Incontro con Pedro Laín Entralgo

Sandro Spinsanti

Incontro con Pedro Laín Entralgo

in L'Arco di Giano, n. 1, 1993, pp. 217-228

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L'attualità dei maestri

La rubrica è dedicata a mettere in evidenza la personalità di studiosi che con la loro opera hanno contribuito ad ampliare l’orizzonte delle medical humanities

INCONTRO CON PEDRO LAÍN ENTRALGO

Nell’atrio della Facoltà di medicina di Madrid l’occhio del visitatore è attratto da un poster che reclamizza un corso di informatica medica, rivolto a studenti di medicina. L’opportunità didattica è offerta dall’“Associazione culturale studentesca Pedro Laín Entralgo”. Un’iniziativa assolutamente normale, in una Facoltà di medicina di una paese avanzato, sul finire del secolo XX. Eppure un motivo di sorpresa esiste: il corso di informatica è offerto, infatti, sotto l’alto patronato di un signore ottantaquattrenne, che in vita sua non ha mai imparato a guidare l’automobile e ha scritto tutta la sua vasta produzione in punta di penna....

Della Università di Madrid, o Complutense, Laín Entralgo è stato rettore per un quinquennio, fino a quando ha dovuto lasciare la carica nel 1956 per incompatibilità con il regime franchista, che non approvava l’atteggiamento tollerante nei confronti delle spinte libertarie provenienti dagli studenti. Dal 1942 al 1978 Laín Entralgo è stato ordinario di storia della medicina nella Facoltà di medicina e chirurgia della stessa università. La sua ultima lezione accademica, tenuta al momento in cui, compiuti 70 anni, lasciava l’attività accademica ufficiale, a conclusione di quasi 40 anni di insegnamento universitario, ha avuto come titolo “Vita, morte e risurrezione della storia della medicina”. Nessuna intenzione blasfema in Laín (cattolico convinto, anche se il suo orientamento religioso ha un carattere problematico e travagliato, più che trionfalista): con quelle tre parole fotografava la vicenda che ha attraversato la storia della medicina durante il suo magistero.

Il suo ruolo di maestro non è terminato. Gli studenti hanno dedicato a lui una associazione culturale (per organizzare, appunto, sotto l’egida del suo nome anche corsi di informatica medica...). Nel “Departamento de Salud Publica e Historia de la Ciencia”, dove è costituito

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l’istituto di storia della medicina e antropologia medica da lui creato, si reca ogni giorno per incontrarsi con i docenti, formatisi al suo insegnamento, che continuano la sua opera: sono loro ― afferma con compiacenza il maestro ― che lo hanno aiutato a vivere. Questo contatto con gli studenti di medicina e i giovani ricercatori sembra giocare un ruolo non secondario nel sorprendente prolungamento della sua giovinezza di spirito.

Mi riceve nel suo studio. Non è il nostro primo incontro. Il primo è avvenuto a Heidelberg, nel 1986, in occasione del simposio organizzato da quella Università per celebrare il centenario della nascita di Viktor von Weizsäcker, il clinico filosofo fondatore della Anthropologische Medizin. A Laín Entralgo era stata affidata una delle relazioni principali, rivolta a fare il bilancio su questo significativo capitolo della storia della clinica moderna, sviluppatosi all’insegna del programma di “introdurre il soggetto in medicina”.

Gli anni sono passati senza arrecare danno: hanno solo scolpito più profondamente i forti tratti del suo viso iberico. Immutata l’affabilità, ancor più vivace la curiosità, inarrestabile il flusso della sua eloquenza, dove citazioni di filosofi e poeti si incastonano in modo del tutto naturale. Il primo dei ritratti che L'Arco di Giano dedica ai maestri delle medical humanities gli è riservato di diritto: senza schermirsi, Laín si dichiara lusingato. Oltre che un riconoscimento del suo apporto a una medicina umanistica, l’attenzione ci sembra una dovuta riparazione per la relativa disattenzione che finora l’Italia ha avuto nei confronti della sua opera.

La prima questione che gli poniamo ha sullo sfondo quella situazione storica e spirituale che, per mutuare il titolo di un suo libro del 1949, è “la Spagna come problema”. La vita di Laín Entralgo è intrecciata con l’apice del dramma costituito dalla guerra civile e con i tentativi falliti di rimarginare le ferite della secolare divisione delle “due Spagne”.

