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Sandro Spinsanti
LE RAGIONI DELLA BIOETICA
Collana La Biblioteca di Giano
Edizioni Cidas, Roma 1999
pp. 255
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Non abbiamo che da guardarci intorno: ovunque vistose novità ci interpellano. Abbiamo le conoscenze e le tecnologie che ci permettono di mettere le mani nel delicato congegno genetico che assicura la riproduzione della vita. La nuova biologia e la genetica, la rottura degli equilibri ecologici naturali e un nuovo modo di considerare la vita animale nel suo insieme: è il nostro stesso habitat che cambia. Per qualcuno tutti questi cambiamenti, e in particolare la loro rapidità, sono fonte di sgomento. L’ideologia trionfalista del progresso, come marcia progressiva dell'umanità, di conquista in conquista, tende a mutarsi in un atteggiamento di negativismo a priori di fronte alle novità.
Lo smarrimento è particolarmente vistoso nell'ambito sanitario. Fino a un passato recente, per quanto discussi potessero essere altri aspetti dell’agire umano, ciò che veniva fatto a vantaggio del malato e per il recupero della salute godeva di un consenso morale unanime. Attualmente non è più così. I progressi della biomedicina hanno aperto un ampio fronte di preoccupazione. Sono cresciute le situazioni oggettivamente conflittuali, in cui bisogna pur prendere delle decisioni con la consapevolezza che il bene e il male non si lasciano dividere con un taglio netto. Ciò può portare a una sorta di paralisi della volontà, quando non addirittura a una forma di scetticismo morale. Più frequentemente, di fronte all'ennesima novità ― che si chiami clonazione animale o ingegneria genetica, nuova tecnica a servizio della “procreatica ” o procedure sperimentali ― si sente invocare la bioetica.
Anche sotto il termine di nuovo conio, l’etica applicata nell’ambito biomedico presenta per lo più un volto antico: quello che affida all’etica compiti polizieschi e repressivi, legati alla funzione di demarcare i confini tra il lecito e l’illecito e di segnare i limiti che non vanno in nessun caso oltrepassati. Più rara è la proposta di una bioetica in funzione
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di stimolo positivo, per assicurare all'attività umana nell’ambito della biologia e della medicina lo spessore che deriva dal tentativo di coniugare scienza e valori umani. Per fare questo la bioetica deve privilegiare il proporre più che l’imporre; indicare le mete da raggiungere, piuttosto che i baratri da evitare; favorire le sinergie, invece che contrapporre ideologia a ideologia. E soprattutto deve saper articolare e illustrare le sue ragioni.
Il plurale non è casuale. La bioetica è, infatti, un’attività della ragione alla ricerca del bene morale ― non è, perciò, un sistema di credenze collegate a una fede, né di comportamenti condivisi prodotti da una cultura ―; ma si realizza in concreto grazie alla capacità di presentare in modo convincente le ragioni che sostengono l’una o l’altra opzione. La nostra riflessione non è rivolta a presentare i problemi sui quali si esercita la bioetica (una funzione che, per quanto riguarda l’ambito medico, è esercitata dalla “bioetica clinica”), ma semplicemente ― privilegiando la forma piuttosto che i contenuti ― a esplicitare l’arsenale argomentativo della bioetica, ovvero le ragioni della bioetica.
Queste sono state raggruppate intorno a due poli, rappresentati rispettivamente dalla storia e dalla filosofia nella sua funzione teoretica. Le ragioni della storia sono facilmente illustrabili con la prospettiva offerta da Rip van Winkle. Non andate a cercare il nome nell’annuario delle più prestigiose università: Rip van Winkle non è uno studioso, ma un personaggio letterario! È stato creato dallo scrittore Washington Irvin nella prima metà del XIX secolo e da allora è diventato familiare agli anglosassoni come Pinocchio lo è per gli italiani e Gargantua ai francesi. Nel racconto Rip è un colono americano, di origine olandese, che un certo giorno va nel bosco a far legna. Incontra strani personaggi, beve del vino da loro offerto e si addormenta. Al risveglio torna al villaggio, ma non riconosce nessuno e nessuno riconosce lui. Tutto è cambiato. La spiegazione è semplice: Rip van Winkle aveva semplicemente dormito vent’anni. Il successo del racconto è garantito dall’esser storicamente collocato a ridosso della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Quando Rip si addormenta, c’erano ancora le colonie inglesi; quando si sveglia, si trova in un paese tutto nuovo, perché sono cambiate le fondamenta, vale a dire il sistema politico.
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Un immaginario Rip van Winkle dell’etica in medicina, che si fosse addormentato nel 1978 e si risvegliasse nel 1998, avrebbe grandi difficoltà a riconoscere la nuova realtà. Accanto a tratti permanenti del passato ― raggruppati attorno all’“ethos ippocratico” ― troverebbe la formulazione dei diritti del paziente (a cominciare dall’informazione, che permette di partecipare alle scelte che lo riguardano), la presenza inquietante ma ineliminabile dell’economia, l’esigenza di usare responsabilmente (“accountability”) le risorse sanitarie, la presenza di organismi ― commissioni nazionali e locali, comitati di etica ― che intervengono in ambiti che in passato erano riservati esclusivamente alla coscienza del medico e del ricercatore. È un cambiamento non meno radicale di quello che attraversa una colonia del vecchio mondo che si trova, dall’oggi all’indomani, a essere promossa ad avanguardia avveniristica di un nuovo mondo.
Non meno esigente è il richiamo alle ragioni della filosofia nell’ambito sistematico. Non è un segreto che i problemi sollevati dal progresso biomedico hanno fornito più di una occasione ad atteggiamenti intolleranti. Invece di un paziente lavoro argomentativo, si è preferita la scorciatoia del ricorso al potere o il riutilizzo del vecchio armamentario dell’apologetica. In Italia si possono trovare illustrazioni chiare di queste preferenze nella polemica tra bioetica laica e bioetica religiosa. L’inevitabile confronto con questioni di fondo che la bioetica ci pone ― il differente valore delle norme, il ruolo della coscienza, i concetti di natura e di persona ― può diventare un’opportunità per ampliare i confini della nostra coscienza, individuale e comunitaria.
La coscienza non cresce per accumulazione quantitativa, ma per salti qualitativi. Le novità biomediche possono diventare, attraverso il confronto onesto delle ragioni che le sostengono o che le criticano, uno stimolo per la crescita. È quell’orizzonte che ― in mancanza di un termine di uso comune ― possiamo chiamare “transpersonale ”, perché include i valori della persona, ma non si limita ad essi, perché ci rimanda oltre (“trans”). È lo scenario che si costruisce a partire dalla nuova consapevolezza che tutti i viventi costituiscono una comunità tenuta insieme da diritti e doveri reciproci.
Roma, dicembre 1998
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LE RAGIONI DELLA STORIA
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L’ETHOS IPPOCRATICO
1. Il giuramento di Ippocrate nel contesto storico
Quanti hanno una conoscenza precisa di ciò che è contenuto nel giuramento di Ippocrate? Eppure non c’è persona mediamente informata che ne ignori l’esistenza, che non lo sappia indicare come uno dei documenti che costituiscono il nucleo essenziale del patrimonio spirituale dell’Occidente. Sono poche righe, estremamente concise, specchio di una prassi medica segnata dal tempo. Tuttavia hanno attraversato i secoli, sempre continuamente citate come portatrici di un ideale che trascende il proprio tempo e la cultura che l’ha prodotto. Il giuramento ha contribuito in modo determinante a far diventare Ippocrate un eroe culturale in tradizioni tutt’altro che inclini all’ecumenismo: cristiani ed ebrei, musulmani e illuministi gli hanno unanimemente tributato un rispetto che confina con la venerazione. Giuramento ippocratico ed etica medica sono diventati due concetti correlati, un binomio inscindibile, dove l’uno è utilizzato come sinonimo dell’altro. Tuttavia, quante ombre dietro questa apparente luminosità!
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La realtà storica del giuramento è probabilmente molto diversa da quella immaginaria che ha permesso nei secoli di renderlo simbolo delle più alte idealità che possono ispirare il medico nella sua professione. Presentando una moderna edizione del giuramento, il curatore faceva un bilancio della situazione dal punto di vista storiografico: «Qual è la data del giuramento? è mutilato o interpolato? chi faceva il giuramento: tutti i medici o solo gli appartenenti a una corporazione? quale forza obbligante c’è dietro la sua sanzione morale? era una realtà o un semplice ‘consiglio di perfezione’? L’onesto ricercatore deve dire di non saperne nulla» 1. In seguito studi storici di grande valore hanno portato un po’ di luce su alcuni di questi interrogativi. I risultati della ricerca storica mettono in crisi molti luoghi comuni circa l’origine, il significato e l’utilizzazione del giuramento.
Passiamo brevemente in rassegna le principali acquisizioni, dovute principalmente agli studi di Edelstein e Sigerist 2. Sono problemi che non interessano solo gli eruditi, ma tutti coloro che si interrogano sul rapporto tra etica e medicina. Rituffandoci nelle origini, nel momento in cui per la prima volta la cultura occidentale ha intuito il legame e ha cercato di formularlo, ritroviamo lo stato germinale di ciò che si configurerà come “ethos” medico.
È opportuno, in primo luogo, considerare il contenuto e la struttura del giuramento. Dopo l’invocazione degli dei — Apollo, Esculapio, Igea e Panacea — la prima parte è dedicata ai doveri verso la famiglia del maestro. Colui che giura si impegna a condividere i propri beni
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col maestro e a considerare i suoi figli come propri. La seconda parte è il vero e proprio codice etico, che enumera i doveri che il medico si assume verso i pazienti. È costruito in modo simmetrico. Al centro troviamo la sola affermazione positiva di tutto il giuramento: “Conserverò casta e pura da ogni delitto sia la mia vita che la mia arte”. È preceduta da tre proibizioni: non recare danno o ingiustizia al malato, non somministrare a nessuno medicine letali, non procurare rimedi abortivi alle donne. La clausola di purità è seguita da tre altre proibizioni: non praticare la chirurgia, non avere rapporti sessuali con nessun membro della famiglia del paziente, non divulgare segreti uditi nell’esercizio della professione. L’ultimo paragrafo, infine, indica che la ricompensa per l’osservanza del giuramento sarà la fama e la buona reputazione; il disonore invece colpirà lo spergiuro.
La nobiltà dei propositi giurati non paralizza il senso critico dello storico. Per il quale le clausole del giuramento presentano dissonanze vistose con quanto egli conosce circa la pratica della medicina nella Grecia classica. L’enigma più evidente è quello dell’esercizio della chirurgia. Sappiamo con certezza che il medico ippocratico era anche chirurgo. Anzi, gli scritti chirurgici sono tra i migliori del Corpus Hippocraticum e sono spesso attribuiti al maestro stesso. Un problema presenta anche la clausola dell’aborto: come conciliare questa proibizione con il fatto accertato che l’aborto era generalmente praticato in Grecia, non solo dalle levatrici ma anche da medici ippocratici, che era accettato dalla società e perfino raccomandato dai maggiori filosofi, come Platone? Anche per quanto riguarda l’eutanasia la clausola del giuramento è in contrasto con quanto sappiamo della civiltà greco romana. Il suicidio, soprattutto per influenza dello stoicismo, era generalmente accettato; conosciamo molti casi in cui il veleno è stato somministrato da medici.
Queste contraddizioni patenti rendono impossibile allo storico sottoscrivere l’immagine del giuramento come strumento, già in uso al tempo di Ippocrate, per inculcare al medico un’etica particolare, impregnata di idealismo o di filantropia, che lo impegna per il fatto stesso di abbracciare la professione medica. I discorsi convenzionali che si fanno sul giuramento ippocratico come simbolo di un ethos perenne, soggiacente a tutte le trasformazioni morali ed etiche, al quale il
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corpo medico si sarebbe sempre attenuto fin dagli albori della civiltà greca 3, non hanno un riscontro storico.
Già in una prima ricognizione di quanto è storicamente appurato, Jones escludeva che il testo trasmessoci dalla tradizione possa essere considerato come un giuramento da deporre obbligatoriamente per essere ammessi nella corporazione dei medici asclepiadi 4. La prima parte del giuramento, sotto forma di un accordo contrattuale, lega l’aspirante medico al maestro e alla sua famiglia, non a una corporazione. Se non si tratta, dunque, di un giuramento corporativo, qual è la sua natura?
Le ipotesi formulate da Jones, e confermate poi dagli studi successivi, partono dalle informazioni storicamente attendibili che possediamo sull’età classica. Sappiamo da Platone (cfr. Protagora 311 B) che i medici insegnavano la medicina ai loro figli, e che Ippocrate insegnava ad altri discepoli dietro compenso. Siamo inoltre informati che nel periodo migliore della medicina greca c’erano delle scuole esclusive che restringevano il loro insegnamento ai membri di un clan (genos) e a esterni, che venivano in qualche modo adottati. È probabile che questi membri adottati facessero un giuramento e firmassero un contratto legale. Gli studenti apprendisti venivano in qualche modo assunti nella famiglia e assumevano diritti e doveri dei membri della famiglia.
Il giuramento, accordo privato tra il maestro e l’apprendista, definiva le relazioni tra quest’ultimo e la società in cui entrava, nonché le regole di condotta a cui quella società si attendeva che egli si conformasse. Nel corso del tempo può essersi evoluto un formulario, non proprio stereotipato e universale, ma con omissioni, alterazioni o addizioni,
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per adattarsi al periodo, alla scuola o al luogo. Nello schema, oltre alle promesse fatte al maestro, erano incorporate le clausole che avevano come oggetto la probità e l’onore medico. Questa l’ipotetica evoluzione del giuramento, la sua funzione e il suo contenuto originari.
Tuttavia il giuramento che la tradizione ci ha consegnato, attribuendolo a Ippocrate, non può essere identificato con il giuramento ipoteticamente in uso nelle scuole ippocratiche del V e IV sec. a.C. Le clausole etiche che definiscono il rapporto del medico col malato, infatti, sono inconciliabili con ciò che conosciamo della pratica medica nel mondo classico. Sigerist è perentorio: «La spiegazione di tutte queste contraddizioni è semplicemente che il giuramento ebbe origine in un ambiente che era totalmente differente da quello di Cos o di Cnido: cioè in un ambiente filosofico, tra i Pitagorici» 5. Egli fonda la sua opinione sugli studi più conclusivi sull’argomento, che sono quelli condotti da Edelstein.
A differenza di chi considera il giuramento come un messaggio di validità universale, unanimamente accettato nell’ambito della grande medicina greca dell’epoca classica, Edelstein lo fa risalire a un gruppo che rappresentava un piccolo segmento dell’opinione greca. Gli scritti medici, dall’epoca di Ippocrate a quella di Galeno, dimostrano la violazione sistematica e costante di quasi tutte le ingiunzioni del giuramento. Soltanto verso la fine dell’epoca classica avvenne un profondo cambiamento, le cui radici affondano nella filosofia pitagorica, che cominciò a definirsi verso la fine del IV sec. a.C.
La filosofia pitagorica includeva ideali di giustizia, fortezza, purezza e santità, e di rispetto della vita. Al greco medio non possiamo attribuire un rispetto della vita come valore. Basti pensare all’esposizione di bambini deboli o deformi, pratica diffusa non solo a Sparta, ma anche ad Atene. C’erano tuttavia gruppi religiosi nella società greca, specialmente orfici e pitagorici, i quali, forse sotto influenza indiana, nutrivano un profondo rispetto per la vita. Nel loro ambito ci si ispirava a una moralità più stretta rispetto all’etica platonica e aristotelica, o alla pratica medica comune.
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Il giuramento ippocratico è storicamente attendibile solo se lo consideriamo come un prodotto dell’etica pitagorica, applicata alla medicina. Il suicidio e l’aborto erano condannati dai pitagorici; di conseguenza, fu considerato non etico per il medico prestare la propria mano per azioni che conducevano alla distruzione della vita. La chirurgia fu separata dalla medicina generica. Il medico che si ispirava alla nuova filosofia poteva così lasciare al chirurgo lo spargimento del sangue e il rischio che il paziente morisse sotto il bisturi. In tale ambiente il giuramento cominciò a diventare popolare. I medici pitagorici potrebbero averlo redatto come un programma di riforme, e forse anche come protesta contro le pratiche correnti.
In seguito fu considerato opera del grande Ippocrate, così come gli furono ascritte le opere mediche della biblioteca di Alessandria, ricorrendo a un processo di accreditamento mediante l’attribuzione a un’autorità indiscussa, comune nell’antichità. Il suo studio divenne parte del curriculum medico, idealmente la prima opera con cui lo studente di medicina si familiarizzava. I commentatori supposero che il maestro avesse scritto il giuramento come primo dei suoi libri e imposero al principiante di leggere questo trattato per primo 6.
La scuola pitagorica fece il ponte tra il paganesimo e il cristianesimo, il quale doveva cambiare i fondamenti della civiltà antica. Il cristianesimo si trovò in accordo con i principi pitagorici relativi alla vita e alla medicina. E proprio alla sua consonanza con il cristianesimo il giuramento ippocratico deve il successo che lo fece diventare il nucleo di tutta l’etica medica. Appena menzionato in epoca precristiana, godette invece di popolarità una volta entrato nell’area culturale cristiana. I padri della chiesa abbondarono nelle lodi di Ippocrate e della sua regolazione pratica della medicina 7; in seguito Ippocrate fu considerato egli stesso come un “padre della chiesa” dai medici, e la sua autorità mai rimessa in discussione.
L’ideale etico che traspare dal giuramento fu proiettato sugli altri scritti e in genere su tutta la medicina dell’antichità. Emergeva così la
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figura del medico come “filantropo”, che si impegnava con un giuramento di dedicarsi al servizio dei malati. Ma la finalità del giuramento medico era realmente la filantropia? Ulteriori precisazioni vengono dalle ricerche storiche recenti. Alcune indicazioni possono essere ricavate dall’analisi sia del contenuto che della struttura del documento. Le clausole tengono a stabilire non quello che il medico dovrebbe fare per essere un buon medico, ma le azioni dalle quali astenersi. Il fine è quello messo in rilievo dall’unica clausola positiva, posta architettonicamente al centro della seconda parte: conservare la vita pura per accrescere la propria “reputazione” (doxa).
Sigerist ha particolarmente insistito su questa finalità del giuramento e dell’etica medica greca 8. Il medico era costretto a occuparsi della propria reputazione, e ciò in forza delle condizioni della pratica medica dell’antichità. Il medico era, in pratica, un artigiano; esercitava la sua “arte” (techne) come gli altri artigiani, passando da un luogo all’altro. La buona reputazione e la fama che lo precedevano erano condizioni indispensabili per l’affermazione professionale 9. Non esistendo nessuna licenza per praticare la medicina concessa dallo stato o da altra organizzazione, la reputazione era la sola credenziale che il medico possedesse. L’acquistava con l’apprendimento, l’abilità, la coscienziosità, la corretta prognosi, e in generale conducendo una vita onesta.
Il giuramento si colora così di una luce utilitaristica. Comprendiamo quindi perché, ai fini della reputazione, il medico si allineasse mediante il giuramento con le posizioni etiche più rigide, come quelle diffuse dai pitagorici, che richiedevano dal medico più di quanto gli imponevano la morale e la pratica corrente. Queste precisazioni storiche fanno forse scendere il medico che nell’antichità usava il giuramento ippocratico dal piedistallo del semidio filantropico, ma gli conferiscono anche, a suo vantaggio, uno spessore di umanità che lo rende più credibile. Anche attraverso la porta della ricerca della reputazione —
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non certo l’ideale più sublime che possiamo concepire dal punto di vista etico — entrava nella medicina il principio che la medicina è un’arte in cui la conoscenza è inseparabile dalla moralità. Cominciava così a delinearsi la figura del medico come vir bonus sanandi peritus.
Le conoscenze storiche acquisite ci mettono in grado di tracciare un quadro meno aprioristico dell’evoluzione dell’ethos medico nel mondo greco-romano, nonché del ruolo che vi ha svolto il giuramento ippocratico 10. Non c’è dubbio che il mondo classico sia arrivato a formulare l’ideale che deve ispirare il medico e gli obblighi che acquisisce verso il malato nei termini di misericordia, solidarietà, fratellanza universale: in una parola, come un’etica della filantropia. Tuttavia questo ideale non è stato l’unico, né si è imposto in tutto l’ambiente medico.
Nell’epoca classica della civiltà greca il comportamento del medico non si ispirava agli obblighi verso l’umanità. La “filantropia” negli scritti ippocratici (V sec.) è intesa come gentilezza e buone maniere, contrapposta alla misantropia. I suggerimenti impartiti al medico riguardano i comportamenti più efficaci da tenere nel corso del suo lavoro, al fine di conseguire la fiducia del paziente e distinguersi dai ciarlatani. In altri termini, si tratta più di “etichetta” medica che di etica. L’ethos medico è quello di una corretta prestazione esterna. L’età classica, come risulta dagli scritti platonici, giudicava il lavoro manuale sulla base della competenza e dell’efficienza. Nessuna idealizzazione esaltava la medicina sopra le altre professioni: era considerata un’arte come le altre, estranea a valori come l’intenzione interiore e il cuore.
Il secondo stadio dell’evoluzione dell’ethos medico presuppone la trasformazione spirituale che si è espressa nell’insegnamento pitagorico e nella filosofia stoica, che considerava possibile a ogni stato di vita seguire le regole dell’etica. Anche l’ethos dell’artigiano medico fu riformulato in accordo con vari sistemi filosofici. Nell’arco di tempo che si estende dal IV sec. al II sec. d.C. la medicina è stata
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elevata al rango di arte filantropica. La moralità della prestazione esterna, caratteristica dell’epoca classica, cede ora alla moralità dell’intenzione: il medico, secondo Galeno, non può non essere filosofo. Sorge così l’umanesimo medico dell’antichità.
La sua espressione letteraria sono gli scritti deontologici del Corpus Hippocraticum: il giuramento in primo luogo, ma anche i Precetti, Sul medico, Sul decoro. Composti in epoca ellenistica o addirittura cristiana, rispecchiano l’ideale completo del medico come amore dell’umanità, filantropia. A un’analisi più accurata si riconoscono nei vari scritti sfumature filosofiche diverse. Così nello scritto Sul medico predominano le virtù della scuola aristotelica: il medico deve essere onesto, prudente, gentile. I Precetti e Sul decoro rivelano valori stoici, come la saggezza e la scelta razionale.
Negli scritti di Scribonio Largo — il quale, per inciso, è il primo autore a menzionare il giuramento ippocratico nella prefazione al Compositiones: I sec. d.C. ― l’etica della prestazione esterna e dell’intenzione interiore sono diventate ormai un’unità inseparabile. L’umanesimo stoico trasmesso da Cicerone diventa per Scribonio Largo il fondamento di specifiche virtù professionali. Il medico come filantropo deve simpatia (misericordia) e umanità (humanitas) a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza tra gli uomini. L’amore dell’umanità diventa la virtù professionale del medico
Anche se l’umanesimo medico è rimasto ristretto a una piccola minoranza di medici, resta tra gli ideali più sublimi concepiti dall’antichità. Il giuramento di Ippocrate assume il suo pieno significato solo se interpretato nel modo in cui fu compreso da Scribonio e dai suoi successori. E proprio perché ci è stato consegnato dall’antichità incastonato nell’ideale dell’etica della filantropia, di cui si è fatto supporto, ha potuto costituire nel corso dei secoli un punto di riferimento costante.
2. La tradizione e l’uso moderno del giuramento
La ricerca storica contemporanea ha esteso lo studio dei trattati ippocratici, oltre alla loro origine e alla formazione del Corpus Hippocraticum, anche al ruolo che hanno svolto nella storia del pensiero
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e della pratica medica 11. Ippocrate è stato, nelle epoche e culture più diverse, lo schermo di proiezione di un ideale, la perfetta incarnazione dell’atteggiamento medico volta a volta ritenuto più appropriato, spesso molto lontano dalla pratica effettiva dei medici del tempo. Il giuramento attribuitogli ha contribuito in modo determinante alla cristallizzazione dell’etica medica attorno al suo nome.
L’opera degli storici, che ha portato a profonde revisioni del quadro oleografico che vedeva nella professione medica dell’antichità un gruppo omogeneo di guaritori con nobili intenzioni, dediti ai sublimi ideali del “sacro giuramento”, non ha risparmiato neppure le visioni più convenzionali relative al medioevo. Lo standard etico del medico durante l’epoca che si estende dalla disgregazione dell’Occidente fino alle prime regolazioni ufficiali della professione, ad opera di Federico II, risulta notevolmente poco elevato. I medici non erano soggetti né a misure penali e legali, né all’organizzazione di una corporazione universale.
Durante il primo medioevo i medici furono esposti a due influenze divergenti, che abbiamo già visto operanti nell’antichità: una idealistica, l’altra pratica; in altri termini, “etica ed “etichetta”. L’etichetta medica quotidiana che troviamo nei trattati dell’epoca 12 consiste in ammonizioni al medico a evitare eccessi di vino e ostentazione nell’abbigliamento, all’esercizio della pazienza con malati difficili, a non dar prova di avarizia nell’esigere il pagamento delle tariffe. Le motivazioni del comportamento medico quotidiano non dimostrano un orizzonte più alto di quello che si ispira a criteri di opportunità. Anche nell’ambito della cristianità il comportamento concreto del medico si modella secondo criteri che chiameremmo laici.
Per quanto riguarda l’etica, invece, gli scritti a nostra disposizione combinano gli ideali ippocratici (in senso filantropico) con quelli
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cristiani. Si configura cioè un “ippocratismo cristiano”, in cui i precetti ippocratici — in particolare le ingiunzioni circa la somministrazione di veleni, l’aborto e la violazione della fiducia del paziente — non costituivano un codice di condotta imposto da un’istanza professionale dotata di autorità, ma piuttosto un insieme di ideali che il medico di nobili intenzioni era esortato a seguire.
La forma più vistosa dell’ippocratismo cristiano è la revisione del giuramento “in modo che un cristiano possa giurarlo” 13. L’invocazione ad Apollo e alle altre divinità viene sostituita con quella della Trinità; cadono le clausole relative all’esercizio della chirurgia e alla condivisione dei beni e conoscenze con i membri della famiglia del maestro; permangono invece le proibizioni tradizionali relative a veleni, aborto e divulgazione dei segreti. La modifica della parte del giuramento concernente i rapporti tra maestro e discepolo è interpretata da Jones come superamento di una concezione elitaria, incompatibile con l’universalismo cristiano. Più radicalmente, le clausole che codificavano gli obblighi assunti dal discepolo all’essere cooptato nella famiglia del maestro non avevano più ragione di esistere, essendo cambiate le modalità dell’insegnamento della medicina. Non è escluso che si possa riconoscere un’eco del senso di fratellanza cristiana nell’impegno a «insegnare quest’arte a chiunque lo richieda, senza invidia e senza richiedere un contratto».
In epoca medievale le influenze del giuramento ippocratico sono rintracciabili anche al di fuori dell’area cristiana. Le ritroviamo nel “giuramento di Asaf”, contenuto in un manoscritto del VII secolo, la più antica opera medica della letteratura ebraica. Il giuramento appare anche in versione musulmana, in cui la sola modifica significativa è la sostituzione del pantheon greco con affermazioni in armonia con la teologia islamica 14.
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Nella transizione dal medio evo alla civiltà occidentale moderna il giuramento di Ippocrate continuò a essere modello per l’ideale etico dei medici. In alcune scuole di medicina si richiese, al termine del curriculum e prima di iniziare ufficialmente l’esercizio della professione, di tenere il giuramento nella sua forma originale: una pratica che non è del tutto scomparsa neppure al giorno d’oggi. La valorizzazione più enfatica del giuramento fu quella che ne fece il regime nazista in Germania. Si tratta, piuttosto, di una cinica strumentalizzazione.
Himmler ne fece fare un’edizione di cui egli stesso scrisse la prefazione. Il giuramento, a suo dire, «contiene un’eredità di pensiero ariana, che attraverso duemila anni ci parla con un linguaggio vivo» 15. Sotto la pressione nazista il giuramento, che aveva avuto per lo più un’esistenza marginale, fu diffuso ampiamente nell’ambito medico. Esso fu assunto a simbolo di un’etica particolare del corpo medico, che il regime distorceva nel senso di una fedeltà e lealtà dei medici agli indirizzi ideologico-sanitari del nazismo 16.
Dopo il nazismo il giuramento ippocratico cadde in sospetto. Una delle prime preoccupazioni dell’Associazione Medica Mondiale, nell’assemblea generale tenutasi a Ginevra nel 1948, fu una dichiarazione che restaurasse l’immagine della medicina dedita ai fini umanitari, dopo i crimini medici che agghiacciarono l’opinione pubblica al processo di Norimberga. Pur abbandonando lo schema ippocratico tradizionale, la dichiarazione di Ginevra non rinuncia al simbolo del giuramento. Un giuramento laico, ormai, in cui l’istanza suprema a cui si fa appello è l’onore del medico che assume gli impegni. Affinché il giuramento potesse essere applicabile alle condizioni moderne
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della prassi medica, le affermazioni circa le responsabilità del medico di fronte al suicidio, all’eutanasia e all’aborto sono sfumate in generalizzazioni. Il medico si impegna a «mantenere il massimo rispetto per la vita umana fin dal tempo del concepimento, a non usare, anche sotto minaccia, le conoscenze mediche contrariamente alle leggi dell’umanità».
Un’esplicita ostilità al giuramento di Ippocrate, quale simbolo dell’etica capitalistica, è stata nutrita nei paesi socialisti. Gli studi dedicati all’“ethos ippocratico” dalla sezione marxista-leninista della facoltà di medicina di Halle, nella ex Repubblica Popolare Tedesca, possono valere come illustrazione didattica dell’ideologia medica socialista 17. L’interpretazione marxista della storia non può accettare l’esistenza di un’etica medica atemporale. L’etica, come tutte le sovrastrutture, è determinata dai rapporti socio-economici esistenti nella società. Di qui si passa conseguentemente ad auspicare una nuova etica medica, espressione della nuova società socialista. L’ethos medico socialista viene praticamente a equivalere alle esigenze sociali della professione: il medico, prima che professionista, va considerato come un membro dello stato socialista; più che un tecnico, un operatore attivo del nuovo ordine sociale. Tale concezione esula completamente dall’ottica del giuramento di Ippocrate. Nonché, più in generale, da tutto l’umanesimo medico dell’antichità.
Secondo Edelstein 18, il solo tratto che distingue l’umanesimo pagano dall’atteggiamento cristiano e da quello che sarà proprio dei riformatori umanisti del XIX sec., è la mancanza di ogni riconoscimento di responsabilità sociali da parte del medico. Benché alcune malattie fossero ricondotte alle condizioni sociali, l’evangelo dell’amore fraterno considerava solo la relazione tra il singolo medico e il singolo paziente. L’etica medica socialista non riesce perciò a fare l’opera di assimilazione del documento ippocratico, che invece è felicemente riuscita ad altri orientamenti e culture. Gli ideologi comunisti tedeschi,
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pur riservando al giuramento il rispetto dovuto a un documento storico del passato, auspicavano la creazione di un nuovo giuramento, che rendesse ragione degli aspetti peculiari dell’etica medica socialista 19.
L’auspicio ha trovato realizzazione nel giuramento che il Presidium del Soviet Supremo ha imposto a tutti i medici russi, nel 1971. Anche se il giuramento ippocratico ha fatto da padrino, non sopravvivono più neppure le rassomiglianze formali. Il giuramento ha un significato esplicitamente politico. Il giovane medico si impegna a esercitare là dove la società ha bisogno della sua opera e ad aderire internamente ai principi marxisti e all’etica comunista che regolano la società («lasciarmi guidare in tutte le mie azioni dai principi della morale comunista, ricordarmi sempre dell’alta vocazione del medico sovietico e della responsabilità nei confronti del popolo e del governo sovietici»). All’ideale di dovere umanitario nei confronti del singolo paziente è sovrapposto l’impegno del medico a servire gli interessi della società.
Ma anche alle nostre latitudini culturali sembra che il giuramento ippocratico non abbia ancora esaurito la sua carica propulsiva. Lo dimostra la recente riformulazione, quale “giuramento professionale”, a opera della Federazione nazionale dei medici italiani. Il giuramento, premesso all’ultima revisione del Codice deontologico (ottobre 1998), suona:
Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:
● di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;
● di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;
● di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente;
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● di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;
● di prestare la mia opera con diligenza, perizia e prudenza secondo scienza e coscienza e osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione;
● di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale e alle mie doti morali;
● di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della categoria;
● di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
● di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica;
● di prestare assistenza d’urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità, a disposizione dell’Autorità competente;
● di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto;
● di astenermi dall’“accanimento” diagnostico e terapeutico;
● di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato.
I cambiamenti rispetto al modello storico sono evidenti, sia dal punto di vista formale che contenutistico. Per quanto riguarda il primo, il giuramento ha perso la sua caratteristica di impegno assunto davanti alla divinità (o a suoi surrogati, come lo Stato). L’impegno fa riferimento esclusivamente alla coscienza di colui che presta il giuramento. Una nota didascalica premessa al codice precisa che il codice di deontologia medica è «un corpus di regole di autodisciplina predeterminate dalla professione, vincolanti per gli iscritti all’ordine
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che a quelle norme devono quindi adeguare la loro condotta professionale». Ma un giuramento trascende chiaramente l’ambito così descritto. Esso presuppone un senso di responsabilità verso il paziente che deriva da una concezione sacrale della professione e richiede una dedizione che eccede i confini contrattuali propri dell’esercizio moderno di una professione.
Per quanto riguarda gli aspetti contenutistici del giuramento, ci limitiamo a osservare che la riproposta degli impegni tradizionali del giuramento ippocratico ― difesa della vita, segreto medico, non discriminazione dei pazienti ― lascia tuttavia trapelare sostanziali elementi di novità. Così, per esempio, il giuramento, pur ripetendo che il medico giura di «non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente», aggiunge di «astenersi dall’“accanimento” diagnostico e terapeutico». È quanto dire che oggi sta emergendo la consapevolezza che si può far danno al paziente ― primum non nocere ― non solo sottraendogli i presidi medici che prolungano la vita (eutanasia attiva e passiva), ma anche con una medicina che offre quanto è in suo potere al di là della ragionevolezza e della giusta misura.
3. Pro e contro il giuramento ippocratico
Generazioni di medici hanno considerato il giuramento di Ippocrate come la “magna carta” dell’etica medica. Eppure oggi l’unanime rispetto che la tradizione ha creato attorno a questo documento è infranto da alcune voci critiche. Non è più sufficiente nominarlo, per evocare l’indiscusso riferimento dei medici alle più alte idealità umanitarie. Nei confronti del giuramento ippocratico è subentrato un certo disincanto, indubbiamente facilitato dalla divulgazione degli studi filologici e storici che hanno permesso di comprenderne con più precisione la natura e la finalità. Oggi sappiamo che l’antichità è stata molto meno “ippocratica” di quanto una certa tradizione, nutrita di retorica, ha voluto far credere.
Per alcuni critici l’interpretazione del giuramento ippocratico in ambito medico è l’esempio eclatante delle distorsioni che ha subìto la
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storia a opera di medici, a servizio della loro concezione elitaria ed esclusiva della professione: gli aspetti corporativi e utilitaristici del giuramento sono stati passati sotto silenzio; il giuramento ha potuto così essere reso simbolo di un ethos astorico, con pretese universalistiche 20. Non è un caso — osservano alcuni con fastidio — che il giuramento venga puntualmente tirato in ballo dall’ala meno progressista dei medici quando si discute di problemi di etica o di politica sanitaria, per brandirlo contro una concezione più sociale della medicina.
Presso i rappresentanti della medicina liberale il giuramento, magari riprodotto in formato pergamena, è contornato di una venerazione che non può essere rapportata al suo effettivo contenuto. In alcune facoltà viene anche oggi consegnato in forma solenne ai neolaureati in medicina. Anche persone non sospette di faziosità partigiana hanno espresso le loro riserve rispetto a questa pratica. I giovani medici ― nota ironicamente lo storico della medicina Sigerist ― giurano che non eseguiranno operazioni chirurgiche, che sono pronti a condividere lo stipendio con i loro insegnanti e a considerare i loro figli come figli propri. Eppure i medici non esitano a fare operazioni e molti pochi medici hanno condiviso le loro entrate con il loro professore e adottato i suoi figli; tradiscono segreti professionali, quando si tratta dell’interesse della comunità. I problemi dell’aborto sono regolati dalla legge e una gravidanza viene interrotta, quando esiste indicazione medica.
Il giuramento nel suo tenore tradizionale è chiaramente inadeguato a offrire direttive etiche per il lavoro pratico del medico di oggi. Se una parte dei medici vi resta così ostinatamente attaccata, si spiega non con il contenuto del giuramento, bensì con il significato simbolico che ha acquisito. Esso esprime non un’etica comune al corpo medico, ma l'esprit de corps che unisce i medici; fonda miticamente l’ordine di un gruppo. Coloro che avversano l’organizzazione corporativistica della medicina sono ostili al giuramento, in quanto con la sua semi-sacralità rituale consacra un’autocomprensione della classe medica come una casta. Secondo alcuni
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critici, la funzione del giuramento ippocratico sarebbe analoga a quella dell’araldica e continuerebbe ad accreditare una concezione della storia della professione medica come di una successione quasi apostolica...
Le critiche non si rivolgono, dunque, al giuramento nella sua realtà storica, bensì all’uso che viene fatto e alla comprensione dell’identità professionale del medico che su di esso si fonda. Si rimprovera al giuramento di ostacolare il passaggio a una concezione della medicina meno impregnata di sacralità, più agganciata al gioco dei rapporti democratici, nella rispondenza rispettiva dei diritti e dei doveri. Esso rispecchia inoltre una visione della medicina centrata sulla persona del medico. Nel giuramento manca qualsiasi riferimento ai collaboratori del medico, che — ieri come oggi — sono parte essenziale di qualsivoglia impresa terapeutica. Anzi, oggi ancor più di ieri, perché la medicina è in misura determinante lavoro d’équipe, opera di collaborazione. Tuttavia la figura del medico come eroe che si staglia solitario sulla massa, vincolato da un ethos particolare, è resistente a ogni trasformazione; l’uso di un giuramento per essere introdotti nella professione contribuisce a perpetuarla. È assolutamente aliena al giuramento un’ottica relazionale, in cui emerga anche il paziente come soggetto di diritti e doveri, in un rapporto di cooperazione che non esclude il conflitto. Nel giuramento il paziente è sospinto sullo sfondo, come oggetto cui è riservata la nobile abnegazione del medico.
Non c’è, dunque, più posto nella nostra epoca per il giuramento medico, ippocratico o “revisionato” che sia? La conclusione sarebbe affrettata. Oggi siamo più che in passato acutamente coscienti delle ambiguità che possono deformare il senso del giuramento. Ciò non giustifica però nessun tentativo di ridurre l’“ethos ippocratico” a un puro flatus vocis. Esso e venuto a significare l’obbligo che ha il medico di servire non solo l’uomo in carne e ossa che si affida alle sue cure, ma l’umanità. Una dottrina utopica che ha, tra l’altro, il merito non trascurabile di evidenziare lo scarto tra l’ideale e la pratica quotidiana. Come tutte le dottrine utopiche, anche l’ethos ippocratico — e il giuramento che ne è diventato simbolo — si apre, più che sul reale, sull’orizzonte del desiderabile.
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NUOVI DIRITTI, NUOVI DOVERI IN SANITÀ
1. Quando i riferimenti tradizionali traballano
Esercitare la professione medica non ha mai comportato l’impunità. Anche se la malevolenza diffusa contro i medici ha con piacere insinuato che questi pretendono di porsi su un piano in cui è difficile chiamarli a rendere conto delle loro azioni 21, la pratica della medicina si è sostanzialmente sentita vincolata dalla volontà dei medici di mettere tutto il loro sapere a servizio della salute dei pazienti. Comunque lo si voglia formulare, questo fondamentale dovere ha tradizionalmente regolato la professione medica. Il riferimento al bene del
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paziente era la regola aurea che permetteva di valutare il comportamento del medico e fondava la sua responsabilità.
Una delle più antiche formulazioni del dovere del medico è la cosiddetta “clausola terapeutica”, contenuta nel giuramento di Ippocrate. Essa fa prendere al medico che si ispira a questo ethos il seguente impegno: “Prescriverò agli infermi la dieta opportuna che loro convenga per quanto mi sarà permesso dalle mie cognizioni e li difenderò da ogni cosa ingiusta e dannosa”.
Per verificare la sostanziale tenuta nei secoli di tale impegno, possiamo confrontare questo testo con una recente riformulazione. Essa risale al 1988. In tale data, il tradizionale incontro scientifico-commerciale di Milano-Medicina è stato inaugurato da una singolare iniziativa: il 15 novembre, nell’aula magna dell’Università degli studi di Milano veniva celebrato un simbolico “processo a Ippocrate”; intellettuali e studiosi di diverse discipline sono stati mobilitati per un’analisi in profondità del celebre giuramento e dell’etica medica che esso rappresenta. Valutati i pro e i contro di uno dei documenti più celebri della tradizione dell’Occidente, considerate tutte le riserve, le condanne sommarie e le apologie d’ufficio, si è optato alla fine per la redazione di un nuovo testo del giuramento, elaborato da un comitato di esperti del giornale Corriere medico.
Se confrontiamo la nuova versione della clausola terapeutica con l’antica, possiamo constatare che lo spirito che animava il giuramento storico resta immutato.
Accoglierò con umanità e sensibilità coloro che a me si affidano perché li curi, e parteciperò loro la mia dottrina affinché possano da uomini liberi trarre conforto e aiuto dall'arte medica, in salute e in malattia. E sarà mio impegno stare sempre vicino al paziente con pazienza pari alla sua. E stare sempre dalla sua parte, e soltanto dalla sua, con passione tutta mia.
Eserciterò la mia arte secondo un sapere che mi impegno ad accrescere costantemente, e prescriverò farmaci secondo un giudizio che manterrò puro e retto, e che sempre mi guiderà nello scegliere quei rimedi che sicuramente si siano dimostrati giovevoli. Non farò della mia arte ingiusto lucro, né anteporrò alcun interesse a quello del inalato, nemmeno se richiesto dal potere di chi amministra e governa la cosa pubblica 22.
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Sotto gli aggiornamenti, i raffinamenti stilistici e gli ampliamenti retorici, è facilmente riconoscibile in filigrana l’antico testo. L’atteggiamento di fondo che ispira l’etica medica è lo stesso: si tratta di un dovere del medico, al quale non fa riscontro, però, un diritto giuridicamente rivendicabile da parte del malato.
L’elevatezza morale del modello a cui il medico cerca di adeguare il suo comportamento dà ancora più rilievo all’essenziale asimmetria del rapporto con il paziente. Il professionista sanitario è colui che sa qual è il bene del paziente e mette tutto il suo impegno a realizzarlo. È la scienza in continuo progresso che lo guida nel percorso della terapia, mentre la coscienza gli impedisce di deviare verso la strumentalizzazione del paziente ai fini di ingiusto lucro. La duplice guida è riassunta dalla formuletta, molto amata e citata dai medici: “in scienza e coscienza”.
Il paziente, da parte sua, contribuisce a determinare l’orientamento dell’azione medica solo mediate il proprio desiderio di salute e la richiesta di aiuto; tutto il resto viene dalla medicina (ovvero: dalla scienza e dalla coscienza del medico). Il malato è il destinatario di quanto il professionista medico stabilisce per il suo bene. Egli non ha, di per sé, niente da dire in merito all’atto terapeutico, che rimane affidato a una determinazione unilaterale, la quale deve essere benevola e benefica: queste sono le condizioni che conferiscono all’azione medica la piena legittimità etica.
Sulla griglia di fondo dell'orientamento ippocratico, suona come inaudita la conclusione di un processo che si sarebbe celebrato solo pochi mesi dopo la solenne riaffermazione milanese dell’ethos medico sviluppatosi nel solco della tradizione occidentale. Nel 1990, la Corte di assise di 1° grado di Firenze condannava un chirurgo per il reato di omicidio preterintenzionale con riferimento a un intervento chirurgico conclusosi con la morte della paziente. L’addebito non gli veniva sollevato per uno dei classici motivi di ricorso penale, in quanto cioè il chirurgo avrebbe agito con imperizia, imprudenza o negligenza. La motivazione della condanna introduce dei temi nuovi rispetto alla pratica giuridica e medico-legale del passato.
I fatti sono noti. Un’anziana signora era stata ricoverata in ospedale per un intervento di asportazione transanale di un adenoma villoso,
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escludendo esplicitamente l’ipotesi di un’amputazione del retto. Durante l’esecuzione dell’intervento, invece, il chirurgo aveva proceduto in questa seconda maniera. La paziente aveva risentito profondamente dell’intervento avvenuto contro la sua volontà ed era deceduta poche settimane dopo, in condizioni fisiche e psichiche deplorevoli.
Il chirurgo è stato riconosciuto colpevole — leggiamo nella sentenza di primo grado ― per un intervento demolitivo «in completa assenza di necessità e urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari, che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dell’entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva eseguito, e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di consenso a intraprendere un trattamento chirurgico di portata così devastante».
La difesa dell’operato del chirurgo, impostata sulla necessità di un intervento finalizzato nelle intenzioni a salvare la vita della malata, è stata esplicitamente rifiutata dal tribunale. La corte, considerando l’espressa volontà della paziente che aveva consentito solo a un intervento per via transanale, riconosceva a quest’ultima «il diritto di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze». Questo atteggiamento non implica il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece — sempre secondo la corte — «la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere, o peggio dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che riguarda la qualità della vita e che, pertanto, lui e lui solo può legittimamente fare» 23.
L’orizzonte di argomentazioni e di valori in cui si muove il tribunale fiorentino — la cui sentenza, peraltro, sarà successivamente convalidata da tutte le istanze superiori di giustizia ― diverge notevolmente da quello che ha tradizionalmente regolato la pratica della
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medicina. Sono intervenuti nella nostra cultura cambiamenti importanti, che hanno spostato sensibilmente l’asse dei diritti e dei doveri, così da rendere anacronistico il criterio esclusivo del riferimento al bene del paziente, valutato dal medico “in scienza e coscienza”.
2. La medicina entra nella modernità
Possiamo sintetizzare questo cambiamento di scenario dicendo che la medicina è entrata nell’epoca moderna. La modernizzazione della medicina a cui facciamo riferimento non va intesa in quel senso ampio, che fa del moderno un sinonimo di ciò che è più recente o più aggiornato. La “modernità” è una categoria storiografica, con cui indichiamo quella particolare concezione dell’uomo e dei rapporti sociali che caratterizza l’epoca iniziata con l’illuminismo. I suoi tratti più evidenti sono la fine dell’assolutismo e l’inizio della democrazia in politica, il liberalismo economico e il razionalismo nella vita culturale.
Il riferimento a Kant è d’obbligo. Dello spirito che anima l’epoca moderna egli ha dato le descrizioni più incisive. Nel definire il ruolo che spetta all’individuo nell’illuminismo, Kant lo ha contrapposto alla minorità, intesa come incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro: «L’Illuminismo è l’uscita degli uomini dallo stato di minorità a loro dovuto. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. A loro stessi è dovuta questa minorità, se la causa di essa non è un difetto dell’intelletto ma la mancanza di decisione e del coraggio di servirsene come guida» 24.
L’invito di Kant ― Sapere aude: abbi il coraggio di servirti della ragione! ― si è progressivamente esteso a tutti gli ambiti della vita sociale. Solo la medicina ha costituito, per lungo tempo, una specie di riserva retta ancora dalle leggi dell’assolutismo, in veste di benevolo paternalismo. Nello stato di malattia l’individuo sembra riprecipitare in una condizione di “minorità” non giustificata dall’età. La maggiore
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età è una condizione labile agli occhi del paternalismo medico. Quando un individuo è malato, il diritto a usare il proprio intelletto appare sospeso: è il medico che decide quali informazioni dare al malato, il trattamento più indicato, i percorsi da fargli seguire nell’accidentato cammino verso la salute (e ancor più in quello verso la morte).
