L’antropologia medica di Viktor Von Weizsäcker: conseguenze etiche

Sandro Spinsanti

L'ANTROPOLOGIA MEDICA DI VIKTOR VON WEIZSÄCKER: CONSEGUENZE ETICHE

in Sanità scienza e storia

n. 2, 1985, pp. 29-40

29

Il libro più recente di Luis Chiozza, uno psicanalista argentino, si presenta con una curiosa prefazione: «Mio padre, quando ero bambino, mi spiegò un giorno, mentre gustavamo tutt’e tre una scatola di datteri, che piacevano molto a mia madre, che chi semina datteri non arriverà a mangiarli, a meno che sia giovane. Questo deve avermi fatto impressione, perché non l’ho mai dimenticato Ci sono idee che sono come datteri: tardano molto a crescere; colui che le semina non vedrà i loro frutti. Ma i datteri esistono, e li seminiamo mentre mangiamo quelli che altri hanno seminato» 1.

Chiozza non dice se, nel formulare questa similitudine, avesse in mente Viktor von Weizsäcker. La cosa non è improbabile, dal momento che il libro appare in una collana che si chiama «Biblioteca del Centro della consulta medica von Weizsäcker» e Chiozza non fa mistero, in questa come in altre sue pubblicazioni, del debito che ha nei confronti di von Weizsäcker per la propria concezione della malattia e della prassi terapeutica. Si può trovare seducente l’idea che qualche seme di dattero, mangiato ad Heidelberg qualche decennio fa, sia andato a crescere e a fruttificare in Argentina... La metafora probabilmente sarebbe piaciuta allo stesso von Weizsäcker. L’influsso che egli ha esercitato nel rinnovamento del pensiero e della prassi non ha avuto un carattere eclatante, né una rapida diffusione. Non ha costruito un sistema; tanto meno ha voluto formare una scuola. Era consapevole che il rinnovamento che proponeva non era un semplice palliativo ai mali della medicina o un fronzolo aggiunto ad essa, bensì presupponeva una sua destrutturazione e ricostruzione in profondità. L’impresa è così ardua che ci vorrebbe un genio per realizzarla: «Mancava il Paracelso del nostro tempo; io in ogni caso non avrei potuto

30

diventarlo, sia per mancanza di disposizione, sia per debolezza di convinzione» 2.

Invece di costruire un sistema o una scuola, von Weizsäcker ha scelto la posizione scomoda dell'outsider. Non ha trovato cittadinanza né nel santuario delle scienze della natura, né in quello delle scienze dello spirito. Con la categoria dell’outsider ha interpretato il destino di von Weizsäcker nell’ambito accademico tedesco M. von Rad, introducendo un seminario interdisciplinare all’università di Heidelberg nel 1972-73 sull’Antropologia come tema della medicina psicosomatica e della teologia. È tutta la struttura della scienza e i suoi presupposti metodologici che crollano, quando ci si interroga sul perché essa abbia «mancato l’umano». Il neurologo di Heidelberg ha condotto questo tentativo di interrogazione fino alle ultime conseguenze, almeno per la medicina: «Il rifiuto che ha incontrato — nei circoli medici fu considerato volentieri, ma perfidamente, come importante filosofo, da teologi e filosofi invece come grande medico — questo rifiuto riflette con precisione il problema: determinate scienze permettono solo determinate domande selezionate; la risposta ad esse, qualora non siano risolvibili con le proprie premesse, la rimandano, nei casi migliori, a una disciplina limitrofa, se non la sopprimono del tutto» 3.

Von Weizsäcker, scegliendo di sedere tra due sedie, non ha optato per la via della facilità. Ma le questioni scomode che egli ha posto sono risuonate al di fuori dell’ambito ristretto di singole discipline specialistiche, come semi di datteri, appunto, che vanno a fruttificare in terreni molto lontani da quello di origine. Come il terreno dell’etica. Il suo pensiero, la sua antropologia, nata dalla pratica medica e da una profonda riflessione su di essa, possono essere significativi per l’etica medica? Questa l’esplorazione che intendo proporre.