Epañolito que vienes al mundo,

te guarde Diós;

Una de las Españas

ha de helarte el corazón.

Questi duri versi di Antonio Machado (“Piccolo spagnolo che nasci, ti protegga Dio; una delle due Spagne ti ferirà il cuore”) per Laín sono stati esperienza vissuta. Ha preso posizione con la Spagna falangista ― ma con il dramma familiare sommerso di una moglie

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spiritualmente allineata con il campo opposto: i nazionalisti le hanno ucciso il padre progressivamente le sue speranze di fare del movimento franchista il luogo dove realizzare una convivenza civilizzata tra tutti gli spagnoli si sono dissolte. Dopo il 1956, con la fine del suo rettorato dell’Università di Madrid, ha abbandonato l’adesione attiva al falangismo e si è schierato per il pensiero liberale. A questo punto è stato considerato un “paria ufficiale”, senza però per questo diventare un “paria sociale”. Tutt’altro: lo dimostrano le cariche di cui è stato insignito, come la presidenza della Reai Accademia Espanda de la Lengua, l’appartenenza alla Accademia di medicina e a quella di storia, per tacere delle numerose altre onorificenze.

Dopo il quinquennio del rettorato (Rettore Magnifico... “ma non troppo”, commenta Laín nella propria autobiografia) il suo impegno si è concentrato sul lavoro scientifico e culturale, abbandonando il coinvolgimento politico che ha caratterizzato la giovinezza e l’età adulta. Resta tuttavia l’impressione che gli ideali che l’hanno portato a lottare per la riconciliazione tra le due Spagne non siano alieni alla impresa realizzata sul terreno della storia della medicina. Non è forse giustificato vedere un’analogia tra il progetto di riavvicinamento tra le due anime della Spagna e quello di superare la dicotomia tra ciò che Charles P. Snow ha chiamato “le due culture”, quella scientifica e quella umanistica?

Laín Entralgo:

Sono solito classificare gli uomini in due categorie: gli “eretici” e i “pontefici”. Non intendo queste parole in senso ecclesiastico, ma etimologico: quelli che dividono e quelli che gettano ponti. Ai primi piace la disgiuntiva o, ai secondi la copulativa e. Come spagnolo, ho vissuto drammaticamente la realtà della disgiunzione, perché ho visto due metà del paese, l’una contro l’altra. La divisione della Spagna, che è culminata nella guerra civile, in realtà stava incubando fin dalla fine del secolo XVIII. Da allora la Spagna si è imbarcata eroicamente ― ma, a mio avviso, erroneamente ― nell’impresa di negare le due note centrali del mondo moderno: la secolarizzazione e il pluralismo. Il dramma della Spagna è la conseguenza di non aver saputo assimilare, in modo congruente con la nostra tradizione, gli abiti intellettuali e sociali propri del mondo moderno. Quando nella guerra civile mi sono schierato con una delle due parti, non ho mai cessato di essere convinto che si poteva uscire dalla spirale della divisione solo imparando la lezione di

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ciò che la guerra civile significava in profondità. Così, purtroppo, non è stato: il regime seguito alla guerra ha mostrato che rimaneva fedele al programma di raggiungere l’unità mediante l’eliminazione dell’avversario. La disgiuntiva trionfava ancora una volta sulla copulativa. Il mio ideale è stato e continua ad essere quello ‘pontificale’: favorire una convivenza plurale e pacifica, in una libertà fondata sul rispetto delle opinioni degli altri.

Il bilancio della mia vita pubblica l’ho tracciato in un libro autobiografico: Descargo de consciencia, dedicato ai tre decenni della mia vita che decorrono dal 1930 al 1960. Ho voluto dimostrare, in questo paese dominato socialmente dall’abitudine di confondere la dignità con il monolitismo, che la dignità etica e la ritrattazione sono perfettamente compatibili. Diverso è invece il bilancio della mia vita come uomo di scienza e di lettere. Il mio impegno pontificale mirava a raggiungere l’integrazione di una Spagna cattolica e nazionale in una cultura europea, mediante l’apertura e il dialogo con il mondo culturale moderno. Mi sono sforzato di dimostrare con il fatto della mia vita e con il contenuto delle mie opere che è possibile conciliare l’eredità di S. Ignazio e la considerazione per Unamuno, il pensiero di S. Tommaso e quello di Ortega; di più: che un’anima così variamente popolata diventa più feconda.

