio una domanda provocatoria a Spinsanti: la sua concezione della cultura medica è difensiva, secondo la definizione che ha dato Viano di tale inclinazione? In altre parole, ritiene che si debba riportare la medicina sotto il controllo dell’etica, oppure bisogna considerare come accettabile e desiderabile che, come sta forse accadendo, i principi etici si ridefiniscano prendendo atto dei nuovi «prodotti offerti sul mercato» ― per riprendere un’altra espressione forte di Viano.

Spinsanti

Avevo già immaginato di introdurre il discorso etico in termini autocritici, sottoponendo l’etica stessa ad un processo di discernimento. Non soltanto la medicina deve confrontarsi con l’etica ma anche l’etica deve confrontarsi con il nuovo spirito che le scoperte biomediche vanno diffondendo nella nostra società. Personalmente non nascondo un certo disagio rispetto a quello che va sotto il nome di bioetica, intesa come regolazione etica del processo biologico e medico. È diventata consapevolezza diffusa — ce lo siamo ripetuto numerose volte anche in questa occasione — che la dimensione etica è importante. È un aspetto ormai inevitabile della medicina moderna. Ma la convinzione che la terapia appropriata per il malessere presente in medicina consista in iniezioni di etica a dosi massicce deve confrontarsi con il risultato. I risultati, a mio avviso, sono tutt’altro che eccellenti.

È successo che l’emergenza del discorso etico ha portato vento nelle vele degli integralismi. È vero che il progresso biomedico — come ha affermato lo storico della filosofia Stephen Toulmin — ha salvato la

168

vita all’etica riportandola nell’àmbito dei temi rilevanti nella nostra cultura, ma ha salvato anche l’etica integralista e ha prodotto delle forti opposizioni. È cresciuta una bioetica che non sa veramente misurarsi col pluralismo: sia col pluralismo culturale, sia con quello che deriva dalla pluralità delle scelte individuali. Il richiamo alla tolleranza fatto dal prof. Dioguardi mi trova perfettamente d’accordo. Di recente, al Congresso della società mondiale di bioetica, che si è tenuto in Argentina, a Buenos Aires, è stato questo il tema della relazione tenuta dallo storico della medicina Diego Garcia: di questo importante pensatore sono disponibili in italiano I Fondamenti della Bioetica, ed. San Paolo, 1993.

Tracciando un quadro dell’evoluzione di venticinque anni di bioetica a partire dall’impostazione familiare alla cultura anglosassone, che privilegia i principi e l’impostazione analitica, Garcia ha sintetizzato la situazione dicendo che la bioetica si può ridurre a due principi: il principio della tolleranza e il principio della qualità eccellente dell’atto medico. La tolleranza è contraddetta dagli integralismi. Circa la capacità della cosiddetta bioetica di scatenare gli integralismi, ce ne ha dato di recente una dimostrazione convincente la conferenza del Cairo, sulla demografia e lo sviluppo. Ci troviamo di fronte a problemi della vita che dovrebbero sviluppare il massimo della sinergia; invece l’etica viene equiparata alle strategie di tipo diplomatico-politico per tagliare l’erba sotto i piedi alle altre posizioni ideologiche. In questa bioetica io non riesco a riconoscermi.

Nella nostra tradizione europea l’etica è stata di fatto il vivaio delle intolleranze. Per la precisione, la tolleranza era considerata non una virtù, ma come un cedimento di fronte ai principi. La situazione attuale ci offre l’occasione per scoprire un altro tipo di etica, che deve integrare la tolleranza vista non come minore adesione ai principi, ma come accettazione appassionata della verità, compresa la verità che è presente in posizioni diverse dalle proprie. La verità dell’altro è importante per la mia verità, ha qualcosa di cui la mia verità ha bisogno per essere più vera.

L’intolleranza in bioetica rende tutto più complicato. In Italia, per esempio, l’intolleranza ha prodotto una paralisi che impedisce anche quella funzione dell’etica che sarebbe di mettere un minimo di ordine in certe procedure. Una esemplificazione particolarmente chiara è offerta dalla procreazione medicalmente assistita. Nel nostro Paese non si è fatto alcunché in tutti questi anni, perché si era di fronte ad integralismi che pretendevano «O così, o niente». Un’iniezione di etica di tale genere in medicina io non me la auguro.