Oltre che per questa concezione dell’autonomia dell’individuo, Kant è un punto di riferimento anche per la riformulazione dell’etica in termini razionalisti. Sono numerose le versioni dell’ideale morale ricondotto nell’ambito della ragione pura; ci limitiamo a segnalare quella più frequentemente citata: «Considera l’essere umano non come un mezzo, ma anche come un fine dell’azione». È un orizzonte condiviso anche da diverse formulazione dell’etica che si ispirano al personalismo.
Il diritto alla libertà, nella sua versione di diritto all’autodeterminazione e di fare scelte in armonia con i valori autonomi della persona, è apparso sullo scenario della sanità come un diritto di seconda generazione, rispetto ai diritti fondamentali che costituiscono il tessuto delle società democratiche. L’impatto della prospettiva dei diritti sul modello tradizionalmente vigente in sanità, centrato sull’ideale umanitario e sul dovere del medico di orientare la sua azione al bene del malato, è stato particolarmente dirompente negli Stati Uniti 25.
Una delle prime formulazione del diritto del paziente alla propria autonomia anche nella cura della salute è quella che risale al giudice americano Benjamin Cardozo, in una sentenza del 1914: «Ogni essere umano adulto e capace di intendere e di volere ha il diritto di decidere che cosa viene fatto al suo corpo». Come l’albero nel seme, in questa frase è contenuto tutto lo sviluppo, avvenuto negli ultimi due decenni, verso la regolamentazione del consenso informato nella terapia e nella ricerca, e la tutela sempre più minuziosa del diritto del paziente a essere coinvolto nelle decisioni cliniche che lo riguardano.
Quale punto di arrivo finale dell’intera parabola dell’autodeterminazione in sanità possiamo indicare l’entrata in vigore,
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il 1° dicembre 1991, del Self-determination Act 26. La legge dell’autodeterminazione è uno strumento giuridico rivolto a tutelare concretamente il libero intervento dei malati nelle decisioni cliniche che li riguardano, in particolare in quelle finalizzate al prolungamento della vita. La legge dispone che ogni istituzione sanitaria che riceve pazienti assistiti dai due programmi federali Medicare e Medicaid è tenuta a fornire ai pazienti in modo sistematico, al momento della loro ammissione in ospedale, informazioni riguardo alle leggi dello stato relative alle advance directives (cioè le disposizioni previe circa il trattamento che la persona è autorizzata a impartire in previsione del caso in cui non sia più in grado di intendere e di volere: a queste i sanitari devono attenersi, in mancanza di una volontà attuale del paziente) e sollecitare l’autodeterminazione del paziente. La stessa legge obbliga gli ospedali e le case di riposo per anziani a istituire dei meccanismi per rendere edotti i pazienti dei loro diritti legali, che prevedono la facoltà di accettare o rifiutare il trattamento medico e di predisporre in modo chiaro chi è autorizzato a parlare in nome del paziente e a prendere le decisioni al posto suo.
Non tutti sono d’accordo negli stessi Stati Uniti sulla adeguatezza della legge dell’autodeterminazione a conseguire il fine che si prefigge, cioè il rispetto della volontà delle persone circa i trattamenti sanitari a cui sono sottoposte. Tuttavia è incontestabile che questa normativa americana costituisce il tentativo più coerente di portare fino alle estreme conseguenze il principio dell’informazione al paziente, per favorire la sua autodeterminazione. Se si considera che in tedesco l’informazione data al paziente si chiama Aufklärung — lo stesso termine che designa l’Illuminismo — ci rendiamo conto che con il diritto all’autodeterminazione e al consenso informato, riconosciuto per legge, lo spirito dell'Illuminismo sembra aver conquistato l’ultima provincia che si era sottratta al suo dominio.
Malgrado l’aperta o sotterranea resistenza dei medici formati nell’alveo della tradizione ippocratica, il movimento che tende a smantellare
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l’assolutismo del medico e a promuovere l’autonomia del paziente comincia a raggiungere anche l’Europa. Con l’affermarsi della concezione moderna del rapporto medico-paziente, viene sospesa per i medici l’autorizzazione a procedere a qualsiasi misura terapeutica essi ritengano andare a beneficio del malato, sulla base di un criterio medico.
La pratica dell’informazione del paziente circa diagnosi e prognosi e dell’acquisizione del consenso per gli interventi terapeutici sarà sempre meno un optional riservato a medici che decidono di assumere un atteggiamento più dialogico e umanitario nei confronti del paziente: essa diventerà un criterio per valutare la qualità della pratica della medicina. Di conseguenza, è destinato a diventare in misura crescente un obbligo deontologico e, in alcuni casi, anche legale. In tale senso indirizza anche il documento del Comitato nazionale italiano di bioetica, dedicato al consenso informato: Informazione e consenso all’atto medico (1992).
Questi sviluppi dell’autonomia del paziente e del suo diritto all’informazione potrebbero procedere anche verso uno scenario infausto. È possibile immaginare che lo spostamento d’accento sull’autonomia del paziente avvenga in un clima avvelenato dalla diffidenza e dal risentimento dei sanitari per il potere perduto. Il triste risultato di tale evoluzione sarebbe che il diritto alla libertà decisionale si tramuti nella sua caricatura: vale a dire, nel “diritto” a essere lasciato solo, proprio nel momento in cui il malato ha maggiormente bisogno della presenza benevola ed efficace di un sanitario che lo assista, non solo con la scienza ma anche con la sua completa umanità.
Lo sviluppo della richiesta di un consenso informato — magari redatto su un modulo apposito, per fini burocratici! ― potrebbe risultare così come un espediente per rifilare al malato la responsabilità di decisioni che andrebbero invece condivise, lasciando prevalere la preoccupazione esclusiva di tutelare il medico da possibili rivendicazioni del malato in sede giudiziaria. Per questo è opportuna una continua vigilanza da parte della riflessione bioetica. Non ogni innovazione nel tessuto dei rapporti di natura terapeutica, e nella conseguente ridistribuzione di diritti e doveri, va necessariamente nel senso di una medicina più umana. Le innovazioni vanno vagliate e soppesate, confrontandole con i valori sui quali esiste un consenso sociale.
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3. Diritti di “terza generazione”
Una delle formulazioni più note dei diritti umani è la dichiarazione di indipendenza degli Stati americani, redatta da Thomas Jefferson, del 1776. Tra le verità che «non hanno bisogno di essere dimostrate», viene citato il fatto che tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti e che sono dotati di certi diritti innati, dei quali non possono essere privati a nessun patto, come «il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità» (the pursuit of happiness).
Nei confronti di quest’ultimo diritto noi europei siamo stati sempre piuttosto scettici. La “ricerca della felicità” l’abbiamo lasciata all’iniziativa individuale del cittadino, chiedendo allo stato di occuparsi solo dei primi due diritti: la protezione della vita e la tutela della libertà. La ricerca della felicità non l’abbiamo scritta tra i diritti costituzionali, e tanto meno abbiamo considerato un possibile legame tra essa e la pratica della medicina. Eppure niente sembra più attuale di questa nuova frontiera di diritti, che potremmo chiamare diritti di “terza generazione”. Essi emergono insieme a una nuova richiesta di salute, non più limitata alla lotta contro la malattia, ma identificata con il pieno benessere: fisico, psichico, sociale e spirituale.
Quella che si profila è una fisionomia globale diversa della medicina, per la quale è stata coniata l’espressione “medicina del desiderio”. Il modellamento del corpo sul desiderio diventa l’elemento trainante della ricerca di salute nelle società ad alto sviluppo economico. Il ventaglio degli interventi richiesti a questo tipo di medicina è molto ampio. Comprende (tanto per nominarne alcuni) i trattamenti anti-stress ed estetici delle beauty-farms; la regolazione della fertilità oltre ― e talvolta contro ― i limiti della natura (fecondazione in vitro, programmazione del sesso del nascituro, modifiche dell’eredità genetica); la determinazione da parte del soggetto della quantità e qualità delle cure che determinano la lunghezza della vita giunta al termine.
Tra i casi che si contendono il primato nel rendere evidente quanto la dimensione soggettiva del desiderio possa confinare con l’arbitrio, possiamo citare due situazioni che si riferiscono, rispettivamente, all’inizio e alla fine della vita. La gravidanza indotta in donne che hanno superato l’età fertile si colloca sul primo segmento.
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Non solo i primi anni dopo la menopausa, ma anche quelli che potrebbero essere considerati di vecchiaia incipiente non sono più considerati tabù per i tecnici della procreatica. Il traguardo dei 60 anni è stato già superato.
Il desiderio soggettivo di un figlio, abbinato alla fattibilità tecnica della fecondazione, sono i due presupposti di questo scenario di biologia colonizzata dal desiderio. Altre variazioni sono costituite dalla richiesta di fecondazione artificiale da parte di donna nubile, che non vuole un legame matrimoniale (spesso per motivi di preferenza sessuale, in quanto lesbica); oppure la richiesta analoga con utilizzo del liquido seminale congelato del marito defunto; oppure le gravidanze per conto di terzi (allocazioni dell’utero). I tentativi di circoscrivere il dilagare di queste pratiche mediante normative a carattere legislativo o deontologico hanno dovuto affrontare tutte queste varietà di medicina riproduttiva a servizio del desiderio.
All’altro estremo, quello della fine della vita, possiamo menzionare le procedure finalizzate a tenere la morte nell’ambito degli avvenimenti sui quali si può esercitare il proprio controllo volontario. I “testamenti biologici” (living will) ne sono una delle espressioni più note. In questo modo si intende prevenire la situazione in cui non si sia in grado di controllare il corso degli interventi clinici finalizzati a prolungare la vita: per l’evenienza di stato di coma o di incapacità di intendere e di volere, si lasciano per iscritto le disposizioni alle quali ci si aspetta che il medico si attenga.
Il nodo etico di questi casi si stringe intorno all’espropriazione della decisione ― che è allo stesso tempo di appropriatezza clinica e di convenienza morale ― del medico. In una medicina di questo profilo, al sanitario sembra sottratta qualsiasi facoltà di intervenire con un proprio giudizio etico sull’azione appropriata: quello che ci si attende da lui è solo una prestazione d’opera, finalizzata a obiettivi determinati dal “cliente”. L’obiezione di coscienza rimane un’estrema barriera contro l’avanzata del desiderio in medicina, che minaccia di travolgere il modello tradizionale di rapporto medico-paziente. Questa possibilità ha avuto un esplicito riconoscimento nel caso della legge 194 del 1978, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza. È forse opportuno prendere in considerazione che possa essere invocata anche in altre circostanze, per garantire al
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sanitario il pieno rispetto dell’autonomia della sua decisione etica, che gli spetta come soggetto.
Un altro approccio di quest’ordine di problemi, dei quali abbiamo considerato il profilo etico, è quello che parte dalla loro dimensione economica. Una delle preoccupazioni crescenti delle società che, come la nostra, hanno identificato nella risposta socializzata alla domanda di salute un obiettivo di civiltà, oltre che di giustizia, riguarda l’estensione di tale risposta alle richieste: deve comprendere anche, per esempio, tutte le domande di interventi sanitari futili, ma ritenuti soggettivamente auspicabili? Mentre la spesa sanitaria, presa nella spirale dei costi crescenti, sembra sfuggire a ogni ragionevole programmazione, possiamo, in quanto stato sociale, permetterci una “medicina del desiderio”?
Gli interrogativi ci sono riproposti in maniera brutale dalla constatazione della crescente iniquità che caratterizza l’allocazione delle risorse sanitarie: accanto alle somme considerevoli spese per ottenere un concepimento tramite le tecniche di procreazione artificiale, dobbiamo registrare la mancanza di fondi per un’efficace campagna di prevenzione della sterilità; accanto ai costosissimi trapianti di organi, l’inerzia nel combattere mediante la prevenzione, con spese minori e maggiori benefici, il diffondersi delle patologie degenerative. A fronte di una richiesta crescente di consumo di prodotti correlati con la salute, la limitatezza delle risorse costringe a riconoscere che neppure la più ricca delle società è in grado di rispondere alla domanda, nella misura dei desideri. È necessario non solo elaborare procedure per filtrare la domanda con criteri di equità, ma intervenire sulla domanda stessa.
4. La cura giusta si decide in due
Su questo versante il compito dell’etica è più quello positivo di aiutare a formulare la domanda e a individuare le vie di realizzazione, che quello negativo dei divieti e proibizioni di comportamenti. Possiamo riferirci, in concreto, a due esempi: le cure domiciliari e la medicina palliativa. Sappiamo che promuovere le cure domiciliari, in alternativa all’ospedalizzazione, risponde non soltanto all’idealismo degli umanisti, ma anche alla razionalità economica: col risultato che potremmo avere una medicina di migliore qualità, più appagante per
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i diversi bisogni del malato e a minor conto. Ma il passaggio alle cure domiciliari non avverrà, se le persone interessate — malati e familiari ― non saranno educate a formulare la domanda. Diventando consapevoli che essi non sono soltanto oggetti di terapia, ma anche soggetti, possono con la loro domanda pilotare l’azione sanitaria verso soluzioni che sono migliori sia dal punto di vista del rispetto dei bisogni umani, sia sotto l’aspetto economico.
Nell’ambito delle emergenti cure palliative, possiamo parlare di un modo di fare medicina che rispetta di più la realtà, in tutti i sensi. Un malato che sta andando verso la fine e non è destinato alla guarigione ha bisogno di una medicina diversa 27. Questo richiede la capacità di saper riconoscere e diagnosticare quando fare un intervento curativo è ragionevole e quando non lo è più. Gli interventi terapeutici a oltranza, qualificati in modo denigratorio come “accanimento terapeutico”, di fatto costano una fortuna con un risultato esiguo, ma con grandi prezzi dal punto di vista umano. Le cure palliative domandano una medicina diversa, che sappia riconoscere quando l’azione curativa non è più appropriata e deve predominare un prendersi cura non modulato sulla guarigione, ma sulla palliazione. Anche qui si presuppone prima un’azione rivolta ad aiutare il paziente e la famiglia a riconoscere la diversa possibilità di intervento e a formulare la domanda.
Le cure domiciliari e la medicina palliativa sono due capitoli fondamentali per quella patologia che è destinata a diventare la più diffusa. In misura crescente la nostra società avrà a che fare non con malattie acute ― dove in poco tempo o si guarisce, o si muore — ma con malattie croniche degenerative, che richiedono di accompagnare il malato in un lungo cammino e domandano scelte in cui la ragionevolezza clinica si abbina alla capacità di considerare i benefici in rapporto ai costi, compresi quelli economici. È in questi casi che la formazione etica deve aiutare a formulare la domanda. Se i malati e i familiari sono attivi e anche rivendicativi, se cioè non prendono soltanto quello che la medicina è solita fornire, ma sono capaci di avanzare le loro richieste e inventare le soluzioni più adeguate al caso, avremo una medicina che sa offrire “la cosa giusta”.
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Da questo punto di vista, una medicina sensibile al costo economico dei trattamenti richiede dei malati più responsabili, in quanto più informati sulla diagnosi e sulla prognosi e più in grado di condividere le decisioni sul trattamento. Il malato di cui si favorisce l’autonomia non sceglie in genere la medicina eroica e costosa, che fa crescere in modo esponenziale le spese sanitarie, ma saprà meglio modulare la domanda sulle proprie necessità. Questo processo richiede un nuovo tipo di medico e di sanitario, ma anche un nuovo tipo di cittadino e di malato.
Negli Stati Uniti si usa un’immagine abbastanza evocativa per descrivere come il medico ha concepito il suo ruolo tradizionale. Il medico è immaginato come “capitano della nave”, sul quale incombono tutte le responsabilità e al quale spetta la prima e l’ultima parola: in breve, il potere assoluto 28. La medicina del futuro non potrà più essere così: non perché i pazienti e la società non sono più disposti a dare al medico la loro fiducia e non credono più nelle sue capacità terapeutiche, ma perché la medicina è orientata a rispettare in misura sempre maggiore i desideri soggettivi delle persone e queste richiederanno una pratica medica diversa, che tenga conto di altri bisogni correlati alla salute, anche se non coincidono con i bisogni clinici in senso stretto.
Ovviamente, bisogna evitare che il medico da capitano della nave si trasformi in commesso da supermercato, al quale si fanno le proprie ordinazioni e che è tenuto a soddisfare qualsiasi desiderio del cliente, senza entrare nel merito di ciò che viene richiesto. Abbiamo bisogno anche in futuro di conservare la fisionomia particolare della professione medica, in cui il medico è essenzialmente qualcuno che agisce «per il bene del paziente» 29. Ma il vero bene dell’altro il medico non può conoscerlo se non prende il tempo per ascoltare il malato e se non accetta la collaborazione di altri professionisti sanitari, che a volte sanno meglio del medico come rispondere alla pluralità dei bisogni del malato. Infermieri, psicologi, assistenti sociali e altri professionisti dovranno essere sempre più coinvolti in una medicina calibrata sul bisogno soggettivo.
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Affinché sia più esplicito che questo nuovo profilo della pratica medica non richiede solo un sanitario diverso, ma anche la formazione di un cittadino più consapevole del compito che spetta a lui nel cercare la giusta risposta in collaborazione con il sanitario, concludiamo queste considerazioni sui diritti e sui doveri in sanità con un elenco di consigli al paziente. Il “buon paziente” dei nostri tempi non è più solo colui che tace, si sottomette e segue alla lettera le prescrizioni. Essere un buon paziente oggi richiede intelligenza, volontà e un certo numero di virtù. Per questo, quando si è malati occorre ricordare che:
● un buon medico non esiste senza un buon paziente. Si può fare molto, in quanto pazienti, per migliorare lo stato della medicina, cominciando a disporsi ad essere un buon paziente. Gli orientali dicono: «Quando il discepolo è pronto, arriva il maestro»;
● il buon paziente non è quello che sopporta e tace. Parlare della propria malattia non è soltanto un diritto, ma un dovere;
● non lasciarsi intimidire dalle apparecchiature diagnostiche e dalle macchine. Anche il medico più orientato in senso tecnologico ha bisogno del racconto del paziente per capire che cosa la malattia significa per lui;
● il medico non è né il padrone, né il robot. Lui non può esigere un atteggiamento servile; il paziente non deve cercare di ridurlo a un puro esecutore dei suoi desideri;
● non fare del medico il proprio complice per piccole frodi (certificati compiacenti, ricette “facili” ecc.): quello che si potrebbe guadagnare su un piano, lo si perderebbe su quello della stima reciproca e della qualità del rapporto;
● la medicina oggi può fare molto. Qualche volta può fare perfino troppo, per esempio prolungando la vita in condizioni che il paziente considera indegne. Per prevenire queste situazioni, occorre far conoscere al medico qual è il confine accettabile tra la buona terapia e l’accanimento terapeutico;
● tra il paziente e il medico ci possono essere divergenze insanabili in materia di scelte etiche. Il medico non deve fare violenza alla coscienza del paziente, ma neppure quest’ultimo deve farla alla coscienza del medico. Esaurite tutte le possibilità del dialogo, non resta che cambiare medico (e al medico di ricusare il paziente).
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L’ECONOMIA SANITARIA NELL’ORIZZONTE DELLA BIOETICA
1. L’impatto dei problemi economici sulla sanità
Tra economia, politica e sanità si stanno intrecciando delle relazioni conflittuali, che sfociano talvolta su scelte drammatiche. Invocando l’etica in una situazione così configurata, rischiamo di farle giocare un ruolo polemico e sgradevole: quello di chi si limita a denunciare le scelte che la società e i sanitari sono costretti a fare, sotto la pressione della stretta economica, contrapponendo all’economia i valori fondamentali della convivenza sociale e gli inalienabili diritti umani.
Dall’etica ci aspettiamo, ovviamente, che sappia dire dei chiari “no” nei confronti di decisioni di politica sanitaria che appaiono in conflitto con ciò che riteniamo moralmente buono; ma non solo questo. Nella difficile situazione in cui ci troviamo, nella quale è sempre più arduo conciliare cura della salute ed economia, l’etica può e deve diventare una risorsa a cui attingere, e non solo un sistema di semafori a luce verde o rossa. È questo ampio spettro di compiti dell’etica ― da quello più negativo di controllo e di eventuale condanna di comportamenti
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a quello più elevato di animazione ideale ― che cercheremo di tener presente nelle riflessioni seguenti.
Per fissare con un esempio eloquente il tipo di problemi che le società a sviluppo economico avanzato sono costrette ad affrontare, possiamo riferirci a una decisione presa in ambito di programmazione sanitaria. Nella primavera del 1987 la Divisione di “Servizi per adulti e famiglie” della stato nord-americano dell’Oregon, incaricata di amministrare il programma statale Medicaid, si trovò costretta a decidere tra diverse opzioni. Per ragioni di tetto di bilancio, nei due anni seguenti Medicaid poteva o finanziare l’estensione delle cure mediche di base a 1500 persone che in precedenza non ne beneficiavano, oppure continuare a finanziare un programma di trapianto di organi (midollo, cuore, fegato e pancreas) per un progetto rivolto a 34 persone. La Divisione, obbligata a scegliere tra l’interruzione di un programma di trapianti per pochi e l’investimento in cure mediche di base per molti, optò per la seconda ipotesi. Le persone che avrebbero potuto beneficiare di un trapianto di organo venivano così private di una “chance”, che praticamente coincideva con un’opportunità di sopravvivenza.
Il caso dell’Oregon — riportato dal New England Journal of Medicine 30 — ha un valore esemplare che ci permette di rapportarlo anche a situazioni, come quella italiana, che presuppongono un’organizzazione sanitaria di altro tipo rispetto a quella americana. La decisione presuppone il riconoscimento che le risorse sono limitate: in una programmazione oculata non solo è necessario scegliere tra quanto si investe in sanità e quanto va destinato ad altri settori — educazione, giustizia, servizi sociali, difesa ecc. —, ma nella sanità stessa bisogna scegliere tra bisogni in conflitto. Non si può dare tutto a tutti. Per il futuro dobbiamo prevedere con sempre maggior frequenza situazioni di scelte drammatiche, come quella dell’Oregon: di fronte ai costi crescenti della sanità, nessuno stato, per quanto florida possa essere la sua economia, potrà sottrarsi a decisioni in merito a programmi da privilegiare a danno di altri, pur di alto valore umanitario.
Le limitazioni del bilancio sono reali e devono essere applicate
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anche alla sanità. Bisognerà decidere se è più auspicabile che il luogo della scelta sia quello pubblico e formale della discussione di un preventivo di bilancio, oppure se si preferisce che il razionamento delle risorse segua altri percorsi, magari clandestini, e la scelta tra i diversi bisogni sanitari venga fatta tacitamente, facendo prevalere interessi settoriali, grazie alle lobbies che hanno maggiore capacità di esercitare una pressione. Vogliamo un sistema che, nel distribuire le risorse limitate, consideri le caratteristiche del paziente, o preferiamo un sistema che adotti una specie di lotteria, scegliendo a caso? Vogliamo adottare i canoni del mercato, o preferiamo estendere i criteri di scelta che già nell’etica medica sono utilizzati in caso di “triage”?
La decisione di portare il dibattito nel foro pubblico richiede come corollario che si stabilisca chi deve prendere parte attiva al processo deliberativo che porta a suddividere le risorse limitate: se solo i tecnici dell’economia sanitaria e della programmazione, o anche i rappresentanti di associazioni e gruppi di persone interessate; che parte vi devono svolgere i cittadini stessi, malati o potenziali malati, che sono in pratica i più diretti interlocutori di ogni politica di contenimento della spesa sanitaria, e soprattutto il ruolo che spetta ai medici e altri professionisti della sanità in questo tipo di decisioni. Devono essere coinvolti, o è preferibile tenerli fuori del gioco, per garantire loro che possano continuare a svolgere la funzione insostituibile di difensori del malato, nel suo miglior interesse?
Un’altra lezione che possiamo derivare dalla deliberazione del lontano Oregon è l’esplicitazione del fatto che le scelte di economia sanitaria, tradotte nel concreto, significano opportunità di salute offerte ad alcuni cittadini e sottratte ad altri. Bisogna decidere chi favorire, e a spese di chi, ed eventualmente esplicitare con quali criteri viene fatta la scelta. Le decisioni relative alle cosiddette “allocazioni delle risorse” sono di diverso tipo, e conseguentemente di diverso impatto emotivo. Quando si tratta di micro-allocazioni (per esempio: nel caso in cui più pazienti per la loro sopravvivenza abbiano bisogno di essere ammessi in una Unità di cure intensive, chi deve essere scelto, quando le strutture sono insufficienti per tutti? Analogamente: come procedere in presenza di un numero limitato di incubatrici per numerosi neonati a rischio?), l’emozione connessa con la scelta che
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compromette la vita di una determinata persona è spontanea e dirompente. Soprattutto se non si è di fronte a un problema teorico, da discutere in una lezione di etica, ma si è coinvolti con malati verso i quali i sanitari sentono gli obblighi connessi con la loro professione, malati con i quali si e già per lo più stabilito un legame personale.
Meno evidente, ma non meno reale, e la drammaticità delle macroallocazioni. È pur vero che la distanza dalle persone concrete offre una prospettiva che mette al sicuro dall’assalto delle emozioni. In quella posizione si possono prendere più facilmente decisioni difficili. E anche commettere crimini. Lo spiegava il diabolico Orson Welles nel film di Carol Reed “Il terzo uomo” a colui che lo inquisiva sui suoi loschi traffici di penicillina avariata, con cui causava la morte di numerosi bambini: è solo questione di prospettiva e di adeguata distanza dall’oggetto. La scena si svolge su una ruota gigantesca che gira sul Prater di Vienna; vedendo gli esseri umani da quell’altezza, è più facile dare alla loro morte la stessa rilevanza morale che allo sterminio di un mucchio di formiche. Tanto più — si potrebbe aggiungere — se gli uomini li si vede dalla distanza astronomica fornita dalle tabelle delle statistiche...
Tuttavia anche le macro-allocazioni hanno a che fare con la vita e la morte di esseri umani, benché questa realtà sia più difficile da vedere. Analogamente, si può dire che il bisogno di una medicina acuta è più visibile al pubblico del bisogno così come lo vedono l’epidemiologia e la medicina preventiva. Una persona, con nome e cognome, che sta morendo ora, è più visibile di una persona sana che morirà in futuro, qualora non si adottino le misure profilattiche adeguate.
La scarsità di risorse per la sanità a livello sociale, con i conflitti connessi, è diversa da quella che si incontra nelle micro-allocazioni. Non si tratta dell’inadeguata presenza di qualche bene, rispetto al bisogno e alla domanda. Questa è la situazione che si crea quando, ad esempio, c’è un solo organo da trapiantare, mentre due pazienti sono in lista d’attesa. Se il sig. Rossi riceve l’organo, non lo riceverà il sig. Neri; per quanto drammatica sia la scelta, ciò non riguarda la sig.ra Bianchi, che è in trattamento in un altro reparto dell’ospedale per un carcinoma. Ma se ci spostiamo a un livello di considerazione
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globale della distribuzione di risorse nella società, troviamo che l’interferenza tra questi due processi terapeutici è reale, anche senza essere direttamente visibile. È la situazione per la quale Haavi Morrein ha coniato il termine “scarsità fiscale” 31.
In regime di scarsità fiscale, la decisione di usare un antiblastico costoso riguarda non solo altri pazienti che potrebbero aver bisogno di quel farmaco, ma tutti i pazienti nella loro globalità, costretti ad attingere al fondo limitato delle risorse disponibili per la sanità. Un milione speso per un paziente che ne ha bisogno, è un milione non più disponibile per qualcun altro. Poiché ogni decisione sanitaria ha un impatto economico identificabile, deve essere sottoposta a un esame che non riguarda solo l’indicazione clinica, ma anche altri parametri di valutazione. Bisognerà così considerare anche se la decisione è saggia dal punto di vista economico e se rispetta un criterio di giustizia relativamente ad altri bisogni in conflitto.
In questo orizzonte appare tutta la rilevanza morale della decisione se privilegiare i trattamenti d’avanguardia per pochi o l’accesso di un più gran numero di persone alle cure di base, come nel caso dell’Oregon. Se accettiamo il concetto di scarsità fiscale, la necessità di scelte tra interessi in conflitto si ripercuote, al di là delle grandi decisioni di programmazione, anche sui più banali dettagli dell’assistenza clinica quotidiana. Di ogni radiografia, di ogni test di laboratorio bisognerà considerare l’impatto economico in un sistema di risorse limitate; anche queste singole decisioni cliniche, quindi, andrebbero valutate confrontandole con le esigenze della giustizia, che costituiscono lo scheletro etico del sistema sanitario.
Il contenimento dei costi non pone solo un problema circoscritto nella pratica medica delle società ad alto sviluppo, ma è destinato a far esplodere un equilibrio precario tra grandi sistemi, quali sono appunto la sanità, l’economia e l’etica. «La medicina, la morale e il denaro — ha affermato Albert Jonsen introducendo un volume dedicato al costo della salute — sono vissuti per secoli in una coabitazione imbarazzante. Nella istituzione sociale della cura dei malati ognuno
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ha bisogno dell’altro, eppure ognuno è a disagio nell’ammettere la presenza dell’altro. La morale, in particolare, è in imbarazzo, quando le si chiede di spiegare perché il denaro e la medicina non sono nemici» 32.
Un’analisi storica dettagliata potrebbe ricostruire le diverse strategie messe in atto per alleviare le tensioni tra pratica medica ed economia. I medici più generosi, ad esempio, erano soliti farsi pagare dai pazienti ricchi, ma dedicavano parte del tempo e delle cure gratuitamente ai poveri; le amministrazioni statali provvedevano in vari modi alla cura degli indigenti; il sistema delle mutue e delle assicurazioni distribuiva su più numerose unità il peso economico della malattia per gli individui. Questi accomodamenti del passato non resistono più agli accresciuti disagi della coabitazione odierna tra medicina, denaro ed etica. «La medicina e la cura della salute — per riprendere ancora la formulazione del problema fatta da A. Jonsen ― sono ora esplicite imprese finanziarie. L’etica della medicina subisce al giorno d’oggi chiaramente la pressione di diverse costrizioni economiche. I medici, gli economisti e i filosofi devono imparare a capirsi meglio gli uni gli altri, e a sostituire la coabitazione imbarazzante con qualcosa che si avvicini a una chiarezza contrattuale».
In realtà, la nuova situazione ha prodotto, come prima reazione, la tendenza delle professioni sanitarie a dissociarsi dai problemi che l’economia sanitaria pone al bilancio dello stato, rifiutando di lasciarsi rimettere in discussione. Per una specie di riflesso condizionato, i medici si sono messi in posizione di difesa, in nome dei valori che tradizionalmente sottendono la pratica della medicina. Preoccupata di difendere i canoni fondamentali del comportamento professionale, la medicina ha trovato un’alleata nell’etica, determinata anch’essa a lasciare il denaro fuori della porta. Si è venuto a creare così uno spontaneo consenso sul fatto che i medici devono tenersi lontani dagli aspetti economici della sanità, perché l’introduzione di questo punto di vista nel comportamento quotidiano costituirebbe la più grave minaccia all’etica medica tradizionale.
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Quest’ultima gravita essenzialmente attorno al principio di beneficità. In parole semplici ciò significa che, nel rapporto individuale medico-paziente, il sanitario orienta la sua azione tenendo in considerazione esclusivamente il maggior beneficio del paziente che ha in cura. Il principio di beneficità richiede che il medico faccia tutto il possibile per il paziente, senza tener conto dei costi. Secondo il punto di vista tradizionale, è un’eresia affermare che il medico possa suggerire o eseguire un’azione che sia qualcosa di meno di quanto, nelle concrete circostanze, è considerato “il meglio” per il singolo malato. I medici rivendicano l’autorità morale di essere esentati dalla considerazione dei costi nella loro azione rivolta alla cura della salute.
La preoccupazione per gli aspetti economici è riservata ad altri, amministratori e politici. Decidere sulla distribuzione delle risorse è compito della società, non del medico. È la società che, attraverso gli organi istituzionali e i meccanismi appropriati, deve stabilire quanto investire nei vari servizi: cura delle malattie acute, prevenzione e ricerca; trattamento delle malattie comuni o di quelle rare; priorità agli anziani o ai giovani; dedicare risorse a coloro che sono socialmente produttivi o a coloro che non lo sono. Se i medici si occupassero di queste decisioni, snaturerebbero il carattere della loro professione.
Un secondo pilastro della moralità medica tradizionale è il riferimento alla sacralità della vita e il rispetto assoluto di essa. Negare o sottrarre un trattamento terapeutico, anche se marginalmente benefico, sulla base della considerazione dei costi della cura o anche di una valutazione razionale del rapporto costi-benefici, è considerato una violazione del principio assoluto della sacralità della vita che deve ispirare l’azione del medico. Vita umana e denaro sono due grandezze non equiparabili, che l’etica medica rifiuta di mettere su due piatti della stessa bilancia.
Oltre a questi motivi di opposizione in linea di principio a ogni progetto che voglia fare dei medici uno strumento attivo di una politica sanitaria rivolta al contenimento della spesa, ne possiamo individuare altri di profilo meno elevato, che non attingono argomentazioni dagli orientamenti più consolidati dell’etica medica. Sono quelli che
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derivano dall’autocomprensione della medicina quale professione liberale 33. Anche in una società come la nostra, che ha ampiamente socializzato le cure della salute, i medici continuano a opporre una profonda resistenza a un’integrazione della società, quale terzo pagante, nel rapporto tra medico e paziente. «Ogni volta che tratto un malato — soleva dire un illustre clinico, medico personale del cancelliere Bismarck — io sono solo con lui su un’isola deserta». Idealmente, i medici amano rappresentarsi su quell’isola, anche se marcano il cartellino dell’ospedale e ricevono lo stipendio dalla Usl.
I riflessi condizionati che spiegano la resistenza dei medici e dell’etica elaborata dalla loro professione a lasciarci coinvolgere nella preoccupazione di ridurre i costi della sanità sono comprensibili e ampiamente condivisibili. Tuttavia questo atteggiamento di disimpegno rischia di rivelarsi estremamente controproducente, dal punto di vista della stessa etica medica. Le decisioni sulle inevitabili restrizioni del bilancio saranno prese in assenza degli interlocutori qualificati e parti in causa, quali sono appunto i rappresentanti delle professioni sanitarie e della riflessione etica. Magari da puri “tecnici” dell’economia sanitaria, che rischiano di introdurre surrettiziamente dei valori nelle loro scelte, senza averne consapevolezza: ma valori puramente economici, a danno dei valori umani che l’etica professionale vuol tutelare (non a caso in inglese l’economia politica è chiamata, con amara ma azzeccata ironia, “the dismal science”, dove “dismal” equivale a “lugubre”, “deprimente”...).
Rifiutando un positivo ripensamento della triade medicina-denaro-etica, si perde un’opportunità unica di accedere a nuove prospettive che riguardano l’esercizio della professione medica, la concezione della salute, il ruolo della giustizia nella convivenza sociale. È soprattutto questo orizzonte positivo di crescita nella consapevolezza e di elaborazione di migliori risposte alla complessa situazione che stimola l’etica, in un serrato dialogo con la riflessione prodotta da coloro che esercitano le professioni sanitarie, a confrontarsi con la sfida che i problemi economici pongono oggi alla sanità.
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Per definire questo nuovo orizzonte il neologismo “bioetica” si rivela quanto mai opportuno. Sia nei suoi contenuti che nel suo metodo, la bioetica si differenzia dalla tradizionale etica medica. Per l’approccio dei problemi connessi con le scelte relative al prezzo della salute abbiamo bisogno dell’apporto di diverse discipline e pratiche professionali (e, conseguentemente, anche di diverse etiche professionali), nonché di un confronto che si ispira più all’etica civile (intesa a esprimere quel consenso sui valori e sui mezzi pratici per promuoverli che si crea nella società pluralistica e secolare) che all’etica dipendente da sistemi dottrinali. A servizio di queste esigenze si è costituita, appunto, la bioetica.
Per cogliere la rilevanza che la dimensione economica della sanità ha per la bioetica, può essere utile uno sguardo alla presenza della problematica in questione nella Encyclopedia of Bioethics 34. L’opera, pubblicata negli Stati Uniti nel 1978, accompagna le origini stesse della bioetica in quanto disciplina. Ancor più, si può dire che ha contribuito in modo determinante a costituire il nuovo campo disciplinare, quando il termine stesso “bioetica” circolava solo da pochi anni, e per di più con una semantica piuttosto incerta. Nell’Enciclopedia non è ancora presente quanto sarebbe poi emerso nel dibattito degli anni ‘80; tuttavia è già pienamente esplicitato l’interesse della bioetica per questo ordine di problemi e sono contenute “in nuce” le linee direttrici che la riflessione bioetica avrebbe poi sviluppato nel decennio seguente.
La voce “Razionamento del trattamento medico” (che assume come equivalenti il concetto economico di “razionamento” e quello più comune alla letteratura etica e medica di “allocazione”) identifica un compito importante per la bioetica: esplicitare, anche nei confronti del pubblico, i criteri utilizzati dai medici nell’assegnazione delle scarse risorse. L’accesso alla dialisi e il trapianto renale erano considerati all’epoca come paradigmatici per tutte le altre risorse limitate.
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Il ruolo assegnato all’etica non è tanto quello di identificare il sistema più perfetto, quanto piuttosto di esplicitare i criteri ingiusti o ingiustificati che spesso vengono utilizzali dai medici inconsapevolmente. La scelta tra diversi bisogni sociali e quella relativa alla preferenza da dare alla medicina preventiva o a quella curativa cominciano appena a emergere all’orizzonte dei problemi teorici.
Anche l’articolo sulla “Giustizia” affronta il tema dell’allocazione delle risorse mediche scarse. Come parametro di riferimento vengono utilizzate le esigenze che derivano dalla giustizia distributiva (come devono essere distribuite le risorse mediche tra i cittadini di uno stato democratico? Problemi di questo genere devono essere regolati da procedure di libero mercato, da un calcolo utilitaristico oppure da un diretto riferimento a un principio di giustizia che proclama un uguale diritto per ogni persona alla cura della salute indipendentemente dal reddito, dalla posizione geografica o dai servizi resi alla società?). Gli esempi sono tratti dai conflitti presi in considerazione dalla più classica etica medica nelle situazioni che prevedono un “triage” (come la scelta di quali feriti trattare e quali no da parte di un medico che si trovi a operare in un affollato ospedale da campo; oltre naturalmente le più moderne situazioni del trapianto di organi e del criterio con cui formare liste di attesa per trattamenti salva-vita). Non manca nel disegno dell’Enciclopedia neppure un abbozzo di una prospettiva assolutamente innovativa per l’etica: quella degli obblighi nei confronti delle future generazioni e del loro benessere che pongono dei vincoli al nostro uso delle risorse, all’impatto dello sviluppo sull’ambiente e alla crescita demografica incontrollata (si vedano le voci “Etica ambientale” e “Obblighi verso le generazioni future”).
Quello che la bioetica ha intravisto fin dal suo momento costitutivo, si è sviluppato come uno dei temi di maggiore carica innovativa e di più intenso pathos del dibattito sociale nel periodo susseguente alla pubblicazione nell'Enciclopedia di Bioetica. Le sue indicazioni possono essere assunte come guida nell’esplorazione dei nuovi orizzonti che si stanno aprendo su una diversa pratica della medicina, su una concezione della salute più fondata in senso antropologico e su una visione più ampia dei nostri doveri di giustizia.
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2. La revisione del ruolo medico
Il problema del contenimento dei costi della sanità, lungi dall’essere un argomento marginale della medicina, da lasciare agli amministrativi e agli specialisti dell’economia, è centrale nella pratica medica dei nostri giorni ed è destinato a indurre dei profondi cambiamenti in essa. I medici esprimono il timore che da questa trasformazione la loro professione possa uscire profondamente danneggiata, per la perdita di quei valori che tradizionalmente reggono i loro rapporti con i pazienti. Sono preoccupazioni serie, che vanno considerate attentamente: il rapporto fiduciale in medicina non è un optional, a cui possiamo rinunciare a cuor leggero. Il diritto-dovere del medico di fare ciò che è in suo potere per il migliore interesse del malato che ha in cura è un punto acquisito sul quale non si può transigere. Ciò concesso, è necessario considerare da una prospettiva più ampia e comprensiva i cambiamenti che la pratica della medicina deve affrontare.
La pressione dell’economia è destinata a darci una medicina più consapevole del costo della salute; ma non meno importante è ciò che avviene in profondità, dove si stanno modificando i legami tra la professione medica e la società, nonché il rapporto convenzionale tra medico e paziente. Solo la considerazione dell’insieme di tutti questi elementi, che agiscono in modo contestuale, ci dà la piena misura del processo di trasformazione che la medicina sta attraversando. Il mandato accordato dalla società alla professione medica sta cambiando. Per dirlo con una metafora, il medico non è più considerato come “capitano della nave” 35. Fino a una ventina d’anni fa, l’immagine corrispondeva fedelmente alla realtà. Il medico era visto come responsabile in prima persona di ciò che succedeva nell’ambito della terapia, allo stesso modo di un capitano sulla sua nave. A questa suprema responsabilità corrispondeva una delega di autorità: il medico non doveva rispondere a nessuno della pratica della sua arte. Chiamare il medico a rendere conto del processo che lo conduce a una diagnosi e delle sue scelte terapeutiche era un’evenienza del tutto
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eccezionale. Tutt’ora nella nostra società — diversamente da quanto avviene in quella americana — la citazione di un medico davanti a un tribunale penale o civile con un’imputazione di malpractice è una procedura piuttosto eccezionale.
Molti fattori concomitanti stanno però portando al cambiamento di questo paradigma. Sicuramente non è estraneo allo spodestamento del medico dal ruolo di capitano lo sviluppo di nuove professioni sanitarie, che hanno progressivamente rimesso in discussione la centralità della funzione medica. Ma probabilmente non è esagerato affermare che niente incide in modo tanto profondo ed efficace nel rapporto tra i medici e la società quanto le regolazioni economiche dell’esercizio della professione sanitaria. Nella nostra esperienza nazionale il cambiamento è avvenuto attraverso l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, col rischio, tante volte denunciato, di far assumere al medico l’atteggiamento burocratizzato del funzionario pubblico, permettendogli al tempo stesso la fuga nell’attività privata per la gratificazione economica. Ma anche le modifiche al sistema di retribuzione delle prestazioni sanitarie, legate al contenimento dei costi, stanno cambiando il rapporto tra medici e società, e la pratica stessa della medicina. È quanto è avvenuto in Italia a seguito dei decreti di riordino del sistema sanitario nazionale (D. L.vo 502/1992 e D. L.vo 517/1993).
Ciò che è avvenuto in Italia ha profonde analogie con l’evoluzione del rapporto tra medicina ed economia in un paese che ci precede, in genere, di 10-15 anni nei cambiamenti sociali: gli Stati Uniti. Per capire le vicende americane, va premessa un’annotazione generale relativa all’incidenza dei costi economici sulla cura della salute. Durante tutto lo sviluppo della medicina che va dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ‘70, i costi economici erano marginali nell’attenzione professionale dei medici ed estranei alle loro preoccupazioni morali. Quando, negli anni ‘80, la rapida crescita delle spese sanitarie ha portato al diffondersi di misure di contenimento del costo della salute, i medici si sono trovati a giocare un ruolo centrale nelle allocazioni delle risorse: un ruolo per il quale non solo non erano preparati, ma che sentivano come antitetico rispetto agli obiettivi della loro professione. Prima si sentivano liberi di offrire tutti gli interventi sanitari che potevano portare un beneficio al paziente, sapendo
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che il paziente stesso o una terza parte (il “terzo pagante”) avrebbe coperto i costi. Il problema morale sorgeva eventualmente solo nei confronti di quei cittadini in cattive condizioni economiche che, non coperti da assicurazione o da altre forme di tutela sociale, non potevano accedere alle cure sanitarie di cui avevano bisogno (ed eventualmente in presenza di nuove tecnologie — come la dialisi renale — necessariamente inferiori di numero rispetto alle richieste, e quindi causa di situazioni conflittuali relative alla micro-allocazione delle risorse). Ma, in generale, si può affermare che il medico rimaneva estraneo ai problemi dell’economia sanitaria.
L’abile mossa della politica sanitaria americana degli anni ‘80 è stata quella di introdurre i medici nelle conseguenze economiche delle loro decisioni di spesa. Le misure utilizzate per rendere i medici responsabili in senso economico hanno obbedito alle logiche sia del bastone che della carota, col ricorso cioè sia a controlli fiscali che a incentivi economici. Le manovre di controllo dell’operato del medico, prevalenti negli Stati Uniti nel corso degli anni ‘70, hanno cercato di contenere i costi imponendo limitazioni sulla disponibilità di risorse e impartendo direttive sul loro uso. Si è avuta così una restrizione diretta di opzioni mediche (per esempio, autorizzando il terzo pagante a escludere la copertura di certi servizi o interventi, come il trapianto cardiaco), oppure la richiesta di autorizzazioni preventive (l’ospedale può domandare ai medici di sottomettere a un’approvazione amministrativa il ricorso a terapie particolarmente costose). Qualunque sia la sua efficacia dal punto di vista economico, questa via si è dimostrata praticabile solo in misura molto limitata. La sua debolezza consiste nel fatto che le autorità economiche sono chiamate a emettere giudizi essenzialmente medici. È facile rendersi conto che, compromettendo la libertà del medico, si minaccia al cuore l’esercizio della medicina e non si può più garantirne l’alto livello di qualità.
Un’altra strategia, molto più efficace, adottata dalla sanità pubblica americana è stata quella di provocare il passaggio dal pagamento retrospettivo, corrisposto a medici e ospedali per le loro prestazioni sanitarie, a un finanziamento prospettico. Il pagamento è cioè correlato alla malattia, valutata secondo una media di trattamento e di spesa standardizzati. Il sistema di “Perspective Financing”, all’interno del
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quale si colloca il pagamento per Drg (“Diagnosis Related Groups”, introdotto a livello federale per il programma Medicare nell’ottobre 1983) è la più conosciuta tra queste misure. L’ospedale che adotta il Drg viene rimborsato secondo la natura della malattia trattata. Ogni paziente viene collocato in una categoria tra le 468 previste, a seconda della diagnosi principale, diagnosi secondarie, complicazioni, età, sesso e altri fattori. La formula per calcolare il rimborso comprende anche la natura e l’ubicazione dell’ospedale.
L’incentivo economico è molto chiaro: se il costo della cura è minore del rimborso, l’ospedale può intascare il profitto; se la cura è più costosa, l’ospedale ci rimette la differenza. Mentre, quindi, nel sistema di pagamento retrospettivo l’interesse dell’istituzione sanitaria è di fare il più possibile, in quelli a pagamento prospettico i rapporti si invertono: l’incentivo economico induce a offrire al paziente il meno possibile. Si tratta di un cambiamento molto efficace nel modificare sostanzialmente il comportamento sia dei medici che degli ospedali. Esso non ha conseguenze solo nello stimolare l’inventiva finanziaria degli amministratori della sanità, ma influisce anche sul modo in cui vengono fornite le cure mediche.
È un cambiamento che comporta notevoli conseguenze sul piano del rapporto medico-paziente e dell’etica relativa. La pressione esercitata sui medici per renderli responsabili del contenimento delle spese sanitarie — le loro decisioni circa quali pazienti ammettere in ospedale e per quanto tempo, quali prodotti e servizi offrire e a chi, determinano in modo decisivo la spesa ― modifica la fisionomia degli obblighi del medico nei confronti dei pazienti. Il nuovo ruolo che gli viene attribuito non è più quello di avvocato del paziente; il sanitario viene piuttosto assimilato alla “terza parte”, quella pagante, mossa da motivazioni che non sono unicamente quelle di provvedere il massimo beneficio possibile per il singolo paziente.
Le nostre società a elevato sviluppo economico dalla seconda guerra mondiale in poi hanno mirato a offrire a tutti i cittadini la più alta qualità di cure mediche, senza riguardo al costo. Considerare come unico titolo all’assistenza il bisogno, indipendentemente da altri parametri, compresa la capacità di spesa, è stato un obiettivo di grande valore civile e morale. Ora queste stesse società si vedono
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costrette dalla spirale dei costi a restrizioni nell’uso di risorse mediche ordinarie; è un cambiamento grave, ma comprensibile e ancora tollerabile. Ciò che invece costituisce una fonte di grave perplessità è il coinvolgimento diretto dei medici in questa strategia economica, in quanto il loro ruolo tradizionale nei confronti della società e dei malati ne risulta modificato.