Su questo sfondo generale, che ci fornisce le principali coordinate dell’avventura intellettuale e umana di Laín Entralgo, possiamo ora collocare il progetto specifico che ha dato unità strutturale alla sua vita di studioso. Prima qualche dato, che raccogliamo dalla sua autobiografia. Dopo studi iniziali di scienze chimiche e di fisica, passò alla medicina. Nel 1930 si è laureato a Valencia, orientandosi ben presto verso la psichiatria. Nel 1932 si perfezionò a Vienna, nella Neue Klinik di Pòtzl, ed esercitò poi per un breve periodo nel manicomio di Valencia. Dopo la cesura della guerra civile, la svolta: abbandona la psichiatria e si orienta verso la storia della medicina. Fa un dottorato con una tesi su Medicina e Historia e dal 1942 è ordinario di storia della medicina a Madrid. Da allora la storia della medicina costituirà il punto fermo attorno a cui ruoteranno i suoi molteplici interessi. Come spiegare questo ri-orientamento della sua vita, destinato a segnare in modo così decisivo anche la disciplina a cui dedicava il suo interesse?

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Laín Entralgo:

La mia formazione iniziale è stata scientifica: ho studiato chimica e mi sono appassionato per la fisica teorica. Consideravo il sapere scientifico come la mia vocazione. Ho ripiegato sulla medicina per consiglio paterno, spinto dalla necessità di guadagnarmi la vita. Anche come psichiatra, non avevo uno speciale amore per la clinica: ero piuttosto attratto dall’aspetto teorico della psichiatria, e più specificatamente dai temi dell’antropologia generale.

A un certo punto mi resi conto che la storia della medicina mi avrebbe offerto la possibilità di realizzare le mie aspirazioni. Non è stata solo la percezione di un’opportunità di inserirmi nella vita accademica (nel 1940 l’ordinario di storia della medicina di Madrid sarebbe andato in pensione e il suo posto si sarebbe reso vacante): l’orientamento alla storia della medicina traea il primo impulso dal personale inserimento nella storia della Spagna, attraverso il crogiolo della guerra civile. La terribile realtà del conflitto aveva acutizzato la mia coscienza storica e mi aveva indotto a considerare ‘sub specie historiae’ tutto quello che sentivo e sapevo. La coscienza di appartenere a un passato che dovevo comprendere e a un futuro che dovevo sognare e programmare arrivò ad essere per me una profonda esigenza vitale.

Mi rivolsi dapprima al prof. Diepgen, che insegnava storia della medicina a Berlino. Egli mi fece intravedere che era possibile superare una pratica della disciplina puramente erudita, come era stata praticata da Sudhoff. Scoprii la suggestiva possibilità di una storia della medicina non più posivistica: una storiografia medica ermeneutica, capace di influire sul presente e di condurre efficacemente alla edificazione di una antropologia medica. Questa è la via che ho seguito. Potrei ancor oggi sottoscrivere il programma che affidavo alla disciplina nel primo numero di Archivos Iberoamericanos de Historia de la Medicina y de Antropología médica: “La storia non è per noi pura erudizione né morta archeologia; coltivandola siamo portati in modo ineludibile a non sfuggire al presente, ma piuttosto a cercarlo. Ci sforzeremo di conoscere il presente e il passato secondo due punti di vista cardinali: la storia e la verità. Ciò ci permetterà, nella misura dell’umano, di volgere lo sguardo verso l’indefinita penombra del tempo futuro”.

Così definivo allora il progetto al quale volevo ispirare la mia ricerca. Oggi, avendo alle spalle l’opera compiuta, oso dare questa definizione di storia, così come ho cercato di applicarla

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alla medicina: “La storia è un ricordo di ciò che il passato è stato, a servizio di una comprensione di ciò che il presente è, e di una speranza di ciò che il futuro può essere”.

