Daniel Callahan: La difficile scienza del limite

Sandro Spinsanti

DANIEL CALLAHAN: LA DIFFICILE SCIENZA DEL LIMITE

in Tempo Medico

anno XXXV, n. 23, 16 giugno 1993, pp. 6-7

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A buon diritto pioniere della bioetica, il fondatore dell'Hasting Center ha sempre cercato di ampliare l'orizzonte della riflessione, per passare dal singolo caso di coscienza alle conseguenze sociali del progresso in medicina

Se si può scegliere dove incontrare Daniel Callahan, è preferibile farlo allo Hastings Center. Questo è il suo quadro di vita abituale. Lo Hastings Center è la sua creazione e, da più di vent’anni, la serra calda in cui germina e matura la sua rifles-sione. L’anno di fondazione è il 1969: un primato cronologico rispetto alle istituzioni analoghe dedicate alla bioetica. All’inizio si chiamava Institute of Society, Ethics and Life Sciences ed era localizzato a Hastings-on-Hudson, la cittadina a una quarantina di chilometri da New York dove Callahan abitava.

Il primo studioso cooptato fu uno psichiatra, Willard Gaylin, suo vicino di casa. Il loro sodalizio è rimasto inalterato nel tempo: Gaylin è a tutt’oggi presidente del Centro. Il Centro nel 1987 si è trasferito in un edificio più spazioso, traslocando nell’idilliaco campus della Pace University a Briarcliff Manor, qualche chilometro più a nord. Di Hastings ha conservato il nome e il «logo»: la silhouette di un albero frondoso, che troneggia nel giardino del primo istituto.

Nel 1969 Daniel Callahan era un giovane filosofo, cresciuto in una solida famiglia di Washington. Si era formato alla Georgetown University e ad Harvard, sviluppando un marcato interesse per l’etica pratica. Insofferente per la filosofia accademica tradizionale, cercava ― in accordo con gli slogan degli anni sessanta ― una filosofia che fosse«rilevante», che sapesse riflettere gli interrogativi concreti delle donne e degli uomini del nostro tempo e fosse in grado di guidarli nelle scelte. L’etica delle scienze della vita gli avrebbe fornito quello che cercava. Dalle origini irlandesi aveva ereditato l’amore per la famiglia e la fede cattolica.

La sua famiglia, formata con la psicologa sociale Sidney deShazo, è cresciuta solida e stabile, rallegrata da sei figli.

La bioetica non deve avere una funzione normativa che sconfini nell’atteggiamento poliziesco

Tormentato invece, il cammino della sua fede religiosa. Dal 1961 al 1968 Callahan è stato il direttore di Commonweal, una prestigiosa rivista culturale dei cattolici americani. Il suo orientamento era per una Chiesa di tipo «conciliare», disposta ad abbandonare l’atteggiamento di arroccamento tipico dei cattolici americani e a confrontarsi con il mondo moderno. Il suo libro Onestà nella chiesa, del 1965, ha avuto una notevole risonanza internazionale: è stato tradotto in olandese, spagnolo, polacco e italiano. Ma verso la fine degli anni ’60 la fede religiosa doveva rivelarsi nella vita personale di Callahan un Holzweg, per dirlo con il linguaggio di Heidegger: un «sentiero interrotto», una di quelle strade nel bosco che non conducono da nessuna parte. E cessò di considerarsi un credente. Negli stessi anni lavorò a un’opera destinata a non passare inosservata: Abortion: law, choice and morality. Il libro apparve nel 1970. Benché redatto in un’epoca in cui la bioetica era solo in gestazione, della nuova disciplina esprimeva i tratti caratteristici. A cominciare dalla interdisciplinarietà. Riflettendo a fondo sull’aborto nella società contemporanea, Callahan giungeva alla conclusione che nessuna singola disciplina poteva fornire la chiave interpretativa unica ed esaustiva. L’aborto volontario è un problema insieme e inseparabilmente legale, morale, medico e demografico; nessuna visuale poteva monopolizzarlo. Contemporaneamente al libro, nasceva il progetto dello Hastings Center.

L’osservazione che possiamo fare a propo-sito di questa fondamentale ricerca sull’aborto può essere generalizzata ai più impegnativi libri di Callahan: non sono importanti solo per la tematica affrontata, ma ancor più per il metodo. Hanno sempre qualcosa di importante da dire, in obliquo, sulla bioetica in quanto disciplina.