1. Programma: «umanizzare la medicina»

Negli interessi culturali del momento l’etica medica si presenta come un vecchio cavallo, su cui nessuno era disposto a scommettere, che improvvisamente sorprende con una rimonta che lo porta alle prime postazioni. Negli Stati Uniti, in particolare, i problemi etici della biologia e della medicina, sotto il nome di bioethics, hanno assunto nell’interesse generale il posto che alcuni anni fa occupavano i diritti

31

civili, il femminismo, le proposte dei movimenti di controcultura o il pacifismo. Il movimento Human values in medicine, sostenuto da un ingente sforzo finanziario del National endowment for the humanities, è riuscito a invertire la tendenza che vedeva la medicina navigare sempre più lontana dalle questioni del senso e dei valori, che sono di casa nella filosofia e nella religione. Come dato di fatto, sappiamo che in pochi anni sono sorti corsi di humanities o di bioetica nella quasi totalità delle scuole di medicina. Oggi negli Stati Uniti, afferma Edmund Pellegrino, direttore del Kennedy institute for bioethics di Washington, su 125 facoltà mediche 116 hanno l’insegnamento di etica medica. Parallelamente va crescendo la creazione di comitati etici negli ospedali e nelle istituzioni sanitarie 4. L’Europa sta seguendo la scia deH’America. Tra le numerose iniziative merita di essere citata almeno quella che ha il maggior peso di ufficialità: il Consiglio d’Europa sta lavorando da alcuni anni alla creazione di un manuale su «La medicina e i diritti dell’uomo», destinato a medici e studenti in medicina, per formarli a riconoscere e risolvere i problemi medico-legali, deontologici e morali che emergono nel campo della biologia e della medicina. All’etica medica, quindi, si fa sempre più ricorso per arginare la disumanizzazione della prassi medica e per tutelare l’«umano» in medicina.

Come docente di etica medica non posso, ovviamente, che rallegrarmi di questa esplosione di interesse per la disciplina che coltivo. Ma il mio entusiasmo non è disgiunto da una certa riserva. Ho l’impressione che l’attuale ricorso all’etica medica navighi in acque basse rischiando ogni momento di arenarsi. Anche quando l’etica medica è concepita in modo rigoroso e ineccepibile dal punto di vista formale ― penso, in particolare, all’uso della logica per aiutare il medico nel processo del «decision making» 5 — la causa dell’umanizzazione della medicina mi sembra servita solo superficialmente. Non si giunge alla vera radice dei problemi, al motivo per cui la medicina si rivolge contro l’uomo. È per questo che sento il bisogno di rivolgermi a von Weizsäcker, in quanto maestro nel porre questioni scomode, nello sconvolgere gli schemi interdisciplinari aprendo fronti interdisciplinari. Come apparirebbe l’etica medica oggi trionfante ai suoi occhi?

Anzitutto un’osservazione: Victor von Weizsäcker — fisiologo, medico, psicanalista, filosofo, teologo — pur essendo aperto a tanti interessi,

32

ha dedicato all’etica medica un’attenzione solo marginale. Sa, naturalmente, che la professione medica ha sempre coltivato, insieme alla diagnostica e alla terapia, un insieme di norme per regolare concretamente il comportamento medico: è il ricorso abituale all’etica medica, sotto forma, particolare, di ethos ippocratico. Riferendosi a questa tradizione, in cui il giuramento di Ippocrate ha il valore di Magna charta costituzionale, i medici sono soliti affermare che un’alta carica di idealità anima la loro professione. La posizione di von Weizsäcker rispetto a questa etica medica è piuttosto disincantata. Ne parla situandola nel contesto del problema della fiducia, all’interno del rapporto tra medico e paziente 6. In questo rapporto si instaura abitualmente fin dall’inizio una deformazione: in un rapporto che, essendo un incontro tra persone, dovrebbe essere paritetico, il trattamento insinua l’esigenza di una diversità: al medico va tutta l’autorità e il potere, mentre da parte del paziente è richiesta la fiducia. Quando questo rapporto si rompe o si incrina — nel senso, per esempio, che il malato si accinge a ritirare la sua fiducia — i medici adottano una strategia di difesa che consiste nel barricarsi dentro alla scienza, concepita come una grandezza impersonale 7. Un altro elemento di questa strategia è il richiamo all’etica medica: con questo riferimento la corporazione medica si tutela contro l'opposizione, e conferisce così all’etica medica un carattere di autodifesa professionale. L’etica medica ha quindi, secondo von Weizsäcker, un «carattere profilattico» 8.