Finché i medici intellettualmente ambiziosi non adotteranno questa prospettiva, non potrò dire che la buona causa ha trionfato. La “risurrezione” della storia della medicina, a cui ho dedicato la mia vita di studioso, non si è imposta in modo trionfalistico. La percezione realistica della situazione mi porta a concludere che, malgrado i segni di stima personale e gli elogi che possono essermi rivolti, non sembrano molti fino ad oggi i medici che cercano di dare questo spessore alla loro professione.

Questo bilancio personale all’insegna della modestia non impedisce di valutare in modo assolutamente positivo gli apporti di Laín Entralgo alla storia della medicina. Il suo pensiero, nutrito da radici plurime ― possiamo distinguere gli apporti della Grecia antica, di Roma, del cristianesimo e dell’Europa successiva al Medioevo ― ha lasciato la sua impronta nello studio della mentalità ippocratica (secondo Laín, un bagno nell’ippocratismo autentico è un gran bene per tutti i medici fedeli al compito di pensare) e del ruolo della parola nel processo terapeutico. Alla ricerca delle origini storiche della psicoterapia verbale, egli è risalito fino all’antichità classica. In La curación por la palabra en la antigüedad clásica ha analizzato la trasformazione del primitivo incantesimo magico in un discorso capace di modificare razionalmente l’anima e la natura di chi lo ascolta. Ciò gli ha permesso di concludere che un nocciolo di psicoterapia verbale è già delineato nei dialoghi platonici.

La preoccupazione per il processo verbale che si stabilisce tra il medico e il malato lo ha portato a studiare le vicissitudini storiche del documento che è noto come ‘storia clinica’ del paziente: La historia clinica. Historia y teoria del relato patobiografico. In questo libro, da molti considerato come il migliore della sua produzione storiografica, Laín ricostruisce il racconto di un processo morboso individuale come uno specchio nel quale si riflette in miniatura il pensiero medico del suo autore, e quindi della cultura e della società a cui appartiene.

Tuttavia la storia della medicina, per quanto di ampio respiro e ricca di spessore ermeneutico, non sembra essere il vero centro di gravitazione degli interessi intellettuali di Laín Entralgo. Una spinta centrifuga lo porta a superare i confini della disciplina, a veleggiare verso altri lidi. La storia della medicina appare come il fondamento di un progetto ben più vasto, che si sviluppa all’insegna delle “Humanidades”. Nel 1948 Ortega aveva fondato un “Istituto de Humanidades"; per Laín Entralgo il progetto assumerà la denominazione di “Humanidades

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médicas”. Che cosa ha significato per Laín questa ricerca di un’integrazione sempre più ampia di diverse discipline?

Laín Entralgo:

Già prima che assumessi la cattedra di storia della medicina avevo dato qualche morso alla mela staccata dall’albero della conoscenza, con la conseguenza di perdere l’innocenza paradisiaca dello scientismo riduzionista. Avendo un interesse teorico-speculativo, più che pratico ― come pur si conviene a un medico! ― mi ero orientato verso la psichiatria: mi appariva come un campo del sapere, tra quelli che costituiscono la medicina, che più si avvicina alla vera realtà dell’uomo. Contemporaneamente nuovi orizzonti intellettuali mi venivano aperti dalla filosofia di Ortega, di Max Scheler, di Zubiri.

Una tappa fondamentale verso il mio orientamento all’antropologia filosofica è stato l’incontro con la medicina tedesca degli anni ’20 e ’30, che ho conosciuto attraverso l’opera di Richard Siebeck, di Ludwig von Krehl e soprattutto di Viktor von Weizsäcker. Quest’ultimo era un internista e neurologo di ampia e raffinata cultura filosofica, brillante e di intelligenza penetrante. Attraverso il suo modo esemplare di analizzare i casi clinici ― in particolare sono stato segnato dalla lettura di Aerztliche Fragen e di Studien zur Pathogenese ― scoprii che le malattie chiamate organiche, come un’infezione o un cancro, possono essere studiate antropologicamente come le nevrosi tradizionali e le psicosi. Nella storia del pensiero medico questo era come la scoperta di un nuovo mondo. Questo modo innovativo di capire antropologicamente la malattia mi sembrò un cammino percorribile, che mi permetteva di combinare la mia originaria vocazione scientifica con la passione per la conoscenza dell’uomo, così come emerge nell’ambito proprio della medicina.