Nella decade tra il 1965 e il 1975 l’etica medica tradizionale subì una profonda trasformazione. Il contributo di Daniel Callahan ― sia personalmente sia attraverso lo Hastings Center ― è stato decisivo. Non si trattava più soltanto di sottoporre la pratica della medicina a regolamentazioni di natura morale, ma di capire come la tecnologia biologica influenza e modifica la nostra vita, il modo in cui pensiamo il mondo e ci muoviamo nel mondo. Con forte enfasi, si cominciava a parlare di «rivoluzione biologica».

I temi inizialmente affrontati da Callahan ― la contraccezione, l’aborto ― potevano avere punti di contatto con la preoccupazione delle istituzioni ecclesiastiche di controllare il comportamento dei fedeli. Ma lo spirito con cui il filosofo vi si accostava era totalmente diverso. In un articolo di quegli anni su Commonweal dedicato alla «paternità responsabile» criticava l’insegnamento tradizionale cattolico sulla contraccezione: «Il problema» affermava «non è che queste cose siano necessariamente sbagliate. È che sono incomprensibili». La sua preoccupazione era che l’etica rimanesse molto prossima alla vita umana.

La bioetica da promuovere doveva trascendere i confini della professione medica, cosi come gli approcci unilaterali di singole discipline: filosofia, teologia, diritto. Doveva parlare un linguaggio comune, piuttosto che i singoli linguaggi specializzati. Per questo progetto la chiesa non poteva essere l’interlocutore. La nascente bioetica non aveva bisogno di una istanza normativa che molti identificavano con la funzione poliziesca che dice «no» a ogni sviluppo destinato a dare all’uomo più potere sopra la propria vita. Né poteva articolare la sua riflessione in un linguaggio teologico: aveva bisogno di esprimersi in modo più neutro, secolare. Questo fenomeno si può osservare anche in altri ambiti del dibattito etico. Su tutti i temi caldi di quegli anni, tutte le chiese avevano le loro opinioni espresse in termini religiosi. Ma se si leggono i testi delle istituzioni pubbliche, come i tribunali, i comitati di etica e le legislazioni, si trova unicamente il linguaggio comune, secolare, neutro. Per quanto grande possa essere l’interesse religioso a livello della vita privata, nel contesto pubblico la prospettiva religiosa crea solo disagio.

La bioetica doveva diventare l’alternativa all’etica medica tradizionale elaborata dalle professioni sanitarie e alla morale religiosa proposta dalle chiese. Guardando retrospettivamente il cammino percorso, Callahan identifica le ostilità incontrate in due diversi tipi di opposizione: l’autosufficienza del corpo medico, che pretendeva di saper affrontare queste problematiche senza l’aiuto di filosofi e di giuristi, e la diffidenza del grande pubblico.

Per quest’ultimo il territorio che si apriva per l’impatto della biologia e della medicina sulla vita umana era troppo fluido. Non esistevano posizioni rigide e polarizzate (era l’epoca dei dibattiti sui diritti civili dei negri e sulla guerra in Vietnam, che offrivano invece l’occasione per contrapposizioni molto rigidamente delineate). La bioetica appariva come un campo troppo esposto alla soggettività, troppo sfumato per essere affrontato con il pensiero razionale e la discussione sistematica. Questo territorio di frontiera andava riportato entro i confini definiti della legge e dell’ordine.

In quanto istituzione leader nella bioetica, lo Hastings Center ha contribuito in modo decisivo a far prevalere il nuovo linguaggio della bioetica. La bioetica dell’orientamento dei principi, della tutela dell’autonomia personale, del consenso informato, delle linee guida e delle procedure regolamentate nelle diverse situazioni problematiche (policies), dei comitati di etica e degli Institutional Review Boards che regolano la ricerca. Lo Hastings Center è cresciuto insieme al movimento della bioetica. Ne ha determinato