A questo punto può subentrare anche un insidioso conflitto di interessi personali del medico. Nel sistema di pagamento diretto, la tradizionale etica professionale del medico, che lo porta a servire gli interessi del paziente, si armonizza con il proprio interesse. Se il paziente riceve tutti gli interventi sanitari di cui la medicina è capace, compresi quelli che promettono benefici solo secondari, tutt’e due ne ricavano un vantaggio. Si possono giustificare anche interventi futili, purché portino un beneficio di qualsiasi genere. Riserve morali serie possono sorgere solo quando i medici, infrangendo il principio “primum non nocere”, raccomandassero interventi che si rivelano completamente inutili o addirittura dannosi.
Ma quando il medico è incentivato a restringere il più possibile le prescrizioni, lo scenario cambia. Per nuocere al paziente, è sufficiente che il medico utilizzi il silenzio e gli sottragga informazioni. Se, per considerazioni di ordine economico, non menziona interventi o cure possibili, il paziente non può neppure prendere in considerazione l’eventualità di ascoltare il parere di un altro medico. Astenendosi dall’informare il paziente sui trattamenti terapeutici che sarebbero possibili per lui, ma appaiono sconsigliabili dal punto di vista del contenimento della spesa sanitaria, il medico infrange l’alleanza terapeutica con il paziente. A meno che non si immagini una comunicazione brutale di questo genere: «Un trapianto cardiaco sarebbe indicato nel suo caso, ma purtroppo la società non se lo può permettere!»... 36.
L’introduzione di un nuovo sistema di retribuzione per medici e
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ospedali, attuato nella sanità pubblica americana, ci permette di intravvedere, in termini estremistici e allarmanti, il possibile scollamento tra gli interessi delle istituzioni sanitarie e dei professionisti della sanità, e quelli dei malati. Ma per comprendere tutta la portata dei cambiamenti in atto nella pratica della medicina dobbiamo fare un passo ulteriore e considerare un’altra discrepanza, ancor più preoccupante: quella tra i valori del paziente e le potenzialità di intervento della medicina più avanzata. La coincidenza tra gli obiettivi soggettivi dei pazienti e le capacità della medicina si è realizzata in modo armonioso nella storia recente durante lo sviluppo che la sanità ha conosciuto negli anni ‘40 e ‘50. Le malattie paradigmatiche di quel periodo erano le affezioni infettive. Se i pazienti avevano, per esempio, la polmonite ed esisteva un farmaco efficace come la penicillina per curare la malattia potenzialmente fatale per il paziente, l’azione medica si trovava circoscritta entro tre parametri ben definiti: la conoscenza clinica del medico, la volontà del paziente di ricevere il trattamento e l’intervento medico appropriato (che si può dire, relativamente parlando, di basso costo e di alta efficacia). Tutt’e tre inclinavano nella stessa direzione e la scelta, quasi obbligata, non suscitava problemi.
Lo scenario dei nostri anni vede invece come predominanti le malattie cardiovascolari, il cancro, le affezioni degenerative e croniche. Rispetto a queste malattie, tutti i parametri sopra citati sono rimessi in discussione e la precaria armonia raggiunta nella generazione precedente è compromessa. Non esiste un consenso sugli interventi medici migliori. Non è più evidente che il paziente voglia ricevere ogni trattamento possibile, e forse neppure il trattamento standard, in quanto il suo punto di vista soggettivo, i suoi valori e le sue preferenze potrebbero essere in stridente contrasto con quanto gli viene proposto dalla prassi medica. E, infine, l’equazione tra costi ed efficacia dei trattamenti è sbilanciata a favore dei primi.
In pratica, perciò, la decisione clinica diventa molto più complessa, dovendo tenere in considerazione tutti questi elementi. Se nel trattamento di un caso di cancro bisogna procedere con un intervento chirurgico, o irradiante, o con l’esposizione del paziente a una chemioterapia tossica, oppure è preferibile rinunciare a qualsiasi intervento
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perché il beneficio del paziente è irrilevante rispetto ai costi umani o economici; quale trattamento, o astensione dal trattamento, sia più consono alle scelte di vita del paziente e favorisca maggiormente la sua autorealizzazione esistenziale sotto il segno dell’autonomia: tutte queste considerazioni, necessarie per fare oggi della “buona medicina”, sviluppano un clima di incertezza che non concede sicurezze a priori. Il ricorso all’evidenza scientifica e tecnica non basta; la clinica di oggi richiede un coinvolgimento profondo nelle aspettative personali e nei valori soggettivi che le sostengono.
Queste riflessioni relative al mutamento in corso nella pratica medica non costituiscono un diversivo rispetto ai problemi concreti di bilancio della sanità e di contenimento delle spese; ci offrono piuttosto lo sfondo che permette di intuire risposte che eccedono la dimensione economica. Lungi dal poter risolvere la situazione ricorrendo a un libro di cucina che ci dia delle ricette semplici di economia sanitaria, dobbiamo cominciare con l’ammettere la nostra inadeguatezza nello stabilire il valore medico degli interventi propri della medicina dei nostri giorni, considerando le molte variabili della condizione umana a cui la medicina si applica.
L’analisi più completa della situazione ci invia in due direzioni apparentemente opposte: un maggior ricorso alla tecnologia informatica e una rivalorizzazione del dialogo tra terapeuta e paziente. Circa l’efficacia delle misure diagnostiche e terapeutiche contenute nell’immenso arsenale della medicina moderna, il computer ci permetterà di fare il passo dalla conoscenza aneddotica, basata sull’esperienza personale, a una conoscenza scientifica effettivamente generalizzabile sull’efficacia del trattamento. Nell’altro versante, la parola renderà possibile un diverso stile comunicativo, rispetto al “mondo del silenzio” 37 che predomina ora nella relazione terapeutica. Computer e ascolto del paziente; potenziamento della tecnologia per abbattere i costosissimi sprechi dovuti a conoscenze mediche ancora troppo imprecise e tempo riservato al dialogo. Queste esigenze bizzarramente divergenti si incontrano nella pratica di una medicina rinnovata
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sulla base della centralità del paziente e sulla sua condivisione della responsabilità, non più riservata in modo esclusivo al “capitano della nave”.
La legittima preoccupazione di contenere i costi, pur essendo un problema nuovo e potenzialmente capace, come abbiamo visto, di trasformare la pratica della medicina, non è ancora il “cambiamento di paradigma” di cui la medicina dei nostri giorni ha bisogno. La grande innovazione è piuttosto la partecipazione del paziente nel processo decisionale del medico (procedura estranea, di per sé, all’ethos della medicina di stampo paternalista), da ottenere mediante l’esercizio di una reale comunicazione. Un filo diretto sembra quindi legare le strategie di riduzione del costo della salute e l’esigenza che tra medici e pazienti circoli la parola, si instauri un vera comunicazione. La pur nobile concezione tradizionale, secondo cui l’alto profilo umanitario della medicina consiste in servizi resi disinteressatamente e “silenziosamente” al paziente, deve cedere la priorità alla convinzione, non meno tradizionale, del valore del dialogo tra gli esseri umani per giungere a una composizione soddisfacente di interessi divergenti. Anche quando a dialogare siano una persona malata e coloro che si prendono cura della sua salute.
Questa prospettiva ci permette di affermare che “il più” — nel senso di interventismo terapeutico, di innovazione tecnologica e di investimento economico — non coincide sempre con “il meglio”. Anzi, i problemi bioetici più acuti dei nostri giorni sembrano provenire più dall’eccesso che dalla carenza (si vedano le situazioni etichettate come “accanimento terapeutico” e le richieste di limiti all’interventismo medico in nome della volontà soggettiva di conservare la dignità umana anche nella fase terminale della vita). Se “il più” non equivale al meglio, “il meno” non corrisponde necessariamente al peggio (in sanità come in altri ambiti: anche nell’estetica, secondo il principio stabilito dall’architettura funzionale, “il meno contiene il più”...).
Molti pazienti riceveranno benefici se la pressione esercitata dal contenimento dei costi limiterà gli interventi non necessari, ridurrà i danni iatrogeni — cioè provocati dalla medicina stessa — e punterà più sulla qualità della cura, che equivale spesso a un prezzo minore. Paradossalmente, le richieste più vive di rinnovamento della pratica
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medica attuale in termini umanistici ― dalla medicina palliativa alle cure domiciliari — sono relativamente a minor costo e a più alta gratificazione del malato. L’attenzione alla qualità delle cure, correlata all’interesse per la qualità della vita, si rivela pagante non solo in termini umanitari, ma anche economici.
«La professione medica — secondo H. Morrein ― ha messo molto impegno nel cercare quali nuove cose i medici dovevano fare ai propri pazienti. Ora chiediamo solo che comincino a cercare, con lo stesso impegno, quali cose non hanno bisogno di fare» 38. Il medico non ha bisogno di promettere al paziente di fare “qualsiasi cosa”, per promettere di fare il suo meglio. Purché la scelta del “giusto mezzo”, tra il troppo e il troppo poco, sia il risultato di una ricerca comune. L’individuazione di quel “meno” che contiene anche “il più”, e coincide quindi con “il meglio”, si può ottenere solo mediante una migliore transazione con il paziente, entro il paradigma fondamentale di una medicina del dialogo. A queste condizioni, possiamo affermare che una medicina più consapevole dei costi può andare, in ultima analisi, a beneficio del paziente. Le sfide morali connesse al contenimento della spesa sanitaria si rivelano convergenti rispetto alle spinte economiche. E probabilmente più decisive nel conseguimento dei risultati.
3. Bisogni e desideri di salute, tra economia ed etica
La resistenza ai cambiamenti che, sotto la spinta dei problemi economici che travagliano la sanità nelle società post-industriali, stanno avvenendo nella pratica della medicina, tende a cercare un autorevole alleato nell’etica medica, i cui ideali richiedono dal sanitario un impegno senza compromessi a vantaggio della salute del paziente. In qualsiasi direzione vadano le trasformazioni in corso nella sanità, questo valore è un punto fermo che va preservato. Tuttavia questa concezione non delinea in modo esauriente le esigenze morali connesse
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con la pratica della medicina e deve essere completata. Il suo punto debole è che, accanto al valore normativo della salute per il rapporto sanitario-paziente, non riconosce l’esistenza di valori in conflitto che spesso figurano nelle decisioni mediche; e soprattutto non è in grado di valutare quando la stessa ricerca della salute diventa un disvalore per l’individuo e per la società.
A fronte di una richiesta crescente di consumo di prodotti correlati con la salute, la limitatezza delle risorse costringe a riconoscere che neppure la più ricca delle società è in grado di rispondere alla domanda, nella misura dei desideri. È necessario non solo elaborare procedure per filtrare la domanda con criteri di equità, ma intervenire sulla domanda stessa. Bisognerà dunque distinguere tra bisogni autentici di salute e desideri soggettivi, assicurando una risposta sociale ai primi e lasciando i secondi al gioco del libero mercato che si regola secondo la domanda e l’offerta? Non si tratta di una domanda retorica relativa a ipotetiche misure programmatone di economia sanitaria. Essa implica piuttosto una delicata problematica filosofica, che ci limitiamo ad accennare. L’affermazione che esista una realtà qualificabile come “bisogni umani di base” divide coloro che si orientano in senso libertario dagli altri. I libertari ritengono che non si possa praticare una distinzione tra bisogni e desideri; conseguentemente rifiutano una politica che intenda provvedere a supposti bisogni sanitari di base della popolazione. Altri invece difendono come intuitiva la differenza — poniamo ― tra il trattamento di un’infezione o l’effettuazione di una vaccinazione e un intervento di chirurgia estetica. Non si tratta solo di maggiore o minore fiducia nel valore regolativo delle leggi del mercato per la convivenza umana, ma di divergenti concezioni antropologiche.
Il timore di cadere in forme ingiustificabili di paternalismo ha finora, per lo più, fatto ritenere come una via impraticabile la distinzione tra bisogni e desideri di salute. Le misure amministrative che, per contenere i costi della sanità, fanno cadere inesorabilmente la scure su alcune prestazioni (per es. sottraendo dalla copertura del Ssn alcuni importanti interventi odontoiatrici), non osano cercare una giustificazione ideologica nella distinzione tra bisogni e desideri. Eppure proprio in questo nodo problematico va individuata un’indicazione importante per la riduzione della spesa sanitaria.
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Il rifiuto della scorciatoia costituita dalle misure burocratiche e paternalistiche non vuol dire impossibilità di agire. Ci soccorre la prospettiva che abbiamo già visto come caratteristica dell’etica medica: l’orientamento al valore della salute. Orbene, una sanità sensibile ai problemi economici trova un valido aiuto in una medicina che per promuovere la salute accetta di diventare un veicolo di educazione alla salute. Un’autentica educazione alla salute, che accetti anche il compito certamente non demagogico di correggere gli aspetti antropologicamente più squilibrati della domanda di salute prevalente nella nostra società, si può rivelare come la strategia vincente per il contenimento dei costi della sanità.
Perché un compito educativo abbia una possibilità di successo, non può prescindere dalla domanda. La regola vale anche nel caso dell’educazione alla salute. Se partiamo dalla domanda di salute quale può essere documentata dagli strumenti abituali di rilevamento di opinione, possiamo ricondurre le concezioni della salute sulle quali si articola la domanda stessa a tre modelli fondamentali. Il primo intende la salute come norma di efficienza. Sganciate dai vissuti soggettivi, salute e malattia appaiono come comportamenti socialmente standardizzati. Al malato sono permessi comportamenti “devianti” rispetto alla norma (a cominciare dall’essere dispensato dal lavoro e da altre prestazioni corrispondenti al proprio status e ruolo sociale). Lo stato di salute si caratterizza come buona corrispondenza ai dati “oggettivi” delle aspettative sociali. La domanda di salute adeguata a questo modello è quella relativa all’eliminazione di sintomi sgradevoli o debilitanti, intesi come evento incidentale nella vita del soggetto. Il malato chiede alla medicina, in pratica, che lo aiuti a recuperare la norma di efficienza antecedente all’evento morboso.
Un secondo modello concepisce la salute come un’esperienza di equilibrio psicofisico. La malattia si presenta come l’alterazione di quell’equilibrio che connota in modo silenzioso e permanente l’esperienza quotidiana dello stato di salute. I sintomi, in quanto parlano alla soggettività del malato, svolgono un ruolo di indicatori dello squilibrio. Non sono semplicemente un incidente da mettere tra parentesi e da sopprimere, bensì un’occasione per individuare lo squilibrio stesso e fornirgli una risposta creativa. I sintomi vanno decodificati (non solo scientificamente spiegati, ma compresi!), collocandoli in rapporto
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con la salute del paziente intesa nel senso di un progetto esistenziale.
La malattia in questo quadro concettuale non ha un significato univoco; non è neppure necessariamente un male: può convogliare infatti un desiderio regressivo, la ricerca di “vantaggi” secondari, o può essere una soluzione di compromesso. La domanda di salute come migliore equilibrio psico-fisico richiede un lavoro di saggia interpretazione e di paziente accompagnamento del soggetto nella ricerca di equilibri più avanzati. Forse nessun autore contemporaneo è riuscito a esprimere questa concezione della salute in modo più convincente di Oliver Sacks. Nei suoi libri (particolarmente Risvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello) riesce a combinare un’attenta considerazione per il dato psicologico della malattia con un’ampia prospettiva antropologica che colloca salute e malattia nel vissuto del malato.
Un terzo modello di salute è quello che si può essenzialmente ricondurre allo stile di vita. L’accento principale qui cade non sulla dimensione sociale, né su quella psicologico-esistenziale del soggetto, bensì su quella socio-ambientale. La malattia diventa allora espressione di una cattiva interazione tra individuo e ambiente. La risposta a tale squilibrio richiede, per poter adeguare l’implicita domanda di salute, che il soggetto acquisisca una migliore competenza conoscitiva e maggiore autonomia nelle sue scelte. Negativamente, ciò implica un distanziamento polemico dalla “medicalizzazione” della salute, di cui Ivan Illich è diventato il critico più rappresentativo; positivamente, questa concezione della salute promuove una migliore interazione con l’ambiente fisico e sociale e la valorizzazione di tutti i fattori non medici della salute (lavoro, alimentazione, igiene di vita).
Se confrontiamo gli orientamenti della domanda di salute in Italia sul finire degli anni ‘80 con questi tre modelli di concezione della salute 39,
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notiamo che le richieste tendono a costituire un quadro omogeneo, allineato su una concezione antropologica sempre più sensibile agli elementi esistenziali e ambientali. Si delinea una crisi della concezione della salute che considera unicamente l’aspetto organico di essa e la riduce a norma di efficacia sociale; emerge sempre più nettamente, invece, la ricerca della salute intesa come benessere psico-fisico e come equilibrio ambientale, prodotto da una migliore qualità di vita.
Più precisamente, nell’area della salute si va distinguendo un nucleo “hard”, costituito dalla malattia grave e ad alto rischio di cronicità, e un vasto insieme sistemico a dimensione somato-psichico-ambientale. Nei confronti del primo aspetto permangono gli atteggiamenti più tradizionali (il corpo inteso come un insieme di “pezzi di ricambio”; l’apparato sanitario come struttura a cui affidarsi per la riparazione dell’organismo-macchina, privilegiando il paradigma malattia/medicina/servizi sanitari); altrimenti prevale la nuova domanda di salute, con la richiesta di promozione del benessere psico-fisico, di autotutela, di sfida e contrattazione con il medico, di combinazione autonoma dell’offerta, di sperimentazione di nuovi percorsi. Per le domande di salute che si concentrano intorno al primo polo, quello più medicalizzato, è più facile giustificare il termine “bisogni” sanitari; per quelle che gravitano intorno all’altro polo, più personalizzato ma anche più sensibile alle seduzioni del mercato e di abili promozioni del consumo, sembra più appropriato parlare di “desideri”. Un progressivo spostamento dal primo polo al secondo sembra un tratto caratteristico e inequivocabile di modernità.
Un’educazione alla salute che tenga conto di come si va strutturando la domanda nella nostra società si proporrà, come obiettivo strategico, di favorire un confronto tra desideri e bisogni di salute. I desideri devono misurarsi sui bisogni, e i bisogni devono accedere al livello del desiderio. Questo interscambio ha la funzione di una regolazione reciproca. Il processo di educazione alla salute, da cui ci aspettiamo una risposta positiva ai bilanci in rosso della sanità, attinge le sue risorse dalle dimensioni della realtà antropologica più spesso dimenticate dalla medicina scientifica e altamente tecnicizzata: il corpo come realtà vissuta; la dimensione relazionale dell’esistenza, in particolare quella che si realizza nella famiglia; il riferimento ai valori etici
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dell’individuo. Il corpo, la famiglia e l’etica si rivelano precisamente come tre preziose risorse di un’educazione alla salute che voglia dare una risposta anche ai concretissimi problemi dell’economia.
Correlare la salute al rapporto con il corpo vuol dire anzitutto, per via negativa, prendere le distanze da una concezione di educazione alla salute che si fonda su un sapere di esperti e sull’iniziazione dei profani a conoscenze specialistiche (magari utilizzando la molla della paura, come in certe campagne “terroristiche” di dissuasione dal fumo...). La salute va cercata, piuttosto, sul versante della conoscenza diretta, esperienziale, del proprio corpo. Inoltre essa non è il prodotto di un investimento socio-culturale specifico: la salute non la si “ordina”, come un bene di consumo tra gli altri. Qui si rivelano i limiti più gravi della concezione implicita nella medicina moderna, la quale opera con una “lista di controllo” dei sintomi possibili e presume di produrre la salute escludendo questi. La salute è piuttosto il risultato di un “lavoro” sul corpo che comincia dalla persona stessa, dalla sua esperienza positiva della corporeità, dall’apprendimento che provoca un sentire, ripetere, imitare determinati comportamenti rivolti alla salute e al benessere.
Il corpo gioca un ruolo molto importante nella canalizzazione del “desiderio” di salute. Nell’esplosione dell’attenzione al corpo caratteristica della nostra società, che accompagna la tendenza a privilegiare il modello di salute dove predomina l’esperienza di benessere psicofisico e di equilibrio ambientale, l’accento si sposta conseguentemente dalla morbilità al desiderio, inteso come adeguamento del corpo agli obiettivi della persona, anche in senso estetico ed edonistico. I momenti di morbilità sono respinti nel campo della medicina professionale (è il motivo per cui la malattia e la morte sono bandite dal visibile quotidiano e ghettizzate nelle istituzioni sanitarie). Il modellamento del corpo sul desiderio diventa invece l’elemento trainante della ricerca della salute.
Una delle preoccupazioni crescenti delle società che, come la nostra, hanno identificato nella risposta socializzata alla domanda di salute un obiettivo di civiltà, oltre che di giustizia, riguarda l’estensione di tale disponibilità a rispondere alle richieste: deve comprendere anche, per esempio, tutte le domande di interventi sanitari futili, ma
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ritenuti soggettivamente auspicabili? Il rifiuto, in linea di principio, di una costrizione eteronoma e moralistica del desiderio ci inclina piuttosto a valorizzare la capacità di regolazione del desiderio insita nella qualità degli scambi interpersonali e nel riferimento al consenso sociale sui valori normativi che si attua attraverso il dibattito bioetico. Qui troviamo, appunto, come risorsa la centralità delle relazioni familiari, in quanto la famiglia è un sistema “naturale” di regolazione del desiderio.
Il ruolo tradizionalmente svolto dalla famiglia nei confronti della salute dei suoi membri è entrato in crisi per l’azione congiunta di due diversi movimenti, non privi di reciproche influenze: quello dell’emancipazione femminile dai compiti esclusivamente intradomestici, che comprendevano anche le attività di assistenza ai familiari malati, e quello della medicalizzazione di tutte le vicende biologiche, dalla nascita alla morte, con conseguente subentro dell’istituzione sanitaria negli ambiti prima riservati alla cura non professionale. In conseguenza di queste trasformazioni sociali e culturali, il potenziale della famiglia per la salute rischia di essere sottovalutato. Peraltro, là dove ci si scontra con l’inadeguatezza delle istituzioni a far fronte a determinate situazioni (come lungodegenti cronici, gestione della fase terminale della malattia), la famiglia viene invece richiamata in causa, ma con un sovraccarico di aspettative e di compiti che la schiacciano. Il meccanismo di cui si servono il più sovente i sanitari per coinvolgerla nelle responsabilità di assistenza agli infermi è un grossolano ― o raffinato, secondo i casi ― processo di colpevolizzazione.
L’evoluzione delle strutture familiari costringe a modificare le linee di politica sanitaria condotta dallo stato. Le trasformazioni demografiche in atto nella nostra società — abbassamento del tasso delle nascite, aumento dei divorzi e delle famiglie mononucleari, allungamento delle speranze di vita e invecchiamento progressivo della popolazione 40 ― richiedono un investimento diverso della risorsa costituita dalla famiglia. Agli inizi della politica sociale dello stato a beneficio della famiglia e della salute l’obiettivo identificato era quello
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di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle donne e dei bambini (protezione della madre lavoratrice, proibizione di assumere i bambini). Oggi l’obiettivo più urgente è quello di promuovere nuove reti di solidarietà e di aiuto mutuo ― ivi compresa una nuova ripartizione dei compiti tra uomo e donna all’interno della famiglia —, se si vuole impedire che il peso di prendersi cura della salute dei propri membri più deboli faccia affondare la famiglia come una nave troppo carica.
In seguito a considerazioni sia umanistiche, sia di economia sanitaria, si torna oggi a riconsiderare la dimensione familiare all’interno di un sistema di cure della salute. La richiesta di inserire l’individuo malato in un gruppo sociale e familiare riconosce alla famiglia un ruolo in quanto agente di salute e un potenziale positivo di risoluzione dei problemi. Non possiamo più continuare con programmi sanitari centrati esclusivamente su istituzioni sociali che forniscono servizi.
Bisogna ormai applicare un approccio che parta dal lavoro di assistenza e promozione della salute svolto dalla famiglia: lo riconosca e lo valorizzi, ed eventualmente lo integri mediante i servizi necessari. Questi programmi dovrebbero essere elaborati in comune con le famiglie e concretizzarsi in una modifica dell’aiuto professionale, specialmente nei punti seguenti: riconoscimento del sapere e della competenza quotidiana acquisiti nel vissuto delle famiglie; accettazione di gruppi di aiuto come unità proprie; necessità che i professionisti sociali e della salute abbiano una competenza e un’esperienza che permetta loro di comunicare con la famiglia.
Va menzionato, infine, che la prospettiva della famiglia nella problematica della salute serve da correttivo all’ambivalenza dei diritti sociali legati alla persona. La famiglia garantisce che sia preso in considerazione l’interesse legittimo dei singoli membri, senza con ciò accelerare il processo negativo di tendenza all’individualismo, che spesso sfocia nell’isolamento e nella solitudine delle persone nei momenti in cui è più necessario stringere i legami sociali 41.
Una terza risorsa, infine, per una regolazione del desiderio nell’ambito
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dell’educazione alla salute è il riferimento alle esigenze etiche. Intendiamo con ciò essenzialmente l’orientamento ad assumere le decisioni che riguardano la cura della salute nell’orizzonte della responsabilità. La responsabilità ha due versanti: quello delle cause e quello delle conseguenze. Seguendo il primo, l’etica ci invita a restituire alla comprensione dei fatti patologici tutto il loro spessore antropologico. Proprio perché fatti umani, sono rivestiti di un senso che va cercato nella catena immanente delle cause.
L’interrogazione multiforme del dato morboso, secondo tutte le dimensioni dell’esistenza umana, lo sottrae all’ambito della “insensatezza” — come appare nella concezione biomedica prevalente, che spoglia il dato fisiologico da ogni altra componente antropologica — per riportarlo nel pieno registro dell’umano. Su questa interrogazione si innesta l’etica. Questa può cambiare il nostro rapporto con la malattia, purché si prefigga il compito non di incrementare oscuri sensi di colpa, sempre connessi con gli eventi morbosi, bensì di far crescere la libertà essenziale dell’uomo, che prende forma nell’assunzione della responsabilità. La malattia e la salute allora, sottratte all’interpretazione metafisica, entrano nell’ambito delle scelte che costituiscono il regno dell’umano.
La responsabilità ha anche una faccia che guarda verso il futuro. Qui troviamo come rilevanti i valori etici a cui il singolo si riferisce nella strutturazione del suo progetto di “buona vita”. L’ascolto di essi da parte del sanitario, in un vero processo comunicativo, è una parte essenziale, di ciò che immaginiamo come medicina rinnovata in senso umanistico. Appartiene a questo colloquio la ricerca comune di ciò che può essere fatto in base alle potenzialità attuali della medicina, ma anche di ciò che può e deve essere omesso. Un maggior accordo con i valori e le aspettative soggettive può rivelarsi un inaspettato alleato in un programma di medicina più economica. In altre parole, se l’educazione alla salute si estende fino a rendere le persone agenti consapevoli e responsabili degli scenari medici — in particolare di quelli che accompagnano la fase terminale della malattia — le opzioni più probabili saranno quelle che vanno non nel senso di una dispendiosa tecnologia, ma di un ricorso più contenuto ad essa, entro l’ambito però di una medicina più ricca di rapporti umani.
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4. Giustizia e solidarietà
Le considerazioni finora svolte hanno affrontato il problema della riduzione dei costi della sanità dall’angolatura che è più propria dell’etica della medicina: la preoccupazione di procurare il bene del paziente. Abbiamo visto che una rigorosa applicazione dei principi della beneficità dell’azione medica e del rispetto deH’autonomia del paziente può efficacemente contribuire a contenere i costi: una medicina di alta qualità umana è relativamente meno dispendiosa di una sanità che non si preoccupi di questo aspetto e punti esclusivamente sulla dimensione tecnologica e sulla regolazione amministrativa della ripartizione delle risorse. Anche la strategia di educazione alla salute, rivolta allo stesso scopo, è sostanzialmente contenuta entro i principi tradizionali dell’etica medica.
Ma per quanto si voglia estendere la portata dell’etica medica, questa sembra inadeguata ad affrontare nella sua interezza la questione morale della scarsità delle risorse destinate alla sanità. I costi crescenti si accompagnano a una decrescente equità: per trovare una risposta soddisfacente a questa situazione, i principi cardine dell’etica medica, fondamentalmente sensibile alla dimensione individuale e interpersonale dell’esistenza, devono integrare dei principi più orientati in senso sociale. L’etica del bene del paziente e dell’orientamento alla salute si deve confrontare con le questioni che nascono dalla giustizia e dalla solidarietà. In questa direzione, appunto, il dibattito bioetico ha avuto in questi ultimi anni sviluppi molto promettenti.
La bioetica ha trovato naturale integrare nel proprio orizzonte quella che possiamo chiamare la “bioeconomia”. Il razionamento dei beni sanitari, di per sé, non è nuovo: è comune a ogni sistema che ha più domande di servizi di quante ne possa soddisfare. Si può anche arrivare a sostenere che l’attenzione ai costi fa parte intrinsecamente della pratica della medicina e non è solo una conseguenza accidentale delle circostanze attuali. Ora più che mai, tuttavia, anche il pubblico è diventato consapevole che dobbiamo affrontare le questioni economiche connesse con la sanità. Fino a una decina d’anni fa, ogni progresso biomedico era accolto a braccia aperte e salutato incondizionatamente; ora invece non suona più come una stonatura se,
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contestualmente all’annuncio di una nuova tecnica medica o innovazione terapeutica, ci domandiamo se ce la possiamo permettere.
Questa sensibilizzazione alla dimensione economica della sanità ci autorizza a porre esplicitamente in termini di giustizia la questione della distribuzione delle risorse sanitarie. Il tema è stato il banco di prova della più recente filosofia morale, che soprattutto nell’ambito linguistico anglosassone ha conosciuto una nuova giovinezza. Le teorizzazioni filosofiche della giustizia, come quelle di John Rawls e Robert Nozick, si sono dimostrate particolarmente adatte a un confronto con la questione dell’allocazione secondo equità delle risorse sanitarie. Gli esperti di bioetica si sono inseriti nel dibattito, prospettando soluzioni diverse: alcune più inclini a prospettive liberistiche (H.T. Engelhardt), altre più orientate in senso equalitario (R.M. Yeatch).
Non è possibile dar conto in questa sede della varietà e della complessità del dibattito filosofico relativo alla giustizia in sanità. Ci limitiamo a raccogliere una sola voce, quella di Larry Churchill 42. In un libro dedicato al razionamento delle cure sanitarie in America, non risparmia critiche alle diverse tradizioni etiche che si sono confrontate con il tema della natura e della possibilità della giustizia nella distribuzione delle risorse. Il dibattito sulla sanità è stato impoverito, a suo avviso, dalla riluttanza a muoversi verso un sistema più giusto, a causa del peso che esercita sulla tradizione nazionale americana l’individualismo etico.
Qualunque sia l’orientamento filosofico, tutte le teorie danno l’impressione di poggiare su una “antropologia atomistica”, in cui i concetti fondamentali e le immagini della giustizia sono derivate da una concezione della persona come indipendente e solitaria, solo tangenzialmente correlata ad altri. Soprattutto nelle questioni della giustizia applicata all’accesso di tutti alle cure sanitarie, sembrano realizzarsi i tristi presentimenti di Alexis de Tocqueville nei confronti della “democrazia commerciale”, che isola l’individuo dai concittadini della generazione presente e da quelle future, e
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«minaccia alla fine di confinarlo interamente nella solitudine del proprio cuore».
Le teorie filosofiche della giustizia centrate sull’egocentrismo morale e carenti di un’appropriata comprensione della socialità come tratto costitutivo della natura umana non sono adeguate a rispondere alle sfide che la scarsità di risorse per la sanità sta ponendo alla nostra società, con la crisi del welfare state. In particolare, la transizione dagli anni ‘80 agli anni ‘90 ha radicalizzato i problemi della giustizia, costringendoci a ripensarli in chiave di equità generazionale. La nuova situazione ci induce a riscrivere il vocabolario fondamentale della filosofia morale, dando un significato più comunitario e meno individualistico a termini come “diritti”, “libertà”, “autonomia”.
La scarsità di risorse per la sanità non è che un capitolo di una più generale carenza di lavoro, beni, servizi, giunta a una drammatica evidenza. I problemi di ripartizione delle spese sociali — a chi dare: ai giovani o agli anziani? ― si inseriscono nella presa di coscienza di un’ingiustizia congenita nella nostra società. Cominciamo a renderci conto che le generazioni adulte degli anni ‘80 hanno vissuto al di sopra delle possibilità che una “società giusta” avrebbe dovuto loro riservare, in considerazione delle generazioni seguenti 43. Le contraddizioni della nostra società, che vive nell’abbondanza del presente senza preoccuparsi del futuro comune, ci obbligano a rimescolare le carte generazionali. Non possiamo continuare a consumare ciò che, secondo un metro di equità, deve essere destinato a chi viene dopo. Da questo punto di vista, la solidarietà abbinata alla giustizia è destinata a cambiare il volto della futura sanità, correggendo l’inflazione di ricchezza di mezzi di cui sta godendo l’attuale generazione. Dovremo imparare a iscrivere tra i nostri programmi di salute anche la rinuncia e il contenimento dei desideri entro certi limiti, in nome di una giustizia che ci chiede di non imporre pesi sproporzionati agli altri.
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I COMITATI NAZIONALI PER LA BIOETICA
1. Le Commissioni statunitensi
● Il dibattito pubblico sulla bioetica negli Stati Uniti
La creazione di comitati nazionali con il compito di studiare gli aspetti etici connessi con lo sviluppo delle scienze biologiche e mediche è un fenomeno moderno abbastanza diffuso. Il primato cronologico spetta agli Stati Uniti, i quali hanno aperto la via con due diverse commissioni; l’esempio è stato seguito nel tempo da diversi altri paesi. Noi considereremo, successivamente, i comitati francese e italiano.
I modelli hanno diversità anche vistose tra di loro. L’elemento comune è costituito dall’offerta di un forum per un dibattito morale aperto, un luogo di ricerca di un consenso morale sui problemi bioetici che travagliano le società pluraliste. Il comitato nazionale nasce dalla convinzione che la via dell’imposizione autoritaria non è praticabile: unica alternativa è il dialogo aperto, senza pregiudiziali.
Lo sfondo culturale in cui va collocata la creazione delle commissioni americane è quello dei nuovi poteri acquisiti dalle scienze biologiche e dalle pratiche mediche nei confronti della vita umana
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(dalla capacità di farla iniziare in provetta a quella di porvi fine sospendendo i trattamenti di rianimazione). Gli interrogativi etici che ne derivano — quando utilizzare questi poteri? da parte di chi e nei confronti di chi possono essere utilizzati? a quale scopo? — hanno cominciato a essere dibattuti nella società americana. I media hanno dato molto rilievo agli spettacolari progressi della medicina e ai problemi etici connessi fin dal loro presentarsi sulla scena sociale, nel periodo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta: è l’epoca dei primi trapianti di cuore e di cuori artificiali, dell’ingegneria genetica e dei bambini concepiti in provetta.
Il dibattito pubblico ha scavalcato la resistenza tradizionale dei professionisti a discutere del loro lavoro con i “profani”. Questa opposizione era particolarmente forte nell’ambito clinico, dove i medici erano ostili a lasciare che degli “estranei” venissero a discutere con loro, al letto del malato, il profilo etico delle decisioni mediche. Proprio a questo proposito diventa significativo il fatto che si comincia a ricorrere al neologismo “bioetica”, in sostituzione della tradizionale etica medica. Esso tende a sottolineare che il punto di vista emergente non si identifica con quello della professione medica e non si limita ai problemi che la pratica clinica può presentare alla coscienza del medico. Nella bioetica — precisa il documento finale redatto dalla Commissione presidenziale — confluiscono più considerazioni oltre a quelle etiche: sociali, legali, economiche, religiose. Tutto questo complesso, e non il solo studio della filosofia morale, e tanto meno la considerazione esclusiva del punto di vista della deontologia professionale, costituisce il campo della bioetica.
Altri due elementi contingenti vanno aggiunti per ricostruire il contesto in cui sono sorte le commissioni americane: lo scandalo suscitato dalle informazioni relative a violazioni di diritti umani nella ricerca e le responsabilità che gravano sulle istituzioni federali attraverso il finanziamento della ricerca. Riguardo al primo punto, bisogna ricordare che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta hanno cominciato a circolare rivelazioni di diverse procedure, contestabili dal punto di vista morale, seguite nelle ricerche con soggetti umani. Anche alcuni medici hanno preso parte a quest’opera di denuncia degli abusi.
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Con riferimento al loro ruolo si è diffusa la figura retorica del blow whistler, cioè dell’arbitro che in una partita fischia l’intervento falloso. In questo caso, però, non si trattava di azioni contro le regole, ma piuttosto di comportamenti che facevano emergere un’inaccettabile mancanza di regole. Ciò rendeva possibile — tanto per riprendere alcuni degli episodi più clamorosi — ricerche come quella condotta a Tuskegee, nell’Alabama (dove per decenni sono stati sottratti farmaci efficaci a dei contadini negri affetti da sifilide, per poter continuare a studiare la storia naturale della malattia) ; oppure la somministrazione di cellule cancerogene a pazienti dementi; o il contagio di epatite deliberatamente indotto in bambini ricoverati in un istituto per studiare le risposte immunitarie spontanee.
Gli abusi denunciati non si limitavano all’ambito biomedico. Anche ricerche condotte dalle scienze comportamentali suscitavano perplessità etiche. Basti pensare, tra tutte, alle esperienze di Stanley Milgram nell’ambito della psicologia sociale: per studiare l’acquiescenza all’autorità, erano state deliberatamente ingannate delle persone, facendo loro credere che partecipavano a una ricerca in cui era loro richiesto di infliggere forti scariche elettriche a presunti soggetti sperimentali. Il problema del rispetto dei diritti umani e il bisogno di regole che nomassero la ricerca abbracciavano quindi un settore più ampio di quello della medicina. La prima Commissione nazionale è stata, dunque, costituita per rispondere a un allarme che si andava diffondendo tra il pubblico nei confronti di una ricerca che sembrava non tenere in alcuna considerazione i fondamentali diritti umani.
L’altro elemento che spiega l’intervento a livello federale è il fatto che negli Stati Uniti il governo è il garante della ricerca, in quanto autorizza, attraverso la Food and Drug Administration (FDA), i nuovi prodotti farmaceutici e le apparecchiature mediche. In questo modo il governo è in grado di controllare anche la ricerca più strettamente privata e di imporle, come condizione per ricevere i finanziamenti, il rispetto di certe procedure.
● La Commissione nazionale (1974-1978)
Su decisione del Congresso, nel 1974 è stata creata una Commissione nazionale presso il Dipartimento federale per la salute, l’educazione
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e il benessere. La Commissione, che avrebbe lavorato fino al 1978, aveva la denominazione ufficiale di National Commission far the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Sciences. Il compito affidato alla commissione era quello di identificare i principi etici fondamentali che devono guidare le ricerche in biologia, medicina e scienze comportamentali che implicano l’uso di soggetti umani. Doveva anche sviluppare le linee-guida destinate a rendere concreta l’adesione a tali principi.
Il lavoro della Commissione nazionale ruotò attorno a quattro nodi principali:
a) i confini tra la ricerca biomedica e la pratica della medicina generalmente accettata;
b) la valutazione del criterio dei rischi-benefici nel determinare quanto sia corretta la ricerca che include dei soggetti umani;
c) linee-guida appropriate per la selezione dei soggetti sperimentali che partecipano a tali ricerche;
d) la natura e la definizione del “consenso informato” nei vari ambiti della ricerca.
Il risultato del lavoro, che occupò ben quattro anni, si è condensato in un documento: Ethics Principles and Guidelines far the Protection of Human Subiects of Research, noto anche come Rapporto Belmont (dal Belmont Conference Center della Smithsonian Institution, dove ebbe luogo una conferenza, nel febbraio 1976, che delineò le linee fondamentali del rapporto). Il documento fu pubblicato nel 1978, diventando ben presto un punto di riferimento obbligato della bioetica.
● La Commissione presidenziale (1980-1983)
I risultati molto lusinghieri ottenuti dalla Commissione nazionale e la vasta sensibilizzazione dell’opinione pubblica alla bioetica suggerirono la creazione di un nuovo organismo. Anche questo non permanente, ma ad tempus e con compiti determinati: la President's Commission far the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research. La commissione nominata dal presidente Reagan lavorò dal 1980 al 1988. Era costituita da 11 membri, provenienti da un largo ventaglio di professioni, compresi
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rappresentanti del pubblico. Poiché fu stabilito un principio di rotazione, 21 persone collaborarono durante il periodo di vita della Commissione. A presiederle fu chiamato Alexander Capron, un rinomato giurista che all’epoca insegnava nell’università della Pennsylvania.
Per tre anni la commissione ha tenuto numerose audizioni, ascoltando ricercatori ed esperti; ha inoltre condotto e fatto svolgere da ricercatori universitari inchieste su diversi problemi. La sua competenza, come risulta dal titolo, era stata ampliata dalla sperimentazione con esseri umani ai problemi etici che sorgono nella pratica medica e che riguardano la società civile (come la definizione della morte, la terapia genica, i criteri per l’allocazione delle risorse sanitarie). I suoi compiti erano, come per la precedente Commissione nazionale, essenzialmente quelli di consulenza per le istituzioni legislative e amministrative.
Non si chiedeva alla Commissione presidenziale di elaborare una teoria sistematica della bioetica, ma di considerare le implicazioni di particolari dilemmi e sviluppi nelle scienze della vita e di giungere a raccomandazioni e conclusioni pratiche. Il risultato del lavoro è imponente: una sintesi finale (Summing up) e una decina di volumi di annessi. Più che un singolo documento, la Commissione ha prodotto un insieme di pubblicazioni che occupano un intero ripiano di uno scaffale di biblioteca e costituiscono un punto di riferimento indispensabile per gli studiosi di bioetica.
Senza avere la pretesa di dire la parola definitiva su nessuno dei problemi considerati — anche per il limite intrinseco costituito dal fatto che la Commissione federale interveniva in un ambito tradizionalmente regolato in America dalle leggi statali — alcuni dei documenti della Commissione presidenziale hanno raccolto un consenso anche al di fuori degli Stati Uniti. A cominciare dal primo in ordine di tempo, dedicato alla definizione della morte (anche il parere del Comitato nazionale italiano relativo a questo problema ricalca sostanzialmente le indicazioni del documento della Commissione presidenziale americana).
I temi ai quali la Commissione ha dedicato la sua attenzione spaziano dalla ricerca (Protecting Human Subjects, Implementig Human Research Regulations e Compensating for Research Injuries) alle situazioni cruciali che possono emergere nella medicina clinica (Making Health Care
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Decisions, Deciding to Forego Life-Sustaining Treatment, Defining Death, Securing Access to Health Care), ai problemi legati alle fasi iniziali della vita, dove la genetica entra in modo dirompente (Screening and Counseling far Genetic Conditions e Splicing Life).
Il vero potere di una commissione di questo genere sta nella sua capacità di persuasione. Questa convinzione ha determinato la modalità con cui la Commissione presidenziale ha lavorato. Anzitutto la totale trasparenza (secondo Albert Jonsen, che è stato membro di ambedue le commissioni americane, la sfida che si impone a queste istituzioni è di “fare etica in pubblico”). Le audizioni della Commissione erano aperte a tutti e registrate stenograficamente; ai vari documenti è stata data risonanza nei mezzi di comunicazione di massa. Inoltre, il lavoro della commissione ha puntato con decisione verso il consenso: ha cercato il terreno comune che meglio esprimesse la visione morale e i valori comuni alla società americana di oggi (con realismo, però, va detto che alcuni temi, in particolare quello dell’aborto, non sono stati affrontati, per l’impossibilità di trovare un consenso).
La Commissione presidenziale ha mantenuto un atteggiamento di consulenza, piuttosto che di regolazione. Il suo obiettivo è stato raramente quello di raccomandare normative o legislazioni (come nel caso della definizione della morte, per la quale ha suggerito una legge uniforme); neppure ha considerato come suo ruolo di qualificare particolari comportamenti come etici, bollando altri come non etici o immorali. Ha attirato piuttosto l’attenzione su implicazioni e conseguenze che vanno tenute in considerazione nell’elaborare i propri giudizi etici.
Tuttavia la commissione non si è limitata alle posizioni più generali. Quando era possibile, ha espresso giudizi sul contenuto morale di una classe di casi, prendendo in considerazione gli interessi, i valori e le considerazioni in gioco (etica sostantiva). Quando non era possibile articolare regole di questo genere che si applicano chiaramente a tutti, o alla maggior parte, dei casi che si presentano in un certo problema, ha identificato i fattori che devono essere presi in considerazione nella decisione e il processo attraverso cui devono passare le decisioni (etica procedurale).
Nella sintesi finale, redatta al termine dei lavori — Summing up:
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Final Report on Studies of the Ethical and Legal Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, marzo 1983 —, la commissione ha considerato la natura dei suoi diversi interventi nei termini seguenti:
Alcune volte la difficoltà delle questioni considerate è stata di natura concettuale (per esempio, “definire” quando sopravviene la morte).
Altre volte la difficoltà era dovuta a conflitti tra valori contrastanti ― come valori o beni possiamo considerare la salute, la privacy, l’autonomia, la conoscenza e l’economia ― o tra parti interessate ― le parti includono: individui, famiglie, sanitari, istituzioni sanitarie e di ricerca, terze parti paganti e la società nel suo insieme ―. Le possibili permutazioni di parti e valori sono virtualmente infinite. Alcuni problemi richiedono una valutazione comparativa dei valori in conflitto per il singolo individuo: come nel contrasto tra l’autonomia individuale e il benessere individuale. Altre volte si deve fare una scelta tra gli interessi in conflitto di due o più tipi di parti. Come esempi possiamo citare la salute di un singolo paziente contro quella di altri pazienti che hanno bisogno della stessa risorsa medica scarsa e il benessere di un paziente in contrasto con quello della sua famiglia (quando, ad esempio, le spese per le cure mediche esaurirebbero le risorse finanziarie della famiglia). Benché in alcuni casi sia chiaro quali interessi e quali valori devono prevalere, la Commissione ha rilevato che la maggior parte degli ambiti che ha preso in considerazione è caratterizzata da innumerevoli “casi difficili”. In medicina e nella ricerca ― come in altri contesti — le scelte difficili si presentano quando non vi sono regole generali applicabili chiaramente e correttamente in tutti i casi.
Quando delle regole con contenuti precisi sono sembrate inadeguate per governare particolari situazioni, la Commissione ha cercato di identificare i diversi fattori che portano a decisioni eticamente difendibili e di suggerire procedure che rendono più probabile la scrupolosa considerazione di questi fattori. Perciò l’attenzione della Commissione si è spesso rivolta al processo decisionale piuttosto che a uno specifico esito corretto. A volte la Commissione ha raccomandato un quadro generale che includeva sia una procedura, sia delle direttive per applicarla, indicando dei limiti oltre i quali i risultati non possono essere considerati accettabili.
Quando i dati erano insufficienti per raccomandare una certa regolazione (policy), la Commissione ha richiesto ulteriori studi (ad esempio: quanto all’implicazione della famiglia nel processo di con
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senso del malato e ai modi di determinare la capacità dell’individuo di prendere le decisioni, ha ritenuto che sia necessario raccogliere maggiori informazioni). Altre volte si è limitata a conclusioni generali, come nel caso dei criteri equi per l’accesso alle cure sanitarie: ha stabilito solo degli standard per valutare l’accettabilità etica di certe decisioni.
Nell’insieme, le soluzioni adottate in un ambito non possono essere trasposte tali e quali in un altro. I rapporti della Commissione presidenziale non forniscono ricette esportabili in qualsiasi altro ambito culturale. Ogni problematica deve essere esaminata nel contesto delle particolari condizioni che la determinano. Le complessità che rendono difficile il rapporto tra il mondo della medicina e della ricerca e la società contemporanea possono essere, a giudizio della Commissione, ricondotte a tre nodi problematici: la limitazione delle risorse impone severi limiti al perseguimento dei valori della salute e del benessere e solleva problemi circa la giusta distribuzione di tali risorse; la tensione tra il desiderio di fidarsi degli esperti e le molte forme di incertezza che caratterizzano la scienza e la medicina; l’oscillazione tra controllo pubblico e ambito privato per le decisioni di natura clinica o sanitaria (le decisioni biomediche individuali, tradizionalmente considerate come affari privati da decidersi all’interno del rapporto medico-paziente, ora coinvolgono altre persone oltre ai familiari e agli amici, al fine di fornire una maggiore protezione ai pazienti e ai soggetti coinvolti nelle ricerche).