La stessa etica medica svolge un’altra funzione di protezione per i medici: non solo nei rapporti di natura collettiva o sociale, ma anche in quelli privati, come sono appunto i rapporti che si creano nell’ambito di una consultazione medica. Anche qui il medico, che si dichiara

33

idealmente discepolo di Ippocrate e professa di seguire un’etica medica, vuol rimediare a un deficit, reale o possibile, di fiducia. Stabilisce un ordine, un comportamento corretto, e vi si attiene. L’aspetto problematico di questa etica medica — osserva von Weizsäcker — sta proprio qui: questi regolamenti interni nella professione medica fanno sorgere l'impressione che, se il medico è discreto, se non allaccia relazioni amorose con i pazienti, se non procura l’eutanasia e non fa esperimenti sugli esseri umani, insomma se rimane «corretto», allora tutto è a posto. Questa concezione dell’etica medica esercita un’azione tranquillizzante e ci impedisce di vedere un’infrazione nascosta, che risale a tutt’e due, al medico e al malato, e proprio per questo non emerge necessariamente in un'etica medica codificata. Sia il medico che il paziente rimangono tragicamente prigionieri della concezione contemporanea della medicina e della terapia, che è superata e che deve essere sostituita 9.

Le riserve di von Weizsäcker nei confronti dell’etica medica dipendono, dunque, da diversi ordini di considerazioni: essa ha carattere ideologico (maschera e giustifica, cioè, i rapporti di potere come sono concretamente esercitati aH'interno della società e della professione); è stata storicamente inefficace a prevenire gravissimi abusi, come è avvenuto sotto il nazionalsocialismo 10; porta il dibattito sulla umanizzazione della medicina a un livello troppo superficiale, senza cogliere la radice dei mali della medicina. In altre parole, egli prende le distanze da un progetto di umanizzazione che non parta da una critica epistemologica della medicina. Non basta aggiungere la morale alla medicina, lasciando quest'ultima tranquillamente installata

34

nel suo statuto di scienza della natura che esclude lo specifico umano dalla sua teoria e dalla sua prassi. È facile condividere il giudizio di von Weizsäcker sui progetti di umanizzazione che partono dalla morale. Solitamente ciò a cui si fa riferimento non è neppure la disciplina filosofica che considera il comportamento umano alla luce dei valori, bensì, in senso molto più riduttivo, in pratica ci si riduce a «far la morale» ai medici o al personale sanitario. Si richiamano i medici e gli infermieri agli ideali umanitari e filantropici tradizionalmente connessi con le professioni terapeutiche, accusandoli di allontanarsi da essi in modo più o meno vistoso. I risultati di simili campagne di moralizzazione sono per lo più nulli, quando non addirittura controproducenti: coloro che si sentono accusati si chiudono in una difesa personale o corporativistica, o rispondono alle critiche, percepite come aggressione ostile, con altrettanta ostilità. Sulla base di una tale reciproca incomprensione non si può costruire nessun progetto di riumanizzazione della medicina. Si scava, piuttosto, un fossato sempre più ampio di indifferenza, proprio in un ambito in cui il rapporto di fiducia è tutto.

Dove ci porterebbe, invece, il progetto di riumanizzazione auspicato da van Weizsäcker? La sua strada passa per l’antropologia. Quella che all’inizio può sembrare una deviazione, si rivela invece, a una considerazione più profonda, come la via più diretta al cuore dell’etica. Per costruire il suo progetto dobbiamo riferirci a due delle sue formule preferite: «portare la psicologia in medicina» e «introdurre il soggetto in medicina». L’una e l’altra formula convergono sul programma globale dell’«antropologia medica».