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il programma e il metodo, la direzione da seguire e il passo. Facendo il bilancio dell’attività del Centro nel 1989, a vent'anni dalla fondazione, i promotori annotavano: «Quando lo Hastings Center è stato fondato, molti dei problemi che oggi si pongono in modo più acuto ― come la decisione di non impiegare trattamenti che mantengono in vita le persone o di interromperli, i limiti da imporre alle cure sanitarie o la diagnosi prenatale ― non avevano ancora sviluppato la loro speciale urgenza. Altri, come l’ingegneria genetica e la fecondazione «in vitro», confinavano con la fantascienza. E l’emergere di una nuova malattia devastante come l’AIDS era semplicemente inimmaginabile. In quegli anni ci siamo spesso domandati se ci sarebbe stata sufficiente complessità nei problemi etici che nascevano dalla medicina e dalla scienza per darci lavoro. Oggi non abbiamo più quella preoccupazione. I progressi nella medicina e nella biologia e i problemi morali da essi generati hanno superato ogni attesa».

Scorrere l’elenco delle principali ricerche condotte dallo Hastings significa percorrere il cammino della bioetica negli ultimi vent'anni. Le pubblicazioni del Centro sono diventate un punto di riferimento obbligato: la rivista bimensile Hastings Center Report, che viene inviata ai quasi 12.000 membri associati del Centro, e IRB: A Review of Human Subject Research, che si rivolge a coloro che lavorano nei comitati preposti alla ricerca biomedica con soggetti umani. Non lo si può negare: la bioetica promossa dallo Hastings Center ha avuto successo. Troppo, forse.

Daniel Callahan non inclina al trionfalismo. Non risparmia critiche alla bioetica prevalente in America, e di cui lo Hastings Center è diventato il principale luogo di irradiazione. Troppo velocemente si è passati dall’ambito della riflessione e della teorizzazione a quello delle applicazioni, specialmente nella pratica giudiziaria e nella legislazione. Secondo Callahan, la bioetica si è innestata sulla tendenza, tipicamente americana, a rifuggire da un pensiero troppo speculativo e a passare rapidamente a soluzioni pratiche. Le linee guida, che forniscono un terreno di mediazione su cui regolare i conflitti, sono diventate una specie di «passepartout» della bioetica.

Specialmente allo Hastings Center le linee guida sono diventate molto popolari. Nel corso degli anni ne sono state elaborate circa lo screening genetico di massa, la diagnosi prenatale, l’interruzione di trattamenti a malati terminali, i test per la sieropositività e l’AIDS. Callahan ritiene tali linee guida necessarie per la società. Ma anche pericolose: sempre più numerose sono diventate le persone interessate solo a regolare la pratica quotidiana della medicina e della ricerca, ma incuranti delle questioni teoriche. Troppi studiosi hanno identificato la bioetica con la produzione di principi da applicare in maniera semplicistica, talvolta quasi meccanicamente, a tutti i problemi che si presentano.

Callahan non è certo il solo che mostra fastidio per i tre principi che identificano la bioetica standard ― autonomia, beneficità e giustizia ― e soprattutto per coloro che li recitano come dei mantra sacri. La sua irritazione è diretta soprattutto alle omissioni della bioetica come disciplina: questa dovrebbe e potrebbe avere un campo di esplorazione più profondo, sollevare questioni più critiche, mentre invece finisce per fornire la sua collaborazione alla medicina così com’è. Proprio in quanto serve a smussare i conflitti più acuti e a indicare come gestire le situazioni più problematiche, diventa funzionale al potere della medicina. La bioetica viene a perdere così il ruolo di critica e di stimolo che dovrebbe esercitare nei confronti della medicina, e della cultura di cui la medicina è parte.

Dal punto di vista teoretico, l’insoddisfazione di Callahan nei confronti della bioetica standard americana è giustificata con l’insufficienza dell’etica analitica. Personalmente si considera, dal punto di vista filosofico, un aristotelico di vecchio stampo, nel senso che è interessato, come gli antichi greci, soprattutto alle que-stioni dei fini ultimi della vita umana e di ciò che la rende «buona». Si orienta più verso un’etica della prudenza e della virtù, nonché a un concetto di buona società, piuttosto che a un’etica retta da regole e principi morali. Le questioni associate con la tradizione aristotelica sono quelle che possono essere ricondotte alla «ragione pratica» o «saggezza» necessaria per riconoscere, nelle circostanze concrete, le scelte armonizzabili con la «buona vita». Essere saggio è qualcosa di più che sapere quali devono essere le regole. Queste osservazioni critiche alla bioetica che si è modellata sull’etica analitica Callahan le condivide con altri studiosi della disciplina, di diverso indirizzo. In termini positivi, il suo contributo specifico al cambiamento è stato l’aver obbligato la bioetica a confrontarsi più profondamente con la nozione di limite. Lo ha fatto soprattutto con le sue due ultime opere, che hanno suscitato un acceso dibattito: Setting limits: medical goals in an aging society (1987) e What kind of life: the limits of medical progress (1990).