● Il comitato consultivo in Francia
Il primato europeo nella bioetica in quanto dibattito pubblico spetta alla Francia. Primato cronologico, anzitutto. Già nel 1983 ha visto la luce il primo organismo ufficiale: il Comitato consultivo nazionale di etica per le scienze della vita e della salute, solennemente insediato dal presidente della repubblica. Ma anche un primato difficilmente contestabile nel metodo e nell’efficacia, per la sua capacità di mobilitazione dell’opinione pubblica.
Il discorso tenuto da François Mitterrand in occasione della prima seduta del comitato (2 dicembre 1983) ha un valore fondativo. Vi
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sono delineati con chiarezza i compiti del comitato stesso, insieme al primo abbozzo di risposta alle numerose questioni che un organismo di questo genere provoca. A cominciare da quella più fondamentale di tutte, relativa alla definizione di questa nuova pratica di discorso pubblico sull’etica, che il comitato era destinato a inaugurare. Con formula magniloquente, Mitterrand forniva un primo approccio intuitivo dell’etica, chiamandola il tempo dello scambio e della riflessione, reso necessario dalla velocità del progresso biomedico e dalla tentazione dell’ignoto. Una seconda approssimazione indica la “ricerca delle ragioni” come il luogo in cui collocare l’attività etica: «Per qualche tempo abbiamo creduto che la razionalità sarebbe bastata a farci da guida, una razionalità senza cedimenti e senza dogmatismo; ed ecco che il successo stesso della scienza ci sta dando torto. La medicina e la biologia moderne cercano delle ragioni che la sola ragione non arriva sempre a cogliere».
La svalutazione della ragione (nel paese che durante la Rivoluzione ha eretto altari alla Raison!) nella sua capacità di dare risposte definitive è un’altra formula a effetto. L’alternativa indicata alle perplessità della ragione non è la fuga nell’irrazionalismo, ma il ricorso a un supplemento di ragione dialogica, che percorre le strade del confronto per arrivare a un consenso. La via del dialogo si delinea come intermediaria tra due soluzioni estreme: il dogmatismo di stato, che stabilisce le regole alle quali tutti gli uomini di scienza devono attenersi, e la rinuncia della società a intervenire, facendo ricadere sui ricercatori la responsabilità che è di tutti. Il Comitato nazionale è proposto come «luogo del dialogo, del confronto e della riflessione, e anche del consiglio».
Il consiglio è una parola-chiave. Indirizza verso una dimensione dell’etica che non è quella prescrittiva, inerente alla normatività che pur ne costituisce una componente imprescindibile. Il consiglio orienta piuttosto verso la saggezza. Il Comitato nazionale è stato più di una volta designato come un “comitato di saggi”, non senza un’intenzione ironica. Si può ancora parlare di saggezza nella nostra società? Si è a lungo creduto che razionalità e sapienza coincidessero e che il sapere generasse automaticamente la buona condotta. Ma il discorso di Mitterrand ha dato espressione al pessimismo che circonda ora la
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ragione, considerata nella sua capacità di trovare la buona condotta morale. Ciò riapre il discorso della saggezza.
Alla saggezza fanno capo le riflessioni relative alla legittimazione. Che cosa rende la voce del Comitato di etica degna di ascolto? È forse il mandato ufficiale che gli è stato conferito? La legittimità deriverà solo dalla ricezione: da parte dei singoli come dalle autorità preposte alla legiferazione. Al Comitato è affidato il compito di elaborare dei “pareri” (Avis), che non hanno valore obbligante per nessuno. Esso è costituito come «luogo di una mediazione tra la sensibilità collettiva e l’intervento del potere pubblico». L’autorità gli deriva solo dalla capacità di farsi ascoltare e accogliere: la stessa autorità che spetta alla saggezza, appunto.
La finalità esplicita assegnata al comitato è quella di dare pareri sui problemi morali sollevati dalla ricerca negli ambiti della biologia, della medicina e della salute. In linea di principio, dunque, il comitato non si pronuncia sui problemi che può porre la pratica medica al di fuori della ricerca. La struttura del Comitato nazionale francese non è perciò l’organismo appropriato per dibattere i problemi dell’etica clinica (o bedside ethics).
La costituzione del Comitato prevede, oltre al presidente nominato dal presidente della repubblica, 35 membri. Questi devono rappresentare tutti i settori della ricerca biologica e medica, nonché pensatori, filosofi e membri delle grandi “famiglie spirituali” (vale a dire: cattolici, protestanti, ebrei, musulmani e marxisti). L’omologazione tra religioni e “famiglie” (?) filosofiche suscita qualche perplessità. Ulteriori interrogativi nascono dalla preferenza data al marxismo rispetto — poniamo — all’esistenzialismo o allo strutturalismo. Ma non possiamo non cogliere l’intenzione positiva che ha suggerito la costituzione di un organismo così pluralista: la risposta sociale agli sviluppi della ricerca biologica e medica può emergere solo dalla mobilitazione di tutte le forze intellettuali, morali e spirituali della società.
Già fin dal momento della costituzione del Comitato sono stati previsti i criteri del suo rinnovamento. Metà dei membri è sostituita ogni due anni, cosicché il Comitato stesso si rinnova interamente ogni quattro. La presidenza è stata assicurata fin dall’inizio da Jean Bernard, noto scienziato e scrittore; nel 1992 è stato sostituito da Jean-Pierre
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Changeux (il neuroscienzato che ha divulgato con il suo libro L’uomo neuronale lo sviluppo attuale delle neuroscienze). L’autorità che nomina i membri cerca di evitare di trasformare i membri del Comitato in “professionisti” dell’etica. Al contrario, il Comitato svolge la funzione di pubblico foro, di luogo di scambio, in armonia con la logica universalista che vuol fare dell’etica un bene pubblico, una res communis, piuttosto che un’attività da specialisti.
L’attività principale del Comitato consultivo francese è stata, fin dall’inizio, l’elaborazione di pareri. Non l’unica, certamente. Dopo un periodo di rodaggio, centrato su un approccio più pragmatico dei problemi, i membri del Comitato hanno sentito la necessità di affrontare questioni di fondazione dell’etica, costituendo gruppi di lavoro sui presupposti di ogni riflessione etica. Uno di tali gruppi ha reso noto nel 1987 un Rapporto sulla persona umana. Successivamente due altri grandi temi sono stati affrontati da gruppi di lavoro del Comitato: “la conoscenza e i suoi limiti” e “bioetica e denaro”.
Sono soprattutto i pareri che hanno modellato l’immagine pubblica del Comitato. Alcuni, con riferimento a progetti di ricerca specifici, sollecitati dai ricercatori interessati, hanno avuto un carattere più privato; altri pareri hanno avuto una portata generale e sono stati debitamente pubblicizzati dal Comitato, talvolta insieme ai dossier che raccolgono la documentazione attinente.
Non tutti i pareri hanno la stessa rilevanza: alcuni toccano pratiche molto marginali, altri invece coinvolgono fasce amplissime della popolazione (come quando si affronta la pillola abortiva o la sperimentazione dei nuovi trattamenti sull’uomo). Tutti i pareri, comunque, hanno importanza dal punto di vista metodologico. Il modello costante su cui sono costruiti prevede dapprima l’inventario degli aspetti scientifici della questione; poi l’analisi delle opinioni etiche e degli aspetti giuridici; una considerazione delle conseguenze; infine, le direttive proposte.
Se i pareri del Comitato derivano la loro autorità morale dal consenso che riescono a ottenere, diventa cruciale la questione della diffusione dei pareri stessi, della loro conoscenza, del dibattito che si crea attorno ad essi. Per favorire la ricezione delle direttive, due iniziative si sono dimostrate preziose. La prima è stata la creazione di un
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Centro di documentazione e informazione di etica delle scienze della vita e della salute. Questo è in rapporto col Comitato, soprattutto come facilitatore dell’informazione in due sensi: fornisce la documentazione al Comitato per elaborare i suoi pareri e ne diffonde i lavori e le attività. In collaborazione con l’INSERM (Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale), il Centro di documentazione pubblica una lettera di informazione trimestrale sulle attività del Comitato; redige una bibliografia semestrale su “Etica e scienze della vita”; diffonde una rassegna stampa mensile: “Éthique”. Attraverso il Centro di documentazione è inoltre possibile utilizzare le banche dei dati bibliografici con l’informazione medica computerizzata.
Ancor più efficaci, ai fini della diffusione dei pareri del Comitato, sono stati i colloqui pubblici, che fin dall’inizio hanno accompagnato l’attività del Comitato nazionale. Organizzati dapprima solo a Parigi, i colloqui — o Giornate annuali di etica — si sono moltiplicati e decentrati. A Bordeaux, a Montpellier, a Lione, a Rennes, contemporaneamente alle assise parigine, la popolazione è stata invitata a partecipare a dibattiti incentrati sui temi discussi dal Comitato e sui quali sono stati redatti dei pareri. Se l’obiettivo istituzionalmente attribuito al Comitato è quello di contribuire a una presa di coscienza da parte della società intera circa i problemi della bioetica, le Giornate annuali di etica ― rivolte a tutta la popolazione, con particolare attenzione agli studenti ― svolgono con autorevolezza una preziosa funzione di sensibilizzazione e formazione.
3. Il comitato nazionale italiano
Anche l’Italia ha un suo Comitato nazionale di etica, anzi, di bioetica: superando le esitazioni della Francia ad adottare il neologismo, si è scelto di ricorrere al termine di conio americano per indicare la nuova disciplina e soprattutto la nuova pratica sociale di dibattere pubblicamente i problemi etici che nascono dalla pratica delle scienze biomediche, alla ricerca di una base di consenso per le normative che devono regolare la materia.
Il Comitato è stato istituito con decreto del presidente del Consiglio
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dei ministri in data 28 marzo 1990. È costituito da 40 membri — designati dai ministeri per gli Affari sociali, della Sanità e dell’Università e Ricerca scientifica ― esperti in diverse discipline (biologiche, giuridiche, medico-legali, filosofiche). Con una mozione della Camera dei deputati del 1988, il Parlamento aveva impegnato il governo a promuovere un confronto a livello nazionale sullo stato della ricerca biomedica, come punto di riferimento per future scelte legislative in grado di coniugare il progresso della scienza con il rispetto della dignità umana. Veniva così deliberato di istituire presso la presidenza del Consiglio un Comitato che fosse in grado di formulare indicazioni per eventuali atti legislativi. Si tratta, dunque, di uno strumento pre-legislativo, a disposizione della presidenza del Consiglio.
Nel decreto istitutivo del Comitato nazionale per la bioetica i compiti affidatigli sono quelli di:
― elaborare un quadro riassuntivo dei programmi, degli obiettivi e dei risultati della ricerca e della sperimentazione nel campo delle scienze della vita e della salute dell’uomo;
― formulare pareri e indicare soluzioni, anche ai fini della predisposizione di atti legislativi, per affrontare i problemi etici e giuridici che emergono con il progredire delle ricerche;
― prospettare soluzioni per le funzioni di controllo rivolte alla tutela della sicurezza dell’uomo e dell’ambiente nella produzione di materiale biologico;
― promuovere la redazione di codici di comportamento per gli operatori dei vari settori interessati;
― favorire una corretta informazione dell’opinione pubblica.
È inevitabile, nonché istruttivo, un confronto con il corrispondente Comitato nazionale francese. Analogo è il formato e quasi identici i compiti affidati: l’accento cade sulla ricerca medica e sulle pratiche sperimentali della biologia e della genetica, più che sui problemi etici della cura ordinaria della salute. Tuttavia, uno dei compiti affidati al Comitato italiano era passibile di un’evoluzione, che avrebbe potuto portarlo su un terreno che il Comitato francese si è astenuto dal calpestare. Chiedendo, infatti, di promuovere la redazione di codici di comportamento, si portava il Comitato italiano nella zona di
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confine della deontologia professionale. Gli sviluppi del Comitato italiano in questo ambito sono stati di ampia portata.
Le differenze vertono sui meccanismi di rinnovamento dei membri del Comitato (quelli italiani sono nominati senza limitazioni temporali del mandato) e sul pluralismo delle posizioni ideologiche. Niente di analogo nel Comitato italiano alla rappresentanza delle diverse “famiglie spirituali”. Il silenzio non vuol dire che il problema della rappresentanza di tutto il ventaglio delle posizioni ideologiche non esista; anzi, si tratta di un nodo importante che può incidere sulla ricezione delle indicazioni che provengono dal Comitato.
Una spia delle tensioni può essere offerta dalle contestazioni del Comitato che ne hanno accompagnato l’esistenza fin dall’inizio. Costituito per la prima volta presso il ministero della Sanità nella primavera del 1989, ha avuto vita brevissima per la caduta del governo. Ma la sua breve esistenza è stata istruttiva: appena resa nota la composizione del Comitato nazionale, si è costituita a Milano, come contraltare, una Consulta di bioetica, a carattere laico. Era la reazione di un gruppo autorevole di studiosi e di operatori che non si sentiva rappresentato dall’organismo nominato centralmente, perché lo sentiva sbilanciato in senso troppo confessionale.
Nello statuto della Consulta, le viene affidato come compito istituzionale quello di «promuovere la riflessione razionale sui problemi della bioetica ispirata a una concezione “laica” della vita, cioè ragionando etsi deus non daretur». L’ambito del suo intervento è quello dei problemi per i quali si impongono decisioni pubbliche riguardanti la liceità di diversi interventi nel campo della vita. Il focus della sua attenzione è la qualità della vita, come è emerso dal grande impegno della Consulta a promuovere la “Carta di autodeterminazione”, quale strumento per lasciare all’individuo il controllo sugli atti medici che possono essere esercitati su di lui nella fase finale della vita.
La Consulta rivendica il carattere di pluralismo che devono avere le scelte pubbliche. La via italiana al pluralismo sembra però essere la riproposta di una società a due poli. La contrapposizione tra laici e cattolici appare come un modello da cui non sappiamo staccarci nella nostra vita civile, quasi che lo scontro tra guelfi e ghibellini costituisca un imprinting definitivo dell’italianità. Eppure il
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superamento di quel modello polarizzato è precisamente la sfida che lancia il tempo attuale, chiamando tutti alla difesa della vita e del suo carattere umano, moltiplicando le risorse delle diverse tradizioni culturali in senso collaborativo e sinergico, non in senso antagonistico.
La fragilità che deriva al Comitato nazionale dalla mancata risposta all’esigenza di un superamento di schieramenti è diventata evidente con la crisi del 1994. Con decreto firmato dal Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi, il 16 dicembre 1994 veniva rinnovato, con mandato quadriennale, il Comitato nazionale per la bioetica. Aspre polemiche sono state innescate dalla mancata riconferma, quali membri del Comitato, di alcuni studiosi riconosciuti come esponenti di area laica. La composizione generale del Comitato veniva a configurarsi come spostata su una linea considerata “cattolica”. Grande rilievo è stato dato dai media alla decisione di tre influenti membri laici di rassegnare le dimissioni, motivandole con l’impossibilità di continuare proficuamente il loro lavoro.
La Consulta di bioetica ha dato della vicenda una lettura non riducibile a un semplice scontro tra maggioranza e opposizione: «Si tratta di decidere se è possibile la convivenza libera e pacifica fra persone che si riconoscono in diverse posizioni morali e che discutono in uno spirito di rispetto e di tolleranza, con l’obiettivo di accordarsi fra loro sul quadro giuridico che consente questa convivenza». L’editoriale di Bioetica, rivista della Consulta, rincarava l’analisi dei valori in gioco: «È necessario che l’antico tema della tolleranza, che sembrava ormai superato, in quanto proprio di altri periodi storici, ritorni nuovamente al centro del dibattito e che tutti, laici e cattolici, vengano richiamati a pronunciarsi su questo principio, che sta alla base delle moderne società liberali» 44. Anche se negli anni seguenti i toni della polemica si sono smorzati, gli interrogativi sul ruolo e compito del Comitato nazionale non hanno ancora ricevuto una risposta soddisfacente. Sarà probabilmente necessario che, alla luce di un decennio ormai di esperienza, si riformuli in sede legislativa che cosa il Paese si aspetta dal Comitato.
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In questa prospettiva, bisognerà in futuro dedicare maggiore attenzione e più risorse al compito di informazione dell’opinione pubblica, che il decreto costitutivo affidava al Comitato, oltre a quello di fare emergere le poste in gioco etiche delle possibili soluzioni legislative. Il Comitato sembra aver preso seriamente questo ruolo. In più di un documento si dichiara obbligato anche sul versante dell’informazione al pubblico. Così, a proposito della definizione e accertamento della morte, nel documento apposito dichiara che vuol «proferire una parola chiara, al fine di fugare ogni dubbio che dal progresso delle scienze e della tecnologia venga posto in discussione il principio assoluto della tutela della vita»; per quanto concerne la sicurezza delle biotecnologie, in un altro documento si dice consapevole del ruolo dell’opinione pubblica per la loro accettazione e quindi del dovere di fornire una «informazione attenta e obiettiva, priva di spettri scandalistici e sensazionalistici».
Tuttavia, la preoccupazione dell’approfondimento per far emergere le poste in gioco etiche in ogni possibile soluzione legislativa sembra prevalere sul compito informativo. Lo dimostra il linguaggio usato, che raggiunge livelli di alta complessità e rende i documenti poco leggibili. Anche da questo punto di vista il confronto con il Comitato nazionale francese conferisce a quest’ultimo un primato in termini di leggibilità e capacità comunicative. In Italia non è stato intrapreso niente di analogo alle Giornate nazionali di etica per pubblicizzare i pareri del Comitato. Quanto alla leggibilità, poi, se è giustificata la proposta che qualcuno ha fatto di far riscrivere i principali documenti giuridici e amministrativi da letterati, che traducano in un buon italiano i vari gerghi, questo si imporrebbe quando si tratta di testi destinati anche ad avere un impatto sull’opinione pubblica.
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LE ISTITUZIONI SOPRANAZIONALI EUROPEE
1. Una bioetica unica per l’Europa?
L’Europa che si va costruendo come realtà culturale e politica ha incontrato la bioetica sul suo cammino. Non da oggi: ancor prima che i più recenti progressi nella biologia e nella ingegneria genetica richiamassero l’attenzione sulle possibilità di abusi e azioni contrarie alla dignità umana, l’Europa ha dovuto confrontarsi con scandalose violazioni del “minimo morale”, avvenute sotto il segno delle politiche eugenetiche e delle sperimentazioni con gli esseri umani di marca nazista. Una delle barriere innalzate per prevenire quelle ricadute nella barbarie è stata la Convenzione europea sui Diritti dell’uomo, approvata nel 1950 dai 23 stati membri del Consiglio d’Europa. La Convenzione vuol essere una garanzia collettiva sul piano europeo di alcuni dei principi enunciati dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, rafforzata da un controllo internazionale giudiziario, le cui decisioni devono essere rispettate da tutti gli stati. Gli organi di controllo sono la Commissione europea dei Diritti dell’uomo e il Tribunale europeo dei Diritti dell’uomo, che hanno la loro sede a Strasburgo.
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Tuttavia, le nuove pratiche biomediche rischiano di infrangere tali diritti, pur senza superare il livello di guardia costituito dalla Convenzione. Questa afferma, ad esempio, che «il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge» (art. 2). Ma che ne è dell’embrione e del feto? Rientrano in questa tutela, oppure ne sono esclusi? Il Tribunale europeo dei Diritti dell’uomo è stato chiamato negli ultimi anni a intervenire su questioni che esulano completamente dal quadro problematico per il quale è stato istituito e per le quali i suoi strumenti giuridici appaiono quantomeno inadeguati. Per esemplificare: una signora danese nel 1983 è ricorsa al Tribunale dichiarando di essere stata sottoposta a “tortura” perché l’uso di un nuovo strumento, in una operazione volontaria di sterilizzazione che non aveva avuto successo, aveva costituito un esperimento senza il suo consenso. Un altro caso riguarda il ricorso al Tribunale per la condanna da parte del governo francese delle organizzazioni che aiutano le coppie a cercare madri “gestazionali” (altrimenti dette “uteri in affitto”). Il Tribunale è stato chiamato anche a deliberare circa i diritti di un donatore di seme olandese, il quale chiedeva che gli fosse concesso il diritto di visita nei confronti di un bambino nato dalla sua donazione.
Dalla metà degli anni ottanta si è cominciata a sentire in maniera acuta in Europa la carenza di una riflessione adeguata in bioetica, come supporto per normative omogenee. Nel 1985 i ministri della giustizia del Consiglio d’Europa si dichiaravano per un fronte comune, affermando che le leggi nazionali sarebbero state inefficaci se non ci fosse stato un allineamento dei paesi vicini. In discussione sono i tentativi di normare metodi di intervento sulla vita che, neppure immaginabili soltanto una generazione fa, stanno diventando routine quotidiana: trapianti di organi e di cellule, interventi per diagnosticare e guarire deficienze genetiche, nuovi metodi di procreazione.
La società è scossa nelle sue convinzioni più profonde. Chi non è turbato dalle questioni metafisiche o dai dubbi etici, non può non vedere almeno la dimensione economica dei problemi. In Europa ci avviciniamo a passi inesorabili al “grande mercato”, che si aprirà con la caduta delle barriere nazionali. Poiché le pratiche biomediche hanno una ricaduta economica di enorme importanza — si pensi alle biotecnologie, che permettono di sintetizzare farmaci e di creare nuove
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specie animali e vegetali — quando gli investimenti privati potranno circolare liberamente si rischia di vederli risucchiati da paesi con una legislazione più tollerante, a danno di quelli che pongono ai propri ricercatori limitazioni più severe in nome della sicurezza e dell’etica.
È una prospettiva che diventa inquietante quando si prende in considerazione la commercializzazione del corpo umano. Già alcuni anni fa ha fatto molto scalpore la notizia — che non è mai stata provata in maniera inequivocabile, ma neppure smentita — di un commercio di feti umani da alcuni paesi dell’Asia, la Corea in particolare, verso i laboratori degli Stati Uniti. Questi rumori hanno indotto a creare presso il National Institute of Health americano un ufficio per la protezione dei soggetti umani nella ricerca, che ha varato regole molto restrittive, volte a prevenire abusi.
L’Europa non è immune da sperequazioni legislative e pratiche di questo genere. Un solo esempio: in Germania la vendita di sangue e di organi è legale; in Francia è formalmente interdetta. Questa situazione provoca, a quanto sembra, un flusso di persone che in Alsazia attraversano la frontiera per andare a vendere il loro sangue al di là del Reno. Non è difficile immaginare che cosa potrebbe avvenire con l’estensione del mercato. «Se non si fa attenzione — profetizza tetro Jean Bernard, già presidente del Comitato nazionale francese — si vedranno un giorno i feti quotati in borsa».
La pressione verso una bioetica a dimensione europea ha indotto a creare presso il Consiglio d’Europa, già nel 1985, un organismo apposito: il Comitato ad hoc di esperti per le scienze biomediche ― più noto con la sigla CAHBI ― composto da scienziati, specialisti di etica e giuristi dei paesi membri del Consiglio, più alcuni osservatori (degli Stati Uniti, della Santa Sede, dell’Australia e del Canada).
L’attività del CAHBI si è svolta a lungo in una discrezione confinante quasi con la clandestinità, fino all’organizzazione del primo simposio europeo sulla bioetica (Strasburgo, dicembre 1989). La data è significativa. Nel 1989 il Consiglio d’Europa festeggiava i suoi 40 anni dalla fondazione. Il simposio sulla bioetica, a conclusione delle celebrazioni dell’anniversario, doveva sottolineare che la riflessione sulle conseguenze dei progressi delle scienze della vita sui diritti dell’uomo è nella vocazione stessa del Consiglio. Nella capitale alsaziana,
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dove si sta tessendo la fisionomia della futura Europa, 300 specialisti del settore sono stati invitati, come persone private o come rappresentanti di istituzioni, a mettere le basi di una bioetica europea.
Intervenendo al simposio di Strasburgo, Jean Bernard ha impegnato la sua autorità morale nella proposta di un Comitato europeo di etica. Anche Catherine Lalumière, segretario generale del Consiglio d’Europa, ha dichiarato in apertura del colloquio che sarebbe opportuno creare presso il Consiglio d’Europa un Comitato europeo di etica, quale emanazione dei comitati nazionali dei paesi membri. La proposta tende a generalizzare in Europa il modello della Francia, che mira molto apertamente a instaurare la propria leadership in Europa nell’ambito della bioetica. Ciò presupporrebbe una omogeneità nella situazione europea che di fatto non esiste: solo 9 paesi (Danimarca, Olanda, Norvegia, Finlandia, Italia, Lussemburgo, Malta, Francia e Portogallo) hanno un comitato nazionale di etica, diversamente concepito e funzionante.
La ricerca di una istituzione internazionale, come logico sviluppo dei comitati nazionali, è continuata dopo il simposio di Strasburgo. Nel giugno 1991 l’Assemblea parlamentare dichiarava che, malgrado la diversità degli approcci nazionali in molti temi, «sembra maturo il tempo per un’azione europea congiunta per codificare il lavoro esistente, che è valido, ma frammentato». Per verificare l’ipotesi si è tenuto a Madrid un summit europeo di bioetica (24-25 marzo 1992). Nel discorso inaugurale, Jean Bernard è tornato alla carica con la proposta di formazione di un Comitato europeo di etica: l’integrazione economica europea richiede, a suo avviso, «una struttura etica bilanciata». Ma la conclusione del summit è stata negativa: è prematuro considerare la possibilità di un comitato sopranazionale di bioetica. A un’analisi ravvicinata, gli approcci dei diversi Comitati nazionali si rivelano molto divergenti e le somiglianze solo superficiali. Alcuni comitati trattano solo di problemi di ricerca biomedica; altri hanno una visione globale che include anche l’esercizio quotidiano della medicina; alcuni vogliono influenzare la legislazione, mentre altri si limitano a emanare pareri non impegnativi per l’attività normativa del legislatore.
Il problema delle iniziative per creare una legislazione in materia di bioetica è uno dei nodi più controversi. Coloro che sono contrari
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a una legiferazione in questo ambito adducono come argomento l’insufficiente consenso esistente attualmente su alcune questioni antropologiche cruciali, come l’inizio e la fine della vita umana, lo statuto giuridico dell’embrione, l’impatto delle tecnologie riproduttive e della genetica. L’impegno comune, per esempio, a rispettare la vita umana, ha poco senso quando gli stati divergono radicalmente in questioni come l’aborto o l’uso di embrioni nella ricerca.
Coloro, peraltro, che invece sollecitano misure di regolazione giuridiche considerano i benefici di una legislazione a diversi livelli. La legge da sola non rende morale la gente; tuttavia essa influenza il comportamento morale. Non avere nessuna legge equivale all’anarchia. Tra una legge inefficace e un’abdicazione di responsabilità da parte dello stato, è meglio correre il rischio di un’eventuale inefficacia. Una legislazione anche imperfetta, inoltre, avrebbe effetti contagiosi positivi su altri paesi, che potrebbero ispirarvisi e migliorarla.
In una situazione di così grande incertezza proprio sulle questioni di fondo, non stupisce che la proposta di un Comitato europeo sia stata respinta. Il summit di Madrid ha intravisto un compromesso possibile in un organismo permanente informale, con il compito di scambiare i punti di vista e migliorare la conoscenza a livello europeo del lavoro dei comitati nazionali. Questo organismo dovrebbe altresì preparare una Convenzione sulla bioetica.
Simposi, summit, convenzioni: i progetti per una bioetica europea sono ambiziosi, in una misura che sembra inversamente proporzionale alle reali possibilità di trovare un consenso. L’Europa è una realtà che si estende dall’Irlanda alla Turchia: dal paese — per intenderci — che ha introdotto l’illegittimità dell’aborto nella costituzione e ha discusso a lungo se togliere il passaporto a una minorenne che intendeva recarsi all’estero per interrompere una gravidanza frutto di un incesto, al paese che considera per motivi religiosi l’integrità del corpo come inviolabile e si oppone perciò a qualsiasi pratica di trapianto di organi. Con differenze culturali e religiose così radicali, è difficile immaginare un cammino europeo verso la bioetica sintonizzato sullo stesso passo. Il nuovo corpo di regole — che sappia combinare norme giuridiche, morali e diritti dell’uomo per tutelare i valori minacciati dalla pratiche biomediche — è ancora lontano. Tuttavia alcune
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realizzazioni di normative comuni, portate a termine pur tra molti dibattiti e difficoltà, meritano di essere conosciute.
2. Direttive per le legislazioni nazionali
Se attualmente non si può ancora parlare di un consenso europeo sulla totalità delle questioni che si presentano nell’ambito della bioetica, si registra però un largo accordo su alcuni orientamenti di fondo. Tra gli questi ci sono alcune affermazioni di principio. Tanto per evidenziare alcuni punti che raccolgono il maggior consenso, bisogna evitare che momenti assolutamente comuni a tutti gli uomini, come la nascita, la vita e la morte, siano fonte di ingiuste diseguaglianze. Bisogna inoltre impedire che lo squilibrio dello sviluppo porti i più ricchi a sfruttare i più poveri. Dal momento, per esempio, che la domanda di organi supera largamente le disponibilità, grande è la tentazione di andare a trovare in paesi meno sviluppati o meno organizzati la “materia prima” che manca.
Considerate le possibilità di vistose ingiustizie e di violazioni dei diritti dell’uomo nell’ambito dei trapianti di organo, non stupisce che i primi interventi del Consiglio d’Europa siano stati finalizzati proprio a mettere ordine in questo settore. Due criteri concreti hanno guidato le riflessioni della commissione di esperti chiamati a elaborare le direttive: impedire che divergenze stridenti nelle legislazioni dei vari paesi creino ostacoli alla pratica dei trapianti e facilitare lo scambio alla frontiera di sostanze di origine umana ai fini di trapianto, permettendo una consegna rapida, essenziale per il buon esito dei trapianti. Di qui la Risoluzione sull’armonizzazione giuridica in materia di innesti e trapianti di sostanze di origine umana (1978) e la Raccomandazione sul trasporto e lo scambio internazionale di sostanze di origine umana (1979).
Lo stesso comitato di esperti ha studiato il caso di persone affette da turbe mentali, la cui condizione richiede l’internamento contro la loro volontà. La prospettiva è ancora quella dei diritti umani, che vanno tutelati (diritto alla libertà individuale, diritto di comunicazione, trattamento psichiatrico obbligatorio ecc.). Si tratta della Raccomandazione sulla protezione giuridica di persone affette da turbe mentali
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e collocate come pazienti involontari (1983). Gli inizi dell’ingegneria genetica e la grave preoccupazione di controllare pratiche potenzialmente gravide di pericoli per l’umanità sono alla base della Raccomandazione sulla notificazione dì lavori che implicano l’acido desossiribonucleico (DNA) ricombinato (1984).
Gli esperti di manipolazioni genetiche richiedono a ogni ricercatore che utilizza il DNA ricombinante di notificarlo all’autorità competente nel territorio del proprio stato, affinché ogni ricerca potenzialmente pericolosa per l’essere umano o per l’ambiente possa essere interrotta o riesaminata in tempo per ridurre il pericolo. La raccomandazione riflette le preoccupazioni diffuse a livello mondiale all’inizio degli anni ottanta a proposito della “bomba biologica”. Nella conferenza di Asilomar, nel 1983, si era giunti a un accordo su una moratoria relativa agli esperimenti di ingegneria genetica. Negli anni successivi molte della paure catastrofiche connesse con le manipolazioni genetiche si sono rivelate infondate e la moratoria è stata revocata.
Con la fondazione del CAHBI, nel 1985, il Consiglio d’Europa si è dato lo strumento istituzionale per condurre in maniera sistematica la sua riflessione sulla bioetica. Il CAHBI ha svolto il suo lavoro preparando, successivamente, progetti di raccomandazioni su:
― la protezione contro i danni potenziali dei microorganismi geneticamente modificati;
― la procreazione artificiale umana;
― le ricerche sull’embrione legate alle nuove tecnologie della riproduzione;
― l’eutanasia;
― la sperimentazione medica sull’uomo.
Questo Comitato è diventato così l’organo naturale del Consiglio d’Europa per preparare l’armonizzazione del diritto e delle pratiche scientifiche degli stati membri. Tuttavia, esso non è l’organo di decisione di questa armonizzazione. Il giudizio su ciò che separa l’auspicabile dal possibile spetta ai governi degli stati, riuniti in seno al Comitato dei ministri. I lavori promossi dal CAHBI hanno ampliato la base del consenso nei confronti del rispetto della dignità umana
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nelle tecniche di procreazione medicalmente assistita e della preminenza dell’interesse del nascituro. Ciò porta anche a interdire la manipolazione degli embrioni, a meno che il fine non sia quello di dar loro la nascita o di prevenire delle invalidità.
Un altro valore fondamentale che il CAHBI ha messo in rilievo è quello della famiglia, in quanto cellula fondamentale della società. Di conseguenza, nei confronti della maternità sostitutiva prevale un atteggiamento estremamente restrittivo, vicino alla proibizione assoluta. Questi orientamenti sono stati recepiti e prevalgono nelle raccomandazioni dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa relative agli inizi della vita umana.
Tra le più importanti va segnalata la Raccomandazione (26 settembre 1986, n. 1046), relativa alla Utilizzazione di embrioni e feti umani a fini diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali. A seguito di notizie diffuse dai media circa un commercio di embrioni e feti morti, soprattutto a beneficio dell’industria dei cosmetici, l’Assemblea parlamentare ha chiesto al Comitato dei ministri di invitare gli stati membri a condurre un’inchiesta. Secondo la Raccomandazione, l’embrione e il feto umano devono beneficiare del rispetto dovuto alla dignità umana. L’utilizzazione dei loro prodotti e tessuti deve essere limitata in modo rigido e regolamentata in vista di fini puramente terapeutici, che non possono essere conseguiti con altri mezzi. La creazione di embrioni umani mediante fecondazione in vitro ai fini di ricerca deve essere proibita.
Un’altra importante Raccomandazione (2 febbraio 1990, n. 1100) è stata preparata dalla Commissione della scienza e della tecnologia e approvata dall’Assemblea parlamentare. È dedicata alla Ricerca scientifica relativamente agli embrioni e ai feti umani. I parlamentari europei invitano il Consiglio d’Europa a «definire un quadro di principi a partire dal quale potrebbero essere elaborate leggi e regolamenti nazionali universali e omogenei nella misura del possibile». I governi sono invitati a elaborare delle legislazioni che partono dal presupposto che l’embrione è una forma di vita umana che va protetta: sempre, a partire dal concepimento. L’omogeneità delle legislazioni deve servire a evitare che si creino dei “rifugi genetici”, dove sia permesso ciò che altrove è proibito.
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3. La Convenzione europea per la bioetica
In un mondo che va facendosi sempre più piccolo e transitabile in tutte le direzioni; in un’Europa che punta ormai a una completa integrazione culturale, oltre che economica e politica, non è accettabile che in tema di bioetica si possa continuare a procedere in ordine sparso. Da questa convinzione è nato il progetto di una “convenzione” europea in tema di biomedicina, che orienti lo sviluppo futuro del diritto sanitario, oltre che della deontologia. Dopo quasi cinque anni di lavoro e animati dibattiti ― avvenuti, per la verità, più all’estero che in Italia ― il Comitato direttivo per la bioetica del Consiglio d’Europa (CDBI) ha proposto un testo di convenzione che è stata approvato dal Consiglio dei ministri il 19 novembre 1996 e successivamente sottoposto alla firma degli stati membri del Consiglio d’Europa. Si tratta dei 38 articoli della “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina”, più semplicemente indicata come “Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina”.
Una metà circa dei 40 paesi dell’Unione europea ha sottoscritto la Convenzione. Successivamente il documento dovrà essere ratificato dai parlamenti degli stati firmatari. Rispetto, infatti, alle “Raccomandazioni” del Consiglio d’Europa e ai “Trattati”, che si limitano alla enunciazione di principi, lo strumento della “Convenzione” trae la sua forza dal fatto che diviene vincolante per gli stati che la ratificano, obbligandoli all’applicazione delle sue norme all’interno dei singoli ordinamenti nazionali. Il significato della Convenzione non è, dunque, “esortativo” per gli stati che la sottoscrivono, bensì normativo.
Dopo le disposizioni generali di apertura, la Convenzione propone subito due grandi temi rilevanti per il nuovo rapporto tra sanitari e cittadini nell’ambito sanitario: il consenso agli atti diagnostici e terapeutici e vita privata e diritto all’informazione:
Capitolo II: Consenso
● Art. 5: Regola generale
Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato un consenso libero e informato.
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Questa persona riceve innanzi tutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi.
La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.
Art. 6: Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso
Un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare il consenso, se non per un diretto beneficio della stessa.
Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare il consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.
Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità.
Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare il consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge.
La persona interessata deve nei limiti del possibile essere associata alla procedura di autorizzazione.
Il rappresentante, l’autorità, la persona o l’organo menzionati ai paragrafi 2 e 3 ricevono, alle stesse condizioni, l’informazione menzionata all’art. 5.
L’autorizzazione menzionata ai paragrafi 2 e 3 può, in qualsiasi momento, essere ritirata nell’interesse della persona interessata.
Art. 7: Tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale
La persona che soffre di un disturbo mentale grave non può essere sottoposta, senza il proprio consenso, a un intervento avente per oggetto il trattamento di questo disturbo, se non quando l’assenza di un tale trattamento rischia di essere gravemente pregiudizievole alla sua salute e sotto riserva delle condizioni di protezione previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e di controllo e le vie di ricorso.
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Art. 8: Situazioni d'urgenza
Allorquando, in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata.
Art. 9: Desideri precedentemente espressi
desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione.
Art. 10: Vita privata e diritto all'informazione
Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata allorché si tratta di informazioni relative alla propria salute.
Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata.
A titolo eccezionale, la legge può prevedere, nell’interesse del paziente, delle restrizioni all’esercizio dei diritti menzionati al paragrafo 2.
Un commento essenziale a queste indicazioni autorevoli della Convenzione ci porta a osservare che con l’art. 5 viene consacrata, sul piano internazionale, una regola ormai ben chiara: nessun intervento può, in linea di principio, essere imposto a una persona, senza il suo consenso. L’individuo deve dunque poter liberamente dare o rifiutare il suo consenso a qualsiasi “intervento” (inteso nell’accezione più ampia, vale a dire ogni atto medico con finalità di prevenzione, di diagnosi, di terapia, di rieducazione o di ricerca). È la regola fondamentale che nasce dal riconoscimento dell’autonomia del paziente nel rapporto con i professionisti sanitari.
Il consenso del paziente può essere libero e informato solo se è dato facendo seguito a un’informazione oggettiva fornita dai sanitari responsabili relativamente alla natura e alle conseguenze possibili dell’intervento previsto o alle alternative. Il secondo paragrafo menziona gli elementi più importanti relativi all’informazione che deve precedere l’intervento. I pazienti devono essere informati in particolare sui miglioramenti che possono risultare dal trattamento, sui rischi
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che comporta (natura e grado di probabilità), nonché del suo costo. Quanto ai rischi dell’intervento o delle sue alternative, l’informazione dovrebbe riguardare non solo i rischi inerenti al tipo di intervento previsto, ma anche i rischi riferiti alle caratteristiche individuali di ogni persona (come l’età o la presenza di altre patologie). Si deve rispondere in maniera adeguata alle richieste di informazione complementare avanzate dai pazienti.
L’informazione deve essere formulata in un linguaggio comprensibile alla persona che subisce l’intervento medico. Il paziente deve essere messo in grado di misurare, mediante un linguaggio che sia alla sua portata, l’obiettivo e le modalità dell’intervento quanto alla sua necessità o alla semplice utilità, confrontandolo con i rischi, con i disagi o con le sofferenze provocate.
Il consenso può rivestire forme diverse: può essere esplicito o implicito, verbale o in forma scritta. L’art. 5 della Convenzione ha una portata generale e vuol abbracciare situazioni molto diverse tra loro, per cui non esige una forma particolare. Questa dipenderà dalla natura dell’intervento. È generalmente condiviso che il consenso esplicito sarebbe inappropriato per i molteplici interventi della medicina quotidiana. Questo consenso è dunque spesso implicito, purché l’interessato sia sufficientemente informato. Tuttavia in certi casi ― per esempio quando si tratta di interventi diagnostici o terapeutici invasivi ― si può esigere un consenso espresso. Per quanto riguarda la ricerca, l’art. 16 della stessa Convenzione richiede che ci sia sempre un consenso espresso e specifico (la persona che si presta a una ricerca deve essere «informata dei suoi diritti e delle garanzie previste dalla legge per la sua protezione»).
Il terzo paragrafo dell’art. 5 esplicita che la libertà di consenso implica la possibilità per l’interessato in qualsiasi momento di ritirare il suo consenso. La casistica medica può prevedere situazioni in cui il ritiro del consenso del paziente nel caso di un’operazione potrebbe non essere rispettato, se ciò comportasse un grave pericolo per la salute dell’interessato (in questi casi prevalgono le norme e gli obblighi professionali). Inoltre bisogna considerare l’art. 7 (Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare il consenso) l’art. 8 (Situazioni d’urgenza) e l’art. 9, che definiscono ipotesi nelle quali l’esercizio
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dei diritti contenuti nella Convenzione, compresa la necessità del consenso, può subire una restrizione.
L’informazione è un diritto del paziente, ma ― come prevede l’art.10 ― la sua eventuale volontà di non essere informato vede essere rispettata. Ciò non dispensa tuttavia dalla necessità di ricercare il consenso all’intervento proposto al paziente.
Sulla trama di queste osservazioni di contenuto va inserita qualche annotazione di merito. È anzitutto notevole il fatto che un accordo di fondo di questo genere sia stato realizzato. Non tutti sono d’accordo con la portata stessa della Convenzione, in particolare coloro che avrebbero desiderato delle prese di posizione più marcate su problemi molto dibattuti, come l’ambito della procreazione medicalmente assistita, la clonazione degli embrioni o l’ingegneria genetica. Ma un consenso europeo su una base così ampia di principi ai quali devono ispirarsi le legislazioni nazionali è indice di una notevole maturazione nell’ambito della bioetica.
Come ha osservato Carlos De Sola, segretario del CDBI, «a causa delle difficoltà di trovare un ampio accordo su questa questione molto complessa, l’esistenza stessa della Convenzione è un successo. Alcuni possono trovare questo testo insufficiente. Diciamolo chiaramente: è vero che è incompleto su molti aspetti. Tuttavia contiene una serie di principi e di regole (come la preminenza della persona sulla scienza, il rispetto dell’autonomia della persona, la protezione della sua integrità e della sua dignità, la confidenzialità dell’informazione medica e genetica, la non-commercializzazione del corpo umano...) che costituiscono un corpus giuridico coerente, vero diritto comune europeo della bioetica».
Se è vero che la Convenzione merita l’appunto che i suoi contenuti sono stati stabiliti per sottrazione, affidando i punti più controversi a protocolli addizionali ― sono già in preparazione protocolli relativi alla ricerca medica, al trapianto di organi, alla protezione degli embrioni e di feti umani, alla genetica ― viene ancor più evidenziato il valore della base su cui si è trovato un consenso. Il ruolo attribuito all’informazione da dare al paziente e alla sua partecipazione attiva al processo clinico fa parte appunto di questo nucleo. Nel corso dell’elaborazione della Convenzione ― e soprattutto nei dibattiti di assemblea
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parlamentare ―è stato sollevato il dubbio che l’enfasi posta sul diritto di autodeterminazione, che implica la libertà decisionale del paziente, mettesse in ombra la libertà professionale e di coscienza del medico. Il concetto di “obiezione di coscienza” (o clausula di coscienza) in termini giuridici non è stato espressamente accolto nell’articolato, nel timore che l’appello a tale clausula potesse essere abusato dal medico per sottrarsi indiscriminatamente a obblighi assistenziali gravosi, anche al di fuori del genuino “caso di coscienza”. L’obiezione di coscienza è stata ritenuta implicita nello schema “contrattualistico” che domina l’orientamento prevalente della medicina contemporanea 45.
Concorda con questa interpretazione la valutazione della Convenzione europea fatta dal nostro Comitato nazionale per la bioetica in un parere datato 21 febbraio 1997. In precedenza il Comitato si era espresso in modo molto critico sulle versioni iniziali del testo. Il giudizio globale sulla stesura sottoposta alla ratifica è positivo, in particolare per quanto riguarda il ruolo attribuito al soggetto:
«Il C.N.B. valuta positivamente la notevole sottolineatura data al principio della doverosità dell’informazione e del consenso come base giustificativa dell’esercizio della medicina, affermato dalla Convenzione nella linea dell’ormai consolidata dimensione etica dei rapporti medico-paziente e delle elaborazioni contenute nei vari Codici deontologici nazionali. Valuta inoltre positivamente il fatto che sia stato affermato il principio che ogni persona, come ha diritto ad essere informata e ad esprimersi liberamente in merito alla tutela della salute del proprio corpo, così ha il diritto di revocare il proprio consenso all’intervento medico qualora lo ritenga opportuno (art. 5 comma 3)».
Come già previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, gli stati possono, al momento della ratifica, formulare riserve su un tema particolare della Convenzione, nel caso in cui una legge in vigore nel proprio territorio non sia conforme
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alle disposizioni della Convenzione. Realizzando il proprio compito istituzionale, il CNB si chiede perciò quali disposizioni legislative italiane potrebbero essere in contrasto con lo strumento internazionale. Il Comitato non individua nessun contrasto né per quanto riguarda il consenso informato, così come è stato tratteggiato nel nuovo Codice deontologico dei medici del 1995, né rispetto alla tutela della privacy. Riguardo a questa, così si esprime il CNB:
«Il diritto alla protezione della vita privata e alla riservatezza della protezione dati (art. 10), già sancito a livello internazionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8), ripreso nella Convenzione sulla protezione dell’individuo riguardo alla elaborazione dei dati personali del 1981 (art. 6), è in linea con la nuova normativa italiana approvata dalla Camera il 18.12.1996 sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. La recente legge protegge la privacy informatica assicurando la riservatezza nel trattamento dei dati, richiede il consenso dell’interessato prima di procedere alla raccolta dei suoi dati personali, specifica i diritti e i limiti all’esercizio degli stessi, mentre per i dati particolari, quelli c.d. sensibili (idonei cioè a rilevare lo stato di salute e la vita sessuale) prevede non solo il consenso scritto dell’interessato ma la previa autorizzazione del Garante per il trattamento e la diffusione di tali dati».
Il dibattito bioetico ha il compito di chiarire nell’immediato futuro le modalità di applicazione dei principi sui quali si è trovato un accordo. Citiamo, a titolo esemplificativo, l’indicazione dell’art. 9 relativa alla considerazione in cui dovranno essere tenuti i desideri precedentemente espressi relativi all’estensione delle cure nella fase terminale della vita. Siccome questo è un tema in cui non sussiste un fondamentale dissidio tra vari orientamenti della bioetica ― in particolare, sia quelli che si ispirano a una visione dell’uomo religiosa, sia quelli di indirizzo laico sono favorevoli al rispetto della volontà della persona nel determinare la misura delle cure in armonia con i propri valori ― sarà relativamente facile trovare strumenti che possano rendere operativo un diritto proclamato in astratto dalla Convenzione.
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I COMITATI DI ETICA IN OSPEDALE
1. I comitati e lo sviluppo della bioetica
La bioetica deve molto ai comitati. Il movimento di idee, per quanto rispondente a problemi reali e profondamente sentiti, non avrebbe goduto l’espansione rapida e capillare che ha avuto se non avesse trovato uno strumento per rendere operativo il nuovo approccio teorizzato. Questo è avvenuto grazie alla creazione dei comitati di etica 46. L’utilità di questi organismi è stata scoperta in modo pragmatico.
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Un topos ormai consacrato dalla letteratura sull’argomento mette la loro prima realizzazione in rapporto a un caso che ha travagliato la coscienza americana verso la fine degli anni ‘70: quello di Karen Ann Quinlan e del processo intentato dai suoi genitori per ottenere che la ragazza, caduta in coma profondo, fosse staccata dal respiratore artificiale. Di tribunale in tribunale, la causa arrivò alla Corte suprema del New Jersey. La sentenza della Corte invitava la famiglia e i medici curanti a consultare «il comitato di etica o organismo simile» esistente nell’ospedale. L’istituzione del comitato di etica non veniva così inventata — se ne dava, anzi, per scontata l’esistenza ―, ma piuttosto formalmente legittimata, dal punto di vista giuridico, a trovare una soluzione per il caso travagliato.
