Il tramonto dell’assolutismo medico

DECIDERE IN MEDICINA

Pattinando insieme sul ghiaccio

a cura di Sandro Spinsanti

in I quaderni di Janus

Zadigroma editore, Roma 2007

pp. 7-17

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IL TRAMONTO DELL'ASSOLUTISMO MEDICO

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Il re ha l’abitudine di darvi delle spiegazioni?

No. Vi dice semplicemente: Signori, si combatte

in Guascogna oppure nelle Fiandre,

andate a battervi, e voi ci andate.

Alexandre Dumas, I tre moschettieri

Si può ripercorrere la storia della medicina prendendo come filo conduttore i rapporti di potere collegati con le pratiche di cura. Il potere è riferito al sapere e al fare, e naturalmente alla capacità di prendere le decisioni. Chi non sa non può decidere: altri decidono per lui. Nel modello tradizionale di medicina, lungamente e intensamente praticato, il medico esercita sul malato un potere esplicito, senza complessi di colpa e senza bisogno di giustificazioni. Il potere si regge intrinsecamente sulla finalità che lo ispira, è esercitato per il bene del malato. Rodrigo De Castro, un medico del XVII secolo, nel suo trattato Medicus politicus formula i rapporti di potere nel modo più incisivo, affermando che «il medico governa il corpo umano, così come il sovrano governa lo Stato e Dio governa il mondo». Il potere medico è descritto come facente parte della famiglia dei poteri assoluti (come quello del re di Francia nei confronti dei suoi moschettieri). La posizione gerarchica superiore comporta il privilegio dell’informazione, oltre che il potere di dare ordini.

Chi sta in posizione dominante (one up) determina in modo autoreferenziale di che cosa ha bisogno chi sta in posizione dominata (one down). Nel caso specifico della medicina, il medico

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stabilisce la diagnosi, indica l’opportuna terapia e la esegue, senza bisogno di informare il malato e senza necessità di ottenere un serio consenso, se non quello implicito dell’affidarsi con fiducia alle cure del medico.

Generali, poeti e medici

Il potere assoluto del medico riguardava anche ciò che il malato doveva sapere. Nascondere la diagnosi e soprattutto la prognosi (se considerata infausta) era un tratto qualificante della buona medicina del passato. Forse niente caratterizza il paternalismo medico meglio della possibilità di disporre in esclusiva delle informazioni. Ennio Flaiano scriveva: «Ogni generale è un pochino poeta... E i poeti non danno spiegazioni». Insomma, generali, poeti e medici: tutti dispensati dall’obbligo di dare spiegazioni!

La posizione del curante e quella di chi aveva bisogno di cure erano assolutamente asimmetriche: il sapere e il potere erano riservati al terapeuta (al medico, in primo luogo). Proprio del malato non era il potere, ma il bisogno. Era come se la malattia avesse la capacità di prosciugare le facoltà dell’individuo di conoscere e soprattutto decidere per se stesso. Al potere del terapeuta, enfatizzato fino a diventare quasi onnipotenza, faceva riscontro da parte del malato una carenza di potere, qualificabile come impotenza.

In questa categoria va ricondotta anche l’impotenza relativa generata del senso di prostrazione che la malattia provoca in chi ne è affetto. Soprattutto se la patologia dura nel tempo: mentre la malattia acuta può mobilitare le energie interiori dell’individuo, quella cronica tende a usurarle. Per non parlare del senso di inadeguatezza e di afflizione che si accompagna a scelte difficili, quando bisogna mettere in conto esiti incerti a fronte di effetti

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collaterali purtroppo certi. Un’efficace rappresentazione degli stati d’animo che accompagnano situazioni di questo genere è offerta dalla scultura di Aldo Pallaro che è stata collocata nell’atrio dell’ospedale di Monfalcone. Si tratta della riproduzione in legno di oggetti che fanno parte dello scenario quotidiano di ciascuno: un tavolo da cucina, due sedie, una brocca per l’acqua, piatti, posate, eccetera. Con un particolare: non sono a scala naturale, ma molto più grandi. In un ambiente di quelle dimensioni, maneggiando oggetti così sproporzionati, ci si sente impotenti, svuotati di forza. Così è diventato il mondo quotidiano per il malato: anche prendere in mano un bicchiere può apparire un’impresa superiore alle sue forze. Perciò può essere incline ad affidarsi completamente ad altri, non solo per la cura ma anche per le eventuali decisioni da prendere.