2. La psicologia, ovvero il soggetto, in medicina

La psicologia che interessava von Weizsäcker non era certo la psicologia di Fechner o lo «strutturalismo» di Wundt, quella psicologia cioè che nasceva con il programma di usare il metodo delle scienze sperimentali per capire la mente. Nei confronti di essa egli nutriva le stesse riserve che lo avevano portato a porsi in posizione critica nei confronti della medicina come Naturwissenschaft. La psicologia che destava l’interesse del neurologo di Heidelberg era quella dinamica. Solo questa gli permetteva di rendere giustizia al soggetto e di introdurre la variabile «personalità» nella medicina clinica. Secondo una sua esplicita dichiarazione, «l’impresa di introdurre la psicologia in medicina non consiste solo nello studiare il piccolo numero di malattie psichiche — come l’isteria, la nevrosi ossessiva o

35

le psicosi — dal punto di vista psichico. Questo è stato sempre fatto. Si tratta piuttosto della questione se ogni malattia, quelle della pelle, dei polmoni, del cuore, del fegato o dei reni, non sia anche di natura psichica. Posto che sia così, allora la considerazione esclusiva- mente natural-scientifica, che è invalsa finora, ha contenuto un errore, che doveva avere anche determinate conseguenze. Se cioè la formazione e il decorso delle malattie sono anche di natura psichica, allora può seguire la supposizione che il processo psichico non è presente solo incidentalmente, bensì si tratta di un processo reale, preminente e decisivo, mentre quello corporeo è solo prodotto secondario del processo psichico. Ma se è così, ne consegue una vera e propria rivoluzione nella nostra immagine della natura umana e della sua malattia; perché allora regnano qui le leggi della psicologia ― sempre che qui esistano leggi» 11.

Questa e analoghe affermazioni hanno guadagnato a von Weizsäcker la fama di rappresentante della medicina psicosomatica. Il mondo accademico ha voluto vedere il suo contributo alla medicina interna nell’aver messo in evidenza l’influsso della psiche sulla malattia. Ma egli non era d’accordo con questa formulazione 12. La medicina psicosomatica non era ancora il superamento della dicotomia cartesiana in medicina: von Weizsäcker la chiamava «medicina prima della crisi». La sua medicina antropologica perseguiva un programma molto più radicale. Introducendo la psicologia nella medicina interna voleva fondare una patologia generale che non separi le malattie in psicosomatiche e organiche, ma le unisca. Proponeva di abbandonare il dualismo cartesiano e di lavorare con l’ipotesi dell’unità corpo-psiche. Ciò conduce a considerare ogni malattia come prodotto dell’uomo intero: corpo, psiche, spirito, storia, società.

La formula «portare la psicologia in medicina» va completata con l’altra, ugualmente cara a von Weizsäcker per esprimere globalmente il significato della sua opera: «introdurre il soggetto in medicina». Anche in questa formula è contenuta una protesta contro l’approccio tipico delle scienze della natura nello studio dell’uomo quale essere vivente. Già da studente von Weizsäcker aveva avuto dubbi di natura filosofica contro il meccanicismo e il materialismo. In seguito l’esperienza brutale della guerra, e soprattutto la crisi di valori che seguì, lo aiutò a rendersi conto dei limiti intrinseci dell’ideale di oggettività scientifica in campo medico, realizzato attraverso l’eliminazione

36

del soggetto. La medicina come scienza della natura, con tutto il suo apparato tecnico e concettuale, è messa in discussione quando risulta che i suoi presupposti generali sulla natura dell’uomo malato sono, se non falsi, decisamente insufficienti 13. Rivendicare l’introduzione del soggetto nel campo delle scienze biologiche voleva dire sciogliere l'incantesimo dell oggettività, ritrovare quelle componenti della malattia come fatto dell’essere vivente che sfuggono al microscopio. In medicina clinica von Weizsäcker aderiva al programma di Ludolf von Krehl: «Le malattie come tali non esistono; noi conosciamo solo uomini malati. Quel che prendiamo in considerazione non è l'uomo in quanto tale (anche questo non esiste), bensì il singolo malato, la singola personalità» 14. Si considerò suo discepolo e si propose come compito della sua vita di coniugare la fedeltà a von Krehl con la fedeltà a Freud. La sua fu una fedeltà creativa: con la sua medicina antropologica aprì alla comprensione della malattia un ambito che la medicina come scienza della natura si era precluso. Per dirlo in modo sintetico, con le sue stesse parole, «la malattia dell’uomo non è il guasto di una macchina, bensì la sua malattia non è altro che lui stesso; o meglio la sua possibilità di diventare se stesso» 15.