Bisogna riconoscere che la sentenza relativa al caso Quinlan costituisce per i comitati di etica una magna charta quanto mai gravida di ambiguità. Essa aiuta, sì, a identificare la finalità di tali istituzioni: offrire a persone concrete (operatori sanitari, pazienti, familiari, amministratori di ospedali), che si trovano nella difficile situazione di dover prendere delle decisioni conflittuali dal punto di vista etico, un aiuto pratico. Nel caso in questione, si trattava di uscire dall’impasse di una medicina di rianimazione che rischia di tradire la propria finalità: invece di riportare in vita una persona, la condanna a vegetare in una specie di terra di nessuno che si estende tra la vita e la morte.
Tuttavia, le indicazioni della Corte suprema del New Jersey suscitano perplessità. Secondo la sentenza, infatti, una volta che la famiglia e il medico si fossero trovati d’accordo sulla sospensione delle cure rianimative, la questione avrebbe dovuto essere sottoposta all’organismo chiamato “comitato di etica”. Ad esso veniva assegnato un solo compito: confermare che non c’era «nessuna ragionevole possibilità che Karen riemergesse dallo stato di coma a uno stato di piena coscienza». Ci troviamo, quindi, di fronte a una valutazione tecnica, di natura clinica, non etica, del caso presentato.
Questo è un punto decisivo, quando si voglia stabilire la fisionomia di un comitato di etica: gli si attribuisce il compito di rivedere fatti tecnici, medici (come ad esempio la prognosi), oppure quello di valutare gli aspetti etici e i valori collegati a una decisione, quale quella di sospendere le cure (una volta che la prognosi sia già stata
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stabilita)? La scelta dell’una o dell’altra funzione si riverbera immediatamente sulla costituzione del comitato stesso: nel primo caso, infatti, dovranno essere predominanti gli esperti di scienze biomediche, mentre nel secondo dovranno prevalere gli esperti di scienze umane e i rappresentanti di punti di vista non tecnici.
Inoltre, la Corte suprema del New Jersey sembra prevedere il ricorso al comitato come una “liberatoria” da responsabilità di ordine penale. Questa commistione tra ordine etico e ordine giuridico contribuisce a rendere più confusa la fisionomia del comitato di etica ipotizzato. Un punto su cui nel frattempo sembra essersi fatta chiarezza, rispetto al modello a cui va attribuita la priorità storica, è il valore consultivo delle deliberazioni di un comitato di etica. Quest’ultimo non va concepito come un’istanza etica superiore, alla quale operatori sanitari e utenti dei servizi possano demandare le decisioni, deresponsabilizzandosi.
Alcune volte un intervento di questo genere — quasi un deus ex machina che imponga con la sua autorità lo scioglimento del dramma ― potrebbe anche essere auspicato. Si pensi, ad esempio, ai gravi conflitti etici che possono sorgere di fronte a un trattamento terapeutico di natura straordinaria che può salvare la vita a un neonato affetto da gravi malformazioni fisiche e da deficit mentale. Dal momento che negare il trattamento è illegale, il medico, anche se volesse seguire l’eventuale desiderio dei genitori di limitare l’intervento sanitario per “lasciar fare la natura”, non può rinunciare ad applicare misure eccezionali per salvare la vita a un bambino anormale; col rischio, però, di creare una situazione disumana, in cui la famiglia e il bambino stesso saranno costretti a portare pesi sproporzionati. I genitori, d’altro canto, raramente sono in grado di decidere con sufficiente serenità. Lo shock, insieme ai sensi di colpa, vergogna e collera, li paralizza; tendono ad affidarsi alla decisione del medico, pur sapendo che le conseguenze maggiori del trattamento o della sua omissione ricadranno su di loro.
In questo contesto di incertezza e di smarrimento, non è improbabile che si senta il desiderio di essere sollevati dal peso della decisione, con tutte le sue conseguenze giuridiche e morali, demandandola a un comitato. Questa appunto deve essere dichiarata una via impraticabile,
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se vogliamo che l’atto medico conservi la sua irrinunciabile dimensione etica, che accompagna quella terapeutica. Il comitato di etica non deve surrogare le responsabilità personali di fronte alla legge e quelle deontologiche che il sanitario ha nei confronti degli organismi rappresentativi della propria professione.
La componente etica va, dunque, conservata, di diritto e di fatto, all’atto medico. Tuttavia bisogna riconoscere che nella medicina contemporanea si è disegnata una nuova situazione, la quale rende sempre più difficile quella considerazione equilibrata dei valori in gioco che è la sostanza stessa del giudizio etico. L’affermarsi di una istituzione come i comitati di etica non è spiegabile, se non viene ricondotta a quella diffusa reazione culturale intesa a riportare nella pratica della medicina i valori della persona.
2. Il comitato di etica come luogo del dialogo
L’introduzione del soggetto in medicina non è sempre un processo irenico; può dar luogo a una rivolta dei soggetti (come documenta l’esperienza dei tribunali per i diritti del malato). Si avverte nettamente la preoccupante divaricazione tra le competenze etiche e quelle diagnostico-terapeutiche del medico. In passato la formazione che il medico riceveva lo metteva in grado di far fronte alle questioni etiche che sorgevano nella prassi; oggi, invece, la distanza tra le due competenze cresce vistosamente.
I problemi etici sono più numerosi e di più difficile soluzione; la formazione universitaria e post-universitaria continua a ignorare l’etica come condizione per un buon esercizio della medicina. I medici inclinano verso due atteggiamenti estremi: il tecnicismo, che porta a respingere la preoccupazione etica come un’interferenza indebita con una prassi che si legittima mediante il richiamo alla scienza; e il paternalismo, incapace di giustificare a se stesso le ragioni delle scelte, se non richiamandosi genericamente a decisioni prese “in scienza e coscienza”. Siamo in piena crisi della ragione medica pratica.
Un comitato di etica che sorge in questo contesto culturale concreto dovrà fare i conti con lo scollamento avvenuto tra prassi sanitaria
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e riflessione sui valori. Dovrà proporsi prioritariamente uno scopo pedagogico e formativo, che può essere sintetizzato nel seguente programma: alfabetizzare la coscienza morale dei sanitari e introdurre il giudizio etico come una parte costitutiva del processo clinico, senza tuttavia proporsi di “far la morale” ai sanitari! Ogni progetto di moralizzazione suscita, come controreazione, un atteggiamento di rifiuto o di banalizzazione dell’istanza etica.
I comitati di etica potranno affermarsi solo con i medici, non contro di essi. Dovranno perciò guardarsi dall’avallare un modello autoritativo, ponendosi a un livello di superiorità da cui giudicare l’operato altrui. Ciò favorirebbe solo o la ribellione, o l’atteggiamento infantile dell’adattamento (incoraggiando a comportarsi da “bravi bambini”, che non fanno mai niente senza aver domandato ai “grandi”, che hanno l’autorità, se è permesso farlo!). I comitati di etica potranno sfuggire a queste insidie se si attesteranno su una linea di difesa “minimalista” del loro compito.
Non si tratta solo di dissipare il sospetto che i comitati di etica abbiano una funzione poliziesca, ma di indirizzare il loro uso, positivamente, verso un rinnovamento dell’etica. Il loro maggior contributo in questo senso è quello di spostare l’asse della pratica etica dall’adeguamento alle norme alla ricerca delle stesse. Ci troviamo così trasportati nella situazione delle origini, almeno per la filosofia occidentale, nella quale il dialogo costituisce il clima che fa nascere la ricerca etica.
Il dialogo socratico è un metodo per trattare un tema etico, su cui si hanno pareri diversi, in modo argomentativo. La proposizione che esprime una norma morale non è imposta in modo autoritario (si tratti dell’autorità della legge o di quella di una morale religiosa conosciuta per rivelazione) ; non ha neppure l’autorevolezza che riveste una norma deontologica, nella quale si esprime la consapevolezza maturata dall’esperienza professionale sui comportamenti professionalmente corretti. Una norma etica ha solo l’autorità interna che gli deriva dal peso degli argomenti con cui viene sostenuta. Il confronto e la ricerca mediante il dialogo sono iscritti, perciò, nel codice genetico del pensiero etico sviluppato dall’Occidente.
La dialogicità, tratto caratteristico della riflessione etica all’inizio
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della nostra tradizione filosofica, è anche una condizione essenziale per l’esistenza e il funzionamento di un comitato di etica. Essa non si impone solo per ragioni esterne e opportunistiche, come può essere la considerazione del pluralismo ideologico, quale elemento irriducibile della nostra cultura, oppure la costatazione che la pratica biomedica odierna presenta problemi così complessi che nessuna persona da sola ha tutta la competenza necessaria per risolverli. La dialogicità è, ben di più, l’espressione originaria del pensiero etico.
Condizione essenziale per il dialogo è una considerazione positiva dell’essere umano (è stato compito storico di Carl Rogers e della sua pratica del counseling quello di riportare tale atteggiamento positivo al centro dell’interazione sociale). Una seconda condizione è la fiducia tra gli interlocutori. La fiducia naufraga là dove si ritiene pregiudizialmente che gli altri giochino in modo sleale, oppure quando si abbia la presunzione di avere la risposta giusta già pronta, cercando solo il modo per imporla. Perché si instauri un clima di fiducia, gli interlocutori devono essere tutti disponibili a lasciarsi guidare da un daimon socratico e a sottrarsi all’azione di un diabolos (la radice greca dia-ballo, da cui deriva diabolos, contiene in sé i germi della separazione, dello scetticismo, della posizione di difesa che pregiudica l’incontro). Senza la fiducia reciproca e la convinzione dell’eccedenza della verità rispetto a tutte le opinioni, nessun comitato di etica potrebbe funzionare, per quanto accurato e previdente sia il suo regolamento.
L’idea di dialogo fiducioso è suggerita anche dalle connotazioni semantiche della parola “comitato”, a condizione, naturalmente, che non la si intenda in modo restrittivo: come potrebbe essere un organismo che, rappresentando una realtà istituzionale più vasta, parla e agisce in suo nome, per delega (in questo senso si parla di un comitato per i festeggiamenti, un comitato esecutivo ecc.). Se ci lasciamo guidare dall'etimologia, la parola “comitato” ci conduce verso una serie di esperienze umane correlate all’essere con gli altri (comitari, comes, communitas ecc.). L’elemento unificante è l’esperienza del camminare insieme, del condividere, dell’essere comunità, della co-esistenza che si sviluppa in pro-esistenza. Se manca di questa fondamentale dimensione, un comitato di etica rischia di essere non-etico!
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Un comitato così concepito non può reggersi su una base ideologica, ma ha bisogno di un punto di vista integrativo più alto. Nell'ambito della sanità, questo può essere costituito dal comune riferirsi a una medicina per l’uomo totale, che integri la conoscenza dell’uomo derivante dalle scienze biomediche con quella fornita dalle scienze umane. Di queste ultime, l’etica costituisce un’articolazione importante, ma non certo unica o esclusiva. L’etica e le altre discipline che costituiscono le medical humanities si richiamano reciprocamente, hanno bisogno l’una delle altre.
Senza la considerazione di tutte le dimensioni dell’uomo malato, ricostruendo l’intero campo dell’umano, l’etica si appiattisce in pura normatività. Etica, antropologia (in particolare, le conoscenze relative alla corporeità vissuta) ed epistemologia (con una riflessione rinnovata sul valore e sui limiti del sapere scientifico) stanno e cadono insieme. Un comitato di etica che si riducesse a produrre norme da fruire passivamente assomiglierebbe a un fast-food, così diseducativo nei confronti dell’assunzione delle responsabilità etiche come i santuari del “mordi e scappa” lo sono rispetto all’alimentazione.
L’habitat dell’etica è l’orientamento ai bisogni integrali dell’uomo. Se questo non esiste, l’etica sarà fatalmente recepita come un corpo estraneo in ambito sanitario, che vuol imporsi, in modo più o meno morbido, a un mondo medico recalcitrante. Perché il giudizio etico diventi un prodotto umano, deve avere le sue radici in un processo creativo. La formazione morale è troppo spesso concepita come la trasmissione di giudizi morali elaborati dalle generazioni precedenti, ai quali le nuove generazioni sono invitate a uniformarsi. Ma la semplice osservanza delle regole morali, considerate come regole di procedimento per risolvere i problemi etici che la vita presenta, non basta a creare il comportamento moralmente buono.
Non è sufficiente imparare ad associare la risposta “giusto” o “sbagliato” a determinati quesiti, saltando il momento creativo della “produzione di un giudizio etico”. I comitati di etica, costituendosi come laboratorio di formazione al giudizio etico, possono svolgere un’utile funzione educativa. Se la riflessione si esercita in essi in un clima di ricerca, di tolleranza e di reciproco ascolto, diventano uno strumento pedagogico di formazione della coscienza, e quindi un autentico fattore di umanizzazione.
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Il pluralismo sarà d’obbligo in una riflessione etica di questo genere: non possiamo illuderci che un comitato possa giungere a conclusioni unanimemente considerate valide e obbliganti. Non potrà perciò produrre regole che valgono per tutti. Ma sarà già un risultato considerevole sviluppare, tutti insieme, una sensibilità che ci permetta di riconoscere i problemi etici dell’ambito della cura della salute e delle scienze della vita, di trovare soluzioni per quelli che è possibile risolvere e di imparare a vivere con quelli che non hanno soluzione.
3. Del buono e del cattivo uso dei comitati di etica
Se dal profilo ideale dei comitati di etica (definizione, contesto culturale, finalità e compiti) passiamo a considerare il livello della realtà, ci rendiamo conto del possibile décalage. I comitati di etica sono una risorsa preziosa, ma difficile da utilizzare. Una prima osservazione empirica riguarda la loro durata. I comitati di etica sono facili da avviare, ma molto difficili da tenere in vita. È facile avviarli: la bioetica si è strutturata fin dall’inizio con la predisposizione a fare cose pratiche, anziché come pura attività filosofica. È nata, quindi, con un forte orientamento alla prassi; i comitati di etica hanno offerto fin dall’inizio delle possibilità operative concrete. Ove si presentino problemi di natura etica, nulla appare così semplice come creare un comitato che se ne occupi.
Sovente la creazione di tali comitati è vista come una scorciatoia rispetto al lungo cammino che presuppone un cambiamento di mentalità e l’interiorizzazione dei valori di fondo che animano la bioetica, spesso diversi da quelli tradizionalmente veicolati dalle professioni sanitarie. I comitati di etica appaiono così come una sorta di soluzione istituzionale per essere immediatamente operativi. In realtà, i comitati di etica che sorgono in questo modo non si presentano, per mutuare un’immagine evangelica, come “otri nuovi per un vino nuovo”, ma come otri nuovi per un vino già diventato aceto. Dentro quelle istituzioni, nuove di zecca, non viene travasato niente di nuovo.
La procedura di costituzione spiega anche un altro tratto della fenomenologia dei comitati: la rapida demotivazione delle persone e
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il loro esodo dal comitato. Nati in una fiammata di entusiasmo, hanno una vita promettente all’inizio; ma poi subentra abbastanza rapidamente una fase di plateau, in cui i membri hanno l’impressione di macinare acqua. Cominciano le defezioni, il comitato dirada gli incontri e, in tempi più o meno lunghi, non rimane che dichiarare la sua fine. Il fenomeno è così diffuso che negli Stati Uniti — dove i comitati di etica sono stati attivati da più di trent’anni e conoscono una specie di crisi di mezza età — si è già diffusa un’attività specialistica di esperti che vanno, su richiesta, a tenere incontri con i comitati di etica, analizzano i motivi delle disfunzioni, contribuiscono a riformulare gli obiettivi, rimotivano i membri scoraggiati.
motivi del cattivo funzionamento dei comitati possono essere i più vari. Spesso soffrono di senso di incapacità a risolvere i conflitti e a incidere nelle istituzioni in cui sono inseriti; talvolta hanno agende troppo cariche, che spaziano da obiettivi di palingenesi — rinnovare la sanità, “umanizzare” l’ospedale, ridare cariche di idealismo agli operatori ― alla risoluzione di conflitti di tipo giuridico. Nell’incapacità di fare tutto, le riunioni si riducono a riproporre sempre di nuovo la questione degli scopi del comitato di etica.
L’analisi del funzionamento dei comitati ci confronta con le numerose incertezze di cui sono circondati e che vanno fatte risalire alle ambiguità che prosperano attorno al concetto stesso di bioetica. Talvolta i comitati non riescono a dissipare l’impressione che la loro finalità sia il controllo. In questo caso è molto probabile che non arrivino a raccogliere all’interno di una istituzione quel minimo di consenso che permetterebbe loro di essere accolti e di incidere sui comportamenti. Quello che ne risulta è l’isolamento del comitato di etica.
Un’altra finalità attribuita al comitato — e che per molti è da considerarsi anche una finalità propria della bioetica — è la legittimazione dell’esistente. Il parere di un comitato di etica è visto come una specie di ratifica delle procedure di terapia o di ricerca già adottate, un “timbro” ufficiale che legittima e autorizza, senza modificare, però, il modo invalso di fare ricerca, senza accettare l’esigenza di trasparenza nel rapporto medico-paziente. La legittimazione è certamente una delle funzioni previste per i comitati; ma spesso avviene che le persone che ne fanno parte dopo un po’ si rendano conto che il loro lavoro è strumentalizzato da una struttura ben più vasta che non vuol lasciarsi
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mettere in discussione. Di qui la disaffezione e l’inizio delle diserzioni alle riunioni.
In rapporto alla finalità digestione del quotidiano sotto l’aspetto dei conflitti etici che sorgono al capezzale del malato, i comitati di etica possono offrire un utile apporto, purché però sia interiorizzato il cambiamento di paradigma che la nuova clinica presuppone: il passaggio, cioè, dall’atteggiamento paternalista al rispetto e alla valorizzazione dell’autonomia dell’individuo. Un altro presupposto è la riscoperta dell’alleanza terapeutica, non come strumento per garantire al sanitario l’impunità giuridica (la firma apposta dal paziente in calce a un foglio, da produrre nei casi contenziosi...), ma come un processo di coinvolgimento del paziente nelle decisioni cliniche che riguardano la sua vita e la sua salute.
In questo orizzonte l’etica appare congiunta con una pratica di gruppo, quale può essere promossa all'interno di un comitato di etica. È un gruppo in cui non c’è solo un sapere gestito in proprio dai membri di una professione, ma un sapere diffuso, che integra competenze diverse e dove l’opinione di chiunque sia rettamente motivato possa avere uguale valore e dignità rispetto a quella del più famoso specialista. I comitati di etica sono difficili da gestire, formare, seguire e far crescere. Per avere buoni comitati bisogna investire nella formazione delle persone che li costituiscono, altrimenti è molto facile scivolare in comitati che svolgono funzioni spurie. Tale investimento non spetta alla buona volontà di privati, ma di diritto alle istituzioni pubbliche che hanno come compito quello di promuovere la qualità nella sanità.
4. La diffusione in Italia
Quando in Italia si è cominciato a parlare di comitati di etica in istituzioni per la cura della salute e per la ricerca, come strumento per ricondurre le pratiche biomediche a un rispetto dell’essere umano, questi erano già realtà operante da tempo in altri paesi. Il vuoto legislativo e la scarsità di realizzazioni in atto è sembrata una situazione favorevole per far precedere la fase operativa da un adeguato momento informativo. Prima di introdurre i comitati di etica nella realtà italiana, è opportuno misurarsi con quanto avviene altrove e trarre beneficio dall’esperienza altrui.
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Due iniziative, rivolte a stabilire bilanci dalle esperienze dei comitati di etica a livello internazionale, meritano di essere segnalate. Ambedue risalgono al 1986. Nel mese di maggio si svolse a Milano un simposio internazionale, per iniziativa della Fondazione internazionale Fatebenefratelli e del Centro internazionale Studi Famiglia, sui comitati di etica in ospedale. Furono ascoltate e valutate le esperienze statunitensi, canadesi e dei principali paesi europei; dei comitati vennero esplorati i presupposti filosofici, antropologici, psicologici, giuridici e teologici 47.
Sullo sfondo internazionale la situazione italiana appariva un terreno quasi vergine. Il senatore Bompiani, al quale era stata richiesta una valutazione delle potenzialità italiane, notava l’urgenza di introdurre istituzioni che regolamentassero soprattutto la sperimentazione clinica («Procedure che non hanno beneficio diretto per il soggetto, ma possono averlo sicuramente per altri, sono talvolta intraprese senza un sufficiente approfondimento di tutte le implicazioni connesse alla libertà e alla salute del soggetto sperimentale. La valutazione del criterio rischio-beneficio non è, di frequente, condotta mediante una qualificazione precisa dei termini»).
Per quanto riguarda i problemi di etica clinica, Bompiani sottolineava la permanenza del rapporto fiduciario medico-malato di tipo tradizionale, anche se la crisi crescente del modello lasciava prevedere che in un futuro non lontano strumenti regolativi quali i comitati di etica avrebbero potuto trovare applicazione anche in Italia. Un secondo simposio a carattere internazionale si tenne nel novembre 1986, nel contesto della rassegna medico-scientifica annuale Milano-Medicina. Una giornata di studio, dedicata alla bioetica, ha preso in considerazione i comitati di etica ospedalieri, mettendo a confronto le esperienze europee con le prime realizzazioni italiane 48.
Sulla scia di queste prime sensibilizzazioni, si è andato costituendo il Gruppo promotore per l'etica in sanità e i comitati di etica medica, animato dalla convinzione che fosse necessario e urgente
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provvedere all’animazione etica del mondo della sanità. Il polo di aggregazione di questo gruppo è l’ospedale San Raffaele di Milano, noto centro di ricerca e attività scientifica, oltre che di cura e assistenza. Con il tempo il Gruppo è andato precisando i suoi obiettivi e si è costituito in Società italiana per la Bioetica e i Comitati etici (SIBCE). La finalità statutaria è quella di «promuovere la formazione di una diffusa sensibilità ai problemi dell’etica nelle attività di ricerca scientifica biomedica, di assistenza, cura e tutela della salute, anche con riferimento alla distribuzione delle risorse nell’ambito dei servizi sanitari e al rapporto uomo/ambiente».
L’associazione non presenta una identità confessionale esplicita. Tuttavia il problema dell’orientamento di fondo e dei valori dai quali trarre ispirazione non è irrilevante in questo ambito di bioetica pratica. In filigrana possiamo vedere la preoccupazione di porre delle richieste ai membri della SIBCE nell’articolo dello statuto che specifica che la Società «si ispira al rispetto e alla difesa della vita umana dal concepimento alla morte, ai valori della tradizione culturale personalistica, quali emergono dalle carte dei diritti dell’uomo, dai codici deontologici e dalla Costituzione italiana». Il riferimento al personalismo è spesso una cifra per indicare l’orientamento cattolico delle istituzioni.
È un dato di fatto che le tensioni ideologiche non risparmiano neppure i comitati di etica e accompagnano il loro cammino nella realtà culturale italiana. Fin dall’inizio sono state soprattutto le forze culturali di ispirazione religiosa che hanno mostrato un interesse dichiarato per la promozione di questo tipo di comitati. Da essi sembrano aspettarsi un aiuto per la difesa di valori che ritengono minacciati dalle pratiche biomediche. A tali valori si è soliti fare riferimento con la dizione stenografica di “concezione personalista dell’uomo” (alludendo, in concreto, al principio della sacralità della vita umana e al criterio della “naturalità” per quanto riguarda l’ambito della riproduzione e della sessualità).
La funzione di tutela della vita risulta con chiarezza dal programma di uno dei primi comitati di etica creati in Italia: quello degli istituti ostetrico-ginecologici Luigi Mangiagalli, a Milano, sorto già nel 1984. I medici che hanno promosso e ottenuto l’istituzione del Comitato chiedevano che fosse preposto alla valutazione etica di alcune pratiche connesse con la sperimentazione su feti umani (amniocentesi
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precoce, fetoscopie, prelievo di villi coriali ecc.), a loro parere non prive di rischi clinici e discutibili dal punto di vista etico. La grande spaccatura sull’aborto — di cui l’istituzione ospedaliera del Mangiagalli è stata uno degli epicentri — si ripercuoteva anche sulle pratiche sperimentali. Il gruppo pro life guardava ai comitati di etica come a una tutela dei valori che sentiva minacciati.
L’Associazione dei Medici cattolici italiani (AMCI) sembra essersi orientata in questa direzione. A conclusione di un seminario tenuto nel maggio 1987, l’AMCI auspicava la rapida realizzazione di un Comitato nazionale e di comitati nei vari ospedali di ispirazione cristiana. Compito di tali comitati, secondo l’AMCI, è di «rafforzare la saldatura tra l’esercizio della medicina e il suo naturale riferimento ai valori etici derivanti dalla centralità dell’uomo» 49.
Alcuni comitati di etica vanno più esplicitamente nella direzione di un legame tra il comitato e l’ispirazione ideale propria dell’istituzione promotrice. Collochiamo in questa linea i comitati creati con la finalità esplicita di difendere l’identità confessionale e di promuovere la visione etica di una determinata istituzione. Ad esemplificazione possiamo addurre il comitato etico dell’istituto scientifico Ospedale San Raffaele di Milano, che abbiamo già menzionato. A norma di regolamento, il comitato è chiamato a definire questioni etiche connesse alle attività scientifiche, assistenziali, didattiche e amministrative nell’istituto; si propone di valutare gli aspetti etici della sperimentazione farmacologica, della ricerca biologica e medica, nonché di valutare le decisioni cliniche degli interventi terapeutici, nelle scelte didattiche e nelle decisioni economico-amministrative nei momenti in cui sono in gioco questioni morali. Dall’atto istitutivo risalta con tutta chiarezza che il comitato è funzionale alla difesa e promozione dei valori che identificano l’istituzione religiosa che lo ha creato (la quale si attribuisce come finalità quella di «ricondurre il concetto e l’esercizio della medicina e dell’assistenza allo spirito e alla prassi del comando evangelico “Guarite gli infermi”») 50.
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Bisogna riconoscere che la vivace presenza dei cattolici — con identità esplicita o appena velata — in questo settore suscita in Italia diffidenza e sospetto da parte laica. Serpeggia il timore che l’istituzione dei comitati di etica in ambito ospedaliero avvenga a vantaggio di una morale confessionale e diventi il terreno di scontro tra ideologie. Come esito negativo, c’è da paventare che le divergenze tra i principi ispiratori portino alla creazione di circuiti paralleli, rispettivamente etichettati come cattolici e come laici, a seconda dell’ispirazione. Il precedente a cui possiamo riferirci è la vicenda dei consultori familiari. Istituiti in Italia per legge nel 1975, sono stati presi nella spirale delle contrapposizioni tra pubblico e privato, religioso e laico. Il timore è che una simile polarizzazione si crei anche attorno ai comitati di etica.
Per concludere con una puntata nel futuro utopico, immaginiamo un giorno in cui, esistendo molti comitati di etica capillarmente diffusi e funzionanti, avremo bisogno di trovare linguisticamente il verbo adatto per descrivere l’azione di partecipare come membro al lavoro di un tale comitato. Si tratta, cioè, di immaginare un giorno in cui partecipare all’attività di un comitato sarà qualcosa di talmente quotidiano da avere bisogno non di una perifrasi ma di un solo verbo per descriverlo. Non si tratta di una situazione irrealistica perché in America, dove l’esperienza dei comitati è più lunga della nostra, questo bisogno linguistico si è espresso da tempo.
Negli Stati Uniti per denotare il lavoro in un comitato di etica si usano due verbi: “sedere” (to seat in an ethics committee) e “servire” (to serve in an ethics committee). Utilizziamo le connotazioni dei due verbi per evocare due scenari diversi. Nel primo possiamo concepire i comitati di etica come luoghi dove si siede in permanenza, con le associazioni connesse di noia, inutilità, formalismo e inconcludenza. Comitati di questo genere potrebbero fornire la migliore esemplificazione del detto: «Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, crea un comitato per farla». Nel secondo scenario, si “serve” in un comitato di etica, nella consapevolezza di essere presenza attiva e utile a sé e agli altri. Fare etica in questo modo non è un’attività per pochi amateurs, ma equivale al senso stesso dell’esercizio di una professione sanitaria, che è un’attività di servizio agli altri.
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2.
LE RAGIONI DELLA STORIA
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FONTI DELLE NORME IN CAMPO BIOMEDICO
1. In nome della professione: la deontologia
La nozione di deontologia
“Deontologia” è un termine altisonante, quasi aulico, il cui significato è colto spesso solo con molta approssimazione. L’etimologia aiuta poco. La parola è costruita sulla radice greca déon, e richiama la necessità, la convenienza. Siccome il sostantivo è accompagnato per lo più dall’aggettivo “professionale”, la deontologia evoca la convenienza, o il bisogno, che la professione abbia determinate caratteristiche, che definiscono lo stile con cui va esercitata. Questa è una prima approssimazione, anche se ancora piuttosto generica, al significato della parola.
Correntemente si parla di deontologia, o “scienza dei doveri”, in senso giuridico, come un’articolazione del diritto professionale. In questo senso la deontologia equivale all’insieme codificato degli obblighi che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione. Ci si è discostati dal significato che alla parola aveva dato il creatore del termine, il filosofo J. Bentham. Nel 1834 scrisse un trattato:
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Deontologia o scienza della moralità, per proporre una filosofia morale che prescindesse da ogni appello alla coscienza, al dovere ecc. La morale che suggeriva era la scienza del “conveniente”, quello cioè che è appropriato quando ci si decide a seguire la tendenza naturale che ci porta a ricercare il piacere e a fuggire il dolore. «Compito del deontologo — affermava Bentham — è quello di insegnare all’uomo come debba dirigere le sue emozioni, in modo che siano subordinate per quanto possibile al proprio benessere».
La deontologia professionale come oggi la concepiamo è completamente diversa da quella progettata da Bentham. Ha conservato tuttavia un riferimento di natura utilitaristica: persegue, se non il benessere dell’individuo, almeno il vantaggio della professione nel suo insieme. Non va confusa con l’etica o morale professionale (sul significato dei due termini “etica” e “morale” torneremo più sotto). La deontologia non è, cioè, un insieme di precetti elaborati per deduzione a partire dai princìpi di un’etica generale o da un determinato sistema morale, ed applicati poi a una professione specifica.
Questo approccio ai problemi morali esiste, ed è una guida del comportamento legittima e auspicabile. È chiaro, ad esempio, che a partire dalla morale cristiana si può parlare dei doveri morali che il giornalista o l’imprenditore o il politico incontrano nell’esercizio della loro professione; per non parlare, ovviamente, della morale del medico o dell’infermiere cristiani. Non di questo però si occupa la deontologia. Si tratta piuttosto di un insieme di regole tradizionali che indicano come comportarsi in quanto membri di un corpo sociale determinato; e il senso di tali regole è di provvedere alla “convenienza” o utilità di tale corpo sociale, perché possa meglio conseguire il fine che si propone. Vediamo di portare, ricorrendo a un esempio concreto, un po’ di chiarezza in questa descrizione piuttosto astratta.
Un comportamento sanitario professionalmente corretto
Il “Comitato nazionale di etica per le scienze della vita e della salute”, istituito nel 1983 dal presidente della repubblica francese Mitterrand, è stato sollecitato a dare un suo parere circa una pratica bio-medica che, giunta a conoscenza del pubblico, ha suscitato qualche turbamento, e a proposito della quale i medici stessi sono perplessi.
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Si tratta del prelievo di tessuti di embrioni o di feti umani morti, a fini terapeutici e di ricerca scientifica. Come deve comportarsi il medico e ricercatore che conosce, da una parte, l’utilità di tali procedure, ma che non ignora dall’altra gli aspetti antropologici ed etici derivanti dalla qualità di persona umana, almeno potenziale, dell’embrione o del feto fin dal suo concepimento? I problemi sorgono ovviamente quando il feto morto che viene utilizzato provenga da un aborto procurato; in caso contrario, ci troviamo di fronte alla situazione normalmente ricorrente in medicina di prelievo da un cadavere.
Se la visione etica a cui il medico aderisce, religiosa o laica, lo porta a considerare il feto come persona umana a pieno diritto, avrà delle riserve insuperabili nei confronti di feti che siano frutto di un’interruzione volontaria della gravidanza. In questo caso non potrà che rifiutare la partecipazione, richiamandosi alla propria coscienza. Il Comitato francese ritiene che, anche quando il medico non rifiuti di intervenire per un motivo di coscienza, debba attenersi a delle condizioni rigorose. L’utilizzazione di tessuti embrionali a scopo terapeutico, ad esempio, deve avere un carattere eccezionale, giustificato dalla rarità delle malattie trattate, e un vantaggio manifesto per colui che ne beneficia; anche la ricerca deve poter essere giustificata da obiettivi importanti che si vogliono ottenere nel progresso dei metodi terapeutici. Queste direttive sono propriamente di natura etica: indicano cioè le condizioni che permettono di considerare l’intervento biomedico come moralmente buono.
Ma il parere del Comitato francese non si ferma qui; alle norme etiche fa seguire delle “direttive deontologiche”. Si tratta di indicazioni di comportamento di altra natura rispetto alle considerazioni etiche. Il Comitato suggerisce che la decisione e le condizioni dell’interruzione della gravidanza non debbano essere influenzate dall’utilizzazione ulteriore possibile o auspicata dell’embrione o feto; la tecnica di espulsione sia scelta con criteri esclusivamente ostetrici; si garantisca una totale indipendenza tra l’équipe medica che procede all’interruzione volontaria della gravidanza e quella che utilizza gli embrioni per la terapia o ricerca. Si tratta di clausole apparentemente secondarie e quasi gratuite, che non incidono nella sostanza etica delle procedure in questione. Grazie ad esse, però, possiamo cogliere
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il senso della deontologia. Questa non si propone di guidare la coscienza degli individui verso il bene morale. Indica piuttosto i comportamenti che è opportuno tenere nell’ambito della professione, o quelli da evitare per impedire che l’immagine sociale della professione stessa venga offuscata. Le regole deontologiche non vengono mutuate da un’etica definita, ma sono elaborate empiricamente per incrementare la dignità della professione. Riflettono lo “spirito” che anima la professione.
Anche una direttiva come l’indipendenza delle due équipe ha allora una motivazione: vuole tener lontano da queste pratiche il sospetto che la professione medica agisca per scopi utilitaristici, e non per il motivo superiore del bene del paziente. Quando il sanitario ha deciso quali azioni sono compatibili o incompatibili con i princìpi che segue in coscienza; quando si è posto gli interrogativi etici che stanno a custodia della bontà morale dell’azione, rimangono ancora delle considerazioni di natura deontologica: ciò che è opportuno, in armonia con il senso della professione stessa. La preoccupazione della deontologia non è, dunque, la qualità morale dell’azione, ma la sua “correttezza”, tenendo presente soprattutto il punto di vista del rapporto tra la professione e la società. Una deontologia esigente è la risposta alle questioni di legittimità che possono essere rivolte ai membri di una professione: «In nome di che cosa fate quel che fate?». È una questione fondante, che viene logicamente prima di qualsiasi legalità e che permane anche dopo che la professione è stata regolamentata nella società.
La deontologia: sì, ma non solo!
La “correttezza”, il “senso d’onore” professionale...: sono sufficienti queste indicazioni generiche per delimitare il campo della deontologia? No: la deontologia non ama procedere per concetti astratti. Essa tende a concretizzarsi, ha di mira le situazioni specifiche che si presentano al professionista nella pratica quotidiana. Le prescrizioni deontologiche dànno imperativamente (il professionista “deve”, “non deve”, “è obbligato”: sono i termini con cui si esprime la deontologia) soluzioni pratiche e precise. Il linguaggio del “dovere” non tragga in inganno: è uguale a quello dell’etica, ma non è un’autorità
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morale che prescrive i comportamenti. Le norme deontologiche sono stabilite dai professionisti stessi, dopo opportuna riflessione sulla pratica quotidiana, sulla base di ciò che favorisce la professione e ciò che la danneggia.
L’esposizione sistematica delle norme alle quali si deve ispirare il comportamento è fornita dai codici deontologici. La professione medica è stata la prima a sentire la necessità di un tale codice, e a dotarsene. Il più antico risale alla metà del secolo scorso, ad opera dei medici americani (è stato redatto nel 1847). Aveva già la struttura che, con poche varianti, ritroviamo in tutti gli altri codici: doveri dei medici verso i loro pazienti e obblighi dei pazienti verso i loro medici; doveri dei medici verso gli altri e verso la professione; doveri della professione verso il pubblico e del pubblico verso la professione. Il codice italiano suddivide i doveri del medico in: doveri generali (che prevedono l’indipendenza e la dignità della professione, l’obbligo del segreto, la prescrizione di trattamenti terapeutici, l’aggiornamento professionale); rapporti con il paziente (libera scelta del medico, consenso del paziente, sperimentazione clinica, interruzione della gravidanza, onorari); rapporti con i colleghi (solidarietà tra medici, consulenza, funzioni medico-legali); rapporti con i terzi e con enti pubblici e privati.
Anche altre professioni sanitarie hanno provveduto in alcuni paesi a redigere un proprio codice deontologico. Ne conosciamo delle infermiere, dei dentisti, dei farmacisti, degli psicologi. L’Associazione Medica Mondiale ha dato un forte impulso all’elaborazione di norme deontologiche, per uniformare i comportamenti medici di fronte ai problemi provocati dai progressi più recenti in campo bio-medico e ad altre situazioni in cui può venire compromessa la professionalità del medico. Documenti ufficiali, emanati per lo più in occasione delle periodiche assemblee mondiali, hanno stabilito le linee di condotta da tenere nei confronti dei trapianti di organi, della rianimazione e del trattamento delle malattie terminali, della sperimentazione con soggetti umani, dell’aborto terapeutico, della tortura e altre pene e trattamenti crudeli, della boxe.
La deontologia professionale costituisce per i medici un motivo di fierezza. Amano vedervi una specie di blasone nobiliare, una garanzia
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dell’impegno etico che contraddistingue la loro professione. Non tutti, però, condividono tale entusiasmo; o, quanto meno, pur apprezzandone la funzione, non rinunciano a considerare criticamente i limiti e le possibili distorsioni della deontologia medica. Essa si presenta come l’espressione della benevola dedizione del medico al bene del suo paziente e dell’umanità; ma può essere assunta a servizio di cause meno nobili.
Le norme deontologiche, da mezzo per ordinare la condotta dei medici, possono facilmente diventare un mezzo per legittimare privilegi monopolistici della professione nei confronti dello stato e del pubblico. Tutte le misure volte a indurre nel pubblico la fiducia verso la professione possono rinforzare il rapporto paternalistico col paziente, ostacolando la crescita di questi a soggetto, utente critico e responsabile dei servizi sanitari. Le formulazioni dei doveri dei medici fatte dai medici stessi, anche le più recenti, inclinano verso il paternalismo: è il medico che determina quale azione sia più conforme agli interessi sia del medico che del paziente. Sorgono, allora, per reazione, le “carte dei diritti del malato”, su base rivendicativa, essendosi infranta la fiducia che tutto quello che il medico fa sia sempre a vantaggio del paziente.
La prospettiva dei doveri deontologici, anche se valida, è limitata. È una griglia troppo riduttiva per accogliere le trasformazioni più profonde che stanno avvenendo nell’ambito della sanità. Come situazione tipica, pensiamo a ciò che si verifica nel segmento terminale della vita umana. Le pratiche di rianimazione artificiale e di prolungamento della vita hanno modificato il rapporto tra il medico e il paziente. Per poter morire, questi viene praticamente a dipendere dal medico e dal suo maggior o minore impegno nel ricorrere all’arsenale terapeutico.
Non è sempre ovvio che il prolungamento della vita sia il migliore interesse del paziente. Lo scollamento tra l’orientamento dell’opera medica e l’interesse superiore della persona malata può giungere fino alla rivendicazione, da parte di quest’ultima, di un “diritto a una morte degna”. In questa situazione, se il medico si limita a richiamarsi al dovere deontologico di prolungare la vita del paziente e di non agire mai per l’abbreviamento della stessa, adotta un atteggiamento
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puramente difensivo, rischiando di passare accanto al nocciolo duro dei veri problemi etici, i quali obbligano a rivedere il rapporto tradizionale tra medico e paziente nella mutata situazione culturale del morire.
La prospettiva dei doveri deontologici è valida, ma va integrata con quella etica e con l’ordine dei doveri che derivano dalla dimensione religiosa. Il gioco dell’interazione dei diversi piani può avere esiti positivi, ed è assolutamente auspicabile. Per vedersi riconosciuta la sua utilità, la deontologia non ha bisogno di avanzare pretese monopolistiche in tutto l’ambito della normatività che regola il comportamento nelle professioni sanitarie.
2. In nome dell’uomo: l’etica
Nasce un bambino con un deficit genetico e un ritardo mentale gravissimo. È affetto anche da una malformazione intestinale, che può, però, essere rimossa mediante una semplice operazione chirurgica. È un dovere morale operarlo? Oppure è meglio lasciarlo al suo destino, permettendo alla “natura” di fare il suo corso e di attuare la “selezione naturale”?
Una persona affetta da cancro all’ultimo stadio passa da una crisi all’altra; ogni volta la rianimazione intensiva lo riporta in vita, ma è come se scendesse un girone infernale più in basso: la prospettiva che lo attende è di andare incontro a sempre maggiori dolori e di subire trattamenti medici sempre più devastanti, con la perdita progressiva della coscienza e della capacità di decidere. Può disporre, rivendicando un “diritto a morire con dignità”, che, in occasione della prossima crisi, i medici rinuncino a rianimarlo?
Si sta sperimentando un nuovo farmaco. Per una conoscenza scientificamente sicura del suo effetto, è necessario che sia somministrato a un campione di pazienti e che i risultati siano paragonati a quelli ottenuti con altri trattamenti terapeutici. È un diritto del paziente essere informato che si sta facendo un esperimento su di lui? Per evitare l’interferenza di elementi soggettivi (“effetto placebo”), si può sottrarre l’informazione al paziente sulla natura del medicamento
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che gli viene somministrato? Quanto rischio si può far correre al paziente di fornirgli una cura meno efficace di un’altra, in considerazione del fatto che le conoscenze scientifiche acquisite da un esperimento andranno a vantaggio di altri pazienti in futuro?
Perplessità, dilemmi. La medicina moderna è anche questo. Problemi che nascono dal suo straordinario sviluppo, dalle possibilità nuove che si sono aperte da quando l’arte medica del guarire ha preso al suo servizio la tecnologia. Problemi di ordine morale: rispetto a molte pratiche diventate correnti in medicina, ci si interroga se sono buone o cattive, se vanno cioè a vantaggio dell’uomo o lo danneggiano. Solo in pochi casi il dibattito si apre al grande pubblico. Ciò è successo inevitabilmente a proposito del problema morale dell’interruzione volontaria della gravidanza e sta avvenendo attualmente intorno all’eutanasia e alla riproduzione col ricorso alla tecnologia (bambini in provetta, locazione dell’utero...). Questi gravi problemi rischiano però di monopolizzare tutto il dibattito, nascondendo la selva di interrogativi e dilemmi etici che attraversano tutto il mondo della sanità, anche in situazioni meno estreme di quelle menzionate.
Per far fronte alla nuova situazione è nato un movimento che cerca di conciliare la medicina con gli interessi etici e umanistici. Qualcuno afferma che quella che si è messa in moto è una rivoluzione nel modo di concepire la medicina: una rivoluzione che, come le rivoluzioni più riuscite, non è solo innovazione, ma anche recupero di valori del passato che erano stati trascurati. La bioetica, quale nuova disciplina, costituisce il momento di maggiore emergenza del movimento. Essa segna una cesura nei confronti dell’etica medica tradizionale, che intende sostituire.
Sul nome sono sorte non poche perplessità. Il neologismo, ottenuto accostando etica a bios, la vita, ad alcuni sembra brutto. È superfluo, in quanto l’etica medica assolverebbe già il compito di guidare con norme etiche i comportamenti in medicina. I paladini della bioetica rispondono che l’innovazione terminologica è precisamente rivolta a sottolineare che la riflessione etica non può oggi limitarsi all’ambito delle relazioni interpersonali che costituiscono il rapporto terapeutico. L’azione dell’uomo si estende al biologico in tutta la sua ampiezza. La natura vivente non è solo oggetto di studio, ma anche di
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intervento: siamo in grado di metterci le mani, con effetti spettacolari, ma anche gravidi di conseguenze per il futuro dell’umanità. Le nostre capacità di manipolazione si estendono fino ai primi mattoni infinitesimali della materia vivente (“ingegneria genetica”): le implicazioni etiche di questo potere sono rimaste finora impensate, perché impensabili. La stessa osservazione vale per le capacità di intervento sulla generazione, con procedure che si discostano vistosamente da quelle “naturali” (fecondazione in vitro, gestazione extracorporea, clonazione).
Un altro fatto nuovo è la cresciuta consapevolezza dell’unità della vita sul pianeta, e quindi dell’interdipendenza di tutte le sue forme: umane, animali e vegetali. La mentalità ecologica ci apre a una concezione dell’etica come responsabilità verso l’ambiente e verso le generazioni future: dipende da noi lasciare loro una terra ancora vivibile, oppure degradata e depauperata delle sue risorse.
Parlare di etica medica ― o di bioetica, se si preferisce, dal momento che il neologismo sembra ormai aver avuto partita vinta ― vuol dire accettare che nel campo delle scienze biologiche e della pratica sanitaria entri il discorso filosofico che riflette sul comportamento umano dal punto di vista dei valori. Lo scienziato, il medico come filosofo: è una prospettiva realistica o solo la nostalgica rievocazione di una figura del passato? Vista la distanza cronologica, dovremmo coniugare al “trapassato remoto”..., dal mento che il medico come philósophos, amico della saggezza, è un modello del mondo greco.
Il medico ippocratico è tipicamente filosofo, occupato non solo con questioni di patologia e di terapia, ma anche con interrogativi che riguardano l’uomo e la sua natura. Da tempo il medico-scienziato si è sostituito al filosofo, e anche al filantropo. La congiuntura favorevole a riaprire gli antichi discorsi filosofici è costituita dalla crisi della fiducia cieca nella scienza, come se tutto quello che viene fatto in suo nome fosse automaticamente un bene e si risolvesse a vantaggio dell’uomo. È giunto il momento del discernimento.
Dobbiamo domandarci quale tipo di vita vogliamo; dobbiamo interrogarci anche se tutti i poteri disponibili devono essere messi in opera. Rispuntano così le parole essenziali su cui si è esercitata la
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riflessione etica dell’umanità: “bene”, “male”, “giusto”, “ingiusto”... Forse anche su questo campo, come su quelli limitrofi del vero-falso, bello-brutto, il pensiero filosofico conta più sconfitte che successi. Non per questo, però, abbiamo cessato di applicare la forza disarmata del pensiero alle questioni fondamentali.
La ricerca di ciò che è secondo l’uomo (antropologia) e dei valori da realizzare (etica), condotta in termini razionali, costituisce una seconda fonte di doveri, accanto a quelli che derivano dalla professionalità. A differenza dei primi, questi non procedono da una decisione assunta autonomamente dai professionisti stessi, ma si impongono in forza della natura umana. O almeno così, per principio, dovrebbe essere. Ma dove trovare il consenso in una cultura pluralista, fondata su antropologie e sistemi di valori diversi? Le divergenze si presentano come praticamente insormontabili. Pensiamo, per esempio, al consenso sull’inizio e la fine della vita umana, con le precise ripercussioni concrete sulla pratica dell’aborto e dell’eutanasia; oppure alle procedure per ottenere un figlio con l’ausilio delle tecnologie biomediche: come stabilire unanimemente il confine tra il lecito e l’illecito, in base a una concezione di natura umana da tutti condivisa?
Ci sono società meglio equipaggiate per vivere nel pluralismo ideologico ed etico, altre meno. Senza autolesionismo possiamo affermare che il nostro mondo latino appartiene piuttosto a queste ultime. Siamo eredi delle crociate e delle guerre di religione, di reazioni laiciste a tenaci concezioni teocratiche; ci è più familiare la prevaricazione nei confronti di chi dissente che il rispetto e il dialogo. Due atteggiamenti, in particolare, sono inconciliabili con la ricerca etica: lo scetticismo e il dogmatismo. Quest’ultimo impone la propria verità come unità di misura, il primo rinuncia pregiudizialmente a qualsiasi ricerca.
