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Sandro Spinsanti
IL MEDICO: SERVO DI TRE PADRONI?
in Colloqui
n. 3, 2002, pp. 99-101
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«Non si può servire a due padroni». La sentenza evangelica è stata utilizzata da un illustre clinico per dar forma all'atteggiamento dei medici nei confronti dei sistemi di finanziamento delle prestazioni sanitarie introdotti negli anni ’90 dalle leggi di riordino del Servizio sanitario nazionale. Intendeva affermare che l’unico “padrone” del medico è il paziente, al cui migliore interesse è finalizzato l’intervento del sanitario. La formula è retoricamente efficace, tanto da assicurarle un’ampia circolazione nel mondo medico. Senza mettere in discussione l’intenzione di chi l’ha applicata alla sanità, bisogna tuttavia precisare che il principio secondo cui non si può servire due padroni, se può essere sacrosanto nelle questioni di fede, non si applica invece alle scelte che deve fare il medico. Perché i “padroni” che deve servire non sono solo due, ma almeno tre.
Proviamo ad accantonare la metafora dei padroni e ad affrontare la questione da un’altra angolatura. Per esempio, quella proposta da A.S. Relman in un editoriale del New England Journal of Medicine per periodizzare l’evoluzione della medicina nella seconda metà del XX secolo 1. A suo avviso, dopo l’epoca dell’espansione dei servizi sanitari a fasce sempre più ampie della popolazione e l’epoca del necessario contenimento della spesa, ha avuto luogo la terza rivoluzione: quella della “valutazione e del comportamento responsabile” (in inglese: assessment and accountability). Il secondo termine è particolarmente difficile da tradurre. L’Enciclopedia della Gestione di Qualità in Sanità riporta sotto “accountability” la pungente osservazione di Indro Montanelli: «Parola chiave della democrazia anglosassone. In Italia non è stata ancora tradotta» 2. Indica il dovere di documentare, di fornire un rendiconto di ciò che si è fatto a chi ci ha dato l’incarico (e ci paga lo stipendio o ci mette a disposizione le risorse). Quando questa rivoluzione ha luogo, il sistema della rendicontazione si
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arricchisce di una voce in più. Delle proprie scelte il medico deve rendere conto, oltre che a se stesso ― nel foro interno della coscienza ― anche a tre altre istanze: la scienza, il paziente e la società. Sono questi i tre “padroni” da servire.
L’obbligo del medico di rendere conto alla scienza non è nuovo. Già William Osler, il riformatore dello studio della medicina all'inizio del XX secolo, affermava che il medico non deve fare per il malato tutto ciò che è umanamente possibile, ma solo ciò che è scientificamente corretto. Si tratta di offrire i trattamenti efficaci, escludendo quelli dannosi o inutili. Il movimento della medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence based) non ha fatto che dare un giro di vite a un’esigenza che già esisteva da sempre nell’impianto della medicina ippocratica. La dimostrazione dell’efficacia va fatta a priori, non a posteriori, come avviene quando si escludono dei trattamenti di cui è risultata l’inappropriatezza clinica (per amore di concretezza, pensiamo alla rinuncia alla tonsillectomia, per lungo tempo eseguita quasi di routine sul maggior numero possibile di bambini). Per mutuare una formulazione incisiva di Gianfranco Domenighetti, oggi «qualunque prestazione deve essere considerata inefficace, finché non si è dimostrato il contrario» 3. È una profonda innovazione nel comportamento di molti medici che adottano procedure diagnostiche e terapeutiche in modo autoreferenziale, ovvero semplicemente perché “funzionicchiano”...
