Relazione dell’etica e della deontologia medica con la bioetica

Book Cover: Relazione dell'etica e della deontologia medica con la bioetica

Sandro Spinsanti

RELAZIONE DELL'ETICA E DELLA DEONTOLOGIA MEDICA CON LA BIOETICA

in Carlo Romano - Goffredo Grassani, Bioetica

UTET, Torino 1995

pp. 70-74

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La bioetica definita “per viam negationis”

Una delle prime preoccupazioni degli studiosi che hanno contribuito alla nascita della bioetica, è stata quella di definire il nuovo ambito disciplinare delimitandolo da quelli analoghi, in primis dall’etica medica. È istruttivo a tal fine ascoltare l’esperienza diretta di Warren Reich, il curatore ddi'Encyclopedia of Bioethics. L’opera, pubblicata nel 1978, ha contribuito in modo decisivo all’affermazione della nuova disciplina e del neologismo che la denota. Al momento della progettazione dell’Enciclopedia si è esitato se chiamarlo “di Bioetica” e “di Etica Medica”; l’opzione per il termine “Bioetica” fu quasi casuale, e in ogni caso si assunse solo il termine, non l’accezione originaria in cui Van Resslaer Potter l’aveva proposta per la prima volta, solo pochi anni prima 1.

Oltre a fornire la definizione di Bioetica che è divenuta ormai classica (“studio sistematico del comportamento umano nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale comportamento è esaminato alla luce dei valori e dei principi morali”), l’Enciclopedia descriveva nella sua introduzione l’area disciplinare della bioetica, con la preoccupazione esplicita di demarcarla dall’etica medica. In questo disegno la bioetica comprendeva l’etica medica; il suo oggetto era presentato come più ampio di quello proprio dell’etica medica, fatto coincidere con i problemi valoriali che sorgono nel rapporto medico-paziente.

Secondo l’Enciclopedia, l’eccedenza della bioetica rispetto all’etica medica si manifesta in quattro ambiti:

― comprende i problemi valoriali che sorgono in tutte le professioni della salute, incluse professioni che si occupano della salute mentale, e quindi non soltanto nella professione del medico in senso stretto;

― si estende alla ricerca biomedica e a quella rappresentata dalle scienze psicosociali, indipendentemente dalla portata terapeutica che tali ricerche possano avere;

― include un ventaglio più ampio di problemi sociali, come quelli relativi alla salute pubblica, alla medicina del lavoro, alla salute a livello internazionale e all’etica del controllo demografico;

― si estende oltre la vita e la salute dell’uomo, in quanto comprende problemi relativi alla vita animale e vegetale, per es. temi relativi alla sperimentazione animale e alla difesa dell’ambiente.

La definizione di una disciplina attraverso il suo oggetto materiale ― che nel caso della bioetica si presenta fenomenologicamente di maggiore ampiezza rispetto ai temi della medica ― non esaurisce certo l’impegno a tracciarne un completo profilo. Molti altri elementi, soprattutto quelli formali, contribuiscono a costituire lo statuto della bioetica quale disciplina specifica. Non possiamo fare a meno di considerare, in particolare, il contesto pluralista e secolarizzato in cui si esercita oggi la riflessione sui vincoli morali cui le pratiche bio-mediche devono essere sottoposte. Alcuni cercheranno la vera novità della bioetica proprio in questo suo essere un’etica rilevante dal punto di vista civile, e tuttavia rispettosa di tutte le confessioni religiose e della coscienza individuale; consapevole del contesto pluralista della nostra società, che pur esige una convergenza nella tutela dei diritti dell’uomo; articolata in argomentazioni coerenti dal punto di vista razionale; non di carattere meramente corporativo, né funzionale ad operazioni esteriori di immagine.

La valorizzazione della più ampia portata contenutistica e della novità formale della bioetica, che ne fanno

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una disciplina o quanto meno un tema di dibattito pubblico tipico degli ultimi due decenni, non esaurisce il compito di evidenziare tutti gli aspetti innovativi veicolati dalla bioetica. Ci approssimeremo di più al nostro intento instaurando un confronto sistematico con la deontologia e l’etica medica. Questa specie di definizione per viam negationis, sottolineando cioè che cosa differenzia la bioetica da queste altre consolidate discipline, è utile per evitare innovazioni solo nominali.