Questa formulazione si articola in due parti: l’essere e il poter/dover essere, cioè l’antropologia e l’etica. Da una parte, dunque, il malato è la sua malattia. Questa è una affermazione molto cara a von Weizsäcker, spesso ricorrente nei suoi scritti. Essa presuppone una concezione antropologica in cui l’essere umano è visto come totalità integrata. Per recuperare la visione della totalità, bisogna andare controcorrente rispetto alla medicina contemporanea, che ha preso la via della frammentazione e della specializzazione. Il terapeuta ha perso di vista il fatto che dietro il singolo organo malato c’è la totalità del soggetto.

Una brillante invenzione letteraria, contenuta nel romanzo di Salman Rushdie I figli della mezzanotte, può esserci di aiuto per illustrare la situazione creatasi nella medicina dei nostri giorni. Nel romanzo, che è ambientato in India, un giovane medico, specializzatosi in Europa, viene chiamato a visitare la figlia di un signore locale. La ragazza accusa un dolore intestinale. Secondo i costumi locali, il medico potrà visitarla solo mediante un espediente: un grande lenzuolo, in cui è stato praticato un buco, nasconde il resto del corpo, salvo la

37

parte malata. Scomparsi i dolori intestinali, dopo qualche giorno è la volta del ginocchio destro, poi della caviglia sinistra, poi della spalla ...e così via. Il lenzuolo con il buco, manovrato dalle domestiche, si sposta, lasciando vedere, l’uno dopo l’altro, frammenti del corpo. Solo dopo tre anni, finalmente, un provvidenziale disturbo agli occhi della ragazza permetterà al buco del lenzuolo di inquadrare il suo volto. Vedendosi, il medico e la paziente si scambieranno un sorriso di intesa e di amore. La sequenza delle malattie si rivelerà allora come un astuto stratagemma della ragazza. Le singole parti del corpo appartenevano a un soggetto desiderante, che si fa riconoscere come tale ed è capace di accendere un analogo desiderio.

La medicina antropologica di von Weizsäcker, introducendo il soggetto, attua una duplice operazione: recupera la totalità, in una prospettiva distica, e indica la presenza, dietro ogni malattia, di un soggetto desiderante. Questi struttura la sua malattia, ne fa un elemento della propria biografia, dice, con il linguaggio del corpo, qualcosa a se stesso e al suo ambiente. Solo se si tiene presente ciò che la malattia è (antropologia), tenendo uniti fattualità e significato, si può aprire la malattia al poter essere del malato (etica), ovvero — usando l’espressione di von Weizsäcker — la malattia offre al malato «la possibilità di diventare se stesso».

3. Un’etica della responsabilità in medicina

La proposta antropologica ed etica di von Weizsäcker lascia vedere la sua peculiarità solo nel paragone col modello che prevale nella medicina corrente. Questo si basa sul presupposto implicito che solo l’esperto, cioè il medico, sa spiegare la malattia, mentre il malato è all’oscuro rispetto a ciò che sta avvenendo in lui. Inoltre questi non ha praticamente rapporto con la propria malattia, né con la propria salute. Se cade malato, è perché diventa vittima di un capriccio della natura, di un virus o di un germe patogeno, oppure di un programma genetico sbagliato... anche la guarigione, in questa prospettiva, è qualcosa che avviene al di fuori della persona del malato. Essa va attribuita al medico che ha formulato la diagnosi giusta, o ha prescritto l’antibiotico appropriato, o al chirurgo che ha eseguito l’operazione necessaria. Il solo contributo richiesto al malato è quello di attenersi alle prescrizioni del medico e di non intralciare la sua opera. L’azione del medico è tutta rivolta all’eliminazione del disturbo. Quando ciò avviene, l’individuo torna in salute. La malattia? Un inutile incidente! In questa concezione tutto ha una sua coerenza interna:

38

«la medicina diventa una scienza degli errori, la clinica un’officina per le riparazioni, la tecnica l’eliminazione dei disturbi» 16.

La vera questione etica di tutta la medicina emerge quando tocchiamo quel rapporto fra medico e paziente che sostiene la struttura della medicina scientifica. In questo rapporto avviene una trasmissione di responsabilità al medico: chi si scopre un disturbo, che intralcia il proprio benessere, si aspetta dal medico che glielo elimini; e il medico attende da se stesso la capacità di eliminarlo. La malattia (il sintomo, il disturbo) viene privata di ogni senso personale. Von Weizsäcker parla di Es-Stellung nei confronti della malattia: essa è un non-Io, qualcosa di spiacevole che capita, che aggredisce l’organismo dall’esterno. Al polo opposto troviamo la Ich-Stellung, che si realizza quando il malato accetta di essere il soggetto «strutturante», tanto della propria malattia, quanto della propria guarigione 17.