L’irruzione della modernità in medicina ha portato l’esigenza di rendere conto anche al paziente di quanto si sta facendo a suo beneficio. Non basta fornire i servizi di provata efficacia: bisogna anche che ciò sia fatto “nel modo giusto”. Ciò implica il rispetto dei valori soggettivi del paziente, la promozione della sua autonomia, la tutela della diversità culturale, intesa come un diritto rivendicabile. Rispetto a un passato anche molto recente, in cui la medicina era organizzata in modo autoritario e gestita con stile paternalistico, oggi si richiede un coinvolgimento attivo del paziente nelle decisioni che lo riguardano 4. Buona medicina è quella che, oltre all’appropriatezza clinica, valutata dal professionista sanitario, considera auspicabile e rende possibile che il paziente partecipi alle decisioni che si ripercuotono sul suo benessere.
Nell’ambito della sanità intesa come pubblico servizio sta diventando quanto mai attuale il rendere conto delle scelte mediche alla comunità. Quanto si è speso, ma soprattutto come si è speso. La sanità pubblica, infatti,
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nasce da un “patto per la salute”, come l’ha chiamato il Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000. L’attenzione dei sanitari e dei cittadini è stata deviata sugli accordi strategici tra i medici e il management delle aziende sanitarie per contenere la spesa, come se fosse questo l’obiettivo della nuova sanità. L’obiettivo è piuttosto quello di combattere sprechi e diseconomie per poter utilizzare al meglio le risorse comuni.
Si tratta di mettere i servizi sanitari a disposizione di tutti quelli che ne hanno diritto e bisogno, contrastando le sperequazioni e le iniquità nell’accesso, che stanno creando un razionamento occulto sotto forma di liste di attesa. Un obiettivo che i vertici delle aziende sanitarie, anche i più illuminati, non potranno mai raggiungere senza la collaborazione dei medici. Potrebbero, sì, raggiungere il pareggio di bilancio operando dei tagli nei servizi erogati, ma mai sarebbero in grado di mettere in piedi una sanità equa, qualora i medici decidessero che questo non è un loro compito.
Come si fa a “servire tre padroni” contemporaneamente? E la domanda legittima che sintetizza efficacemente il problema con cui si trova confrontata la medicina dei nostri giorni. Dovremo forse cercare di dare diritto di cittadinanza al compromesso. La parola ha pessima fama: i moralisti lo aborriscono (qualificandolo abitualmente come “sporco”) e gli eticisti lo combattono, perché sospettano che indebolisca i principi. Eppure sembra l’unica via percorribile per chi in sanità deve imparare a vivere con soluzioni buone, anche se non ottimali.
La via del compromesso ci conduce alla stessa conclusione a cui giunge E. Haavi Morreim nell’articolo dell’Encyclopedia of Bioethics (1995) dedicato al conflitto di interessi. Mentre una volta il dovere che nasceva dalla fiducia che il paziente riponeva nel professionista consisteva soprattutto nell’astenersi dallo sfruttamento volgare, oggi l’obbligo di porre gli interessi del paziente prima dei propri non può più essere per il professionista un obbligo senza limiti: «Una delle più importanti e difficili sfide della nuova economia che regola la medicina consiste nel considerare non solo ciò che i sanitari sono obbligati a dare ai loro pazienti, ma anche i limiti di questi obblighi». In altre parole, i conflitti di interesse obbligano a riscrivere le regole del gioco tra tutti coloro che sono coinvolti nel sistema di erogazione delle cure: ricercatori, professionisti sanitari, amministratori pubblici, divulgatori scientifici, cittadini. Se è impossibile eliminare i conflitti di interesse presenti pervasivamente nell’ambito della medicina, molto si può fare per aumentare la trasparenza, favorendo l'empowerment dei consumatori.
1 S.A. Relman, Assessment and accountability. The third revolution in medical care, in NEJM 1988, 319.
2 P. Morosini, F. Perraro, Enciclopedia della gestione di qualità in sanità, Centro Scientifico, Torino 1999.
3 G. Domenighetti, Educare i consumatori a rimanere sani, in «L’Arco di Giano», n. 11, (1996).
4 Cf. Comitato nazionale per la bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 1992.