Diverse accezioni di etica medica

La demarcazione dalla etica medica, operata dalla nascente bioetica, riposava su una omologazione di diversi concetti di etica medica. Per un discorso più rispettoso della pluralità delle pratiche ― e anche più attento ai molteplici significati attribuiti agli stessi termini, con la possibilità di sfociare in una babele di linguaggi ― dovremo distinguere almeno tre accezioni di etica medica: come morale religiosa applicata alla medicina, come filosofia morale pratica e come morale professionale.

L’etica medica, secondo il primo significato, è un’articolazione della teologia morale. Numerosi manuali, con il titolo appunto di “Etica medica”, sono stati prodotti da teologi fin dalla metà del nostro secolo, parallelamente all’autorevole insegnamento magisteriale di Pio XII, che ha dedicato un’attenzione privilegiata ai problemi che andavano sorgendo a seguito dei grandi sviluppi della medicina contemporanea 2. Secondo la ricostruzione storica dell’avvio del movimento della bioetica negli Stati Uniti fatta da Leroy Walters, teologi moralisti e pensatori interessati al rapporto tra scienza e religione, tanto cattolici che protestanti, hanno contribuito in maniera determinante alla rinascita dell’etica medica, particolarmente nel decennio che va dal 1965 al 1975 3. Il dibattito e le pubblicazioni di quegli anni hanno avuto, appunto nell’“etica medica” il loro referente.

L’interesse dei teologi, che ha anticipato e stimolato quello che ai progressi della medicina avrebbero in seguito portato i cultori della filosofia morale, aveva un eminente carattere pastorale. L’etica medica che proponevano era elaborata deduttivamente, a partire dal patrimonio dottrinale tradizionale proprio di ciascuna confessione religiosa. Si tratta sostanzialmente di un’etica fatta dai teologi per i medici (e per i fedeli), piuttosto che con i medici. Ancor meno si può dire che fosse fatta dai medici.

Non si vedono ragioni per cui questa attività di produzione di una normatività morale religiosa applicata all’ambito bio-medico, pienamente legittima entro l’orizzonte confessionale che le è proprio, non debba continuare anche dopo l’emergere del discorso bioetico nella nostra società. Per amore di chiarezza, tuttavia, sarebbe più opportuno che evitasse di denominarsi bioetica (anche se è pur vero che in questo ambito i teologi hanno smesso di parlare esclusivamente ai loro correligiosi con il linguaggio della loro tradizione e cercano sempre più di esprimere gli standards etici in foro pubblico e laico: la natura di questa etica medica resta, tuttavia, essenzialmente religiosa).

In una seconda accezione, l’etica medica è una forma di filosofia morale pratica, ovvero di etica applicata. Essa va inserita all’interno della svolta dalla meta-etica all’etica pratica. L’insegnamento filosofico tradizionale non incoraggiava a occuparsi dei problemi concreti, e neppure a conoscerne la realtà. Nella convinzione che l’applicazione dei grandi principi ai casi reali non sollevasse alcuna difficoltà particolare, la riflessione filosofica si consacrava alla critica dei fondamenti. L’interesse dei filosofi di professione era rivolto all’aspetto formale dell’etica, cioè a stabilire quale tipo di problemi e di giudizi possono essere propriamente classificati come etici.

L’era della meta-etica durò fino agli inizi degli anni Sessanta, quando l’attenzione pubblica si rivolse alle questioni che nascevano dal progresso della biologia e della medicina e i filosofi morali le fecero seguito, muovendo dagli aspetti più teorici dell’etica ai problemi del “ragionamento pratico”. Secondo una formulazione a effetto di Stephen Toulmin, mediante la svolta avvenuta una ventina d’anni fa, la medicina “ha salvato la vita all’etica” 4, in quanto l’ha costretta ad occuparsi di problemi concreti: in altre parole, ha restituito all’etica la serietà e la rilevanza umana che sembrava aver perduto.

La fioritura dell’etica medica come attività specifica di filosofia morale pratica ha trovato un campo privilegiato di applicazione nell’etica clinica (intesa come identificazione, analisi e soluzione di problemi morali che sorgono nella cura di un particolare paziente, inseparabilmente

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dalle preoccupazioni mediche circa la diagnosi e il trattamento corretti) e nella pratica di analisi di casi nell’ambito di comitati di etica 5. Pur con la dignità che le compete di discorso filosofico, l’etica medica è un’attività che non viene esercitata in modo esclusivo da coloro che, con un neologismo di conio anglosassone, vengono detti “eticisti”, ma da tutti coloro che, coinvolti nei problemi sanitari, acquisiscono la metodologia appropriata per l’analisi casistica.