Mi lusingano le conclusioni a cui è giunto uno studioso americano, Nelson Oringer, che ha scritto un’opera di prossima pubblicazione ― L’avventura di curare ― dedicata a un’analisi sistematica della mia opera intera dal punto di vista dell’antropologia medica e della medicina come realtà e pratica sociale. Egli individua la chiave del mio pensiero antropologico-medico nel tentativo di unire in modo metodico l’antropologia medica di Viktor von Weizsäcker e la filosofia spagnola rappresentata da Ortega e soprattutto da colui che più ha avuto influenza

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su di me: Xavier Zubiri. Riconosco che l'intento che ha animato la mia vita di studioso della storia della medicina è identico a quello proprio del movimento della ‘anthropologische Medizin’: reintrodurre nella medicina il soggetto-uomo nella sua interezza, come essere bio-psichico-spirituale-storico; e non solo nella clinica, dove è inevitabilmente presente, ma anche nella patologia. È il sapere stesso sull’uomo malato che viene rifondato, quando si assume come punto di partenza la mutevole condizione dell’uomo nella vicenda esistenziale del suo corpo.

L’antropologia medica, ovvero la conoscenza dell’uomo che è connessa con la pratica della medicina, è orientata primariamente alla formazione del clinico, e non alla meditazione del filosofo. Con il suo carattere descrittivo della realtà dell’uomo dal punto di vista medico, costituisce il vero fondamento del sapere medico. Il medico deve poter disporre di una teoria antropologica nella quale si integrino adeguatamente tutti i dati offerti dalle diverse scienze che studiano l’uomo: morfologia e fisiologia, psicologia e sociologia, antropologia culturale ecc. L’antropologia medica diventa, più precisamente, la conoscenza scientifica dell’essere umano in quanto sano, ammalabile, infermo, guaribile e mortale. Questi cinque aspetti, infatti, costituiscono l’esistenza umana nel suo intero, e con tutti e cinque il medico deve fare i conti. In concreto, come temi propri dell’antropologia medica individuo la conoscenza dell’essere umano nella sua realtà strutturale e dinamica, la salute e la malattia e l’atto medico.

L’antropologia medica ― alla quale Pedro Laín Entralgo ha dedicato un’opera di sintesi pubblicata nel 1984: Antropología médica para clínicos, tradotta anche in italiano ― non è stata l’ultima tappa del suo percorso. Dallo studio di argomenti fondamentalmente medici, come la storia clinica, il rapporto medico-paziente e la diagnosi medica, è approdato a temi di antropologia generale (intendendo l’antropologia come disciplina filosofica ― secondo il significato prevalente che il termine ha in tedesco e nelle lingue latine ― e non come disciplina afferente alle scienze sociali, come è appunto l’anglosassone ‘medical anthropology’). Come vede Laín stesso il legame tra la sua antropologia medica e l’antropologia generale?

Laín Entralgo:

L’antropologia filosofica è stata un naturale ampliamento di quella medica. Scrivendo Medicina e historia ho dovuto esaminare

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a fondo il problema dello storicismo e dell’esistenza umana. Demarcando il mio cammino da quello di Heidegger, per il quale l’incertezza e l’angoscia ad essa connessa sono la struttura fondamentale dell’esistenza, ho costruito un’antropologia nella quale la speranza ― la fiducia di ottenere quello che si spera ― fosse il concetto fondamentale. Sviluppando questi concetti sono giunto a scrivere La esperà y la esperanza, pubblicato nel 1956, come storia e teoria dello sperare umano.

I due volumi di Teoria y realidad del otro si collocano invece a monte dello studio dedicato al rapporto medico-malato. L’incontro dell’uomo con l’altro essere umano è la base anche del rapporto che si stabilisce tra il medico e il malato. Analogamente, il volume dedicato all’amicizia ― Sobre la amistad ― affronta un tema antropologico centrale nel pensiero occidentale, da Platone a Hegel e a Marx, con l’intenzione di ampliare a livello filosofico generale un tema che ho trovato essenziale per descrivere quel particolare rapporto di amore tra uguali ― la philia dei Greci ― che si instaura nell’ambito della somministrazione delle cure mediche.