La teoria e la prassi della medicina adottano esclusivamente la Es-Stellung. La responsabilità di questa situazione va attribuita ai medici? La resistenza dei medici ad accettare il soggetto — e quindi il significato personale della malattia in medicina — è solo una parte della verità. L’altra metà del fallimento del programma di antropologizzare la malattia va attribuita ai malati stessi. Sono essi che vogliono semplicemente liberarsi di un sintomo e non scendere fino alle radici della malattia, là dove si incontra la propria partecipazione all'essere malato e dove si è chiamati ad assumersi la propria responsabilità. Von Weizsäcker, da acuto osservatore, nota: «I malati si aggrappano all'Es per sfuggire all’io, ed esercitano una seduzione sul medico perché percorra con loro questa via che offre minore resistenza. La seduzione è dunque reciproca». L’opposizione a interpretare psicologicamente la malattia è perciò, semmai, il risultato di una collusione tra il medico e il paziente. Questa opposizione è così forte ― egli osserva ancora — che è difficile credere che derivi dalle creazioni più superficiali della psiche: «Si ha l’impressione che il malato non solo sperimenti la naturale estraneità della sua malattia all’io, ma ne abbia bisogno» 18. I medici si comportano da medici perché

39

tanti pazienti desiderano rinunciare alla loro responsabilità per la propria salute.

Il vero rinnovamento in medicina non può avvenire se non si giunge a intaccare il rapporto fondamentale tra medico e paziente. Proprio dall'etica riceviamo quindi la principale spinta a costituire una scienza medica come scienza del soggetto. Che cosa cambierebbe, se si accettasse di riconsiderare la pratica da questo punto di vista? Non sono in grado di disegnare profeticamente questo nuovo volto della medicina. Vorrei dare però un contributo a questa progettazione, immaginando che il futuro rapporto medico-paziente, all’interno di una concezione della malattia che si ispiri al modello antropologico di von Weizsäcker, e quindi pienamente umanizzata, obbedisca al modello di rapporto interpersonale soggiacente alla cosiddetta «preghiera della Gestalt». È anch’essa un singolare seme di dattero, che dal suolo tedesco — Fritz Perls, il fondatore della «Gestalt therapy», era berlinese — è andato a fruttificare in terra d’America, per tornare ora a noi in Europa. Dice testualmente quel programma:

I do my thing, you do your thing.

I’m I, you are you.

I’m not in this world to live up to your expectations

and you are no in this world to live up to mine.

If we meet that's beautiful.

And if not it can’t be helped.

L’orizzonte utopico di questa «preghiera» è un mondo in cui ognuno prenda la sua responsabilità: esattamente quella che gli spetta e non più di quella. Ognuno fa la «sua cosa»: la cosa del malato è di appropriarsi della sua malattia, condizione per diventare protagonista della sua guarigione. La condizione di ignoranza del medico rispetto al significato biografico-esistenziale della malattia non è un handicap. Né al medico è richiesto di fingere una onniscienza che non ha. Il suo non sapere a livello biografico lascia uno spazio che eventualmente il malato stesso può riempire con il suo poter/voler sapere. La «cosa» del medico non è di guarire il malato: solo questi lo può fare. Il malato può intendere la guarigione come semplice eliminazione di un sintomo o, più profondamente, come crisi biografica che gli permette di diventare se stesso. Il medico che agisce nei limiti della propria responsabilità non sovrappone i suoi fini a quelli del malato: si tiene quindi lontano da ogni forma di «accanimento terapeutico». Quando medico e malato smettono di raccontarsi la favola che è il medico a procurare la salute al malato, cessano anche di vivere secondo le aspettative l’uno dell’altro. Anche la cessazione della

40

compiacenza reciproca crea uno spazio per la libertà e la responsabilità. Il paziente può completare allora la sua «cosa», facendo della malattia un’esperienza di apprendimento, che cambia la vita. E il medico porta a termine la sua, senza pretese di grandiosità, senza paludamenti missionari o filantropici, nell’umile grandezza di un’arte tecnica.