Una terza accezione di etica medica, che va distinta dalle due precedenti, è quella che si riferisce all’etica all’interno di una professione: quella del medico, nel caso specifico. Una approssimazione diretta all’ordine di problemi qui implicati è costituita dalla domanda: l’etica professionale coincide con lo standard morale in vigore in una determinata società o differisce da esso? Con altre parole: l’etica professionale presuppone principi morali validi in qualsiasi ambito dell’esperienza umana, oppure implica principi validi solo per quella determinata professione e riconoscibili solo da chi la esercita? L’interrogativo è stato dibattuto, alcuni anni or sono, al più alto livello accademico, tra studiosi che hanno pubblicato le loro considerazioni sulla rivista Ethics 6.

Aprendo la polemica, B. Freedman fece notare che la “morale professionale”, rispetto ala “morale ordinaria”, ha alcune caratteristiche peculiari. La morale professionale ha sempre un carattere straordinario, se confrontata con il comportamento ordinario: al professionista si permette di fare o di omettere certe cose che invece la morale ordinaria richiede al cittadino qualsiasi. Ciò spiegherebbe il fatto, secondo Freedman, che la morale professionale si acquisisce mediante un patto o un contratto, e che conserva le distanze rispetto alla morale ordinaria mediante obblighi come quello del segreto.

In risposta a questa tesi, M.W. Martin sostiene che gli obblighi propri della morale professionale non avrebbero senso, se fossero svincolati dalle norme della morale ordinaria: si possono giustificare solo rispetto ad esse. L’obbligo del segreto medico, ad esempio, ha il suo fondamento nel principio della morale ordinaria secondo cui ogni essere umano è soggetto di due diritti inviolabili, che sono quelli dell’intimità e della confidenzialità.

Alla sottolineatura dei diritti umani, come fondamento della morale professionale, Freedman contrappose, in un successivo intervento, la valorizzazione di ciò che rende la morale professionale diversa. Per quanto il fondamento possa essere lo stesso, coloro che vi si ispirano si collocano su un altro livello. La morale professionale impone, infatti, di realizzare atti che, se non si considerasse l’identità professionale di colui che agisce, sarebbero ritenuti immorali o illeciti. Grazie alla morale professionale, nelle relazioni sociali proprie di un gruppo ad alcune persone, identificate come professionisti, viene concessa una autorità, a cui consegue una impunità per certi atti.

Questo dibattito accademico sulla natura dell’etica professionale acquista rilievo solo se lo consideriamo sullo sfondo costituito dalle analisi proprie della sociologia delle professioni 7. Da alcuni decenni si sta conducendo una riflessione sistematica sulle libere professioni, studiate in quanto occupazioni “speciali”, cioè caratterizzate da alcuni attributi che le distinguerebbero dalle altre occupazioni. Tra questi attributi sono state individuate delle conoscenze scientifiche peculiari e l’adesione a un ideale di servizio. La specificità dell’etica professionale si spiega come una ulteriore determinazione di una “diversità” che sarebbe inerente, per definizione, alle libere professioni.

La ricerca sociologica che si è interessata al mondo delle professioni non ha esitato a puntare il dito sul carattere ideologico di molti miti che circondano le libere professioni. Tra questi vanno rilevati: la scelta della professione come “vocazione”, l’altruismo e l’ideale di servizio alla società, la peculiarità della formazione ricevuta, l’impossibilità del cliente di valutare la prestazione professionale, l’autoregolazione e il segreto professionale 8.

L’etica professionale è anch’essa uno di questi miti? È certo che essa va interpretata, nella prospettiva sociologica,

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come un aspetto parziale di un tratto che caratterizza le libere professioni, in quanto occupazioni speciali all’interno della società. Se vogliamo riferirci in concreto all’etica medica, in quanto etica professionale, possiamo rilevare diversi indizi caratteristici di quella specie di “extraterritorialità” ritenuta necessaria alla professione per poter svolgere la sua funzione sociale. Se il segreto professionale è comune ad altre professioni (avvocati, giornalisti, ecc.), in quella medica predomina la facoltà di procedere ad atti che possono avere conseguenze sulla vita e sull’incolumità personale (somministrazione di farmaci, incisioni chirurgiche), senza che tali atti, identificati come illeciti in condizioni normali, siano ritenuti tali quando sono esercitati dal medico. L’agire senza consenso sull’integrità fisica di una persona, che nelle normali occorrenze costituisce un reato di violenza privata, diventa invece lecito, se non doveroso, quando si configura come atto medico.