Ancora una volta, è importante considerare non solo il contenuto tematico di questi volumi, ma anche quello che affermano in obliquo. Proprio mentre negli Stati Uniti,alla fine degli anni ’80, alla bioetica arride il successo più lusinghiero Callahan sembra «tradire» la disciplina, piantando altrove i paletti della sua tenda.

Daniel Callahan è stato uno dei primi ad avvertire che, sul finire degli anni ’80, la bioetica doveva spostare la sua attenzione dai problemi legati ai diritti personali e alla tutela dell’autonomia dei pazienti nelle scelte cliniche ai problemi della giustizia. Piuttosto a disagio nei confronti della bioetica standard (quella centrata sui dilemmi morali e sulle scelte talvolta tragiche che l’individuo è chiamato a fare), Callahan è invece interessato ai cambiamenti che la medicina introduce nella società, nel nostro modo di considerare la vita, nella cultura di cui facciamo parte. Una di tali trasformazioni critiche è la capacità di prolungare la vita umana. Tentar di procurare cure sanitarie sempre più efficienti per gli anziani è diventata la più estesa delle frontiere della medicina. Resistere alla morte, estendere il più possibile la vita degli anziani, curare tutte le malattie indipendentemente dall’età di coloro che le contraggono è l’ideale di questa medicina. Un ideale anche di natura morale: si rifiuta come una discriminazione indegna della medicina l’idea che l’età del paziente possa essere una variabile da prendere in considerazione, qualora ci siano i mezzi tecnici capaci di procurare benefici.

Nel libro Setting limits Callahan mette in discussione gli assunti fondamentali di tale concezione. La versione semplificata della sua tesi, messa in circolazione dai media, è stata identificata con la proposta di sottrarre le cure mediche alle persone anziane, dopo una certa età: intanto perché è dubbio che queste cure diano agli estremi anni strappati alla morte una qualità tollerabile; e poi perché, anche se lo volessimo, ben presto non ce lo potremmo più permettere, per l’aumento delle spese per la sanità e la modifica della curva demografica.

Ma il progetto di Callahan ha maggiore spessore di quello che la divulgazione semplificata del suo pensiero lascia indovinare. La crisi della allocazione delle risorse è solo il punto di partenza per interrogativi più fondamentali: se dobbiamo cominciare a fare delle scelte e a stabilire delle priorità nella distribuzione delle risorse, che cosa vogliamo che la medicina nel suo insieme faccia per noi? In altri termini, la crisi finanziaria della sanità ci offre una preziosa occasione, anche se do-lorosa, di sollevare interrogativi di fondo sulla salute e sulla vita umana, sugli obiettivi della medicina e della sanità contemporanea. Le poste in gioco sono quindi sostan-zialmente le questioni antropologiche.

In questo quadro vanno lette le considerazioni di Callahan sulla necessità di «porre dei limiti». Ciò non si riduce a un razionamento delle scarse risorse sanitarie, ma fondamentalmente richiede di considerare la vita umana come limitata (natural life span) e la morte come suo correlato naturale (tolerable death). Siamo incapaci, e lo saremo sempre più in futuro, di fare felici gli anziani spendendo sempre più per la loro sanità. L’incapacità è connaturata a una cultura che non sa pensare la vita umana nell’orizzonte del limite. Anche se, per ipotesi, le risorse ci permettessero sforzi sempre maggiori per curare le malattie ed estendere i limiti cronologici delle nostre vite, aiutando sempre più persone a vivere sempre più a lungo, non andrebbe a nostro beneficio seguire questa strada.