L’intenzione che ha guidato la scelta di collocare la scultura nel luogo in cui transitano i sani che fanno visita ai malati è stata quella di accendere momenti di empatia, non certo di inculcare il modello della passività e della delega ai curanti. Ha ormai fatto il suo tempo il vecchio schema di rapporti: da una parte i professionisti sanitari, in alleanza con i familiari sani; dall’altra il malato, concepito come persona fragile da tenere nell’ignoranza della sua situazione, forti della sua delega implicita a prendere a suo beneficio le decisioni che verranno ritenute più opportune. La cultura della modernità ha delegittimato questo schema, ma non si tratta di dequalificarlo come esercizio abusivo di potere. Il ricorso al termine “paternalismo medico” per indicare quel modo di esercitare la medicina spesso è inteso come una condanna senza appello. Con questa svalutazione sommaria però si fa violenza agli aspetti positivi del modello. Non per niente questa distribuzione del potere, che costituiva la spina dorsale dell’etica medica tradizionale, è stata in vigore in Occidente per 25 secoli, ininterrottamente. La buona medicina poteva, e anzi

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doveva, orientarsi a considerare il bene del malato dal punto di vista di chi lo curava; il buon medico era tenuto a decidere “in scienza e coscienza”, cioè a chiedersi se le decisioni fossero giustificate dalle conoscenze fornite dal sapere scientifico più aggiornato e se fossero orientate al migliore interesse del malato. Non era richiesto al medico di includere le preferenze del paziente tra gli elementi che determinavano le decisioni. La volontà stessa del paziente era, al limite, irrilevante rispetto al punto di vista privilegiato del medico.

L’uscita da una minorità indebita

La modernizzazione della medicina è un cambiamento culturale che ha avuto luogo nei pochi anni che ci collocano a cerniera tra il XX e il XXI secolo. Come un dittico, è costituito da due parti: la messa in discussione del potere medico tradizionale e il riconoscimento di un potere a soggetti che prima ne erano privi. Le radici del cambiamento di paradigma affondano nella rivendicazione di un potere di autodeterminazione da parte dell’individuo sulle decisioni che riguardano il suo corpo. Si tratta dell’«uscita da una minorità indebita» indicata da Kant come il segno distintivo dell’entrata nei tempi nuovi. In medicina il cambiamento è stato registrato due secoli dopo la sua teorizzazione e con molto ritardo rispetto ad altri ambiti della vita, ma alla fine ha avuto luogo. Il movimento che si è chiamato “Medicina democratica” ha avuto un ruolo nel promuovere il cambiamento: la sua spinta era parallela a quella che, muovendo da analisi sociologiche dei comportamenti messi in atto dal potere dominante per controllare la malattia come devianza, auspicava che venisse riconosciuta la centralità del ruolo dei cittadini. La teorizzazione del sociologo e giurista Giancarlo Quaranta ha favorito la creazione

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del Tribunale dei diritti del malato; l’uscita pubblica del movimento è avvenuta nel giugno 1980, con la prima seduta dal titolo programmatico “Da malato a cittadino: contro l’emarginazione, per la gestione popolare delle strutture sanitarie”. L’onda lunga del cambiamento sarebbe poi arrivata in Italia negli anni Novanta. E purtroppo è arrivata più come reazione a eventi giudiziari (come la clamorosa condanna del chirurgo Carlo Massimo per omicidio preterintenzionale, a seguito della morte del paziente che aveva operato senza il suo consenso) e all’escalation di conflittualità tra professionisti sanitari e cittadini, piuttosto che come sviluppo coerente con l’accettazione del paradigma fondamentale della modernità.

È legittimo sospettare che molti dei cambiamenti siano più formali che sostanziali. Basti pensare alla vicenda del consenso informato, introdotto nella pratica più come misura difensiva che come un modello diverso di decisione in medicina. Dovrebbe testimoniare una decisione consensuale, e invece significa il più delle volte una decisione presa dal medico sul paziente, che la ratifica con una firma, spesso senza un’informazione adeguata e senza coinvolgimento nel processo decisionale.

Il consenso informato nasce all’interno dello scenario evocato dall’espressione “empowerment del cittadino”. L'empowerment è un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani: sul piano sociale (è la dimensione culturale), nel rapporto tra professionisti sanitari e pazienti (dimensione clinica) e nei valori che ispirano la convivenza sociale (dimensione etica).