problemi dell’etica medica, in quanto etica della professione medica, stanno attraversando una particolare complessificazione. La medicina, infatti, acquista i connotati del sistema sociale all’interno del quale si sviluppa. Per quanto riguarda il mondo occidentale post-industriale, il tratto dominante è quel processo che ha portato la professione medica a perdere progressivamente la triplice dominanza che la caratterizzava: funzionale, gerarchica e scientifica 9. Le altre professioni sanitarie si rendono autonome e affrontano i problemi etici in un modo che non è subalterno all’etica della professione medica.

L’emergenza del soggetto e la difesa del principio di autonomia (definito in questi termini da una celebre sentenza del giudice americano Benjamin Cardozo nel 1914: “Ogni essere umano adulto e sano di mente ha diritto di decidere che cosa viene fatto al suo corpo”) obbligano inoltre l’etica professionale medica a ridefinire i limiti della sua facoltà di curare. Il sistema sanitario è diventato troppo complesso per poter continuare a essere governato da un’etica medica elaborata da una posizione di “splendido isolamento”, quale era caratteristica della medicina in regime di professioni liberali.

Questa situazione complessiva permette alla bioetica di distaccarsi sullo sfondo costituito dall’etica medica in quanto etica professionale, sottolineando i propri contorni di riflessione etica non riferita direttamente all’esercizio di una professione, ma relazionata piuttosto all’etica civile e fondata sulla difesa e promozione dei diritti umani.

La deontologia medica e le sue funzioni

La terza accezione di etica medica, quella cioè che la fa equivalere a un’etica professionale, ci introduce direttamente alla deontologia. È corrente la concezione di deontologia ricondotta a un “corpus” formalizzato di regole di autodisciplina o di comportamento che, per decisione autonoma di una professione, valgono per i propri membri. Essa viene differenziata dall’etica per il fatto che non ha di mira, come quest’ultima, le scelte di valori e gli orientamenti che sono propri di un’intera comunità civile, bensì è finalizzata alla tutela della professione, o più esattamente del rapporto che i professionisti instaurano con i clienti. Pur accettando per valida questa prima approssimazione della deontologia, se ne possono dare anche altre letture, che mettono in evidenza significati e funzioni della deontologia che sfuggono a questa visione piuttosto riduttiva.

Una prima interpretazione della deontologia è quella fornita dalle analisi sociologiche 10. L’autoregolazione professionale attuata dai codici deontologici appare come sintomo di esigenze funzionali che riguardano tutte le professioni, in quanto hanno un bisogno di legittimazione. Questo bisogno appare particolarmente evidente nella professione medica. La preoccupazione principale che traspare nel corpo delle norme deontologiche, in quanto modelli di comportamento faticosamente consolidati nel tempo mediante la ripetitività e autorevolmente proposti dagli organismi più rappresentativi della professione, è quella di costruire una relazione di fiducia con il paziente. La deontologia corregge l’intrinseca asimmetria del rapporto medico-paziente, esplicitando le norme di comportamento a cui i sanitari, in quanto professionisti, si impegnano ad attenersi. Non si limita, perciò, a difendere gli interessi della categoria, concepita come una corporazione, ma tutela anche i pazienti da eventuali comportamenti illeciti da parte dei membri della professione.

Le formulazioni deontologiche comprendono le regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune, in quanto questa ha per interlocutori la società, che legittima l’esercizio dell’arte terapeutica, e i malati, che hanno bisogno di una relazione fiduciale. Le regole deontologiche sono, perciò, più che un semplice regolamento interno alla professione. Le si potrebbe chiamare uno “spirito”, che deriva da una percezione

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collettiva dell’attività svolta, del senso di questa attività e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale.