Un sottile scetticismo si cela spesso dietro i richiami alla coscienza, come quando si ripete che è sufficiente che il medico prenda le decisioni “in scienza e coscienza”. La coscienza a cui si fa appello non deve essere un’istanza evanescente e arbitraria, una linea d’ombra dove i confini del bene e del male si confondono in un grigio uniforme. È vero che la coscienza individuale è insondabile, ma tra un essere umano e l’altro c’è il ponte costituito dalla ragione.
La coscienza, inoltre, va formata. In passato il medico acquisiva,
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parallelamente alla formazione professionale, la capacità di prendere consapevolmente le decisioni nei conflitti etici emergenti nella pratica sanitaria. Secondo la formula classica, il medico veniva considerato un vir bonus sanandi peritus. La “bontà” di cui è questione non consisteva solo nelle virtù personali, ma ancor più nella capacità di un discernimento morale. Attualmente, tutto il peso della formazione si è spostato sul versante scientifico. La competenza terapeutica e quella etica si sono divaricate: ingigantita la prima, atrofizzata la seconda. Con la conseguenza che il medico tace, smarrito, di fronte ai problemi morali che incontra, esasperati per di più dal progresso tecnologico applicato alla medicina.
Restituire spazio all’etica non è un’operazione culturale rivolta contro l’operatore sanitario. La prospettiva non è quella di una medicina colonizzata dalla filosofia, in cui magari i filosofi svolgano una riflessione etica a vantaggio e per conto dei medici. Sono piuttosto coloro che operano nella sanità e nel più ampio ambito delle scienze della vita che si riappropriano della capacità di pensare la propria azione anche nell’orizzonte dell’etica. Questa non è un pregiudizio ridicolo, di cui l’uomo di scienza deve sbarazzarsi, ma una tutela dell’umano.
3. In nome di Dio: la morale religiosa
Morale ed etica: la stessa cosa?
Molto prima che l’etica dedicasse la sua attenzione ai problemi della biologia e della medicina, la teologia morale si era seriamente occupata degli aspetti medico-sanitari della vita, costituendo un insegnamento specifico nell’ambito delle istituzioni accademiche e della formazione dei pastori d’anime: la “morale medica”.
“Etica”... “morale”: i due termini designano lo stesso tipo di sapere? Conviene procedere subito a una chiarificazione semantica. La storia culturale dei due termini è piuttosto travagliata. Nel corso dell’evoluzione del pensiero filosofico sono stati usati con significati diversi; ora come sinonimi (l’etimologia nelle due lingue rispettive è identica: “etica” in greco e “morale” in latino fanno riferimento ai
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costumi; molti studiosi anche oggi parlano di etica e di morale attribuendo alle parole lo stesso significato e utilizzando quindi i due termini in modo intercambiabile), ora invece per differenziare due diversi modi di affrontare la questione del bene e del male nel comportamento umano. Nel pensiero idealistico il termine “morale” è stato usato prevalentemente in riferimento alla problematica dei valori così come è vissuta nell’ambito individuale; l’“etica”, invece, serviva a designare la stessa problematica in rapporto all’uomo inteso come società, come stato.
Una differenziazione più ricorrente nell’uso linguistico quotidiano contrappone l’etica alla morale, riferendo l’una all’approccio razionale, l’altra a quello fideistico del problema del bene e del male: la prima procederebbe unicamente alla luce della ragione, mentre la seconda si farebbe guidare dalla rivelazione divina e dall’autorità di chi detiene poteri di magistero. Così si usano per lo più i due termini nei paesi latini, nei quali è anche frequente che la morale venga ulteriormente qualificata come “religiosa”.
La connotazione del termine “morale” è in genere piuttosto svalutante e tende a confondersi con il moralismo, vale a dire con l’atteggiamento di chi fa cadere giudizi e valutazioni su ogni cosa, senza comprendere le situazioni a cui il giudizio morale va riferito. “Fare la morale” equivale, sempre nel linguaggio corrente, a un comportamento predicatorio, che vuol imporre i propri criteri di bene e di male attraverso la colpevolizzazione dell’altro. È impresa ardua riscattare il termine “morale” dai significati negativi che gravano su di esso; molti, perciò, anche quando sviluppano una riflessione di natura teologica, preferiscono parlare di “etica”. Questo uso intercambiabile dei termini rischia di confondere il comune lettore.
L’approccio teologico del problema del bene morale ha in comune con quello filosofico il fatto di procedere mediante giudizi di obbligo e di valore. L’azione considerata moralmente — o eticamente — buona è quella sulla quale cade un giudizio d’obbligo (o di permesso). Ci si può domandare, in tal senso, se il medico può mentire o deve dire la verità a un morente. Il giudizio di valore riguarda ciò che è buono o cattivo in sé: così, la salute può essere ritenuta un bene, e un procedimento medico per abbreviare la vita un male. Ciò che distingue il
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giudizio morale religioso è l’orientamento a cercare il criterio di giudizio circa l’obbligo e il valore nella volontà o nell’attività di Dio. Semplificando molto, possiamo dire che, alla domanda che cosa sia bene o male, il credente risponde rinviando a Dio: è bene ciò che è conforme alla sua volontà e alla natura della realtà come lui l’ha creata.
Un orientamento teistico molto diffuso è quello che ritiene che Dio abbia stabilito un ordine normativo nel mondo; la risposta umana consiste allora nel percepire tale ordine — a cui si può accedere o con la semplice attività della ragione, o aprendosi alla rivelazione — e nel conformarvisi. L’orientamento delle religioni rivelate parte invece dal presupposto che Dio sia intervenuto nella storia per creare una nuova relazione con l’umanità; questa rivelazione diventa per il credente l’evento centrale per interpretare la propria esistenza e per assumere gli impegni corrispondenti.
La morale medica cattolica
Già negli anni ‘50 la morale medica è stata riconosciuta come una disciplina nell’ambito della teologia; in alcune facoltà teologiche le è stato riservato un insegnamento accademico e ad essa sono stati dedicati libri e riviste specializzate. Il principale fattore dello sviluppo di questa disciplina è stata la preoccupazione pastorale, vale a dire la guida delle coscienze. Il magistero ecclesiastico ha impartito direttive religiose e morali dettagliate ai fedeli, perché avvertissero i nuovi problemi che nascevano dalla pratica della medicina e li risolvessero alla luce della Parola di Dio e in conformità con l’insegnamento morale tradizionale.
Il contesto generale nel quale si è formata la dottrina morale cristiana circa la cura della vita fisica è a priori favorevole alla medicina. Il cristianesimo, pur proponendo una precisa dottrina del soprannaturale, è contrario al soprannaturalismo e al miracolismo. Teologicamente questa tendenza si è espressa mediante la dottrina dell’azione di Dio tramite le “cause seconde”. L’azione terapeutica dell’uomo è la causa seconda attraverso cui Dio opera la guarigione. L’azione diretta di Dio tramite il miracolo, saltando cioè la catena delle “cause seconde”, è stata sempre difesa come possibile e reale, senza però che ciò comportasse la minima svalutazione per l’azione del medico.
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Fortemente ancorato sul piano della natura e della razionalità, il cristianesimo ha lottato contro la magìa e la superstizione e ha intrapreso sempre nuovi tentativi di comporre armonicamente fede e scienza (le tensioni sporadiche ― per esempio circa l’uso dei cadaveri per gli studi anatomici — non hanno mai turbato a lungo il rapporto, sostanzialmente felice, tra la chiesa e la medicina).
Il rapido sviluppo della morale medica come disciplina teologica è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Un impulso decisivo le hanno dato i discorsi e le allocuzioni di Pio XII a medici e scienziati, con i quali il pontefice ha puntualmente affrontato i nuovi problemi etici che sorgevano dalla pratica della medicina. Praticamente tutti i punti nevralgici della morale medica del tempo sono stati toccati da Pio XII: il valore e l’inviolabilità della vita umana con riferimento all’aborto, alla contraccezione e alla sessualità coniugale; l’inseminazione artificiale; la sterilizzazione; i limiti della ricerca e della sperimentazione sull’uomo; la chirurgia in rapporto alle mutilazioni anatomiche e funzionali; la rianimazione e i problemi dell’analgesia; il parto indolore; i problemi etici della neuropsicofarmacologia; i princìpi di morale applicati alla psicoterapia.
Le soluzioni morali proposte dal pontefice, benché rivolte di per sé solamente ai fedeli della chiesa cattolica, hanno spesso trovato accoglienza anche al di là dei confini ecclesiali. Il dialogo con l’etica laica era favorito dal fatto che la sapienza cristiana relativa agli obblighi circa la vita veniva fondata razionalmente sulla “legge naturale”, oltre che sulle sacre Scritture. È stata una preoccupazione costante della teologia antecedente al Concilio Vaticano II (1962-1965) quella di armonizzare fede e ragione, sacra Scrittura e legge naturale.
Il riferimento alla legge naturale costituisce un tratto caratteristico della morale medica di quel periodo. Con questo concetto si intende la partecipazione della creatura razionale alla legge eterna, vale a dire al piano della sapienza divina che dirige ogni azione verso la meta finale, secondo la natura propria di ogni creatura. Alla ragione viene attribuita la capacità di giungere a formulare i princìpi e le prescrizioni universalmente validi della legge naturale.
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Per questo i princìpi e le loro applicazioni hanno un prevalente carattere statico e astorico.
Dal momento che la qualità etica di azioni che attentano alla vita e all’integrità dell’uomo ― quali l’aborto, la contraccezione, la sterilizzazione, l’eutanasia ecc. ― discende, per una deduzione logica, dai princìpi generali, le valutazioni morali rimangono costanti nel tempo, malgrado le trasposizioni culturali e antropologiche che avvengono nella storia. Condanne e prese di posizione su nuovi problemi in questo modello di teologia morale si riducono, per lo più, alla riproposizione dei princìpi generali; il discorso morale equivale praticamente a un’applicazione di questi ultimi ai casi particolari.
Per passare dall’universale alle situazioni singolari e concrete, la morale medica dei manuali ha elaborato una serie di procedimenti mentali. Questi si presentano come dei princìpi, che guidano a individuare quelle azioni in campo sanitario cui appartiene la qualità della bontà morale. A titolo esemplificativo, elenchiamo i princìpi più importanti a cui si ispira la morale medica cattolica: il diritto alla vita, come diritto naturale e inalienabile (di conseguenza, l’uccisione diretta di un innocente, di propria autorità, è sempre male); il principio di totalità (il bene del tutto è il fattore determinante nei confronti delle parti, per cui si può disporre delle parti a vantaggio del tutto; nell’antropologia cristiana bisogna inoltre tener presente la finalità spirituale della persona, per cui il singolo organo è subordinato non solo al bene del corpo, ma al bene della persona); il principio del duplice effetto, nelle azioni che hanno due o più effetti, compreso uno cattivo o indesiderabile (è il principio chiamato in causa per giustificare la possibilità dell’uccisione indiretta, dell’aborto indiretto, o della cooperazione materiale indiretta; le condizioni requisite sono: che l’atto sia in sé buono o moralmente indifferente; l’intenzione dell’individuo deve essere retta; deve esistere un motivo proporzionalmente grave per porre l’azione).
Per quanto riguarda la sessualità e la procreazione, le facoltà sessuali devono essere usate secondo la finalità intesa da Dio creatore e rispecchiate dalla natura. Il fine degli organi e delle funzioni sessuali è duplice: la procreazione e l’unione nell’amore. Ogni loro uso, in cui positivamente i coniugi interferiscono per
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impedire o frustrare la finalità intrinseca nell’atto, è immorale. Di qui la condanna della contraccezione e della sterilizzazione contraccettiva. Questa è sostanzialmente la struttura concettuale della morale medica cattolica, così come è stata elaborata dal pensiero teologico tradizionale.
Gli orientamenti postconciliari
Il significato del Concilio Vaticano II nella vita della chiesa cattolica da qualcuno è minimizzato, da altri troppo enfatizzato. Lo si può vedere solo come un restauro della facciata (abbandono del latino, maggiore partecipazione della base...), oppure come uno sconvolgimento totale di una struttura dottrinale e istituzionale di impianto secolare. La verità sta probabilmente nel mezzo, con la facoltà, lasciata a ognuno, di privilegiare le innovazioni o la continuità. L’osservazione è valida, in particolare, per quanto riguarda la morale medica.
Sui punti fondamentali la morale cattolica della vita fisica non ha subito brusche virate o discontinuità. Basti pensare alla ripetuta condanna dell’aborto, dell’eutanasia e dei comportamenti sessuali contraccettivi, sancita reiteratamente con documenti ufficiali del magistero ecclesiastico anche negli anni seguenti al Concilio. I cambiamenti sono di un ordine più fondamentale, e per questo più difficili da cogliere. Riguardano in primo luogo l’aspetto puramente normativo della morale, che la fa concepire come un insieme di regole calate dall’alto, alle quali l’individuo deve semplicemente adattare il proprio comportamento.
Possiamo applicare alla morale, senza fare un’estensione arbitraria, un’osservazione che il documento conciliare sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo” fa a proposito dell’ateismo. I credenti sono invitati dal Concilio a fare un’autocritica e a verificare se non abbiano contribuito alla diffusione dell’ateismo, proponendo un’immagine fallace di Dio (cfr. Gaudium et spes, 19). Analogamente, si potrebbe dire, i cristiani devono interrogarsi se non sono in parte responsabili della disaffezione e ostilità nei confronti della morale, avendo dato di questa una visione distorta. Ciò è avvenuto soprattutto quando le norme sono state poste al di sopra dell’uomo e della coscienza, dimenticando
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il fondamentale insegnamento evangelico secondo cui «il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (cfr. Mc 2,27).
A questa luce bisognerebbe rivedere, per esempio, la dottrina così intransigente sull’illiceità dell’interruzione della gravidanza per motivi terapeutici: meglio la morte sia della madre che del bambino ― diceva con fierezza la morale dei manuali — che la violazione della legge morale che vieta di uccidere. Forse nessun punto della dottrina cattolica ha come questo fatto odiare onestamente la morale, presentandola come una pietra non digeribile dalle viscere dell’uomo.
Da una prospettiva più formale, le innovazioni più rilevanti che si possono notare nella morale medica post-conciliare riguardano il superamento del concetto teorico di “legge naturale” e la disamina critica dell’insegnamento autoritativo del magistero. Sempre meno frequentemente i teologi moralisti cercano di fondare le norme nella legge naturale. Ne beneficia la dottrina morale stessa, che sfugge così al pericolo di confondere l’aspetto morale dell’atto umano con l’aspetto fisico di esso: quasi che la “natura”, con le sue leggi, fosse una sorgente autonoma di moralità. E non ne scapita il dialogo con l’etica filosofica. Anzi, la motivazione tipica del linguaggio della fede, che cerca di fondare la moralità nell’azione salvifica di Dio con l’uomo, obbliga a un discorso antropologico allargato, sul quale è possibile trovare una più solida base di consenso. Di conseguenza, il riferimento al soggetto e alla persona umana tende a sostituire il costante richiamo alla natura, monolitico e indifferenziato, che era garantito dal costante richiamo all’insegnamento autoritativo del magistero ecclesiastico.
L’unanimità si è infranta clamorosamente alla fine degli anni ‘60, con le reazioni discordi all’enciclica Humanae vitae (1968) sulla regolazione delle nascite: ci sono stati teologi che hanno rivendicato il diritto al dissenso rispetto a insegnamenti morali specifici, non garantiti dall'infallibilità magisteriale. Su questioni particolari ― la contraccezione, la sterilizzazione, la masturbazione per analisi seminali, l’inseminazione artificiale — emerge un pluralismo impensabile per la manualistica preconciliare. Soprattutto si fa strada la consapevolezza che sulle questioni morali la chiesa non ha un grado di certezza che esclude la possibilità di errore.
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DEONTOLOGIA, ETICA MEDICA, BIOETICA RAPPORTI E DIFFERENZE
1. La bioetica definita per viam negationis
Una delle prime preoccupazioni degli studiosi che hanno contribuito alla nascita della bioetica è stata quella di definire il nuovo ambito disciplinare, delimitandolo rispetto a quelli più vicini: la deontologia e l’etica medica. Ogni sanitario sa, per esperienza diretta, che la propria attività è sottoposta a un insieme di restrizioni che la limitano e allo stesso tempo definiscono l’ambito della “buona medicina”. Ci sono cose che si devono o non si devono fare. La socializzazione nella professione comprende anche l’interiorizzazione di questa rete invisibile di norme. Relativamente al complesso di regolazioni del comportamento che va sotto il nome di bioetica, è legittimo domandarsi: in che rapporto sta con il tradizionale bagaglio di normatività che accompagna la cura della salute, la pratica della medicina e la ricerca biomedica?
È istruttivo, prima di rispondere a tale domanda, ascoltare l’esperienza diretta di Warren Reich, il curatore dell'Encyclopedia of Bioethics. L’opera, pubblicata nel 1978, ha contribuito in modo decisivo
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all’affermazione della nuova disciplina e del neologismo che la denota. W. Reich testimonia che, al momento della progettazione dell’Enciclopedia, all’inizio degli anni Settanta, si è esitato se chiamarla “di bioetica” o “di etica medica”: le due designazioni venivano sentite come equivalenti. L’opzione per il termine bioetica fu quasi casuale. In ogni caso, fu assunto solo il termine, non l’accezione originaria in cui Van Rensslaer Potter l’aveva proposto per la prima volta, solo pochi anni prima 51.
Oltre a fornire la definizione di bioetica che è divenuta ormai classica («Studio sistematico del comportamento umano nell’ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale comportamento è esaminato alla luce dei valori e dei principi morali»), l’Enciclopedia descriveva nella sua introduzione l’area disciplinare della bioetica, con la preoccupazione esplicita di demarcarla dall’etica medica. In questo disegno la bioetica comprendeva l’etica medica; il suo oggetto era presentato come più ampio di quello proprio dall’etica medica, in quanto quest’ultima veniva fatta coincidere con i problemi valoriali che sorgono nel rapporto medico-paziente.
Secondo l'Encyclopedia, l’eccedenza della bioetica rispetto all’etica medica si manifesta in quattro ambiti:
― comprende i problemi valoriali che sorgono in tutte le professioni della salute, e quindi non soltanto nella professione del medico in senso stretto (da questo punto di vista, bioetica si presta meglio di etica medica a circoscrivere una disciplina che riguarda, allo stesso titolo, i problemi etici che può incontrare un medico o un’infermiera, uno psicologo o un amministratore della sanità, un chirurgo o un farmacista);
― si estende alla ricerca biomedica e a quella condotta dalle scienze psicosociali, indipendentemente dalla portata terapeutica che tali ricerche possono avere (la necessità di trovare regole etiche per la ricerca, e non solo per la pratica clinica, è stata uno dei principali motivi della rapida crescita della bioetica);
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― include un ventaglio più ampio di problemi sociali, come quelli relativi alla sanità pubblica, alla medicina del lavoro, alla salute a livello internazionale e all’etica del controllo demografico (mentre l’etica medica è notoriamente centrata sui problemi che si presentano al sanitario nella cura del singolo malato, nel rapporto duale medico-paziente);
― si estende oltre la vita e la salute dell’uomo, in quanto comprende problemi relativi alla vita animale e vegetale, per esempio temi relativi alla sperimentazione con gli animali e alla difesa dell’ambiente.
La definizione di una disciplina attraverso il suo oggetto materiale — il quale, nel caso della bioetica, si presenta fenomenologicamente di maggiore ampiezza rispetto al contenuto della tradizionale etica medica — non esaurisce l’impegno a tracciarne un completo profilo. Molti altri elementi, soprattutto quelli formali, contribuiscono a costituire lo statuto della bioetica quale disciplina specifica. In altre parole, la bioetica dimostra la sua originalità nei confronti dell’etica medica che l’ha preceduta non solo perché si occupa di temi che questa ignorava, ma soprattutto perché anche le tematiche comuni le tratta in modo diverso.
La grande novità è il metodo. Se la bioetica è diventata negli ultimi vent’anni una disciplina, o quanto meno un argomento molto frequentato dal dibattito pubblico, ciò non è dovuto unicamente alla necessità di trovare risposte a problemi inediti — come quelli dell’ingegneria genetica o ai malati in coma vegetativo permanente ― ma al clima nuovo in cui si sono collocati anche dibattiti etici tra i più tradizionali: per esempio, quelli relativi all’aborto volontario e all’eutanasia. È il contesto di pluralismo etico e di secolarizzazione in cui si esercita oggi la riflessione sui vincoli morali a cui le pratiche biomediche devono essere sottoposte.
Stabilite, con grossolana approssimazione, le novità contenutistiche e formali della bioetica, cerchiamo ora di realizzare un approccio più sistematico alla disciplina, anche se per viam negationis. Confronteremo la bioetica con l’etica medica e con la deontologia professionale, sottolineando ciò che la differenzia da queste consolidate discipline normative.
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2. L’etica medica come teologia morale applicata alla medicina
La demarcazione dall’ambito proprio dell’etica medica, operata dalla nascente bioetica, riposava su una omologazione di diversi concetti di etica medica. Per un discorso più rispettoso della pluralità delle pratiche — e anche più attento ai molteplici significati attribuiti agli stessi termini, per evitare il rischio di sfociare in una babele di linguaggi — dovremo distinguere almeno tre accezioni di etica medica: come morale religiosa applicata alla medicina, come filosofia morale pratica e come morale professionale.
L’etica medica, secondo il primo significato, è un’articolazione della teologia morale. Numerosi manuali, con il titolo appunto di Etica medica, sono stati prodotti da teologi fin dalla metà del nostro secolo, parallelamente all’autorevole insegnamento magisteriale di Pio XII, il quale dedicò un’attenzione privilegiata ai problemi che andavano sorgendo a seguito dei grandi sviluppi della medicina contemporanea 52. Secondo la ricostruzione storica dell’avvio del movimento della bioetica negli Stati Uniti fatta da Leroy Walters, teologi moralisti e pensatori interessati al rapporto tra scienza e religione, tanto cattolici che protestanti, hanno contribuito in maniera determinante alla rinascita dell’etica medica, particolarmente nel decennio che va dal 1965 al 1975 53. Il dibattito e le pubblicazioni di quegli anni si sono riferite a questo ambito disciplinare chiamandolo, appunto, “etica medica”.
L’interesse dei teologi, che ha anticipato e stimolato quello che ai progressi della medicina avrebbero in seguito portato i cultori della filosofia morale, aveva un eminente carattere pastorale 54. L’etica medica
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che proponevano era elaborata deduttivamente, a partire dal patrimonio dottrinale tradizionale proprio di ciascuna confessione religiosa. Si trattava sostanzialmente di un’etica fatta dai teologi per i medici (e per i fedeli), piuttosto che con i medici. Ancor meno si può dire che fosse fatta dai medici.
Non si vedono ragioni per cui questa attività di produzione di una normatività morale religiosa applicata all’ambito biomedico, pienamente legittima entro l’orizzonte confessionale che le è proprio, non debba continuare anche dopo l’emergere del discorso bioetico nella nostra società. Per amore di chiarezza, tuttavia, sarebbe più opportuno che tale insegnamento evitasse di denominarsi bioetica (anche se è pur vero che in questo ambito i teologi hanno smesso di parlare esclusivamente ai loro correligionari con il linguaggio della loro tradizione e cercano sempre più di esprimere gli standard etici in foro pubblico e laico; la natura di questa etica medica resta, tuttavia, essenzialmente religiosa). Ritorneremo su questo tema nel capitolo dedicato al rapporto tra bioetica e religione (“Natura e persona nella bioetica di ispirazione religiosa”).
3. L’etica medica come area della filosofia morale
In una seconda accezione, l’etica medica è una forma di filosofia morale pratica, ovvero di etica applicata. Essa va inserita all’interno della svolta dalla meta-etica all’etica pratica. L’insegnamento filosofico tradizionale non incoraggiava a occuparsi della regolazione morale dei problemi concreti, e neppure a conoscerne la realtà. Nella convinzione che l’applicazione dei grandi principi ai casi reali non sollevasse alcuna difficoltà particolare, la riflessione filosofica si consacrava alla critica dei fondamenti del discorso morale. L’interesse dei filosofi di professione era rivolto all’aspetto formale dell’etica, cioè a stabilire quale tipo di problemi e di giudizi possono essere propriamente classificati come etici, in particolare qual è il linguaggio che la contraddistingue.
L’era della meta-etica è durata fino agli inizi degli anni sessanta, quando l’attenzione pubblica si rivolse alle questioni che nascevano
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dal progresso della biologia e della medicina. I filosofi morali le fecero seguito, muovendo dagli aspetti più teorici dell’etica ai problemi del “ragionamento pratico”. Secondo una formulazione a effetto di Stephen Toulmin, mediante la svolta avvenuta una ventina d’anni fa la medicina «ha salvato la vita all’etica» 55, in quanto l’ha costretta a occuparsi di problemi concreti; in altre parole, ha restituito all’etica la serietà e la rilevanza sociale che sembrava aver perduto.
La fioritura dell’etica medica come attività specifica di filosofia morale pratica ha trovato un campo privilegiato di applicazione nell’etica clinica (intesa come identificazione, analisi e soluzione di problemi morali che sorgono nella cura di un particolare paziente, inseparabilmente dalle preoccupazioni mediche circa la diagnosi e il trattamento corretti) e nella pratica di analisi di casi nell’ambito di comitati di etica 56.
Pur con la dignità di discorso filosofico che le compete, questa etica medica è un’attività che non viene esercitata in modo esclusivo da coloro che, con un neologismo di conio anglosassone, vengono detti “eticisti”. L’etica medica, intesa come giustificazione razionale delle scelte etiche che la pratica clinica richiede ai sanitari, è una dimensione costitutiva dell’esercizio della medicina. Per fare correttamente etica medica è necessario solo avere la formazione appropriata, che permetta di acquisire la metodologia.
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4. L’etica professionale in rapporto all’etica di una società
Una terza accezione di etica medica, che va distinta dalle due precedenti, è quella che si riferisce al rapporto che intercorre tra l’etica e una determinata professione: quella del medico, nel caso specifico. Un’approssimazione più diretta all’ordine di problemi qui implicati è costituita dalla domanda: l’etica professionale coincide con lo standard morale in vigore in una determinata società o differisce da esso? In altre parole: l’etica professionale presuppone principi morali validi in qualsiasi ambito dell’esperienza umana, oppure implica principi validi solo per quella determinata professione e riconoscibili solo da chi la esercita? L’interrogativo è stato dibattuto, alcuni anni or sono, al più alto livello accademico, tra studiosi che hanno pubblicato le loro considerazioni sulla rivista Ethics 57.
Aprendo il dibattito, B. Freedman fece notare che la “morale professionale”, rispetto alla “morale ordinaria”, ha alcune caratteristiche peculiari. La morale professionale ha sempre un carattere straordinario, se confrontata con il comportamento ordinario: al professionista viene permesso di fare o di omettere certe cose che invece la morale ordinaria richiede al cittadino qualsiasi. Ciò spiegherebbe, secondo Freedman, il fatto che la morale professionale si acquisisce mediante un patto o un contratto, e che conserva le distanze rispetto alla morale ordinaria mediante obblighi come quello del segreto.
In risposta a questa tesi, M. W. Martin sostenne che gli obblighi propri della morale professionale non avrebbero senso, se fossero svincolati dalle norme della morale ordinaria: si possono giustificare solo rispetto ad esse. L’obbligo del segreto medico, ad esempio, ha il suo fondamento nel principio della morale ordinaria secondo cui ogni essere umano è soggetto di due diritti inviolabili, che sono quelli dell’intimità (privacy) e della confidenzialità.
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Alla sottolineatura dei diritti umani, come fondamento della morale professionale, Freedman contrappose, in un successivo intervento, la valorizzazione di ciò che rende la morale professionale diversa. Per quanto il fondamento possa essere lo stesso, coloro che vi si ispirano si collocano su un altro livello. La morale professionale impone, infatti, di realizzare atti che, se non si considerasse l’identità professionale di colui che agisce, sarebbero ritenuti immorali o illeciti. Grazie alla morale professionale, nelle relazioni sociali proprie di un gruppo viene concessa ad alcune persone, identificate come professionisti, un’autorità, a cui consegue l’impunità per certi atti.
Questo dibattito filosofico sulla natura dell’etica professionale acquista maggior rilievo se lo consideriamo sullo sfondo costituito dalle analisi proprie della sociologia delle professioni 58. Da alcuni decenni si sta conducendo una riflessione sistematica sulle libere professioni, studiate in quanto occupazioni “speciali”, cioè caratterizzate da alcuni attributi che le distinguerebbero dalle altre occupazioni. Tra gli attributi individuati ci sono delle conoscenze scientifiche peculiari e l’adesione a un ideale di servizio. La specificità dell’etica professionale si spiega come un’ulteriore determinazione di una “diversità” che sarebbe inerente, per definizione, alle libere professioni.
La ricerca sociologica che si è interessata al mondo delle professioni non ha esitato a puntare il dito sul carattere ideologico di molti miti che circondano le libere professioni. Tra questi vanno rilevati: la scelta della professione come “vocazione”, l’altruismo e l’ideale di servizio alla società, la peculiarità della formazione ricevuta, l’impossibilità del cliente di valutare la prestazione professionale, l’autoregolazione e il segreto professionale 59.
L’etica professionale è anch’essa uno di questi miti? È certo che essa va interpretata, nella prospettiva sociologica, come un aspetto parziale di ciò che caratterizza le libere professioni, in quanto occupazioni
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speciali all’interno della società. Se ci riferiamo in concreto all’etica medica, considerandola sotto l’aspetto di etica professionale, possiamo rilevare diversi indizi caratteristici di quella specie di “extraterritorialità” che si ritiene sia necessaria alla professione per poter svolgere la sua funzione sociale.
Se il segreto professionale è comune ad altre professioni (avvocati, giornalisti ecc.), in quella medica predomina la facoltà di procedere ad atti che possono avere conseguenze sulla vita e sull’incolumità personale (somministrazione di farmaci, incisioni chirurgiche), senza che tali atti, identificati come illeciti in condizioni normali, siano ritenuti tali quando sono esercitati dal medico. L’agire senza consenso sull’integrità fisica di una persona, che nelle normali occorrenze costituisce un reato di violenza privata, diventa invece lecito, se non addirittura doveroso, quando si configura come atto medico.
I problemi dell’etica medica, in quanto etica della professione medica, stanno attraversando una particolare complessificazione. La medicina, infatti, acquista i connotati del sistema sociale all’interno del quale si sviluppa. Per quanto riguarda il mondo occidentale postindustriale, il tratto dominante è quel processo che ha portato la professione medica a perdere progressivamente la triplice dominanza che la caratterizzava: funzionale, gerarchica e scientifica 60. Le altre professioni sanitarie si rendono autonome e affrontano i problemi etici in un modo che non è subalterno all’etica della professione medica.
L’emergenza del soggetto e la difesa del principio di autonomia obbligano inoltre l’etica professionale medica a ridefinire i limiti della sua facoltà di curare. Il sistema sanitario è diventato troppo complesso per poter continuare a essere governato da un’etica medica elaborata da una posizione di “splendido isolamento”, quale era caratteristica della medicina in regime di professioni liberali. Questa situazione complessiva permette alla bioetica di distaccarsi sullo sfondo costituito dall’etica medica in quanto etica professionale, sottolineando i propri contorni di riflessione etica non riferita direttamente all’esercizio
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di una professione, ma relazionata piuttosto all’etica civile e fondata sulla difesa e promozione dei diritti umani.
5. La deontologia medica e le sue funzioni
La terza accezione di etica medica, quella cioè che la rende equivalente a un’etica professionale, ci introduce direttamente alla deontologia. È corrente la concezione di deontologia ricondotta a un corpus formalizzato di regole di autodisciplina o norme di comportamento che, per decisione autonoma di una professione, valgono per i propri membri. Essa viene differenziata dall’etica per il fatto che non ha di mira, come quest’ultima, le scelte di valori e gli orientamenti che sono propri di un’intera comunità civile; la deontologia è finalizzata piuttosto alla tutela della professione o, più esattamente, del rapporto che i professionisti instaurano con i clienti. Pur accettando per valida questa prima approssimazione alla deontologia, se ne possono dare anche altre letture, che mettono in evidenza significati e funzioni alla deontologia che sfuggono a questa visione piuttosto riduttiva.
Un’interpretazione più comprensiva della deontologia è quella fornita dalle analisi sociologiche. Agli occhi del sociologo l’autoregolazione professionale attuata dai codici deontologici appare come sintomo di esigenze funzionali che riguardano tutte le professioni, in quanto hanno bisogno di legittimazione. Questo bisogno appare particolarmente evidente nell’ambito sanitario. La preoccupazione principale che traspare nel corpo delle norme di deontologia medica, in quanto modelli di comportamento faticosamente consolidati nel tempo mediante la ripetitività e autorevolmente proposti dagli organismi più rappresentativi della professione, è quella di costruire una relazione di fiducia con il paziente. La deontologia corregge l’intrinseca asimmetria del rapporto medico-paziente, esplicitando le norme di comportamento a cui i sanitari, in quanto professionisti, si impegnano ad attenersi. Non si limita, perciò, a difendere gli interessi della categoria, concepita come una corporazione, ma tutela anche i pazienti da eventuali comportamenti illeciti da parte dei membri della professione.
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Le formulazioni deontologiche comprendono le regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune, in quanto questa ha per interlocutori la società, la quale legittima l’esercizio dell’arte terapeutica, e i malati, che hanno bisogno di una relazione fiduciale. Le regole deontologiche sono, perciò, più che un semplice regolamento interno alla professione. Le si potrebbe chiamare uno “spirito”, che deriva da una percezione collettiva dell’attività svolta, del senso di questa attività e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale.
Accanto a questa lettura sociologica, che vede nella creazione di una deontologia l’avvenuto processo di istituzionalizzazione della professione, è opportuno introdurne un’altra, di natura psico-sociale. Il punto di partenza di questa interpretazione è costituito dalla consapevolezza che il sapere medico è un sapere particolare. Renée Fox, che da decenni ne studia le caratteristiche, ha messo in evidenza il carattere di incertezza del sapere medico e ha potuto analizzare le diverse strategie messe in atto nel corso del curriculum di formazione degli studenti di medicina per imparare ad adattarsi ad essa 61.
Una situazione particolarmente emblematica di tutto il processo di acquisizione del sapere medico, inteso come controllo dell’incertezza, è individuata dalla studiosa americana nell’autopsia. A suo avviso, la partecipazione alla prima autopsia riveste un significato simbolico molto alto — fino a costituire un vero e proprio “rito di passaggio” — e completa la formazione all’incertezza nel periodo preclinico. Mediante l’autopsia, gli studenti di medicina fanno la conoscenza di uno dei modi istituzionalizzati grazie ai quali i medici affrontano l’incertezza intrinseca alla professione con fini di ricerca 62. Allo stesso tempo, gli studenti capiscono che la partecipazione a un’autopsia costituisce uno dei numerosi diritti e privilegi dei medici, che vengono estesi agli studenti nel quadro della loro formazione. L’autopsia aiuta gli studenti a prendere coscienza che abbracciano una professione
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che possiede un codice di comportamento molto diverso rispetto a quello dei profani. Tale processo equivale, in definitiva, a un primo contatto con la deontologia che è propria della professione.
È importante notare, a tale proposito, che la deontologia non ha bisogno di un insegnamento formale. Essa viene assimilata per lo più indirettamente: pur senza aver mai letto il giuramento di Ippocrate, la maggior parte dei medici ne ha fatto proprio lo spirito e sa con esattezza a che cosa ci si riferisce quando ci si appella ad esso. Nella stessa direzione ci inclina anche la constatazione che i principali documenti della tradizione deontologica ed etica in medicina, pur elaborati in tempi e luoghi diversi e senza contatti reciproci, coincidono sostanzialmente nelle linee fondamentali 63. La deontologia viene acquisita insieme al sapere teorico e alla tecnica, al punto da non essere facilmente separabile da questi.
Per interpretare tale fatto, abbiamo bisogno di un’ulteriore prospettiva, e precisamente di quella che ci viene offerta dalla psicosociologia. Questa si è resa attenta al funzionamento dei sistemi sociali in quanto istituzioni che costituiscono una difesa contro l’ansia. E l’ansia che inerisce alla pratica della medicina è di un’intensità particolare, tanto che alcuni studiosi si sentono autorizzati a qualificarla come psicotica 64. Il desiderio, infatti, di conoscere e di guarire, che anima il sapere medico, risveglia quelle potenziali fonti di angoscia connesse con il penetrare i segreti della vita e della morte, con l’infrazione del tabù che interdice l’accesso all’interno del corpo dell’altro (di qui il particolare valore di rito di passaggio attribuibile al primo ingresso in sala settoria) e con l’incontro con la malattia. Tutti i membri della stessa istituzione
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condividono analoghi meccanismi di difesa, che interiorizzano durante il processo di formazione. Qui si può individuare il motivo della particolare coesione che caratterizza l’appartenenza alla professione.
6. Strategie per vincere l’angoscia
La formulazione di codici e norme di comportamento è solo l’aspetto fenomenologicamente più superficiale della deontologia, ovvero l’esplicitazione della sua funzione sociale. La sua radice più profonda va rintracciata invece nei meccanismi difensivi che tutti i medici adottano per il fatto di operare in prossimità dei segreti inquietanti della vita e della morte. Questo profilo della deontologia ci permette di capire, per esempio, come il sapere medico tenda a situarsi “spontaneamente” dalla parte della difesa della sacralità della vita, indipendentemente dall’ethos sociale o dai valori etici culturalmente condivisi. Se, nel caso di divaricazione tra mantenimento della vita e sua qualità, la classe medica è più incline all’opzione per la difesa della vita, ciò va ricondotto in profondità a un consenso sulla comune deontologia, piuttosto che alla condivisione di un’identica etica medica.
Nella stessa direzione ci conducono anche le osservazioni che possiamo fare a partire dall’“etichetta medica”. Anche l’etichetta può essere ricondotta nell’ambito della normatività che accompagna l’esercizio di una professione sanitaria. A differenza della normatività etica e di quella deontologica, che si servono del linguaggio dei doveri (ciò che si deve e non si deve fare, ciò che è lecito e proibito, bene e male), l’etichetta parla di opportunità e convenienza. Viene trasmessa in modo ancor meno formale della deontologia; anzi, pur essendo stato un genere letterario molto coltivato nel medioevo e nel rinascimento, fino alle soglie dell’epoca moderna, è stato poi progressivamente abbandonato.
Nelle norme di buon comportamento medico derivanti dall’etichetta troviamo per lo più consigli che presuppongono l’esperienza. Possono riguardare aspetti poco importanti — come il modo
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di vestire o gli espedienti per impressionare il pubblico — ma anche problemi di alto profilo: per esempio, come gestire il rapporto con il paziente. Rileggiamo una pagina tratta da Cento aforismi medico-politici del medico padovano Alessandro Knips Macoppe, che tenne la cattedra di medicina pratica sino alla metà del XVIII secolo (un contemporaneo del grande Morgagni, dunque). L’ottavo aforisma impartisce questi consigli:
Cerca di essere sempre ambiguo nel formulare previsioni sul decorso della malattia. Pressante e inevitabile tormento è per il medico la continua richiesta di previsioni sull’esito della malattia, da parte non solo dei familiari ma anche dei semplici conoscenti. Tutti appaiono eccessivamente preoccupati del futuro. Vorrebbero che noi medici fossimo dei semidei, degli oracoli preveggenti il futuro, invece che dei semplici uomini. Chi aspira all’eredità di denaro o di carica; chi ha sentimento di amore ed affetto per il padre, il figlio, la moglie, l’amante, l’amico, il servo; e anche chi odia il malato come nemico: tutti trovano angosciose le perplessità e l’incertezza da cui è avvolta la soluzione del problema.
In questa situazione tu devi barcamenarti formulando vaghe previsioni secondo lo stile delle profezie delle antiche sibille. Con parole di dubbio significato, con espressioni ambigue, riuscirai a tenere in sospeso gli animi, a mitigare le curiosità, ad accontentare gli ingenui. Sii prudente nel formulare la diagnosi, in modo da avere sempre di riserva eventuali giustificazioni in caso di errore. Potrai dire, ad esempio: «Il malato guarirà solo se avrà una forte sudorazione; solo se i medicamenti riusciranno a manifestare la loro efficacia e soprattutto se il corpo sofferente riuscirà a completare la loro azione; solo se l’organismo ormai gravemente debilitato riuscirà a vincere la gravissima e refrattaria malattia». Ci sono anche medici che in caso di malattie gravi e di prognosi incerta ad alcuni dei parenti predicono la guarigione del paziente, ad altri invece la morte. Così in ogni caso possono citare un testimonio della loro corretta prognosi, facendo finta di ignorare l’altro testimonio oppure affermando di avergli deliberatamente taciuta la verità 65.
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L’interesse di testi di questo genere non sta nella ricerca dell’ipotetica attualità di “furbizie” professionali come quelle che il dott. Macoppe cerca di trasmettere ai più giovani colleghi. Al di sotto degli espedienti, c’è una cosa seria: l’incertezza che caratterizza l’azione del medico e l’angoscia connessa con tale incertezza. Curare la salute richiede un “saper fare” che non si esaurisce nel sapere scientifico e nelle conoscenze tecniche. Bisogna appropriarsi e interiorizzare una serie di norme connesse al fatto che l’esercizio della medicina avviene in una situazione che è tra le più intricate e angosciose della vita umana. Il sanitario è collocato in un nodo di aspettative, attese, domande collegate con la vita e la morte, e quindi cariche di pathos; ha a disposizione un sapere che è incerto per definizione.
Tra i suggerimenti empirici di Macoppe e le regole della bioetica contemporanea possiamo avere l’impressione che siano passati anni luce. Di fatto è così. Ma non dobbiamo lasciarci sfuggire ciò che accomuna questi diversi saperi normativi: le norme — deontologiche, di etica professionale, di bioetica, di etichetta — vogliono mettere il sanitario in grado di operare bene, pur svolgendosi la sua professione in condizione di insuperabile incertezza. La specificazione delle diverse accezioni e funzioni dell’etica medica e della deontologia propria della professione sanitaria ci permette di non confondere questi diversi saperi e atteggiamenti con l’attività specifica della bioetica. In quanto etica civile, questa è costituita da una procedura particolare che presuppone e rispetta l’autonomia delle altre istanze normative del comportamento. La loro differenziazione e reciproca distinzione di livello di funzionamento e di finalità produce, in definitiva, una più efficace presenza del bisogno di normazione nell’ambito dell’attività sanitaria.
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IL GIUDIZIO MORALE E LA SUA GIUSTIFICAZIONE
1. Il ruolo delle emozioni nella riflessione etica
Nell’aprile del 1992 un caso clinico esemplare occupava le prime pagine dei giornali. Era nata in Sicilia una bambina anencefala. Per quanto la corteccia cerebrale fosse inesistente, il tronco funzionava, assicurando — per poco tempo ancora — le funzioni fisiologiche fondamentali dell'organismo. L’orientamento dei genitori e di alcuni sanitari era di procedere all’espianto degli organi ancora vitali, a beneficio di altri piccoli pazienti che avevano bisogno di quegli organi per sopravvivere. L’espianto era possibile solo se Valentina, la piccola anencefala, fosse stata dichiarata morta: mentre ciò non era possibile, secondo i criteri attualmente adottati per il riconoscimento della morte. Di qui la richiesta dell’estensione dei criteri, fino ad attribuire all’assenza o arresto definitivo delle funzioni della corteccia dell’encefalo (o morte corticale) il valore di indizio sufficiente per essere dichiarati cadaveri.
Contro la proposta si levava un coro di proteste dall’ambito della medicina, del diritto, della riflessione antropologica. Su questa tela di
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fondo delle opinioni medico-legali e filosofiche (quando cessa la vita umana? quando un uomo può essere dichiarato morto?) si agitavano le forti emozioni legate a un caso così inusuale: dei genitori, il cui atto di generosità veniva condannato da coloro che erano contrari all’espianto; dei sanitari, presi nella spirale dei media pronti ad attivare la contrapposizione tra medicina come fabbrica di miracoli e medicina come tecnologia senza anima; dell’opinione pubblica, chiamata a prendere posizione prò o contro in un caso che domanda una decisione rapida, senza il tempo necessario per valutare serenamente le implicazione e le conseguenze.
La vicenda di Valentina può insegnarci qualcosa di importante intorno ai conflitti di coscienza che ci crea la medicina moderna, alla diversità di opinioni sulle scelte morali appropriate, ai rapporti complessi che si creano tra la legge e l’etica: in breve, intorno a quel nodo problematico della convivenza civile al quale la bioetica vuol dare concrete risposte. Una prima considerazione va rivolta al rapporto che intercorre tra le emozioni e la riflessione etica. Sono pochi coloro che pensano che basti ragionare bene per agire bene. La fiducia nella ragione ha ispirato opinioni come quella espressa da Victor Hugo, per il quale ogni volta che si apre una scuola si chiude un carcere. Ci vuole qualcosa di più e d’altro, oltre all’istruzione, perché l’azione umana sia conforme agli ideali morali.
Ma la generosità e il sentimento, pur necessari affinché la vita morale diventi realtà, possono essere anche cattivi consiglieri. Le emozioni hanno bisogno di essere controbilanciate e corrette dal ragionamento morale. Dobbiamo dirlo proprio di fronte a espressioni di nobile disponibilità a superare gli interessi egoistici, a orientarsi in senso altruistico. I genitori di Valentina, che destinano gli organi della loro infelice creatura a salvare la vita di altri bambini, meritano la nostra più alta considerazione; i medici che promuovono con convinzione la medicina dei trapianti sono un fronte avanzato di quella speranza indomita che, senza lasciarsi piegare dagli insuccessi, ne fa occasione di altre battaglie. Ma proprio di fronte a queste espressioni di generosità dobbiamo ricordare che non basta farsi guidare dai sentimenti: l’etica prevede procedure di controllo delle nostre scelte affinché, sotto la guida della ragione, ci possiamo tutelare dalle possibili trappole dell’emotività.
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Una funzione della riflessione bioetica, nei giorni caldi dell’appassionato dibattito intorno a Valentina, è stata quella di impedire di farci prendere la mano dalle emozioni, comprese quelle più generose. Il tempo stringeva: man mano che le ore passavano, diventava sempre più improbabile che gli organi del corpicino che si andava spegnendo potessero essere utilizzati per dei trapianti.
L’urgenza è una caratteristica di alcune decisioni, tra le più drammatiche, che devono essere prese nell’ambito della medicina; essa sembra agire in senso antitetico al meditato equilibrio che l’etica richiede. La concitazione che predomina nelle situazioni in cui bisogna fare le scelte più gravi ci fa apprezzare la saggia osservazione del presidente Mitterand, il quale, insediando il Comitato nazionale francese per la bioetica, motivava l’iniziativa proprio con ragioni di ponderatezza: «Più veloce va il mondo, più forte è la tentazione dell’ignoto, e più dobbiamo saper prendere tempo: il tempo della misura, che chiamerei il tempo dello scambio e della riflessione, cioè il tempo della morale».
Il ribollire delle forti emozioni e la fretta delle decisioni accompagnano la bioetica da prima pagina dei giornali. Tende allora a prevalere un'etica modellata sui sondaggi d’opinione: quanti favorevoli e quanti contrari al prelievo e al trapianto degli organi di Valentina? È proprio in circostanze come queste che sentiamo il bisogno di una bioetica profonda e sistematica, che prenda forma nei tempi lunghi della riflessione pacata, che si costruisca mediante l’ascolto paziente di tutte le ragioni, sia quelle favorevoli che quelle contrarie. Di queste riflessioni abbiamo bisogno non solo per orientarci nei casi eccezionali e nelle situazioni di frontiera, ma anche nelle scelte quotidiane in sanità.
Questa elaborazione non potrà avvenire se la bioetica non diventerà un impegno educativo, rivolto tanto ai professionisti della sanità (non è più accettabile che le istituzioni che formano i sanitari continuino a sfornare professionisti che sui temi della bioetica non hanno più informazioni di quelle di cui disponga un lettore frettoloso dei giornali!), quanto al vasto pubblico. Tutti possiamo essere improvvisamente chiamati a essere protagonisti di scelte ad alto profilo etico, che non devono dipendere dall’improvvisazione.