Attualmente sto dando un corso di lezioni che ha come titolo generale quattro infinitivi: “Sapere, credere, sperare, amare”. Enunciato in questi termini, sembra una visione edulcorata dell’esistenza umana. Ma così non è, se consideriamo che ogni sapere comporta un ignorare, ogni credere un dubitare, ogni sperare un disperare, ogni amare un odiare. Qualunque valore si voglia attribuire a questa visione, devo dire che, in ogni caso, non si tratta più di antropologia medica, ma di antropologia generale.

Il magistero intellettuale di Laín Entralgo ha germinato diversi sviluppi, rappresentati dai suoi discepoli. Le “Humanidades Médicas” si sono differenziate. Nel Dipartimento di salute pubblica e storia della scienza dell’Università Complutense c’è, per esempio, chi coltiva in modo preferenziale i rapporti tra medicina e letteratura ― come Luis Montiel chi studia l’impatto delle variazioni demografiche sulla pratica della medicina ― come Elvira Arquiola e chi ― come Diego Gracia ― ha sviluppato la bioetica. Sorprende che, nella pluralità di interessi che hanno animato la vita intellettuale di Lafn, gli aspetti etici della medicina non abbiano avuto uno sviluppo proporzionale ad altri. Questa situazione è occasionale, oppure deriva da una scelta deliberata, quasi che l’esplorazione della dimensione etica fosse riservata ai discepoli, più che al maestro?

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Laín Entralgo:

Nella mia concezione della medicina il momento etico è fondamentale, tanto dal punto di vista teorico che pratico. Già nel mio libro Il medico e il paziente distinguevo nell’atto medico quattro momenti principali: quello conoscitivo (tecnicamente specificato come “diagnostico”); quello operativo, cui siamo soliti dare il nome di “cura”; quello affettivo, inteso sia come “amicizia” ― nell’accezione greca di philia ―, sia come transfert, secondo la dottrina degli attuali psicanalisti; e infine il momento etico. Devo riconoscere che gli aspetti conoscitivi sono quelli che mi hanno interessato di più. Ma la stessa concezione di storia della medicina che ho coltivato era impregnata di una concezione etica.

Io non ho voluto fare una storia della medicina per altri storici della medicina, e neppure per lo storico generale. Pur riconoscendo come validi e legittimi questi due modelli, ho voluto essenzialmente fare una storia della medicina diretta al medico. Per usare una categoria tipicamente spagnola, direi che il mio intento era di permettere al medico di essere un uomo “bennato”. Nella nostra cultura questa è una categoria etica, non sociale. A differenza del “malnato”, l’uomo “bennato” conosce e riconosce ciò che deve agli altri per essere quello che è. La storia della medicina che ho promosso voleva, dunque, porre il medico in quella situazione intellettuale di consapevolezza e in quell’atteggiamento etico di riconoscenza che fa di lui un “bennato”.

Ma al di là di questa dimensione non ho spinto la mia ricerca e la mia produzione. E stato un merito di Diego Gracia di scorgere e sviluppare tutte le implicazione etiche presenti in questa concezione storica dell’atto medico. In particolare, ha intuito che il campo della bioetica era diventato un tema di interesse sociale generale, ben oltre l’ambito medico. Per sua iniziativa l’ha coltivato con buon successo, tanto da diventare uno studioso internazionalmente riconosciuto nella bioetica.

All’osservatore esterno la scuola spagnola di “Humanidades médicas” raccolta intorno a Pedro Laín Entralgo dà un’impressione di straordinaria solidità di disegno concettuale e di qualità di rapporti umani. C’è un circolo di studiosi ben identificati, che si rapportano di a Laín con singolare deferenza e intimità ― il gruppo per i quali Laín Entralgo è semplicemente “Don Pedro” ―, pur conservando ognuno un proprio profilo intellettuale. Possiamo semplicemente

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racchiudere questa situazione entro il quadro di un rapporto maestro-discepoli?