Accanto a questa lettura sociologica, che vede nella creazione di una deontologia l’avvenuto processo di istituzionalizzazione della professione, è opportuno introdurne un’altra, di natura psico-sociale. Il punto di partenza di questa interpretazione è costituito dalla consapevolezza che il sapere medico è un sapere particolare. Renee Fox, che da decenni ne studia le caratteristiche, ha messo in evidenza il carattere di incertezza del sapere medico e ha potuto analizzare le diverse strategie messe in atto nel corso del curriculum di formazione degli studenti di medicina per imparare ad adattarsi ad essa 11. Una situazione particolarmente emblematica di tutto il processo di acquisizione del sapere medico è individuata dalla sociologia nella autopsia. A suo avviso, la partecipazione alla prima autopsia riveste un significato simbolico molto alto ― fino a costituire un vero e proprio “rito di passaggio” ― e completa la formazione all’incertezza nel periodo preclinico. Mediante l’autopsia gli studenti di medicina fanno la conoscenza di uno dei modi istituzionalizzati mediante i quali i medici affrontano l’incertezza intrinseca alla professione con fini di ricerca 12. Allo stesso tempo, gli studenti capiscono che la partecipazione a un’autopsia costituisce uno dei numerosi diritti e privilegi dei medici, che vengono estesi agli studenti nel quadro della loro formazione. L’autopsia aiuta gli studenti a prendere coscienza che abbracciano una professione che possiede un codice di comportamento molto diverso rispetto a quello dei profani. Tale processo equivale, in definitiva, a un primo contatto con la deontologia che è propria della professione.

È importante notare, a tale proposito, che la deontologia non ha bisogno di un insegnamento formale. Essa viene assimilata per lo più indirettamente: pur senza aver mai letto il Giuramento di Ippocrate, la maggior parte dei medici ne ha fatto proprio lo spirito. Nella stessa direzione ci inclina anche la constatazione che i principali documenti della tradizione deontologica ed etica in medicina, pur elaborati in tempi e luoghi diversi e senza contatti reciproci, coincidono sostanzialmente nelle linee fondamentali 13. La deontologia viene acquisita insieme al sapere teorico e alla tecnica, al punto da non essere facilmente separabili e da questi. Per interpretare tale fatto, abbiamo bisogno di una ulteriore prospettiva, e precisamente di quella che ci viene offerta dalla psicosociologia.

Questa si è resa attenta al funzionamento dei sistemi sociali in quanto istituzioni che costituiscono una difesa contro l’ansia. E l’ansia che inerisce alla pratica della medicina è di una intensità particolare, tanto che alcuni studiosi si sentono autorizzati a qualificarla come psicotica14. Il desiderio, infatti, di conoscere e di guarire, che anima il sapere medico, risveglia quelle potenziali fonti di angoscia connesse con il penetrare i segreti della vita e della morte, con l’infrazione del tabù che interdice l’accesso all’interno del corpo dell’altro (di qui il particolare valore di rito di passaggio attribuibile all’ingresso in sala settoria) e con l’incontro con la malattia. Tutti i membri della stessa istituzione condividono analoghi meccanismi di difesa, che interiorizzano durante il processo di formazione. Di qui la particolare coesione che caratterizza l’appartenenza alla professione.

La formulazione di codici e norme di comportamento è solo l’aspetto fenomenologicamente più superficiale della deontologia, ovvero l’esplicitazione della sua funzione sociale. La sua radice più profonda va rintracciata invece nei meccanismi difensivi che tutti i medici adottano per il fatto di operare in prossimità dei segreti inquietanti della vita e della morte. Questo profilo della deontologia ci permette di capire, per esempio, come il sapere medico tende a situarsi “spontaneamente” dalla parte della difesa della sacralità della vita, indipendentemente dall’ethos sociale o dai valori etici culturalmente condivisi. Se, nel caso di divaricamento tra mantenimento della vita e sua qualità, la classe medica è più incline all’opzione per la difesa della vita, ciò va profondamente fatto risalire a un consenso sulla comune deontologia, piuttosto che alla condivisione di una identica etica medica.

Queste specificazioni delle diverse accezioni e funzioni dell’etica medica e della deontologia propria delle professioni sanitarie ci permettono di non confondere questi diversi saperi e atteggiamenti con l’attività specifica della bioetica. In quanto etica civile, questa è costituita da una procedura particolare che presuppone e rispetta l’autonomia delle altre istanze normative del comportamento. La loro differenziazione e reciproca distinzione di livello di funzionamento e di finalità, produce, in definitiva, una più efficace presenza del bisogno di normazione nell’ambito dell’attività sanitaria.