In ambito culturale l’empowerment si colloca sulla stessa lunghezza d’onda della filosofia promossa dall’organizzazione mondiale della sanità sotto il nome di promozione della salute (health promoting): è un «processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla». Sul piano clinico l’empowerment può essere fatto equivalere a un

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maggior senso di padronanza della situazione da parte della persona malata (e diventano quindi cruciali l’informazione e il coinvolgimento nelle scelte che la riguardano). Dal punto di vista etico, infine, la distribuzione del potere tra sanitari e malati implica l’orientamento delle decisioni secondo i valori della persona malata, che possono essere dissonanti rispetto a quelli del professionista medico, portato a privilegiare le azioni rivolte a salvare e prolungare la vita, rispetto a quelle finalizzate a risparmiare inutili sofferenze. In una parola, l’empowerment è potere condiviso: questo è l’obiettivo della bioetica.

La lunga strada verso un potere condivìso

Non si sentono voci che mettano in dubbio, in linea di principio, la necessità di cambiare il modo tradizionale di prendere le decisioni in medicina. Anche chi difende i valori contenuti nel paternalismo medico (come il legame fiduciale che si crea tra il medico e il malato e la necessità di aiutare chi lotta con la malattia a tenere aperto il canale della speranza) difficilmente contesterà il ruolo che la cultura della modernità assegna all’autodeterminazione della persona. In pratica, però, la realizzazione del nuovo modello è tutt’altro che lineare. Il rispetto solo formale dell’auto- nomia del malato può diventare una vera e propria beffa, se non lo si mette in grado di decidere con cognizione di causa. È quanto si verifica quando il “decidere insieme” viene ridotto alla pura sottoscrizione di un modulo, contenente le decisioni già prese dal terapeuta (auspicabilmente “in scienza e coscienza”). In questi casi la grande enfasi posta sul “consenso informato” come modello al quale si adegua il nuovo rapporto medico-paziente si rivela una mossa strategica gattopardesca: «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

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Non meno insidiosa è la propensione contraria: massimizzare il diritto del malato all’informazione e alla decisione autonoma, svuotando di contenuto l’alleanza terapeutica. Una descrizione di questo atteggiamento è fornita da Roberta Cini che, tracciando un consuntivo della propria esperienza di psicologa impegnata da anni nella terapia dei malati oncologici, presenta il susseguirsi di diversi scenari:

Quando, alla fine degli anni ’70, ho cominciato a lavorare sulla relazione con il paziente oncologico, in ospedale, il costume più largamente diffuso era quello di NON informare il paziente. L’informazione veniva data, e non sempre in maniera chiara e precisa, al familiare di riferimento, mentre al malato veniva comunicata una diagnosi fasulla, di ripiego. Le ulcere gastriche, i polipi, le “infiammazioni” erano allora patologie molto diffuse: persino le chemioterapie erano spesso presentate come “deve fare una cura”, altre volte definita “ricostituente”. Il problema di chi doveva scegliere non era minimamente valutato: chi sceglieva era il medico che, sulla base del suo sapere e della letteratura esistente, decideva qual era la terapia da prescrivere e comunicava la sua scelta con decisione e sicurezza. Questo era lo stile che andava per la maggiore e che potremmo chiamare “paternalista”. Negli anni successivi si è animato un movimento culturale sempre più ampio che ha richiamato l’attenzione sul malato, sui suoi bisogni, sui suoi diritti. Si è andata affermando l’idea che il malato abbia il diritto di sapere tutto ciò che lo riguarda, per essere in grado di prendere le proprie decisioni e di gestire la propria vita e la propria morte. [...] La cultura ha come imboccato tre strade parallele: una via non più così prioritaria, ma ancora troppo frequentata, è quella di continuare sempre e comunque a mentire, a gestire la situazione al posto del paziente trattandolo come incapace. C’è poi una seconda via, ancora troppo poco battuta, che si interroga sulle modalità da percorrere per renderci capaci di ascoltare e di rispondere: si studiano la cultura, l’etica, la comunicazione, la relazione psicologica, e si cercano soluzioni possibili, volta per volta.

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C’è poi la strada che sembra oggi destinata a diventare la più transitata, ed è ovviamente più rettilinea, veloce, rassicurante della precedente. Naturalmente tutto questo vale per l’operatore, e non per il paziente. Si tratta della strada, del tutto opposta a quella seguita nel passato, del “dire tutto comunque”, che è anche “dire il massimo possibile”. Capito che il malato ha il diritto di sapere, il punto è dirgli tutto il dicibile, il prima possibile. Non ci si cura di quello che il malato vuol sapere o può sopportare in quel momento, né ci si cura di cosa, veramente e semplicemente, ci stia chiedendo. Come vuotando un sacco che ci pesa, si butta tutto sull’altro.

È suo, e che se lo porti lui.