Laín Entralgo:

Io non mi considero un maestro nel senso classico della parola. Il maestro ha una assiduità nell'insegnare ai discepoli che io non ho avuto. Ho lavorato sempre solo, con una concezione più romantica che contemporanea della ricerca. Ma ciò che mi dà più soddisfazione, al momento di fare il bilancio della mia vita, è il fatto che oggi in Spagna ci sia un manipolo di 10 o 12 persone che si dedicano totalmente alla storia della medicina e alle “Humanidades médicas”: con serietà, con rigore, con talento, oserei dire con abnegazione. Sono fiero che la mia opera personale abbia reso possibile questo susseguirsi di studiosi ― siamo già alla terza generazione! ― di “Humanidades médicas”.

Quanto al rapporto che miro a instaurare tra di noi, applico lo stesso schema etico che, a mio avviso, deve reggere il rapporto paterno-filiale: Cattivo maestro quello che, arrivata una determinata situazione della sua vita, non sa essere discepolo dei suoi discepoli. Come al figlio può essere richiesto, in determinate circostanze, di diventare padre di suo padre, allo stesso modo al discepolo può essere richiesto di diventare maestro dei suoi maestri. Perché questa inversione di ruoli avvenga, la condizione essenziale è quella che già poneva Kant come fondamento dell’etica dei rapporti interpersonali: che alla persona si conceda la debita Achtung, cioè rispetto e considerazione. Questo rispetto è quello che fondamentalmente regge il rapporto tra di noi, nella scuola spagnola di “Humanidades médicas”.

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Scheda bibliografica

I giorni di Pedro Laín Entralgo sono stati molto ricchi di opere. La sua bibliografia emula quella dei grandi poligrafi spagnoli ― come Menendez Pidal e Marañón ― nella cui tradizione si colloca. Le pubblicazioni in forma di libro occupano più di un ripiano della libreria: sono una ottantina. Ad esse si aggiungono innumerevoli saggi apparsi in varie riviste (come i Cuadernos Hispanoamericanos, Asclepio, Rivista de Historia de la medicina y de la Ciencia, da lui fondate e dirette) e una vastissima produzione giornalistica. Ai nostri fini tralasciamo di menzionare le opere di carattere autobiografico, letterario e quelle storiografiche e riferite alla cultura spagnola, per ricordare solo gli apporti di Laín alle Humanidades médicas. Nell’ambito della storia della medicina si segnalano:

Medicina e Historia, Editora Nacional, 1941

La Historia clinica. Historia y teoria del relato pato-biográfico, CSIC, 1950

La relación medico-enfermo, Ed. Revista de Occidente, 1964

La medicina hipocratica, Ed. Revista de Occidente, 1970

Historia universal de la medicina (7 volumi sotto la sua direzione), Salvat, 1972-1975

El diagnostico medico. Historia y teoria, Salvat, 1982

Inoltre numerose biografie dedicate ai classici della medicina: Claude Bernard, Harvey, Laennec, Cajal, Marañón, ecc.

Alla riflessione filosofica su grandi temi antropologici Laín ha contribuito con:

La curación por la palabra en la antigüedad clásica, 1958

La espera y la esperanza. Historia y teoria del esperal humano, Ed. Revista de Occidente, 1956

Teoria y realidad del otro (2 volumi), Ed. Revista de Occidente, 1961

Sobre la amistad, Ed. Rivista de Occidente, 1972

Tra le opere più importanti dedicate all’antropologia medica:

Enfermeded y pecado, Ed. Toray, 1961

Antropologia médica para clinicos, Salvat, 1984

El cuerpo humanoOriente y Grecia antigüia, Espasa Calpe, 1987

El cuerpo y el alma, Espasa Calpe, 1991

Sono state fatte traduzioni delle sue opere in tedesco, francese e inglese (in particolare, la traduzione inglese di La relación medico-enfermo ha esercitato un forte influenza sulla corrente della bioetica americana che, integrando la tradizione ippocratica, intende valorizzare l’orientamento dell’azione medica a procurare beneficio al paziente: in particolare sull’opera di Edmund Pellegrino). La produzione di Laín Entralgo sembra invece che non sia riuscita finora ad attraversare la frontiera italiana. Si segnalano solo due traduzioni delle sue opere:

Il medico e il paziente, Ed. Il Saggiatore, 1969

Antropologia medica, Ed. Paoline, 1987

Questa ultima opera è corredata di un profilo biografico di Laín Entralgo, redatto da José A. Mainetti.