Anche l’altro volume dedicato alla allocazione delle risorse, What kind of life?, va ricondotto a una riflessione sui limiti del progresso medico. Il problema della sanità non è quello che appare in superficie, cioè una questione di maggiori finanziamenti, di efficienza e di giustizia nell’accesso alle cure. È piuttosto una crisi circa il significato e la cura della salute, circa il posto che la ricerca della salute deve avere nella nostra vita; in definitiva, riguarda il tipo di vita (la «buona vita») da condurre. Per questo la soluzione della crisi non sarà offerta dal ricorso a terapie meno costose o a nuove e più efficienti strategie di servizio sanitario.

La direzione in cui Callahan propone di muoversi è una distinzione tra gli interventi medici destinati a curare le malattie e quelli rivolti a prendersi cura del malato. Come società, non possiamo permetterci di curare ognuno, ma dobbiamo invece sentirci obbligati a prenderci cura di tutti.

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FILOSOFIA E INSALATE

I latini lo chiamavano otium, vedendovi non un vizio, ma la forma ideale di vita per il saggio dedito alla filosofia. Per l'otium dei saggi dell'epoca della bioetica esiste un ambiente che può degnamente competere con le ville in Campania e in Sabina, preferite dagli antichi romani: è una costruzione armoniosa nel verde di un campus universitario (quello della Pace University di Briarcliff Manor), in quella valle del fiume Hudson, a nord di New York, che è stata tante volte dipinta dai pittori della scuola dell'«Hudson Rive», nella prima metà del secolo scorso. Qui ha sede lo Hastings Center, che dal 1969, anno in cui fu fondato da Daniel Callahan, è uno dei punti di riferimento più autorevoli nel panorama internazionale della bioetica.

Una dozzina di studiosi, coadiuvati da uno staff amministrativo altrettanto numeroso, costituisce la comunità che ha scelto la riflessione sull'impatto della rivoluzione biologica e medica sulla società contemporanea come forma di vita. Di formazione sono filosofi, giuristi, sociologi, esperti di scienze naturali; quello che li tiene insieme è la ricerca congiunta sui temi più scottanti e complessi della alta tecnologia applicata al mondo della bio-medicina: l'ingegneria genetica e l'ecologia, la sperimentazione stigli esseri umani e l’interruzione dei trattamenti che prolungano indebitamente la vita.

Con un po' di enfasi, li si potrebbe chiamare una comunità spirituale. Purché si aggiunga subito che le discussioni che qui hanno luogo si muovono in un contesto secolare e che gli studio» che costituiscono il Centro si qualificano in termini di orientamento filosofico o professionale, piuttosto che di convinzione religiosa. E purché si tenga presente che non esiste una linea omogenea fra gli studiosi che qui lavorano, cosicché in nessuno dei temi dibattuti si può parlare di una «posizione dello Hastings Center». Il Centro è semplicemente un foro per le migliori argomentazioni di tutte le posizioni filosofiche, un luogo capace di ospitare i più diversi punti di vista, purché difesi con rigore argomentativo.

A spegnere la retorica spiritualistica, Strachan Donnelly, direttore ammini-strativo del Centro, dichiara: «Noi qui pratichiamo il "cannibalismo bioetico"».

 Il riferimento è rivolto a uno dei rituali più simpatici della vita quotidiana del Centro: ogni giorno residenti e visitatori si riuniscono per il lunch in comune. I visitatori non mancano mai. Alcuni si trattengono per soggiorni di studio di una o più settimane; altri soltanto un giorno. Attorno al grande tavolo che occupa il centro della biblioteca si incontrano cosi durante il lunch esperti di bioetica dei Paesi dell’Europa dell'Est, della Australia, del Giappone, insieme a studiosi americani e membri di comitati di etica che vengono a riciclarsi.

Membri dello staff del Cento e visitatori, mentre si cibano di sandwich e di insalata, si nutrono anche in senso intellettuale. Qualcuno è invitato, a turno, a presentare una ricerca personale, a riferire di un convegno importante, a impostare il dibattito su un tema di attualità. Sulla base della presentazione si dispiega la discussione a ruota libera: di ampio respiro, multidisciplinare, spesso avventurosa… Questo «cannibalismo bioetico» è un alto esercizio di arte dialettica, in cui il visitatore occasionale può ammirare i benefici che arreca la consuetudine di confronto quotidiano tra i membri privilegiati di questa accademia singolare.