Un altro aspetto che mi preoccupa molto è l’introduzione di esigenze etiche — quali sono, ad esempio, il rispetto dell'individuo e della sua autodeterminazione — passando per la via del formalismo etico, del proceduralismo soltanto. Prendiamo uno degli aspetti più scottanti del rapporto medico-paziente, che è l’esigenza del consenso informato. Ciò equivale alla richiesta del consenso da parte del paziente a ogni procedura diagnostica e terapeutica, superando l’impostazione propria del paternalismo medico tradizionale. L’atto medico deve partire da un ascolto non solo dei sintomi patologici, ma anche dei valori del paziente: la scelta clinica sempre più assomiglierà ad una negoziazione, in cui avrà una parte decisiva il mondo soggettivo del paziente. Quello che invece prevale, anche in forza della pressione esercitata dal potere giudiziario che interviene nel rapporto che una volta si impostava sulla fiducia, è una concezione puramente burocratica del consenso informato: un modulo da far firmare, spesso senza alcuna indicazione della procedura a cui si dà il proprio assenso, senza la firma del medico, senza informazione previa.

In questo modo il consenso informato, che dovrebbe saldare il rapporto medico-paziente, diventa lo strumento della peggior solitudine a cui è condannato il malato. Se medicina eticamente corretta volesse dire questo, il paziente oltre al danno avrebbe anche le beffe. Non sarebbe un’etica relazionale, ma solo formale: azione corretta sarebbe quella che ha rispettato la procedura. In realtà qui non dovremmo più parlare di consenso informato, in quanto c’è consenso a una informazione che non è stata data.

Neppure dall’informazione bisognerebbe propriamente cominciare, ma dall’ascolto. La stessa informazione non può prescindere da una considerazione concreta di quello che il paziente sta vivendo. Questo è l’aspetto positivo del paternalismo: il paziente è una persona adulta, ma è pur sempre una persona che la malattia e la minaccia della vita mettono in una situazione di fragilità. Il medico, prima di dare l’informazione e ottenere il consenso, deve considerare quello che il paziente vuol sapere e come lo vuol sapere, deve valutare di quale sostegno e gradualità ha bisogno per sapere.

Le pratiche di consenso informato che si vanno diffondendo tendono a buttare a mare la sostanza del rapporto medico-paziente. Vorrei dire, polemicamente, se bioetica è questo, se si riduce a questo mix di integralismo e di formalismo giuridico, allora no, grazie, non ne abbiamo bisogno. Non sarà questa bioetica che curerà il malessere della nostra medicina.

Un’ultima cosa prima di concludere. Credo che sia

169

importante integrare l’etica in un panorama di «Medical Humanities». Dobbiamo fare ampio ricorso alle scienze dell’uomo nei due versanti dell’interpretazione (e quindi della riflessione sul passato, l’ermeneutica, l’interpretazione del vissuto, l’antropologia, la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale) e della regolamentazione dei comportamenti (e quindi il diritto, l’etica, la metodologia). Tutto questo deve far parte di un tessuto coerente. La bioetica sta o cade, assieme con tutto il gruppo di discipline affini, le quali costituiscono le Medical Humanities. Dobbiamo pertanto migliorare il curriculum di formazione degli studenti di medicina mediante un ricorso sistematico alle Medical Humanities.

Dioguardi

Potrò chiedere aiuto ai signori qui presenti se predicherò l’utilità di seguire questa strada?

Vorrei terminare con due commenti marginali.

Il primo riguarda l’automobile. Ieri, a Varese, da un economista ho imparato che nel 1880, quando cominciavano a girare i primi motori a scoppio, esisteva una automobile elettrica che andava già a 100 chilometri all’ora. Orbene, perché non si è continuato su questa strada, invece di insistere sul motore a scoppio? Perché i petrolieri del Texas avevano scoperto che il motore a scoppio era una mucca che poteva essere munta molto più redditivamente.

Il secondo commento riguarda l’accusa al medico che non visita e licenzia il paziente senza guardarlo. A questo proposito si racconta che Gesù Cristo ottiene da suo Padre il permesso di scendere in Italia perché stanno succedendo cose terrificanti. Si fa paracadutare a Milano in Piazza del Duomo e, poiché apprende che il peggio è al Policlinico, va direttamente in via Francesco Sforza. Entra nel Pronto Soccorso, mette un camice ed entra in ambulatorio per dare una mano. Il primo malato che entra è su una carrozzella: gli manca una gamba, il braccio destro ha una contrattura irreversibile, vede a stento con l’occhio sinistro e niente con quello destro, è pieno di piaghe. «Come ti chiami?», «Ambrogio». «Ambrogio, alzati e cammina». Ambrogio si accorge che gli è cresciuta la gamba amputata, che muove il braccio. Torna a vedere, le piaghe sono sparite. Ambrogio si alza e va fuori. La gente che aspetta gli chiede: «Com’è questo nuovo dottore?». «Come gli altri, neanche ti visita!».