NOTE

1 L.A. ChiozzaPsicoanálisispresente y futuro, Buenos Aires, 1983.

2 V. von WeizsäckerNatur und Geist, Göttingen, 1954, p. 138.

3 M. von Rad, Anthropologie als Thema von psichosomatischer Medizin and Theologie, Stuttgart, 1974, p. 7 sg.

4 Per una esauriente informazione si veda E. Pellegrino, Th. Meelnimney, Teaching etchics, the humanities and human values in medical schools: a ten-year overview, Washington. 1984.

5 Cfr. R.M. VeatchMedical ethics education. in Encyclopedia of bioethicsNew York, 1978, v. 2, pp. 870-875.

6 Ne tratta diffusamente nel cap. 43 della Pathosophie, Göttingen, 1967, p. 341-347: Der Arzt und der Kranke. Die Vertrauensfrage.

7 L’accentuazione autoprotettiva del carattere scientifico della medicina può avere, secondo von Weizsäcker, un esito autodistruttivo: «Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione (Stand), la corporazione dei medici o degli scienziati, diventerà l’oggetto (Gegenstand) di una grave aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi mettendosi dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo». Ibid., p. 344.

8 Il carattere corporativistico dell’ethos ippocratico difeso dalla professione medica è stato denunciato da diverse voci. Si veda, tra gli altri, P. Lueth, Die Leiden des Hippokrates, Darmstadt. 1975. Per G. Caro, La médecine en question, Paris, 1974, i medici promuovono il proprio vantaggio nel far credere che l’etica medica a cui si ispirano difenda contemporaneamente gli interessi propri e quelli dei malati. Si fanno, come i proprietari di cui parla Emmanuel Mounier, «professori di virtù per difendere i loro interessi».

9 V. von Weizsäcker, Pathosophie, cit., p. 346. Considerazioni convergenti a quelle qui esposte ha svolto l’Autore in uno scritto (Euthanasie und Menschenversuche. in «Psyche 1», 6S, 1948) in cui prende in considerandone il comportamento di quei medici che nei campi di concentramento hanno fatto esperimenti sugli esseri umani ed hanno seguito il programma di eutanasia. Essi hanno calpestato le idee dell’umanesimo. Tuttavia von Weizsäcker osserva che è lo stesso orientamento natural-scientifico della medicina che li educava a vedere nell'uomo solo un oggetto. Questa circostanza non discolpa moralmente gli accusati, ma induce a vedere il loro comportamento da un’altra angolatura. Si risolve, in definitiva, in una imputazione contro la medicina, che tratta la biologia come una scienza della natura.

10 Si può aggiungere, a questo .proposito, che proprio in epoca nazista il giuramento di Ippocrate ha goduto della massima considerazione ed è stato fatto oggetto di strumentalizzazioni e celebrazioni retoriche. Nel 1942 ne appariva un'edizione (B.J. Gottlier, Hippokrates, Gedanken arzthichen aus dem Corpus Hippocraticum, Praga. 1942) con prefazione dello stesso Himmler. Questi afferma che lo scritto ippocratico «contiene un patrimonio ariano, che dalla distanza di duemila anni ci parla una lingua viva».

11 V. von WeizsäckerMeines Lebens Hauptsächliches Bemühen, in H. KernWegweiser in der Zeitwende, München-Basel, 1955, p. 245.

12 V. von WeizsäckerNatur und Geist, cit., p. 98.

13 Ibid., p. 101.

14 L. von KrehlKrankheitsform und Persönlichkeit, Leipzig, 1929, p. 17.

15 V. von Weizsäcker, Wage psychophysischer Forschung, in «Arzt und Kranker», I, p. 198.

16 Id., Pathosophie, cit., p. 346.

17 Id., Der kranke Mensch, Stuttgart, 1951, p. 352. I significati personali della malattia somatica — quelli che si mostrano quando si assume nei suoi confronti la Ich-Stellung — sono stati studiati di recente da Dieter Beck, Krankheit als Selsbstheilung, Frankfurt a.M., 1981. Beck si riferisce esplicitamente alla concezione antropologica della malattia di von Weizsäcker.

18 V. von WeizsäckerGrundfragen medizinischer Anthropologie, Tübingen, 1948, p. 27.