NOTE

1 Le vicende della nascita dell’Encyclopedia of Bioethics sono raccontate da Warren Reich nel volumeVent'anni di Bioetica, a cura di Corrado Viafora, ed. Fondazione Lanza - Gregoriana Libr. Ed., Padova 1990,p. 129 ss. Per l’accezione originale del termine Bioetica, vedi B. Chiarelli ed. E. Gadler, “Nota storica. Van Rensslaer Potter e la nascita della Bioetica”, in Problemi di Bioetica N. 5 (1989), pp. 61-63.

2 Gli interventi di Pio XII, costituiti da una nutrita serie di discorsi e allocuzioni a medici e scienziati, sono raccolti nel volume Pio XII: Discorso ai medici, a cura di F. Angelini, ed. Orizzonte Medico, Roma 1963.

3 Leroy Walters, “La religione e la rinascita dell’etica medica negli Stati Uniti: 1965-1975”, in Earl E.Shelp (a cura), Teologia e bioetica, tr.it. ed. Dehoniane, Bologna 1989, pp. 37-57.

4 Stephen Toulmin, “How Medicine saved the Life of Ethics”, in Perspectives in Biology and Medicine, 25 (1982), pp. 736-750. Sul tema della riabilitazione della filosofia morale pratica si veda E. Berti (a cura),Tradizione e attualità della filosofia pratica, Genova 1988, ed. Marietti.

5 Si veda L.B. Hoffmaster, B.Freedman, G. Fraser (acura), Clinical Ethics: Theory and Practice, Clifton N.Y. 1989, Humana Press; A.R. Jonsen, M. Siegler, W.J. WinsladeClinical Ethics. A Practical Approach lo Ethical Decisions in Clinical Medicine, New York 1986, Macmillan Pubbl. Company; G.C. Graber, A.D. Beasley, J.A.EaddyEthical Analysis of Clinical Medicine, Baltimore 1985, Urban and Schwarzenberg. In questo ambito va collocato il revival” della casistica, rivalutata come procedimento di autentica filosofia morale, dopo il discredito in cui era stata gettata da Pascal in poi: cfr. A.R. Jonsen e S. Toulmin, The Abuse of Casnistry, Berkeley 1988, University of California Press.

6 Benjamin Freedman, “A Meta - Ethics for Professional Morality” in Ethics 89 (1978), 1-19; Mike W. Martin, “Rights and Meta - Ethics of Professional Morality”, in Ethics 91 (1981), 619-625; Benjamin Freedman, What Really Makes Professional Morality Different: Response to Martin”, in Ethics 91 (1981), 626-630.

7 Cfr. Willem Tousijn (a cura), Sociologia delle professioni, Bologna 1979, ed. Il Mulino. Per l’insieme del dibattito sull’insieme degli attributi professionali, si veda T. Johnson, Professions and Power, London 1972, ed. Macmillan.

8 Cfr. J.A. Roth, Professionalism. The Sociologist’s Decoy, in “Sociology of Work and Occupations” 1 (1974), n. 1; tr. it. in G.P. Prandstraller (a cura), Sociologia delle professioni, Roma 1980, ed. Città Nuova.

9 Cfr. Willem Tousijn, “Medicina e professioni sanitarie: ascesa e declino della dominanza medica”, in Le libere professioni in Italia, cit., pp. 169-201.

10 Si veda, in senso esemplare, il saggio di Alberto Febbrajo, “Struttura e funzioni delle deontologie professionali”, in Willem Tousijn, Le libere professioni in Italia, cit., pp. 55-86.

11 Renee C. FoxTraining for Uncertanity, Cambridge Mass. 1957, Harvard Univ. Press.

12 Cfr. Renee C. Fox, “The Autopsy. Its Place in the Attitude Learning of Second-Year Medical Students” inEssays in Medical Sociology: Journeys into the Field, New York 1979, Wiley Pubbl., pp. 51-77.

13 Cfr. Sandro Spinsanti (a cura), Documenti di deontologia ed etica-medica, Cinisello Balsamo 1985, ed. Paoline.

14 Cfr. Giovanni Guerra, “la medicina come istituzione e il suo sapere” in Aa.Vv., Bioetica per operatori sanitari, Roma 1991, ed. Nuova Italia Scientifica. Su tutta la problematica psicosociale delle istituzioni, si veda I.P. Menzies, The functioning of social system as a defence against anziety, London 1970, Tavistock Institute.