Un caso clinico (descritto e commentato in Janus 15, autunno 2004) illustra efficacemente quella specie di “accanimento informativo” del quale possono essere succubi certi operatori sanitari. Ai genitori di Maria viene assicurato «un tranquillo weekend di paura», dal momento che il medico ha scaricato su di loro la sua ansia mettendoli al corrente di ipotesi diagnostiche catastrofiche, nel momento meno opportuno:

Maria è una bambina di sette anni ricoverata da dieci giorni in un reparto di pediatria di un ospedale infantile. Accusa una forte febbre persistente che si manifesta con accessi ciclici, senza nessun altro sintomo di rilievo.

I medici non hanno ancora emesso una diagnosi. Nel corso di uno dei colloqui con il primario, ai genitori viene comunicato che le vie che si stanno percorrendo per individuare la malattia della bambina hanno tre indirizzi: quello neoplastico, quello autoimmune e quello infettivo. I genitori chiedono su quali basi si possa, al momento, affermare la reale possibilità che tutte queste ipotesi siano probabili. Il medico risponde che questo è il protocollo diagnostico previsto per questi casi e che la totale assenza di altri sintomi non permette di escludere alcuna ipotesi. Si sta attendendo l’esito di alcuni esami di laboratorio. Sono le sette di sera del venerdì pomeriggio. Fino al lunedì mattina, i genitori, giustamente preoccupati,

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non hanno la possibilità di ricevere notizia dì eventuali altri elementi importanti. Alcuni giorni dopo, lo stesso medico annuncia, con grande sollievo, che l’insorgere di tremito prima del picco febbrile fa supporre la natura infettiva della malattia. Pertanto, si prospetta la possibilità di una terapia antibiotica adeguata. Inoltre allude al suo essersi sentito preoccupato e impotente fino a quel momento. A posteriori, a paura ridimensionata, i genitori si interrogano: sicuramente c’è stata una comunicazione ineccepibile sul percorso clinico. Ma è avvenuta al momento giusto? È stata effettivamente opportuna, data la provvisorietà dei dati? Ammettere la propria impotenza e affiancarsi ai genitori nell’ansia dell'attesa di nuovi elementi non sarebbe stato forse meglio, anche per il medico? Probabilmente avrebbe contenuto la loro preoccupazione e li avrebbe fatti sentire accompagnati in una situazione di incertezza, invece di gettarli prematuramente nella previsione di scenari drammatici. Avrebbe forse aiutato anche la bambina, che proprio durante il weekend ha chiesto «credete che potrò morire?», a essere rassicurata da un papà e una mamma meno atterriti. E avrebbe aiutato il medico stesso a trovare un nuovo modo per convivere col proprio senso di impotenza.

A che cosa deve servire l’informazione? È questa la domanda che ci permette di imboccare la strada giusta, premunendoci dal deviare, per esempio, verso la medicina difensivistica. Una risposta chiara alla domanda è quella fornita dal Comitato nazionale per la bioetica: «L’informazione è finalizzata non a colmare l’inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e quindi di formarsi una volontà che sia effettivamente tale; in altri termini, porlo in condizione di scegliere».

Demarcandosi dalla tendenza a informare per scaricare le responsabilità che gravano sulle spalle dei professionisti della salute, la nuova medicina dovrebbe utilizzare correttamente

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l’informazione come strumento per coinvolgere le persone interessate nelle scelte che si affacciano lungo il percorso della malattia. Questo per chi vuole partecipare alle conoscenze e alla decisione; allo stesso tempo va rispettata l’eventuale preferenza di affidarsi a decisioni altrui. Poteri e responsabilità condivisi: ecco il paradigma di una medicina che non rinuncia a curare (e anzi lo fa con una potenza e un’efficacia che l’umanità non ha mai conosciuto prima), ma nel curare non ha bisogno di infantilizzare il malato, né di farlo regredire psicologicamente. La buona cura di domani avrà il tratto dominante di un’interazione personale tra adulti. Non è troppo presto per cominciare a muoverci con decisione, già oggi, in questa direzione.

Un consiglio utile per studenti di medicina svegli.

Se vi domandano: «Qual è il trattamento per X?», non rispondete: «Y».

Rispondete piuttosto: «Ciò che sceglie il paziente insieme a me,

dopo essere stato accuratamente informato

sui vantaggi e gli svantaggi di tutte le opzioni».

Richard Smith, British Medical Journal

 

BIBLIOGRAFIA

 

R. Cini, Pensieri del tempo breve. Del Cerro, Firenze, 1999.

Comitato nazionale per la bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, 1992.

 E. Flaiano, La guerra spiegata ai poveri, in Un marziano a Roma e altre farse. Einaudi, Torino, 1971.

G. Quaranta, L’uomo negato. FrancoAngeli, Milano, 1982.