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Tanto meno possiamo fidarci del solo “olfatto morale”. Con questa colorita espressione lo studioso di bioetica spagnolo Diego Gracia Guillén allude, introducendo un suo libro dedicato al metodo nella bioetica clinica 66, alla fiducia ingenua che per lo più abbiamo di saperci orientare, quasi d’istinto, verso la soluzione corretta dal punto di vista morale: seguendo, appunto, l’olfatto morale. A suo avviso, nei confronti di questa presunta facoltà dobbiamo sviluppare la stessa diffidenza che nelle scuole di medicina viene inculcata nei confronti dell’“occhio clinico”, ovvero della capacità ―attribuita miticamente ai grandi maestri in medicina — di diagnosticare le malattie d’intuito. Agli studenti non si insegna a fidarsi del proprio occhio clinico, ma a imparare la diagnosi differenziale, come procedimento ragionato e metodico che porta a considerare successivamente varie ipotesi e a verificarne la consistenza.
Analogamente, il giudizio etico si colloca su un percorso giustificativo, che attiva la ragione con metodo. Consiste essenzialmente in una capacità argomentativa. Si distingue perciò dalla guida all’azione che si fonda sull’istintiva certezza di sapere qual è la cosa giusta da fare. Questa certezza non è solo il frutto dell’interiorizzazione di una morale religiosa, fondata sulla rivelazione divina e sull’autorità morale di un magistero. Anche l’adesione a una deontologia professionale conferisce una capacità di orientarsi d’intuito. Ed è bene che sia così: in molte situazioni un medico, un’infermiera devono sapere subito, senza fermarsi molto a pensare, qual è il corretto corso dell’azione. Questo tipo di orientamento è analogo alla funzione del pilota automatico: una volta inserito, possiamo ragionevolmente fidarci del percorso standardizzato che ci farà seguire.
Il giudizio morale che richiede l’etica medica corrisponde, invece, alla navigazione a vista. Non possiamo più affidarci all’indeterminato «qualcosa mi dice che questa è la decisione giusta...». Dobbiamo argomentare, a noi stessi e agli altri, confrontarci con le argomentazioni contrarie, fondare il nostro giudizio. Questo è, in estrema sintesi, il metodo di cui ha bisogno l’etica.
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2. La giustificazione dei giudizi morali
Il punto di partenza dell’intero procedimento che costituisce la trattazione di un problema di bioetica ci è offerto dalla pluralità di opinioni che si contendono l’attenzione e ci chiedono il consenso 67. L’esempio del caso di Valentina è solo uno tra i tanti (rischia, anzi, di essere ben presto dimenticato sotto la pressione di casi più recenti e più clamorosi). Sul caso conflittuale si moltiplicano le prese di posizione, sotto forma di giudizi etici, (“è bene, è male, è inaccettabile, è una vergogna, è quanto mi richiede la mia professione” ecc.).
Il primo passo nella giustificazione dei giudizi morali prevede un riferimento alle regole. Mentre il giudizio esprime una decisione, un verdetto o una conclusione su una particolare azione, le regole costituiscono guide generali che governano le azioni di un certo genere: dicono quello che deve (o non deve) essere fatto in una serie di casi particolari, per motivi diversi e con diversa forza costrittiva. Diverse tra di esse sono una norma giuridica, che vincola con il peso della sanzione che colpisce il trasgressore, e una regola deontologica, che il professionista è tenuto a seguire per il fatto che fa parte di un corpo professionale.
Il riferimento alle regole è importante: costituisce un momento in ogni discussione di etica medica che non va saltato. Tuttavia, non può costituire la tappa finale, salvo per le persone orientate in senso legalistico, per le quali il dovere morale si identifica con quanto è prescritto. Il riferimento alle regole, infatti, si arena di fronte alla pluralità delle regole stesse e delle interpretazioni della loro portata applicativa. Ma soprattutto è necessario dar ragione dei motivi in base ai quali si accetta che la propria azione si modelli sulle regole. Questo orizzonte più generale e fondante è offerto dal riferimento ai principi.
L’orientamento ai principi è il metodo della bioetica che ha avuto più successo e che si è imposto come metodo standard, soprattutto negli Stati Uniti. La bioetica orientata ai principi è stata un tentativo
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di fondare una giustificazione morale derivata dalla ragione e valida per tutti, in una società democratica, indipendentemente dalle diverse tradizione culturali e comunità religiose di appartenenza.
Come “principi etici di base” ci si riferisce a quei giudizi generali che servono come giustificazione di fondo per le molte prescrizioni e valutazioni etiche particolari delle azioni umane. Tra quelli generalmente accettati nella nostra tradizione culturale, tre principi di base sono particolarmente rilevanti per l’etica della ricerca su soggetti umani: il principio del rispetto delle persone, la beneficità e la giustizia 68. Va anzitutto osservato che questi principi non sono stati'Stabiliti in modo aprioristico o metafisico, ma mediante un processo induttivo. Non vogliono essere espressione di morali particolari o specifiche, ma servire ad articolare l’etica civile, che lega i cittadini in quanto tali, indipendentemente dalle diverse comunità di appartenenza, che strutturano la vita morale delle persone.
Una seconda osservazione generale riguarda il campo applicativo di questo riferimento ai principi. Essi sono stati elaborati in un contesto in cui sono vigenti le regole che normano la ricerca scientifica; ben presto i tre principi sono diventati la spina dorsale di tutta la bioetica americana. In particolare, la loro trasposizione dall’ambito della ricerca a quello delle decisioni cliniche doveva lasciare un’impronta da molti valutata negativamente.
Per riferirci alla lucida critica sollevata dallo storico e filosofo della scienza Stephen Toulmin, l’etica dei principi è responsabile del prevalere di “un’etica di estranei” rispetto a un’etica degli intimi 69. Mentre ciò poteva essere giustificato fintanto che si trattava di tutelare gli individui da possibili abusi nella ricerca e sperimentazione dei trattamenti, lo stesso schema diventava fortemente inappropriato in situazioni, come quelle che si creano nelle decisioni da prendere al capezzale del malato, dove bisogna lasciare ampio spazio al discernimento. Piuttosto che privilegiare le regole che valgono per tutti, come
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avviene nei rapporti tra estranei, bisogna in questi casi trovare la linea di azione che rispetta di più l’unicità del caso.
A titolo di benemerenza dell’orientamento ai principi va ascritto il fatto che questo modello di bioetica ha costituito una specie di lingua franca, che ha reso possibile il dialogo tra studiosi di bioetica di orientamento filosofico e ideologico diverso. Il principio del rispetto delle persone è stato più sovente verbalizzato come principio di autonomia. Questa non è stata intesa nel senso filosofico illuministico (Kant), secondo cui l’uomo è tenuto a prendere come guida delle sue azioni unicamente la ragione. L’autonomia a cui fa riferimento la bioetica implica semplicemente la libertà dal controllo esterno. Essere autonomo equivale ad essere capace di governare i propri interessi. In pratica, coincide con l’autodeterminazione.
L’orientamento filosofico al rispetto per le persone (in quanto hanno un valore incondizionato e non devono perciò essere trattate come cose o animali: anche questo un principio dell’etica razionalista kantiana) viene trascritto, nell’ambito delle decisioni sanitarie, come un divieto di interferire nelle scelte autonome dell’individuo per ciò che riguarda vita e morte, salute e malattia, trattamento terapeutico e limiti di questo. Corollari del principio di autonomia sono l’informazione del paziente e la veracità del sanitario nei suoi confronti: l’una e l’altra lo mettono in grado di prendere le proprie decisioni in modo autonomo e di autodeterminarsi.
Il secondo principio su cui devono confrontarsi le regole è quello della beneficità 70. Questo princìpio chiede al sanitario di orientare la sua azione al bene del malato. Esprime un insieme di valori che sono stati percepiti come parte integrante della pratica della medicina, soprattutto all’interno della tradizione che si ispira all’ethos ippocratico. La beneficità inclina il sanitario a finalizzare la sua azione a procurare un vantaggio alla salute del malato,
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anche nel caso in cui questi non sappia riconoscere o articolare la richiesta appropriata.
L’orientamento alla beneficità fa del medico l’“avvocato” del malato, soprattutto se l’infermo non è in grado di far valere i propri diritti o nella società è spinto ai margini, tra i perdenti. È in forza di questo principio che i doveri del medico eccedono gli obblighi contrattuali bilaterali: il medico è debitore della sua azione terapeutica a chiunque ne abbia bisogno, indipendentemente dalla capacità di pagare i servizi del medico. La nostra tradizionale etica medica, specialmente in Europa, si è mossa entro questo schema. All’etica si attribuiva anche il compito parenetico di indurre il sanitario a ispirare la sua azione a procurare il bene del malato, dando a questo valore l’assoluta priorità rispetto alle possibili interferenze del vantaggio economico, della scalata sociale o del potere accademico.
Forse è proprio l’alto profilo ideale che rende questo principio così pericoloso, quando è adottato come criterio unico per le decisioni cliniche. Il pensare al bene del malato può far ritenere superflua la considerazione della sua autodeterminazione. L’orientamento alla beneficità può facilmente esprimersi in forme forti di paternalismo, in cui il malato è considerato per definizione incapace di prendere le decisioni che lo riguardano, perché troppo turbato dalla malattia nella sua capacità di giudizio. Ed è ancora la innegabile tensione morale che sottende a questo principio che spiega le resistenze di molti sanitari, formatisi al di fuori della riflessione bioetica contemporanea, ad adottare punti di vista diversi, soprattutto il valore che consiste nel rispettare l’autonomia del paziente. Si avverte senso di minaccia fa ritenere (erroneamente) che l’etica medica crolli, qualora cessi di orientarsi unicamente al bene del paziente.
Anche il terzo principio fondamentale, la giustizia, è stato originariamente formulato con riferimento ai problemi etici che nascevano dalla ricerca. Le regole che disciplinano l’uso di soggetti umani per la sperimentazione devono mostrare, confrontate con il principio della giustizia, che non distribuiscono rischi e benefici in modo svantaggioso a singole persone,e a categorie di persone. In modo molto efficace, ha espresso le esigenze del principio di giustizia il tribunale chiamato a giudicare la scandalosa ricerca condotta sulla pelle di un numeroso
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gruppo di negri di Tuskegee, nell’Alabama, ai quali per decenni sono stati sottratti farmaci efficaci per non compromettere lo studio intrapreso sull’evoluzione naturale della sifìlide. «La comunità scientifica ― ha sentenziato il tribunale nella sua condanna — non ha diritto di stabilire arbitrariamente chi nella società avrà i benefici delle ricerche e chi ne pagherà i prezzi».
Il principio della giustizia si è rivelato ben presto importante anche nel valutare le regole seguite nell’etica clinica. Uno dei problemi destinati a suscitare molto clamore è stato quello dei criteri per distribuire le risorse terapeutiche scarse. Quando a Seattle, nello Stato di Washington, si sono rese disponibili le prime attrezzature per la dialisi renale — in numero insufficiente rispetto ai pazienti candidati al trattamento ― è stato necessario creare un comitato per selezionare i pazienti, stabilendo delle priorità.
I criteri seguiti dal comitato risultavano essere, infatti, l’età e il sesso del paziente, lo stato civile, il numero di persone dipendenti, rendita e capitale, la stabilità emotiva, l’istruzione, la professione, i contributi sociali passati, le potenzialità future. È giusto — si è incominciato a dire — determinare la possibilità di sopravvivere in base a variabili quali il valore sociale dell’individuo? Dall’analisi dei criteri adottati, risultava che un paziente avrebbe avuto maggiori possibilità di essere scelto se fosse stato una guida di boy-scout, sposato con figli, religioso praticante: sono regole, queste, ispirate a giustizia, o alla pretesa di scimmiottare il giudizio di Dio? Di qui il bisogno di rendere socialmente più trasparenti i criteri con cui vengono fatte le scelte nell’ambito della ricerca e della pratica della medicina.
3. I sistemi morali
Il confronto delle regole con i principi etici non è l’ultimo passo dell’intero cammino della giustificazione del giudizio morale. Dobbiamo necessariamente, a questo punto, passare a considerare i sistemi morali, in quanto corpi di teorie, principi e regole più o meno sistematicamente collegate. Proviamo una certa esitazione a entrare in questo territorio. Questo è il campo di azione del filosofo di professione.
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La bioetica è una forma di filosofia morale applicata ed è incalcolabile il debito che ha con la riflessione dei filosofi. Tuttavia, l’ipotesi che abbiamo adottato è che la bioetica non sia un’esclusività dei filosofi (come non deve esserlo dei teologi, o dei giuristi, o dei medici legali).
Il soggetto chiamato a esercitare la riflessione bioetica è il cittadino della società civile, che deve consensualmente stabilire i parametri entro cui vanno esercitati i nuovi poteri che abbiamo sulla vita. Se il contesto della riflessione è l’esercizio della medicina, saranno i professionisti della sanità (e specularmente ad essi i pazienti) che dovranno essere i titolari della ricerca bioetica. La formazione adeguata è quella che offre loro gli strumenti essenziali per tale riflessione. Se invece diventa troppo tecnica ― se pretende, in altre parole, di rendere il sanitario un filosofo in formato ridotto — rischia di mancare il suo obiettivo.
La conoscenza dei principi e della loro applicazione appartiene a un esercizio serio della bioetica da parte di un sanitario o di chiunque voglia occuparsi di queste problematiche in modo competente. Una certa informazione sulle teorie morali è certamente utile, senza essere tuttavia una conditio sine qua non. Una nozione molto divulgata dalla letteratura anglosassone è quella relativa ai fondamentali orientamenti delle teorie etiche che sono state elaborate nel corso della storia della filosofia: teorie a orientamento teleologico e a orientamento deontologico. Almeno queste due categorie del linguaggio filosofico devono essere tenute presenti, anche da parte di chi voglia occuparsi di bioetica continuando a esercitare la sua attuale professione sanitaria, senza trasformarsi in quello specialista che gli anglosassoni chiamano bioethicist.
Le teorie a orientamento deontologico (da non confondere con la deontologia professionale!) identificano gli standard morali indipendentemente dai fini buoni o utili che l’azione si propone. Un atto è moralmente giusto in quanto soddisfa le esigenze di un dovere (deon, in greco). L’etica di Kant può essere identificata come una delle teorizzazione più compatte e conseguenti dell’indirizzo deontologico.
Le teorie a orientamento teleologico mutuano il carattere morale dell’azione dal fine (telos, in greco) che questa persegue e dal bene che produce. Un sistema a chiaro carattere teleologico è l’utilitarismo di Stuart Mill. La moralità viene fatta coincidere con la promozione
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del benessere umano, minimizzando i danni e massimizzando i benefici. Di conseguenza, le azioni sono giuste in proporzione a quanto tendano a promuovere la felicità — diminuendo il dolore e aumentando il piacere ― e ingiuste quelle contrarie.
Semplificando al massimo, si può dire che i sistemi etici a orientamento deontologico cercano il bene morale a monte, nel dovere che sovrasta l’uomo, mentre i sistemi a orientamento teleologico lo cercano a valle, in ciò che l’azione produce. Una versione di questa visione dicotomica delle teorie etiche più familiare alla cultura europea è quella proposta da Max Weber, come etica della convinzione ed etica della responsabilità 71. Chi si ispira all’etica della convinzione, secondo Weber, seguirà il dovere in quanto dovere, indipendentemente da ciò che la sua azione produce: dirà, per esempio, la verità perché la verità va detta e la menzogna evitata, per principio. Chi invece aderisca a un’etica della responsabilità, valuterà il suo dovere morale sulla base delle conseguenze della sua azione: l’assunzione responsabile dei risultati della sua azione può imporgli, per esempio, di non dire la verità se questa nuoce ingiustamente a qualcuno.
La formulazione di Max Weber ci permette di giungere più agevolmente alla conclusione che questi due atteggiamenti, presi separatamente, possono ispirare sia la più alta moralità, sia la peggiore immoralità. L’orientamento alle convinzioni può produrre le azioni più coerenti e di più alta tensione morale, ma può nutrire anche i fanatismi più intransigenti. Parallelamente, possiamo trovare l’attenta considerazione del risultato delle proprie azioni tanto nel più cinico opportunista (“Parigi vai bene una messa”), quanto nella persona più sensibile nel rispettare i diritti altrui e nel promuovere il bene comune. Quanto diciamo per l’etica della convinzione e per l’etica della responsabilità vale anche per le teorie a orientamento deontologico e teleologico. Non sono esse, di per sé, che fanno le persone buone o cattive, o che determinano il carattere morale di un’azione. Proprio il confronto tra soggetti morali, che costituisce la pratica quotidiana della bioetica, può riportare la linfa del vissuto nella stessa speculazione propria della filosofia morale.
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I PRINCIPI DELL’ETICA MEDICA: TEORIA E PRATICA
1. Il ricorso ai principi nella bioetica anglosassone
Come abbiamo già visto nella parte dedicata allo sviluppo storico della bioetica, la decisione del Congresso americano di creare, nel 1974, una Commissione nazionale per regolamentare la ricerca in soggetti umani segna una tappa decisiva per l’affermarsi della nuova disciplina. Abbiamo già anche menzionato il documento che sintetizza i quattro anni di lavoro della Commissione: Ethics Principles and Guidelines far the Protection of Human Subjects of Research, noto anche come Rapporto Belmont. Il documento fu pubblicato nel 1978, diventando ben presto un punto di riferimento obbligato della bioetica.
Questo documento ha un’importanza centrale nell’evoluzione del movimento della bioetica di matrice culturale anglosassone, perché ha formalizzato la prima teorizzazione ufficiale dei principi fondamentali come regolazione del discorso bioetico (la formulazione accademica della bioetica riferita ai principi si deve a Beauchamp e Childress, con il volume di successo: Principles of biomedical ethics, del 1979):
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L’espressione “principi fondamentali di etica” si riferisce a quei giudizi generali che servono di base alla giustificazione a diverse prescrizioni etiche particolari, così come alla valutazione delle azioni umane. Tre principi di base, tra quelli che sono generalmente accettati nella nostra tradizione culturale, si applicano in modo particolare all’etica della ricerca che coinvolge dei soggetti umani: i principi del rispetto delle persone, della beneficità (beneficence) e della giustizia.
1. Il rispetto delle persone
Il rispetto delle persone comprende almeno due fondamentali convincimenti di natura etica: in primo luogo che gli individui devono essere trattati come agenti autonomi; in secondo luogo, che le persone la cui autonomia è diminuita hanno diritto di essere protette. Il principio del rispetto delle persone si divide quindi in due esigenze morali distinte: riconoscere l’autonomia e proteggere coloro la cui autonomia è diminuita (...).
2. La beneficità
Per trattare le persone in modo morale, bisogna non solo rispettare le loro decisioni e proteggerle contro ogni danno, ma anche sforzarsi di assicurare il loro benessere. È il trattamento che viene fatto in nome del principio di beneficità. Il termine “beneficità” (beneficence) è spesso compreso come riferito agli atti di bontà e di carità che vanno al di là della stretta obbligazione. In questo documento il termine beneficità è inteso in un senso più forte, come una obbligazione. Due regole generali sono state formulate per esprimere in modo complementare le azioni benefiche in questo senso: 1. Non fare del male e 2. Aumentare il più possibile i benefici e ridurre il più possibile i danni (...)
3. La giustizia
Chi dovrebbe ricevere i benefici della ricerca e subirne gli inconvenienti? Questa è una questione di giustizia, cioè di “equità nella distribuzione” o di sapere “che cosa spetta a ognuno” (...). Le concezioni della giustizia si applicano alla ricerca con soggetti umani. Per esempio, la selezione di soggetti per la ricerca deve essere esaminata attentamente per verificare se alcune classi (per esempio, pazienti dell’assistenza sociale, alcune minoranze razziali o etniche, oppure persone ricoverate in istituzioni) sono sistematicamente scelte perché sono più facilmente disponibili, perché la loro posizione sociale è compromessa, oppure perché sono manipolabili, piuttosto che per ragioni direttamente connesse con il problema studiato dalla ricerca. Infine, quando una ricerca sovvenzionata con fondi pubblici porta allo sviluppo di apparecchiature e di metodi terapeutici, la giustizia esige che non se ne avvantaggino solo coloro che possono permetterselo economicamente (...).
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Anche la Commissione Presidenziale (1980-1983), che ha fatto seguito alla Commissione Nazionale, si è sistematicamente riferita al linguaggio dei principi. Nel Rapporto finale ha esplicitato nei termini seguenti il ruolo dei principi:
La Commissione nei suoi lavori ha fatto riferimento a numerosi principi etici. Sia nei precedenti rapporti che nella sintesi finale questi principi non sono identificati con uno scopo riduzionistico: i principi in se stessi non sono abbastanza ricchi o variegati per esprimere la complessità delle situazioni e dei problemi che la Commissione ha esaminato. La medicina e la ricerca toccano troppi aspetti centrali dell’esistenza umana — la natalità e la mortalità, la conoscenza e l’opportunità, il benessere e il dolore, il rapporto con i progenitori e con la discendenza ― per poter essere riassunti in alcuni principi.
Ciò nonostante, l’analisi procede per semplificazioni e generalizzazioni. Nell’analisi della Commissione, tre principi di base sono stati predominanti:
- che il benessere delle persone deve essere promosso;
- che le preferenze valoriali e le scelte delle persone devono essere rispettate;
- che le persone devono essere trattate con giustizia.
La Commissione non ha cercato di stabilire una gerarchia tra questi tre principi, né di porli al di sopra di altri valori ― come l’efficienza e l’onestà — che emergevano di meno nei campi specifici presi in considerazione.
Pur avendo cercato di applicare questi principi in modo coerente nei diversi rapporti, la Commissione non ha tentato di sviluppare una teoria sistematica della bioetica: il compito affidatole dal Congresso non era quello di sviluppare teorie ma, in modo più pratico, di considerare le implicazioni di determinate pratiche e gli sviluppi nelle scienze della vita.
Questi principi ― per quanto non riassumano l’intero “ethos” americano ― sono una parte fondamentale delle tradizioni culturali e filosofiche dell’occidente.
2. Verso un superamento della bioetica dei principi
L’approccio dei principi, caratteristico della prima fase della bioetica anglosassone, ha avuto successo. In breve tempo è diventato il modello dominante. La bioetica non ha elaborato un’etica universale,
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quasi fosse un surrogato della morale religiosa. Nella nostra società non è venuta meno solo la forza compaginante delle religioni, ma anche l’illusione illuminista di trovare nella “ragione” un discorso che valga per tutti e per ciascuno nella società a un livello minimo. Si è fatta strada la convinzione che dobbiamo arrivare a un altro modo di affrontare i problemi che nascono dal progresso biomedico e di proporre norme.
L’apporto della bioetica americana è stato quello di elaborare i principi quale lingua franca che permette a tutti i soggetti che costituiscono una società pluralista di entrare attivamente nel dibattito dell’etica pubblica, pur rispettando i valori della comunità morale di appartenenza. Ognuno ha delle preferenze individuali, delle opzioni, delle scelte di vita che nascono da una certa gerarchia di valori. Senza annullare tutte queste differenze, possiamo tuttavia trovare un accordo nella società su alcuni principi fondamentali che devono essere rispettati.
I principi fondamentali formano un quadro analitico generale, un linguaggio morale comune in una società pluralista. Il principale problema è che non sono facilmente traducibili in regole operative. I principi valgono “prima facie”, cioè hanno valore vincolante a meno della dimostrazione del contrario. Il principio è vincolante, a condizione che non si entri in conflitto con un altro principio.
L’approccio dei principi ha avuto molto successo, ma ha creato anche una certa delusione. Infatti questi principi, che suonano molto chiari e convincenti finché li enunciamo in astratto, ci abbandonano quando di fatto entriamo nelle decisioni concrete, là dove, come medici o come malati, ci troviamo di fronte a delle alternative. Per questo il sistema dei principi, dopo aver contribuito alla diffusione e alla popolarità di immagine della bioetica come discorso pubblico, specialmente nei paesi anglosassoni, è stato rimesso in discussione dagli studiosi della disciplina.
Lo studioso inglese Raanan Gillon, pur difendendo e proponendo l’etica medica dei principi, ha proposto un’immagine per illustrare il loro funzionamento che si discosta da un’applicazione automatica dei principi alle situazioni concrete. A suo avviso, i principi non vanno presi come degli assoluti, nel senso che un solo principio — come
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“fare il bene del paziente”, oppure “rispettare l’autonomia del paziente” — ci risolva tutti i problemi. All’illusione che ci sia una specie di regole prescrittive, che una volta formulate ci dicono cosa bisogna fare ora, in questo momento, o qualcosa come un algoritmo dal quale ricavare il comportamento che si addice alla situazione, Gillon propone di sostituire l’immagine del giocoliere.
Un bravo giocoliere è tanto più abile quante più palle sa tenere per aria per un periodo più lungo di tempo. Nella bioetica che si affida ai principi non possiamo scegliere un solo principio — per esempio: fare il bene del malato; oppure affidarsi, come in genere preferisce la bioetica americana che è molto individualista, alla volontà del malato, cosicché l’unica condizione da rispettare sia la sua decisione, sulla base del “consenso informato” — e attenerci a questo solo principio. Piuttosto dobbiamo tenere, come un giocoliere, in movimento più palle — più principi — tutti quanti insieme; sapendo già in anticipo ― commenta in maniera realistica lo studioso inglese — che succederà prima o poi che una palla cada a terra e tutti quelli che sono attorno additeranno la palla caduta, non quelle che siamo riusciti a tenere in movimento. Tutti diranno: «Ah, ecco, hai infranto il principio dell’autonomia del paziente, hai infranto il principio della giustizia», senza considerare quali e quante acrobazie abbiamo fatto per salvare il maggior numero di valori in gioco... 72.
Accanto a questo correttivo della bioetica dei principi, di impronta pragmatica, è opportuno menzionare la teorizzazione proposta da Diego Gracia, che tra gli studiosi di bioetica europei è tra i più attenti ai problemi di fondazione della disciplina 73. Gracia sostiene che è pienamente difendibile la tesi che i quattro principi evidenziati dalla bioetica anglosassone possono essere considerati come il sunto di tutta la storia culturale dell’occidente relativamente all’etica medica. Tuttavia non dobbiamo pensarli come posti sullo stesso piano (e neppure ― secondo l’immagine di Raanan Gillon ― dobbiamo cercare
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di giocarli tutti quanti contemporaneamente) ; è necessario piuttosto stabilire tra loro una gerarchia, collocandoli su di due livelli: quello del “minimo morale” e il livello del “massimo morale”.
I minima moralia delineano quel livello al di sotto del quale non si può scendere, se non vogliamo che la società smarrisca i suoi tratti minimi essenziali di umanità. Il minimo morale non è legato al consenso né alla soddisfazione. Anche se, per ipotesi, la maggioranza si accordasse su certi comportamenti o politiche che offendono i principi che tutelano il minimo morale, non potrebbe addurre il consenso come prova di legittimità. Questo vale, per esempio, per i comportamenti ritenuti giusti in alcune epoche (come l’approvazione della schiavitù) o da certi regimi (l’eutanasia praticata dai medici sotto il nazismo). La maggioranza degli attori sociali ― per esemplificare ancora ― potrebbe ritenere economicamente vantaggioso e umanamente più conforme alla dignità non tenere in vita le persone in coma vegetativo permanente; ma queste scelte cadrebbero sotto il minimo morale (purché si sia stabilito in modo incontrovertibile che abbiamo ancora a che fare con persone umane), qualunque sia la soddisfazione di coloro che le prendono.
Il primo dovere è quello, che si impone sopra tutti in medicina, di non recare detrimento al paziente. Si tratta del primum: non nocere, già identificato dall’etica ippocratica 74. Il non fare il male a una persona è un principio non negoziabile, che per di più è sottratto alla disposizione del soggetto stesso. Ciò vuol dire che, anche se un paziente pienamente capace di intendere e di volere chiedesse qualche cosa che alla valutazione della sensibilità morale della società risulta un male, siamo autorizzati a non concederlo. Il male non si deve fare neppure a chi lo chiede.
Ugualmente non negoziabile è l’altro principio fondamentale, quello della giustizia. Anche questo non dipende dalla volontà delle persone. La richiesta fondamentale della giustizia è che tutti nella nostra società debbano essere trattati con uguale considerazione e rispetto, senza privilegiare qualcuno a danno di altri. Non c’è una
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vita che vale di più o una vita che vale di meno. A questo principio arriviamo sia attraverso la definizione di persona, sia attraverso la via kantiana del rispetto dell’individuo umano, che va trattato come fine, non solamente come mezzo.
Diverso invece è il secondo livello, quello del “massimo morale”, regolato dai principi dell’autonomia e della beneficità. Per “massimo morale” intendiamo quei modi di organizzare la vita morale che dipendono dai valori soggettivi e trovano espressione nelle varie comunità morali di appartenenza: è quello che, per esempio, fa un testimone di Geova diverso da un musulmano, oppure un cittadino educato in senso individuale e liberista da un altro che mette al primo posto i valori familiari di appartenenza o le reti sociali. L’autonomia della persona richiede che siano rispettati i valori e le preferenze di ognuno, dando il massimo rilievo all’autodeterminazione. E la beneficità, che richiede di orientare il corso dell’azione verso il maggior vantaggio del paziente, dipende da quello che il malato, o la singola persona, valuta come il proprio bene.
La non-maleficità e la giustizia sono principi assoluti, che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. In questa accentuazione possiamo individuare l’apporto dell’Europa, che ha una coscienza infelice nei confronti di quello che è riuscita a perpetrare conculcando queste fondamentali esigenze di rispetto dell’umanità. Infliggendo deliberatamente il male, violando l’integrità personale e la giustizia (pensiamo soltanto ai campi di sterminio nazisti), l’Europa è scesa sotto il minimo morale. Il non procurare danno agli altri e dare a tutti uguale considerazione e rispetto sono i minima moralia (Th. W. Adorno), sotto i quali non c’è etica, anche se tutta la società, per ipotesi, fosse d’accordo. Questa prospettiva rende inaccettabile un contrattualismo che si limitasse a cercare il bene della maggior parte delle persone, se ciò è ottenuto ai danni di qualcuno o non attribuendo a qualche attore sociale uguale considerazione e rispetto.
La beneficità, invece, tutelata dall’autonomia, è la ricerca del massimo morale. L’autonomia e la beneficità domandano quali massimi morali, che siano stabiliti con il contributo della persona direttamente
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interessata alle scelte mediche che la riguardano. Ciò implica che un’etica medica, che si presenti in versione aggiornata di una bioetica tutta rivolta alla difesa del minimo morale (per esempio, della difesa a oltranza di un’etica della sacralità della vita) non è sufficiente. Volenti o nolenti, siamo entrati in un’epoca in cui nelle nostre scelte dobbiamo fare i conti con il massimo morale, ovvero con quello che, soggettivamente, ciascun soggetto morale coniuga con la ricerca della felicità o del bene, con la vita morale, così come emerge dai valori e dalle preferenze individuali.
3. Curare e prendersi cura
Non solo dall’Europa, ma anche dagli stessi Stati Uniti d’America sono state formulate critiche alla bioetica standard, intesa come bioetica dei principi, quale espressione di una razionalità schematica, poco attenta al vissuto dove si elaborano le scelte etiche in medicina. Un percorso esemplare in tale senso può essere consideralo quello di Warren Reich, che in quanto “editor” della prestigiosa Encyclopedia of Bioethics è uno degli artefici più accreditati del passaggio dall’etica medica alla bioetica. Nella sua proposta di un passaggio dall’etica dei principi all’etica esperienziale convergono molte tematiche presenti anche in altri cultori di bioetica.
La bioetica, in quanto etica “applicata”, si è imposta come quell’area di studio che fornisce il sapere appropriato per risolvere le perplessità riferite alle decisioni in campo medico. Essa offre uno schema di riferimento entro cui i dilemmi sono analizzati e risolti, in modo deduttivo, applicando principi già stabiliti. Questo paradigma basato sui principi sviluppa un’etica del dovere o dell’obbligo morale. Nell’approccio all’etica basato sul dovere tutto ruota intorno alla domanda: «Che cosa si deve fare?». Si passa quindi a esaminare se una particolare azione è lecita, illecita o permessa. Per esempio: è permesso al medico interrompere l’impiego
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di un’apparecchiatura, quando si può prevedere che questa azione causerà o affretterà la morte del paziente?
I meriti del paradigma basato sui principi sono considerevoli. Soprattutto in una società caratterizzata dal pluralismo morale, com’è quella americana, ma come lo sono anche inevitabilmente oggi tutte le società democratiche. In un periodo in cui stanno scomparendo le tradizioni che ci hanno dato una sicurezza condivisa di sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, la bioetica dei principi ha mostrato che la perdita di una comune tradizione morale può essere almeno parzialmente compensata. L’alternativa all’assolutismo monolitico delle società chiuse non è il soggettivismo sfrenato: attorno al modello dei principi morali, si è realizzato un notevole modello di consenso, malgrado i diversi riferimenti morali, filosofici e religiosi. La bioetica standard ha dimostrato di poter fungere da lingua franca che permette la comunicazione nella babele dei linguaggi morali.
Pur riconoscendo questi meriti alla bioetica basata sui principi, Warren Reich non le risparmia critiche. Soprattutto per un motivo fondamentale: appare distante dall’esperienza morale delle persone che sono gli agenti delle decisioni conflittuali che si prendono in medicina. A cominciare dall’esperienza dei sanitari. La bioetica offre loro il linguaggio di un sistema etico che è strutturato in termini indifferenti, distaccati, finalizzati a generare regole universali, che si impongono autoritativamente a ognuno. Ma una formulazione etica di questo genere è inevitabilmente sentita dai professionisti sanitari come estranea al loro mondo morale immediato. Ciò significa fare di loro degli attori sulla scena della moralità che leggono un copione scritto da qualcun altro, da qualche altra parte... Un’etica che usa un linguaggio universale e impersonale è un processo intellettuale che si svolge lontano dal più profondo impegno personale e morale di chi lavora in sanità.
Un altro appunto che Warren Reich fa alla bioetica basata sui principi è l’eccessiva astrattezza e la prospettiva ristretta della preoccupazione morale che rappresenta. Lo ha verificato in un ambito specifico: la cura dei bambini ritardati mentali. Le posizioni
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più diffuse articolano l’obbligo di accogliere e assistere anche i bambini che nascono gravati da handicap fisici e mentali facendo ricorso a teorie dei diritti e della giustizia. Il modello più autorevole è quello che, risalendo a Immanuel Kant, fonda i diritti e i doveri nel bisogno di rispettare la dignità delle persone. Poiché i seri obblighi che abbiamo nei confronti degli altri hanno il fondamento nell’autonomia delle persone verso le quali abbiamo tali obblighi; e poiché gli individui autonomi (che in questa prospettiva sono i soli che possono in tutta verità essere chiamati persone) sono quelli dotati di coscienza, o almeno che sono in grado di esserlo — vale a dire, individui che possono prendere delle decisioni razionali per proprio conto — molti bambini ritardati mentali gravi non sono collocabili entro tale schema. Dal momento che non hanno i requisiti per fare scelte autonome, è difficile dimostrare che esistono seri obblighi di prendersi cura dei ritardati che non sono autonomi. Almeno sulla base di questo approccio etico.
Il modello di bioetica basato sui principi isola un valore — l’autonomia — dal contesto di tutti gli altri e stacca gli individui dal contesto morale costituito dai legami sociali e familiari. Trascura la rilevanza morale che hanno le relazioni primarie con cui ci prendiamo cura gli uni degli altri, particolarmente quelle create dall’amicizia e dalla famiglia. L’etica del “prendersi cura” è molto diversa dalla descrizione standard che la bioetica fa degli obblighi che abbiamo nei confronti della vita umana 75. Per lo più la bioetica si è occupata di dilemmi drammatici, che presuppongono scelte riguardanti atti singoli. Questi avvengono quasi esclusivamente in un contesto altamente medicalizzato; per risolvere tali dilemmi ci si richiama a principi che esprimono diritti e doveri.
Da quando la bioetica è diventata un campo di conoscenze specialistiche, siamo stati talmente occupati con i problemi relativi all’interruzione dei trattamenti medici che mantengono in vita e che rischiano di prolungarla oltre la misura del giusto, che abbiamo
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dimenticato il problema fondamentale: riflettere su cosa significa, in senso positivo, prendersi cura della vita. Abbiamo lasciato che i dibattiti sulla limitazione e la sospensione delle cure agli estremi confini della vita sostituissero la questione centrale del prendersi cura della vita umana 76. Il problema etico è stato così modellato in maniera deformata, attribuendo a questioni periferiche la struttura portante che spetta al centro. Per esempio, vi è una tendenza comprensibile a decidere se continuare con l’uso del respiratore, della nutrizione artificiale o dell’idratazione, a seconda che si prevedano o no buoni risultati. Ma questa valutazione dei risultati, resa necessaria dalle limitazioni delle tecnologie, viene trasferita alle persone. Si sviluppa allora, implicitamente o esplicitamente, un’etica globale, la quale suggerisce che ci dobbiamo prendere cura degli altri solo nella misura in cui essi, i malati, danno buoni risultati in termini di qualità del trattamento.
Ciò che manca in questo tipo di approccio è un senso di legame, di relazione, di carattere in colui che si prende cura. La bioetica dà l’impressione di aver costruito un’enorme struttura o impalcatura intorno alla periferia della vita; ma quella impalcatura non può tenere, perché non c’è praticamente struttura in essa. È proprio lì, in quel centro, che noi abbiamo bisogno di un’etica del prendersi cura con compassione. Warren Reich non pretende minimamente che l’etica dei principi — che definisce l’etica unicamente nei termini di un ragionamento discorsivo, in cui i principi razionali che incorporano concetti morali universali sono applicati a dilemmi morali, in modo da determinare deduttivamente il comportamento giusto o sbagliato — sia intrinsecamente sbagliata e debba essere abbandonata. Questa etica svolge un ruolo essenziale e va difesa. Ma ha bisogno di un correttivo: come quello fornito dal paradigma dell’ “etica esperienziale”.
Per accostarci in modo intuitivo a quest’altro quadro generale
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di riferimento, consideriamo come cambia lo scenario se, invece di appellarci immediatamente alla prospettiva neo-kantiana dell’autonomia per discutere se esiste il dovere di salvare la vita a un neonato gravemente ritardato, prendessimo come punto di partenza le esperienze morali relative alla formazione di un legame da parte dei genitori con tali bambini. L’esperienza morale in tale approccio sarebbe molto più ricca, fatta di successi e fallimenti, di motivazioni e di condizionamenti. La loro risposta “rifletterebbe” molte più cose di quelle che emergono da una buona deduzione da un concetto assunto come principio.
L’etica dei principi ci invita a domandarci qual è il nostro dovere, avviandoci così per lo più a considerare l’obbligo di rispettare i diritti degli altri. L’etica esperienziale ci sollecita piuttosto a cominciare col considerare che cosa sta avvenendo intorno a noi. Ci accorgiamo allora che abbiamo bisogno di norme razionali che guidino il nostro comportamento, ma sono necessari anche coinvolgimenti affettivi. La vita si svolge entro un grande disegno che prevede il prendersi cura gli uni degli altri, valorizzando quel tipo di intimità che ha un valore terapeutico, in quanto promuove lo sviluppo del benessere e della salute. Questo è il quadro generale dell’etica del prendersi cura (in inglese, to care), entro cui si possono prendere in considerazione i singoli problemi collegati con il curare (per i quali l’inglese ha un altro verbo: to cure). Questi due modi di intendere l’etica devono essere considerati non come contrapposti, ma come complementari.
Anche se l’etica del prendersi cura può essere considerata come più fondamentale, un’etica dei diritti è necessaria come etica sociale minima per proteggere gli oppressi e i deboli della nostra società. A volte sono necessarie norme razionali come i principi di giustizia, autonomia ecc., per evitare che le persone compassionevoli e premurose siano sfruttate. Ma abbiamo bisogno anche di una prospettiva che sottolinei il prendersi cura come anima della moralità, in un approccio che attribuisce un grande valore morale ai legami che nascono dall’affetto e dal soffrire insieme all’altro.
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VIVERE E MODELLARSI:
LA FUNZIONE DEI MODELLI PER LO SVILUPPO DELLA VITA MORALE
1. L’uso dei modelli nella cultura contemporanea
È convinzione generale che la nostra sia un’epoca di transizione culturale. A ogni latitudine del globo avvengono trasformazioni epocali. Le culture tradizionali e sacrali dell’Asia e dell’Africa assimilano velocemente la tecnologia occidentale; morso il frutto, si trovano fuori del paradiso terrestre del mito e del tempo ciclico, inserite nel corso imprevedibile e angoscioso della storia. La nostra stessa cultura occidentale ha perso la fiducia in se stessa, si dilania nell’autocritica, è angustiata da rimorsi per gli orrori di cui si è macchiata. Non è più il tempo delle costruzioni ideologiche chiuse e onnicomprensive. Si va a tentoni. Su questo sfondo si comprende l’attenzione rinnovata ai modelli che emerge nei campi più diversi della cultura. La costruzione di modelli nel sapere, nell’etica e nella vita spirituale si impone come una delle esigenze emergenti della cultura contemporanea.
● Epistemologia e modelli
Le varie discipline del sapere, nonostante le loro necessarie
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differenze, hanno un tratto comune: fanno uso di modelli. Tutte: le scienze dell’uomo come le scienze della natura. Anche la teologia — quel sapere particolare che si fonda su verità rivelate — fa uso di modelli. In ambito teologico questo tipo di approccio è stato tematizzato soprattutto da I.T. Ramsey 77, il noto filosofo e teologo del linguaggio. La sua teoria epistemologica dei modelli è un invito a superare l’idea ingenua secondo cui i modelli a cui si fa ricorso in sede scientifica sarebbero delle descrizioni pittografiche dirette, una specie di rappresentazioni in miniatura o ingrandimenti fotografici della realtà considerata. Ciò non è vero — se vogliamo considerare i campi estremi di applicazione — né in fisica, né in teologia: né quando la luce è descritta, così come è stato fatto, come ondulazioni in un etere invisibile, né quando le realtà del mistero cristiano sono presentate in termini antropologici, quasi fossero rappresentazioni su scala umana e visibile di ciò che è divino e invisibile.
Il funzionamento del modello nel discorso scientifico, qualunque sia l’oggetto di questo discorso, è più articolato. I modelli, come le metafore, nascono dal “mistero”. È il mistero stesso che si dischiude in un’intuizione; il modello si riferisce a esso, senza avere però la pretesa di riprodurlo o descriverlo. Noi passiamo la vita nel cercar di gettar luce sempre più fedelmente sul mistero da cui il modello prende origine. Di qui la pluralità di modelli, la loro relativa breve durata nell’uso scientifico, la reciproca complementarietà. Il modello non traduce in maniera esaustiva il significato cosmico del “mistero”; tra il modello e ciò che lo sguardo dell’intelletto coglie in esso esiste un salto logico irriducibile.
Una riflessione epistemologica, per quanto sia necessariamente obbligata a muoversi in un piano astratto e formale, non equivale a un gioco di concetti rarefatti. Essa è stimolata dal maggior problema che conosca l’umanesimo nella nostra società del benessere: quello di scoprire nuove occasioni in cui possa dischiudersi il “mistero”. Il
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ruolo che la riflessione religiosa si propone non contraddice quello della vera scienza: essa vuol stimolare la visione, ricordarci il mistero; ma il mistero rimane inaccessibile. Il pensiero non può fotografarlo, il linguaggio non può riprodurlo. A esso ci si avvicina solo mediante l’uso di modelli.
La teoria epistemologica dei modelli ci rende avvertiti che ogni forma di sapere umano, quello scientifico come quello umanistico, è un uso articolato di modelli. Ciò lo relativizza e al tempo stesso lo aggancia alle profondità del mistero. Nel nostro sforzo per vivere nel modo migliore che possiamo, i modelli ci destinano a essere costantemente circondati da incertezze, sia teologiche che scientifiche. Alle incertezze si può far fronte solo mediante il ricorso alla verifica costante.
In una teoria epistemologica di questa ampia portata anche la teologia può legittimamente pretendere un posto. Similmente alle altre discipline, il discorso teologico fa uso di modelli. Non si trova in una posizione logica superiore rispetto alle scienze naturali, alla sociologia o alla psicologia; non può dettare le sue conclusioni alle altre scienze. Tutte le varie forme di sapere, infatti, si riferiscono al “mistero” e la coscienza di fare un discorso mediato da modelli preserva anche la teologia dalla pretesa di imporre i suoi assiomi in modo dittatoriale. L’unica funzione specifica che la teologia può e deve reclamare è quella di essere il guardiano e il portavoce dell’intuizione e del mistero; il suo compito primario è quello di tener desta l’attenzione delle altre discipline alle esigenze del mistero che le fonda, di sensibilizzarle a quel mistero che ogni disciplina cerca a modo suo di comprendere. «Le altre discipline saranno giudicate primariamente dalla qualità della loro articolazione; la teologia sarà giudicata primariamente dalla sua capacità di indicare il mistero. Ma ogni disciplina mescola comprensione e mistero; ciò significa che ci aspetteremo di trovare in ogni disciplina parole e frasi che testimoniano intuizione, così come modelli che assicurano la possibilità di esprimere il mistero» 78.
Nel modo di verificare i modelli le scienze della natura e le scienze comportamentali, in particolare l’etica, divergono. Nell’etica, al contrario
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che nella scienza, il modello non è usato per generare deduzioni che possono essere o non essere sperimentalmente verificate. Il modello etico non può confermare o falsificare la teoria che è sulle nostre labbra. Esso funziona in un modo che vorremmo paragonare — se è concesso un riferimento a un’esperienza quotidiana, senza tuttavia l’intenzione di essere irriverenti — al modo in cui si provano le scarpe. Abbiamo una particolare dottrina o, ancor più, un modello concreto di esistenza secondo dei valori; come una scarpa di nostro gusto, esso ci sembra rispondere ai nostri bisogni empirici. Solo una prova più accurata mostrerà se la scarpa stringe, se è permeabile all’acqua, se permette una comoda deambulazione. Il misurar le scarpe più che una prova tecnica è un’attività che esige una certa finezza di spirito; richiede la capacità di commisurare i propri bisogni e le prestazioni dell’oggetto, gli svantaggi che conviene tollerare e le funzionalità a cui non si può rinunciare.
● Etica e modelli
Per dare concretezza alle nostre considerazioni, prendiamo come paradigma il progetto filosofico che, a primo avviso, appare il più alieno alla tematizzazione dei modelli etici, vale a dire la critica del linguaggio metafisico ed etico fatta da Wittgenstein. La sua posizione è stata interpretata come un’irruzione di neo-positivismo sulla scena filosofica della nostra cultura, impantanata in una insolubile crisi del linguaggio. Si è spesso ripetuto che il suo Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più importanti del pensiero contemporaneo, ma solo per ridurre il suo progetto a un banale rifiuto di ogni affermazione che non possa essere verificata empiricamente («Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere») 79.
La critica del linguaggio impostata da Wittgenstein può avere ben altri esiti che la riduzione all’assurdo di ogni proposizione di tenore metafisico, religioso, etico o poetico 80. È vero che la sua avventura
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filosofica prende avvio da una rimessa in discussione della validità dell’uso del linguaggio per descrivere il mondo. Il linguaggio sembrava essersi scollato dai fatti descritti. In particolare Wittgenstein ha messo in discussione la validità del procedimento che porta a usare lo stesso linguaggio per connettere fatti e proposizioni, e allo stesso tempo per convalidare criticamente le relazioni intercorrenti tra linguaggio e mondo: ciò assomiglia al tentativo di arrampicarsi su una scala senza sostegni, sorreggendola al contempo. La possibilità di connettere fatti e proposizioni può mostrarsi, e quindi essere vista; ma non c’è maniera né di dirla, né di provarla.
Wittgenstein intendeva costruire una critica generale del linguaggio che mostrasse sia che la logica e la scienza hanno un ruolo fondamentale nel comune linguaggio descrittivo (linguaggio con cui produciamo una rappresentazione del mondo analoga ai modelli matematici dei fenomeni fisici), sia che i problemi circa l’“etica”, il valore e il significato della vita, i quali vanno oltre i limiti del linguaggio descrittivo, possono tutt’al più diventare oggetto di una visione mistica esprimibile solo con comunicazioni indirette. I neopositivisti hanno sfruttato la distinzione per contestare ogni validità al secondo tipo di discorso. Non era però questa l’intenzione di Wittgenstein. Secondo l’interpretazione fornita dal suo amico Paul Engelmann, che ha corrisposto col filosofo al tempo dell’elaborazione del Tractatus, egli intendeva esattamente il contrario di ciò che hanno compreso poi i neopositivisti. Il positivismo sostiene che ciò che conta nella vita è ciò di cui possiamo parlare in modo scientifico; Wittgenstein invece credeva appassionatamente che ciò che conta davvero nella vita è proprio quello di cui, dal suo punto di vista, si deve tacere.
Il progetto del filosofo viennese era quello di separare ciò che è etico dalla sfera del discorso razionale. Il significato del mondo sta fuori del fattuale; nella sua sfera, fatta di valori e di significati, vi sono solo paradossi e poesia. Naturalmente non vuol affermare che la moralità è opposta alla ragione, ma soltanto che la sua fondazione è altrove. L’etica non è una scienza. La sua verità non può essere dimostrata, ma solo mostrata. In pratica questo mostrare prende la forma di testimonianza.
Per esprimere il significato della vita umana, la verità morale, le
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cose più importanti della vita, bisogna ricorrere ad altro che al linguaggio della vita quotidiana e della scienza. Per l’uomo buono l’etica è un modo di vivere, non un sistema di proposizioni. Una simile concezione dell’etica ci induce ad attribuire una rilevanza singolare al fatto che Wittgenstein stesso, finita la redazione del Tractatus, abbia abbandonato la vita accademica e il mondo borghese di Vienna in cui era cresciuto per andare a fare il maestro elementare in paesini sperduti delle Alpi austriache. Questa decisione di vita diventa un momento ermeneutico fondamentale che dischiude il significato della sua opera filosofica 81.
P. Engelmann ha sintetizzato la posizione di Wittgenstein nell’affermazione che il suo linguaggio è quello della “fede non espressa in parole”. La prospettiva è ricca di sviluppi: «Tale atteggiamento, allorché sarà adottato da altri uomini della giusta statura, sarà la fonte da cui scaturiranno nuove forme di società, forme che non necessiteranno di comunicazione verbale, perché saranno vissute e in tal modo rese manifeste. Nel futuro gli ideali non saranno comunicati per mezzo di tentativi atti a descriverli (il che non può che operare un’azione di distorsione) ma da esempi di un’appropriata condotta di vita. E queste vite esemplari saranno di enorme valore educativo; non ci saranno dottrine espresse in parole che potranno sostituirle» 82.
La vita vissuta, più che le parole, può esprimere l’inesprimibile, vale a dire la qualità umana della vita. Una dottrina etica è un appello alla comprensione; una vita esemplare all’imitazione. L’imitazione, rettamente intesa, ha un suo posto e una sua funzione nella vita morale. Spesso è stata diffamata come comportamento etico inferiore, indegno di un uomo moralmente adulto. L’apporto di pensiero di alcuni filosofi moderni ci aiuta a rivalutare la sua qualità. Particolare importanza rivestono a questo riguardo le analisi fenomenologiche che Max Schler ha dedicato al processo etico dell’imitazione. Egli ha distinto il capo dal modello. Il capo agisce per via d’autorità e di comando; la
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sua influenza si esercita mediante l’obbedienza. Il concetto di modello, invece, dice tutt’altra cosa. Il “modello”, nel senso profondo della parola, implica sempre un’idea di valore. Agisce per via d’esempio o mediante la forza che promana dalla sua personalità. Non impone il valore; questo piuttosto diventa vivo e attraente attraverso il modello. Quelli che lo seguono reagiscono alla sua influenza mediante un atteggiamento proprio che è l’imitazione (Nachfolge).
L’imitazione non va intesa nel senso di copia, di riproduzione materiale (Nachahmung). I capi non muovono che la nostra volontà; i modelli strutturano il nostro stesso essere. Scheler definisce il modello come «il valore incarnato in una persona, una figura ideale che è continuamente presente all’anima dell’individuo o del gruppo, così che questa prende poco a poco i suoi tratti e si trasforma in essa: il suo essere, la sua vita, i suoi atti, coscientemente o incoscientemente, si regolano su di essa, sia che il soggetto abbia a felicitarsi di seguire il suo modello, sia che abbia a rimproverarsi di non imitarlo» 83.
Anche se Scheler conosce la fedeltà riflessa e cosciente verso un modello, la sua analisi verte soprattutto su quella specie di fedeltà “vitale” che si imprime misteriosamente nell’anima, pur sfuggendo alla percezione distinta, e magari alla coscienza, di colui che essa anima. «La persona (o il gruppo) che segue un modello non ha bisogno di conoscerlo in maniera cosciente e di sapere che essa lo ha per modello e che, giorno dopo giorno, forma il proprio essere sul suo, modella la propria personalità sulla sua. Arriverò anche fino ad affermare che molto raramente essa lo conosce come un ideale di cui sarebbe capace di definire il contenuto positivo, e che essa lo conosce tanto meno quanto più la sua azione formatrice è più potente su di sé» 84.
Il “discepolo”, in ogni caso, non obbedisce a una forza di suggestione che emanerebbe da un modello. E neppure lo copia. La sua condotta cambia in quanto il modello esercita su di lui un’“attrazione” (Zug), la quale, sviluppandosi e precisandosi, diventa amore 85. Questo
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amore non concerne questo o quell’aspetto o atto del modello, ma il centro stesso di tutto il suo essere, la sua essenza spirituale alla quale arriviamo così a partecipare. Sotto questa forma la relazione di fedeltà è atta a suscitare nel discepolo una trasformazione morale, una conversione del suo spirito, un rinnovamento del suo essere che né l’obbedienza, né il rispetto di norme astratte potrebbero produrre. L’origine e lo stimolo efficace al progresso morale bisogna cercarlo nell’influenza di persone concrete, dal destino esemplare, e non in regole puramente formali di portata universale.
Alla stessa conclusione giungeva anche Bergson quando opponeva la morale chiusa, fondata sulla generalità imperativa di formule impersonali, e la morale aperta, la quale si incarna in una personalità privilegiata che diventa un esempio: «Perché i santi hanno imitatori; e perché i grandi uomini di bene hanno trascinato dietro a sé delle folle? Non domandano niente, e purtuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere; la loro esistenza è un appello» 86.
Da questi filosofi che hanno propugnato un’etica personalista accettiamo la perorazione a favore del modello nella vita morale. Allo stesso tempo impariamo a distanziarci da un’imitazione pedissequa e letterale, che porterebbe a spegnere l’esistenza morale autentica in una serie di tipi fissi. I modelli presentano una certa composizione di valori in una prospettiva storica che, per quanto recente, non si identifica mai con la nostra. Possono servirci da ispirazione, da segni indicatori del cammino; ma non devono sostituire lo sforzo morale creativo richiesto a ognuno.
2. Testimoni di un futuro possibile
Tra le numerose richieste di un rinnovamento che faccia fronte alla crisi attuale dell’etica, un’istanza originale è quella che auspica il ritorno a una dimensione narrativa in questa disciplina 87. Una perorazione
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a favore del narrare rischia di cadere oggi nell’indifferenza. Non solo le scienze argomentative, ma anche quelle storiche disdegnano sempre più il narrare. Nella società contemporanea sembra che, al di là della sbrigativa trasmissione di notizie, non ci sia più posto per il racconto. Critici della cultura di profonda intuizione, come Walter Benjamin e Th.W. Adorno, hanno diagnosticato la fine del narrare.
Può essere molto istruttivo per l’etica il parallelo recupero della dimensione narrativa che sta avvenendo nella teologia. La narrazione sembrerebbe di casa nella teologia cristiana, se consideriamo che i testi su cui si fonda il cristianesimo sono dei racconti e che il gruppo dei credenti si è strutturato fin dall’inizio come comunità narrante. Ben presto, tuttavia, il cristianesimo ha perso la sua innocenza narrativa. Nel mondo ellenistico in cui esso si inserì già da tempo il narrare (il mythos) era subordinato al ragionare (il logos). La teologia ha svolto la funzione di tramutare, nel modo più celere e completo possibile, le storie tramandate in non-storie, in sistema speculativo di nozioni.
Nell’epoca moderna il divorzio tra sistema teologico ed esperienza religiosa, tra dogmatica e mistica, è andato radicalizzandosi. La biografia religiosa, cioè l’articolarsi della storia personale vissuta dinanzi a Dio, si è allontanata sempre più da ciò che la teologia scientifica ha riconosciuto come suo compito. Quest’ultima, erigendo a sistema il suo disdegno di un contatto con la vita, si è mutata in una dottrina che scambia l’atrofizzazione per oggettività scientifica.
Eppure la teologia, se vuol essere un vero servizio al messaggio cristiano, non può ripudiare pusillanimamente il narrare. Il teologo J.B. Metz ha proposto una rivalutazione teologica del racconto ricorrendo alla categoria del “ricordo pericoloso”. È una deformazione riservare il potenziale narrativo cristiano ai bambini ingenui; esso ha in realtà effetti critici e liberatori: «Narrano i piccoli e gli oppressi, ma questi non raccontano soltanto storie che li inducono continuamente a celebrare la propria oppressione e stato di minorità, ma anche storie pericolose, miranti alla libertà... La forza critico-liberante di queste storie non si può provare a priori o ricostruire; bisogna che ci si imbatta in esse, le si ascolti e possibilmente le si ripeta. Ma non esistono forse anche nella nostra epoca cosiddetta post-narrativa “narratori”
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delle più diverse specie, che fanno capire ciò che le storie possono essere: e appunto, non soltanto creazioni artistiche, produzioni qualsiasi, private, bensì racconti con effetti stimolanti sulla società, in certa misura critico-sociali, quindi ‘storie pericolose’?» 88.
Una teologia che, privilegiando il narrare, riuscisse a riconciliare dogmatica e storia vissuta, diventerebbe estremamente significativa. Perché è proprio il vissuto storico del popolo, l’esperienza religiosa quotidiana dei credenti che si troverebbe rispecchiata nel racconto di vite singolari. Una teologia siffatta sarebbe tanto più rilevante in quanto viviamo in una società in cui i possibili modelli di vita appaiono come prefabbricati, dotati di un marchio di stereotipo, che corrode le anime con la stanchezza della loro identità o con la noia della ripetizione in serie.
Sarebbe impreciso affermare che questa dimensione narrativa, centrata sul vissuto individuale, sia stata completamente bandita dalla prassi ecclesiale. La teologia cattolica, in polemica più o meno diretta con quella protestante, ha sempre sottolineato che l’eredità cristiana è portata dalla tradizione vivente, la quale si esprime nella vita stessa dei cristiani, in particolare dei santi. La venerazione dei santi ha prodotto sia le numerosissime biografie di tipo devozionale, sia il lavoro scientifico dei Bollandisti. Ma questa attività si è svolta in un terreno autonomo, senza integrarsi nella teologia vera e propria. Il lavoro teologico è stato dedicato a continuare la neoscolastica di origine tomista, ovvero a investigare quei problemi teologici speciali creati dall’epoca moderna. I teologi di professione non si sono occupati dei santi in modo tematico.
Tra i teologi di rilievo spiccano solo due eccezioni. La prima è costituita da Romano Guardini. In tutta la sua opera ― come dichiara nell’introduzione a Libertà, grazia, destino ― egli ha tentato di raggiungere «uno sguardo d’insieme che abbracciasse l’esistenza cristiana nella sua complessità», così come lo possedeva il pensiero cristiano primitivo. Il suo modello ideale era Agostino, il quale «non distingue metodicamente fra filosofia e teologia, e poi tra metafisica e psicologia nella filosofia, e di nuovo tra teologia dogmatica e dottrina pratica della vita nell’ambito della teologia, ma, partendo dall’esistenza cristiana nel suo complesso, ferma la sua meditazione su questo complesso e sulla molteplicità dei suoi
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contenuti» 89. Per un tale progetto teologico il concreto del vissuto storico dei cristiani eminenti è un terreno di elezione. Guardini ha affrontato esplicitamente la portata teologica della vita dei cristiani in un volume, Il santo nel nostro mondo, progettato come introduzione a una serie di vite di santi. Nei santi egli vede di modelli per nuovi stili di esistenze cristiane; essi aprono sentieri che altri possono seguire. Guardini auspica “un nuovo genere di santi”, che possa incarnare la santità di questa generazione. La via non è oggi quella del distacco e dell’ascetismo; si deve compiere mediante un abbandono obbediente alle direttive di Dio così come queste sono mediate dalla situazione secolare nella quale uno si trova. La via del santo non sarà perciò straordinaria, e nessuno potrà identificare facilmente un santo moderno.
Il vissuto storico ha un posto ancora più organico nella visione teologica di Hans Urs von Balthasar. Nella sua opera di maggior impegno, Herrlichkeit 90, egli si è proposto di dar corpo a un’“estetica teologica”, vale a dire una contemplazione del Dio della rivelazione cristiana, non in quanto comunica la verità o in quanto si mostra benevolo verso l’uomo, bensì in quanto si avvicina all’uomo per manifestare se stesso «nell’eterno splendore del suo amore trinitario». In altri termini, una contemplazione di Dio alla luce non delle tradizionali categorie del “vero” e del “buono”, bensì di quella del “bello”. Tutto ciò che è bello e splendido al mondo è l’epifania, lo splendore dei principi d’essere potenti e nascosti che mediante la rivelazione di Dio in Cristo emergono in una figura espressiva.
L’estetica teologica ha il compito di dare alle proposizioni astratte il colore e la pienezza proprie della storia. Perciò il teologo svizzero fa sfilare tutta una serie di teologi cristiani e di personalità spirituali eccezionali, scelte in ragione della loro importanza storica. La pluralità delle loro visioni cristiane del mondo mostra la gloria della rivelazione divina nella diversità delle sue manifestazioni. È come lo scindersi della luce bianca nella molteplicità dei colori al passare attraverso il diamante. Le testimonianze di vita e di dottrina di teologi, di laici e di “spirituali” vengono semplicemente giustapposte, nella coscienza dell’impossibilità di ridurre a sistema la molteplicità delle contemplazioni storiche di Dio nella sua
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bellezza. Agostino viene presentato accanto a Dante, Giovanni della Croce accanto a Péguy. Con gli occhi fissi sulla storia del mondo e sul presente, cristiani di eccezione sono stati sorgente di creatività per la vita cristiana più che qualsiasi sistema teologico. A questo apporto originale nella comprensione della bellezza del volto umano di Dio l’opera di von Balthasar vuol rendere omaggio.
La menzione esplicita dell’opera dei due teologi valga a suggerire di quale profitto può essere per la teologia l’assumere come punto di partenza il vissuto concreto dei cristiani. Il fatto che questi tentativi teologici valgano come eccezioni sottolinea quanto sia urgente adottare un modo di far teologia in cui sia fatto il debito posto alla visione spirituale di alcuni cristiani esemplari.
Prestando orecchio alle voci che da più parti reclamano un rinnovamento per la teologia a partire da una accresciuta attenzione al vissuto storico, giungiamo a intravedere che esistono alcune vite in cui il principio direttivo della fede cristiana ha saputo creare, mediante una singolare coerenza di azione e di dottrina, una forma nuova di esistenza evangelica 91. Le credenze cristiane non sono infatti “proposizioni” da catalogare e giudicare con criteri imposti da un riferimento esterno ed oggettivo, bensì convinzioni vive che danno forma a vite attuali e a comunità attuali. L’esame critico consono con le credenze cristiane è dunque quello che comincia con l’attenzione alle vite vissute. A questa conclusione ci conducono anche le istanze di ordine epistemologico ed etico che abbiamo accolto dalla cultura contemporanea.
La scienza dipende da modelli, l’arte da forme astratte, la religione da immagini. Non intendiamo rigettare questi campi della conoscenza umana, bensì aprire la via alla piena manifestazione della visione che essi evocano. Il modello si apre sul mistero, cioè sulla vera cosa di cui è questione nella scienza, nell’arte e nella fede. Pur essendo il modello inadeguato a esprimere la totalità del mistero, resta
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purtuttavia una via legittima ― anzi, l’unica valida ― verso di esso. Le vite che portano un’immagine recano testimonianza alla visione che esse rappresentano. Per questo la teologia non può prescindere dal materiale biografico.
La teologia è sostanziata di biografia. Volgendosi a queste vite di credenti, la teologia trova la via per riformare se stessa, per rendere credibile il suo discorso ― “mostrando” ciò che non può “dimostrare” ―, per accrescere la fedeltà alla visione originaria e l’adeguamento alla nostra epoca. L'impatto di queste vite dischiude, amplia e forse corregge la visione spirituale della comunità, operando come stimolo contagioso o come attrazione nel senso di Max Weber Soprattutto risveglia altre convinzioni della comunità circa il suo modo di intendere i valori trascendenti, la sua concezione dell’uomo, il suo apprezzamento della terra e dell’attività umana.
Tenendo presente l’importanza che modelli e narrazione possono avere anche in un ambito fortemente normativo come è quello teologico, ci volgiamo alla bioetica. Anche questa disciplina, dopo la fase di sviluppo e consolidamento, in cui ha fatto legittimamente ricorso ai procedimenti che legittimano il sapere accademico, trarrebbe molto beneficio da una maggiore attenzione ai modelli, così come si esprimono nella biografia delle persone.
Abbiamo proposto altrove gli argomenti che giustificano un’esplorazione biografica della bioetica e ne abbiamo realizzato un iniziale percorso attraverso alcune biografie esemplari 92. Anche la rubrica “Attualità dei maestri” della rivista L’Arco di Giano ha seguito, fin dal suo primo fascicolo, percorsi biografici nelle medical humanities. Rimandiamo a queste fonti per l’opportuna documentazione. Con un’avvertenza: nessuna mediazione può surrogare il beneficio di un incontro diretto. Le idee sono importanti per la svolta del livello di coscienza circa i problemi della vita che l’umanità sta vivendo. I buoni libri sono per lo spirito un pane più necessario di quello che procuriamo quotidianamente al corpo. Ma niente è tanto essenziale quanto il personale contatto con quelle persone che incarnano nella loro vita quel cambiamento di paradigma verso il quale si rivolge la nostra speranza. Il loro pensiero, tradotto in biografia, fa sì che la bioetica “mostri” ciò che non può “dimostrare”.
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IL RIFERIMENTO ALLA COSCIENZA NELLA PROFESSIONE MEDICA
Quando qualcuno nell’esercizio della sua professione si appella alla coscienza suscita istintivamente rispetto. La coscienza individuale nella gerarchia di valori del nostro universo culturale occupa il posto più alto. Ad essa si attribuisce la decisione ultima. Dalla coscienza dipende la qualità etica del comportamento: ciò che è in accordo con essa ha un valore morale positivo; l’infrazione del dettato della coscienza inquina la moralità anche di un atto in sé buono. Il ricorso alla coscienza è circonfuso da un’aura ancor più sacrale quando si tratta della professione medica, dal momento che il medico ha potere sulla vita di altri esseri umani.
La coscienza è, per sua natura, un’istanza insindacabile. Ciò non la sottrae però a qualsiasi forma di critica. In particolare, non può essere elusa la questione fondamentale: c’è veramente la coscienza dietro gli appelli alla coscienza? I “maestri del sospetto” ci hanno fatto aprire gli occhi sull’abisso esistente tra il linguaggio e la realtà. Non sempre siamo soggettivamente coscienti delle mistificazioni. Talvolta ci limitiamo a considerare le relazioni sociali apparenti, senza avvertire la realtà sociale di sopraffazione che nascondono. Oppure
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ci accontentiamo di ciò che le difese del pensiero cosciente lasciano filtrare, ignorando la realtà psichica repressa. Non soltanto chi è andato a scuola dal marxismo e dalla psicoanalisi è stato educato al sospetto sistematico. Anche l’uomo della strada ha imparato a diffidare delle parole altisonanti, a distinguere tra ciò che il linguaggio rivela e ciò che nasconde.
Le mistificazioni possono essere involontarie; per questo sono così pericolose. Specialmente quando coinvolgono la coscienza, il frutto più sublime e più fragile che l’educazione etica dell’umanità ha prodotto. Corruptio optimi pessima: lo sapevano anche gli antichi. Poiché dunque l’appello alla coscienza può dar adito a mistificazioni, grossolane o raffinate che siano, è opportuno sottoporre l’obiezione di coscienza in campo medico a una riflessione critica. Non al fine di screditare l’obiezione, o per scoraggiare il ricorso ad essa, ma piuttosto per mettere in evidenza le condizioni che la rendono autentica e credibile; dunque, in sostanza, per promuovere un’obiezione di coscienza di qualità etica ineccepibile.
Il nostro interesse non va alla casistica, bensì al processo psicologico-sociale dell’obiezione di coscienza in quanto tale. L’appellarsi alla coscienza è come un sasso gettato in acque stagnanti, una provocazione alla prassi comune. Lasciando le nostre riflessioni estendersi come il gioco dei centri concentrici sull’acqua, entreremo in un complesso di interrogativi inquietanti che concernono l’esercizio della professione, le motivazioni del comportamento, l’esperienza religiosa. In sostanza, sottoporremo l’appello alla coscienza a una progressiva chiarificazione semantica a un triplice livello: deontologico, etico e religioso.
1. La coscienza come istanza etica
Per situarci d’emblée nell’ordine della coscienza etica pensiamo alla situazione che evoca l'accorata domanda: «Dottore, che decisione prenderebbe se si trattasse di sua figlia o di sua moglie?». La domanda presuppone che, oltre alla coscienza professionale, esista un’altra istanza. La cosiddetta “coscienza professionale” non è altro che l’ethos che caratterizza una determinata professione. A un’analisi
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ulteriore l’ethos professionale risulta dotato di una duplice rilevanza: giuridica ed etica. Il primo punto di vista costituisce il diritto professionale, strutturato come un insieme di prescrizioni di legge legate a una determinata professione. Esso specifica le obbligazioni alle quali è vincolato chi la esercita. Le infrazioni di tale normativa sono perseguibili penalmente.
Ma l'ethos professionale non è ristretto a quanto può portare di fronte al giudice. C’è anche un insieme di doveri che dipende da un’altra fonte: sono i doveri che costituiscono la deontologia di una professione. Oltre a questa coscienza professionale, esiste dunque un’istanza superiore, a cui si può far appello in situazioni eccezionali. Se il medico è interpellato in quanto medico, può lasciarsi guidare dall’ethos deontologico; ma, interpellato in quanto uomo, e dovendo prendere una decisione “in coscienza”, dovrà ispirarsi a un altro ordine di valori.
La domanda da cui siamo partiti evidenzia alcuni tratti che connotano la coscienza morale. Questa è una relazione intrinseca dell’uomo con se stesso, grazie alla quale l’individuo può conoscersi in modo immediato e privilegiato, e perciò giudicarsi con sicurezza. L’accesso alla coscienza di un altro non può essere forzato; la coscienza non si apre dall’esterno ma solo dall’interno, per libera automanifestazione del singolo all’altro uomo. La sfera d’interiorità costituita dalla coscienza è avvertita come realtà superiore e privilegiata. In quanto organo per la veracità e l’onestà, conferisce alle azioni caratteristiche peculiari: le rende libere, responsabili; in una parola: morali.
In questa sommaria descrizione della coscienza si sarà riconosciuta la concezione che, dall’illuminismo in poi, rappresenta l’ideale più alto di civiltà nell’ambito della cultura occidentale. L’uomo emancipato è quello che ha superato l’“eteronomia” ― sia quella parentale del bambino che quella sociale propria dei gruppi che esercitano un controllo oppressivo ― per accedere all’“autonomia”, vale a dire una condotta guidata dalla coscienza. Un’azione compiuta secondo coscienza suscita un rispetto che confina con la venerazione. Si può addirittura parlare di una “religione della coscienza” come caratteristica della cultura illuministica di cui siamo figli.
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Nessuno si sognerebbe oggi di contestare il ruolo preminente attribuito alla coscienza nella gerarchia di valori. Prima però che la coscienza possa rivendicare i suoi privilegi di istanza inappellabile e suprema, deve rispondere ad alcune questioni della massima importanza. Quali sono le decisioni che vengono veramente prese in coscienza? Esistono validazioni in grado di accreditare o inficiare gli appelli alla coscienza? Come si forma e come si evolve la coscienza?
Iniziamo dall’ultima questione. Parlare di formazione della coscienza implica una prospettiva dinamica ed evolutiva, secondo la quale la coscienza non esiste come un elemento immutabile, simile ai tratti trasmessi tramite il meccanismo dell’eredità genetica. La coscienza esiste, piuttosto, in potenza; spetta all’educazione creare le condizioni per il suo sviluppo. La coscienza del bambino non si lascia comparare con quella dell’adulto. Gli adulti sono così lontani dal continente perduto dell’infanzia che stentano a rendersi conto che persino la nozione di “intenzionalità” è acquisita. Per l’adulto la presenza di un’intenzione, pur non essendo sempre un fatto percettibile, è però un dato di cui occorre sempre tener conto per valutare la qualità di un’azione. Non così, invece, per il bambino.
Gli studi di J. Piaget 93 hanno dimostrato che il pensiero infantile è per lungo tempo permeato di “realismo”, che comporta il primato dei dati percettivi su quelli rappresentativi. Il bambino deve percorrere un lungo cammino prima di giungere a scindere la presenza di un’intenzione dal risultato concreto dell’azione che essa suscita o guida, e a rendersi così conto che a una stessa intenzione possono corrispondere risultati diversi o, viceversa, che può verificarsi uno stesso risultato benché le intenzioni siano diverse. A Piaget dobbiamo l’ipotesi dell’esistenza di due moralità: una eteronoma o di costrizione, l’altra autonoma e fondata sulla cooperazione. Secondo la prima, che si ritrova nei bambini più piccoli, ciò che la regola o l’adulto comandano deve essere fatto e la disobbedienza è comunque un atto riprovevole; secondo la morale autonoma, che si impone più tardi sostituendosi ― talvolta non interamente ― alla prima, una regola ha quel valore che concordemente si decide di darle.
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Affermando che la persona adulta e matura è solo quella che si lascia guidare nel suo agire da motivazioni di coscienza, si ottiene senza difficoltà il consenso generale. Non esiste invece un modello di sviluppo della coscienza che si imponga in modo indiscutibile. A titolo orientativo ci riferiamo a quello proposto da Charles Hampden-Turner, che si ispira alle teorie della personalità proposte dalla corrente nota come “psicologia umanistica 94. Secondo questo modello, prima di giungere all’azione orientata alla coscienza si passa per numerose fasi, che possono essere così schematizzate:
― Orientamento di obbedienza (analogo alla moralità eteronoma di Piaget). L’azione è motivata dalla volontà di evitare punizioni o fastidi. Deferenza somma verso il potere; concezione oggettiva e non ancor soggettiva della responsabilità (Piaget lo chiama “realismo morale”: convinzione che commettere certi atti è cosa in sé cattiva e costituisce una colpa, indipendentemente da ogni considerazione del contesto psicologico che precede o accompagna il loro svolgersi).
― Orientamento egoistico strumentale. L’azione è orientata al soggetto stesso e ai propri bisogni: è giusta quella che li soddisfa. Questo atteggiamento non esclude eventualmente l’orientamento a bisogni degli altri. Determinante in questa fase è la concezione che non esistano valori assoluti: ogni valore è relativo ai bisogni e alle prospettive del singolo agente.
― Orientamento al ruolo. La formazione della personalità individuale passa attraverso l’accettazione di un ruolo. Questa accettazione permette di prevedere le azioni degli altri e di adattarvi la propria condotta. Una condotta orientata al ruolo implica la conformazione alle immagini stereotipate della maggioranza e l’intenzione di adattarsi al giudizio sociale su ciò che è naturale per un certo ruolo. Prototipo di questo atteggiamento è il bambino adattato che, pur di piacere, compiace. In ognuno che sia passato attraverso il processo di socializzazione è presente il “bravo ragazzo”, teso a riscuotere l’approvazione altrui.
― Orientamento alla legge. È l’orientamento a mantenere l’autorità e l’ordine sociale come fine a se stesso. Ispira il comportamento di
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coloro che “fanno il proprio dovere”, ne sono fieri e appagati. La concordanza personale con quanto si presenta con le caratteristiche di “ordine” esaurisce le esigenze morali presenti a questo livello.
― Orientamento al contratto sociale. Il dovere è qui definito in termini di contratto. È presupposto che ci si sia resi conto che nelle norme e nei ruoli c’è un elemento arbitrario, che dipende da un accordo sociale. L’azione ispirata ad esso intende evitare di violare il volere o i diritti degli altri e vuol favorire la volontà e il benessere della maggioranza.
― Orientamento ai principi o alla coscienza. È il comportamento di chi, al di là dell’orientamento alle regole sociali effettivamente ordinate, si ispira a principi di libera scelta personale. A questo livello il principio direttivo delle azioni è la coscienza. Il giudizio che si basa sui principi e sulla coscienza è la forma più elevata di giudizio morale. É proprio della persona matura, che ha completato la formazione della propria coscienza.
L’obiezione di coscienza è un caso particolare, di origine conflittuale, del comportamento morale adulto, ispirato ai principi etici. Prima però di considerare questo caso particolare, completiamo il quadro della personalità dell’uomo eticamente maturo. La persona matura, che si ispira ai principi, non equivale al “dogmatico”. Utilizzando la distinzione messa in uso da Rokeach 95, diremo che, a differenza del dogmatico, la persona matura è dotata di un quadro mentale “aperto”, non “chiuso”. Ciò vuol dire che la sua percezione abbraccia tutta la realtà, compresa l’intera gamma dei dilemmi. La sua è una percezione decentrata, capace di cogliere i bisogni degli altri, anche quelli che contraddicono i propri.
Grazie a una personalità tanto forte da non conformarsi alle aspettative di ruolo imposte dall’ambiente culturale, la coscienza adulta può affrontare la drammatica eventualità della situazione di conflitto. Può avvenire infatti che il soggetto etico si trovi nella situazione in cui l’orientamento ai principi e alla coscienza si oppone alle altre istanze.
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Non è una eventualità da presumere con troppa facilità. Normalmente le varie istanze si integrano abbastanza armonicamente, o quanto meno convivono; e solo una minima parte dei nostri atti morali fa appello diretto alla coscienza. Ma il caso eccezionale in cui l’orientamento alla coscienza si opponga agli altri orientamenti può crearsi.
Allora la struttura etica è messa alla prova e il soggetto si trova di fronte a un dilemma: o sacrifica il riferimento alla coscienza, appoggiandosi a una delle altre motivazioni (secondo lo schema gerarchico che abbiamo proposto: esegue il comando che gli evita la punizione, si orienta secondo i propri bisogni, fa ciò che ci si aspetta da lui, ciò che prescrive la legge, agisce secondo gli impegni che si è assunto verso la società); oppure investe tutto il suo potenziale morale sui principi, affrontando le conseguenze del conflitto. Le quali possono essere, in una tragica escalation: la soppressione del contratto sociale, lo scontro con il rigore delle leggi vigenti, la disapprovazione sociale per il non adempimento delle aspettative di ruolo, il disagio personale e, infine, la punizione. Due esempi luminosi di opposizione per motivo di coscienza, con la morte inflitta come epilogo, sono le vicende di Socrate e di Tommaso Moro.
La semplice menzione dei due simboli più noti, nella nostra cultura, della trascendenza della coscienza ci fa intravedere quale straordinaria efficacia possa avere l’obiezione di coscienza. Il principio per amore del quale si è disposti a mettere in gioco ogni cosa sollecita negli altri una reazione di conferma, che travolge i contratti sociali, le leggi e le aspettative di ruolo; tale principio può diventare una nuova base per la convivenza civile, una nuova legge, un nuovo modello di ruolo. Non è retorica affermare che i progressi etici dell’umanità non sono avvenuti per accumulazione progressiva, come quelli scientifici, ma per salti qualitativi dovuti a coscienze singolari, come appunto quelle di Socrate e di Tommaso Moro (se i due esempi sembrano eccessivamente patetici per la tragica fine degli obiettori, si pensi come situazione emblematica a Francesco d’Assisi, nudo di fronte al padre: è anche questa un’immagine fortemente espressiva della radicalità cui può portare la motivazione di coscienza).
La descrizione fenomenologica della motivazione di coscienza che abbiamo sviluppato come risposta alla domanda iniziale sulla formazione
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della coscienza ci offre gli elementi per discernere un’obiezione di coscienza da ciò che non lo è. Non è sufficiente che ci sia un atto di ribellione alle leggi e al contratto sociale perché si abbia obiezione di coscienza. La ribellione può manifestarsi tanto nella fase più formalmente etica quanto nelle fasi precedenti, in cui il comportamento si orienta ad altro che ai principi etici. Se la persona non si è maturata normalmente fino a raggiungere la capacità di un’azione orientata ai principi, non si può parlare di obiezione di coscienza.
Quante persone raggiungono questo stadio? Il nostro narcisismo culturale, avvezzo a mettere il comportamento dell’homo sapiens su un piedistallo tanto più elevato di quello dell’animale, vorrebbe lasciarsi illudere che la motivazione di coscienza è l’atmosfera etica in cui si muove abitualmente l’umanità. Probabilmente la realtà è ben diversa. Pensiamo all’anestesia delle coscienze, al conformismo e all’adattamento generalizzato che costituiscono la triste base su cui poggiano tutti i regimi totalitari.
Motivo di riflessioni non meno deprimenti ci offrono i risultati del celebre esperimento di Stanley Milgram sull’acquiescenza all’autorità. I soggetti sperimentali ai quali fu ordinato di somministrare scariche elettriche a cavie umane (benché in realtà, all’insaputa dei protagonisti dell’esperimento, si trattasse di attori abili nel mimare il dolore), elevarono il voltaggio, su comando, fino a livelli mortali per la cavia. Soltanto pochissimi soggetti rifiutarono le direttive degli sperimentatori. Evitiamo di sollecitare conclusioni troppo ampie dall’esperimento (anche se è stato confermato da esperimenti analoghi condotti in Italia) una cosa, tuttavia, appare certa: non tutti, forse addirittura poche persone, sono capaci di ribellarsi. Se la capacità di opporre resistenza per motivo di coscienza fosse così diffusa come la convinzione del valore supremo della vita umana, i risultati degli esperimenti sull’acquiescenza agli ordini immorali sarebbero ben diversi (e non ci sarebbero stati né Auschwitz né l’arcipelago Gulag).
È facile passare da queste considerazioni al campo specificamente sanitario. I suoi operatori professano il principio dell’intangibilità della vita e svolgono un’attività volta a fini terapeutici; eppure si trovano spesso, di fatto, al centro di un campo di forze che non sono favorevoli né alla salute, né alla vita. Contrariamente alle attese, le
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obiezioni di coscienza non sono frequenti. Se consideriamo con realismo quanto raramente il comportamento umano si orienti ai principi e alla coscienza, non troveremo nel fatto un motivo per stracciarsi le vesti. Del resto, in base alle osservazioni precedenti sappiamo di non essere in grado di inferire con certezza dal fatto in sé della ribellione ad attese di ruolo o a prescrizioni legali un’obiezione di coscienza. Per definizione la coscienza è autoevidente ed autoreferenziale: essa esclude perciò qualsiasi forma di diretta verifica dall’esterno. Un comportamento di ribellione potrebbe essere orientato a tutt’altro che alla coscienza.
A livello sociale le questioni di coscienza sono circondate da un velo di agnosticismo: “ignoramus et ignorabimus”. La società infatti, pur considerando la motivazione di coscienza come il vertice supremo della moralità umana, si regge non sulla coscienza, bensì sugli altri ordini di moralità. Non sarebbe possibile una convivenza civile se l’unico ordine di riferimento fosse il dettato della coscienza individuale. Ciò ci permette di capire il carattere irritante che ha, a livello sociale, l’obiezione di coscienza.
L’appello alla coscienza è un fatto anomalo che sembra sospendere altre forme di moralità che garantiscono la convivenza civile, in particolare l’ordinamento giuridico e il contratto sociale. Tanto più che la coscienza individuale è un’istanza che sfugge a qualsiasi controllo sociale (di qui le riserve nei confronti della disposizione che accompagnava originariamente la legge che regolava il diritto di obiezione di coscienza al servizio militare, secondo cui una commissione deve giudicare le motivazioni di coscienza; la disposizione contraddice il concetto stesso di obiezione di coscienza).
Quali risorse restano alla società per difendere se stessa dalle obiezioni di coscienza spurie? La possibilità delle verifiche indirette. Il gruppo sociale, il quale non può rinunciare alla collaborazione dei suoi membri, per evitare che l’obiezione di coscienza sia solo la copertura di un disimpegno di comodo, può avanzare richieste di un impegno compensatorio. Così nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare la comunità dovrà richiedere un’equivalente e impegnativa prestazione civile (purché non diventi in pratica una forma di penalità). Quando poi l’obiezione cada su alcuni punti che il gruppo
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ritiene di valore sostanziale per la convivenza civile, la società, pur non potendo richiedere un’esecuzione contro coscienza, potrà esigere che si subisca la pena o si esca dal gruppo 96. È un’eventualità che, come abbiamo illustrato sopra, è insita nella nozione stessa di obiezione di coscienza.
Questi principi etici possono essere applicati ai casi di obiezione di coscienza che riguardano i medici nell’esercizio della loro professione; in particolare alla prestazione della loro opera per procurare l’aborto. Tutte le legislazioni dei paesi democratici che hanno varato normative in proposito hanno previsto la figura giuridica del medico obiettore di coscienza (alcune l’hanno estesa anche a istituzioni sanitarie in quanto tali). Più che le concrete determinazioni di tali norme, ci interessa valorizzare il fatto in sé dell’obiezione prevista dal legislatore e la tensione tra la società legiferante e il medico obiettore che ciò presuppone. Si crea così uno spazio per l’inquietudine e l’interrogazione.
Il gruppo sociale, ammettendo nella propria normativa, in maniera del tutto anomala, la possibilità dell’obiezione, confessa la propria insicurezza. Il patto sociale non è perfetto, se la coscienza di alcuni può essere prevedibilmente offesa da qualche norma e la legge stessa, che pur dovrebbe garantire l’armoniosa convivenza, si vede costretta a prevedere vistose deroghe. Ammettendo l’obiezione di coscienza, la società proclama implicitamente che si tratta di una situazione transitoria e di emergenza, che reclama di essere superata mediante una crescita qualitativa della moralità comune.
La tensione dialettica tra coscienza individuale obiettante e normative sociali apre inoltre uno spazio di interrogazione per colui che obietta. È la sua una vera obiezione di coscienza? Per essere tale non basta infatti che l’azione obbedisca a una qualsiasi convinzione, ma deve derivare da un principio fondamentale. Questo, a sua volta, non esiste isolato, ma fa corpo con tutto l’organismo etico dell’individuo. Non si può, se non a prezzo di una contraddizione insanabile, difendere un principio in una circostanza e poi rinnegarlo allegramente
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in tutto il resto della propria attività professionale. Oltre i casi di più smaccata ipocrisia, c’è tutta una gamma di incoerenze personali e istituzionali che attendono la seria verifica dell’obiezione di coscienza per essere messe in luce. Di fronte al tribunale della coscienza, si sa, ognuno è solo; ma l’essere il testimone della propria immoralità può essere una ben dura condanna, di quelle che si scontano a vita.
2. L’obiezione per motivi religiosi
L’obiezione di coscienza per motivi religiosi è uno dei casi in cui l’autorealizzazione etica dell’individuo tocca i vertici. È noto come storicamente sia stato il protestantesimo a rivalutare l’obiezione di coscienza come espressione dello spirito cristiano; con la protesta in nome del Vangelo stesso il libero esame, mediato dalla coscienza individuale, ha spezzato la monolitica unità garantita dall’istituzione ecclesiastica. In ambito cattolico si è fatto a lungo resistenza al principio della libertà di coscienza. Tanto la concezione protestante quanto quella illuministica erano giudicate come un’indebita semplificazione dell’organismo etico, di cui fa parte essenziale il riferimento all’autorità. Il concilio Vaticano II ha ratificato un processo di rivalutazione della coscienza individuale avvenuto anche tra i cattolici. Con la dichiarazione Dignitatis humanae l’istanza dottrinale di vertice, il magistero, ha preso ufficialmente posizione a favore della libertà religiosa. La dichiarazione, pur non richiamandosi all’obiezione di coscienza, afferma i principi dai quali deriva il diritto all’obiezione.
I problemi suscitati dalla coscienza religiosa sono numerosi e delicati. Ciò che interessa il nostro assunto è la possibilità di un’obiezione di coscienza nelle professioni sanitarie in nome di un’incompatibilità con i propri principi religiosi. Procederemo come abbiamo già fatto per le altre due istanze, quella deontologica e quella etica. Ciò che ne risulterà non sarà una casistica spicciola, ma piuttosto una specie di radiografia dell’obiezione stessa. Il nostro scopo è di mostrare quali sono le condizioni che garantiscono la consistenza interna e l’accettabilità sociale dell’obiezione religiosa.
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Specifichiamo in primo luogo che l'appello alla propria coscienza religiosa può avere valenze diverse. In sé, esso dice riferimento alle istanze dottrinali e morali della comunità di fede religiosa a cui si appartiene (dal momento che una religione non è mai un fatto puramente individuale). Tuttavia il legame con la comunità e il suo apparato dottrinale-autoritario può essere di qualità molto diversa. L’autenticità e la profondità del legame ammettono una vasta gamma di possibilità.
Per prendere gli estremi, si può andare dall’adesione nominale — a cui magari possono non essere estranei interessi materiali o vantaggi sociali ―, all’identificazione sofferta (si pensi al caso di Galileo, preso nella morsa del contrasto tra la propria visione scientifica e la fedeltà all’autorità dottrinale della chiesa). Anche qui, come già nel caso dell’appello ai principi etici, la possibilità di una verifica obiettiva del grado di autenticità è esclusa a priori. La possibilità del “tartufismo” è purtroppo da mettere in conto, anche se non può essere una ragione sufficiente per accogliere con sospettoso pregiudizio qualsiasi riferimento a principi religiosi.
Solo il credente stesso può sapere se si riferisce unicamente alla struttura esterna del gruppo confessionale, oppure ne partecipa l’intima sostanza in modo personale; in altri termini: se la sua religiosità è pura appartenenza sociologica, oppure si fonda su un’esperienza religiosa vissuta. Quando l’appello alla coscienza attinge le profondità esistenziali dell’esperienza religiosa personale, viene a qualificarsi come un momento che ha la stessa tessitura etica del comportamento motivato da principi individuali. L’esperienza religiosa in quanto tale è difficile da definire. Fa parte di una di quelle esperienze psicologiche che Abraham Maslow ha definito peak experiences; vale a dire, esperienze di ordine superiore, che permettono all’individuo di compiere sintesi di coscienza improvvise, panoramiche e fuori dall’esperienza comune 97.
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Esperienze di questo tipo vengono sentite come auto-validanti, auto-giustificanti, recanti in sé il proprio intrinseco valore.
Secondo I.T. Ramsey, per intendere a quale tipo di situazioni fa riferimento l’esperienza religiosa bisogna unire insieme due fattori: “discernimento” e “impegno”. Il primo può essere illustrato con quelle situazioni, familiari alla psicologia della Gestalt, in cui “qualcosa scatta”, “il ghiaccio si spezza”, una persona “prende vita”; l’impegno è una risposta incondizionata a qualcosa “che è al di fuori di noi” 98. Si tratta, in ogni caso, di approssimazioni. Non può esistere una descrizione che metta in grado di capire un’esperienza senza farne l’esperienza. L’esperienza è la sostanza della fede. Questa ha come unico parametro interno di autenticità l’esperienza religiosa, in quanto nasce da essa o tende verso di essa. Ciò non esclude il momento comunitario e la conseguente tensione tra spontaneità e normatività delle istituzioni. Ma i due termini devono essere lasciati coesistere dialetticamente: un modo costruttivo di risolvere la tensione non potrebbe essere quello di sopprimere uno dei due.
In che senso l’esperienza religiosa ha un’incidenza nella questione dell’obiezione di coscienza? Ci pare di poterlo indicare nel fatto che l’esperienza religiosa costituisce una fonte di motivazione etica. In quanto espressione di somma autorealizzazione umana (una realizzazione che in alcune religioni storiche è esplicitata come dono connesso all’incontro con il “Tu” divino), l’esperienza religiosa è percepita dal credente come un’esistenza nuova, da cui deriva un’esigenza morale più alta. Cambia il suo essere, cambia il suo agire. Lo sboccio della novità, elemento comune ai vissuti esistenziali culminanti, è esigente.
Nell’esperienza si esprime un’autorità superiore alla quale il credente non può, e non vuole sottrarsi, perché con essa si identifica. Il comportamento etico dell’uomo religioso si fonda sull’autorità di Dio, come istanza irriducibile alle altre. È difficile definire in termini antropologici come sia determinata la coscienza dell'uomo
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che l’esperienza religiosa ha aperto a una dimensione nuova dell’essere. Non si tratta di “autonomia”, vale a dire la conquista che l’individuo post-illuministico ha strappato alle determinazioni sociali e che difende come libertà di coscienza; neppure si tratta dell’“eteronomia” della coscienza non emancipata. Bisogna ricorrere a un termine proposto da alcuni teologi: “teonomia”, della coscienza. Si tratta di un rapporto di “libera dipendenza” dall’istanza autoritaria suprema, un rapporto esperibile ma non descrivibile.
La descrizione delle coscienze normate dal loro rapporto con Dio ha un carattere astratto. Di fatto però noi abbiamo conosciuto l’esistenza di tali coscienze non per opera di speculazione; queste coscienze si sono storicamente mostrate. Pensiamo a Cristo di fronte a Pilato. Due universi etici polarmente opposti. Non è soltanto la qualità delle azioni che li fa divergere, ma, in radice, l’autorità etica a cui la loro coscienza fa riferimento. Cristo fa osservare a Pilato che non avrebbe autorità su di lui se non gli fosse stata data da chi gli sta sopra; il suo potere è mutuato da un organismo politico-sociale (nel caso, di oppressione politica) che lo sostiene e lo giustifica. Di fronte a lui Gesù di Nazaret è un uomo di “un altro mondo” non solo metafisico, ma etico. Il suo potere non dipende da un’istanza gerarchica esterna: lo ha dentro di sé, in quel centro di esperienza esistenziale in cui è uno con Dio. Pilato, il detentore del potere, è eteronomamente determinato come uno schiavo; Gesù, il suddito, è teonomamente libero.
Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in margine alla disputa tra Gesù e i sommi sacerdoti a proposito della sua autorità (cfr. Mc. 11,27-33). I rappresentanti dell’istituzione religiosa, che avevano con l’autorità divina un rapporto basato sulla tradizione e sulla formalità legale e gerarchica, non potevano capire di dove venisse l’autorità di chi portava in sé la salvezza di Dio. Gli ebrei, tuttavia, non escludevano a priori l’esistenza di esperienze di Dio che fondassero una nuova esigenza spirituale ed etica. Tutta la loro storia sacra, in particolare la vicenda dei profeti, stava a dimostrarlo. Per questo l’“obiezione di coscienza”
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dei primi discepoli di Gesù («Se sia giusto davanti agli occhi di Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo voi stessi. Quanto a noi, non possiamo non rendere pubblico quanto abbiamo visto e ascoltato»: Atti 4,19-20) fece particolare impressione sul sinedrio; e in seguito, dietro l’intervento di Gamaliele, espressione della saggezza spirituale del popolo di Dio (Atti 5,34-39), fu deciso di rinunciare a perseguitarli con la forza.
La coscienza religiosa, dunque, si modella essenzialmente sull’evento dell’esperienza religiosa, più che sul precetto. Ha bisogno anche del precetto come pedagogo; ma il precetto da solo è uno scheletro senza vita, un’armatura opprimente. La legge è solo pallida memoria dell’evento. La coscienza che si riferisce esclusivamente alla legge non conosce la creatività. Un ultimo elemento: l’autorità morale radicata nell’esperienza religiosa costituisce l’individuo nella sua unicità, ma non lo isola dalla comunità. Non crea degli “illuminati”, sganciati da qualsiasi riferimento al gruppo con cui condividono l’esperienza religiosa.
La convinzione intima che si ha davanti a Dio è un diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto. Essa non è tuttavia l’ultima istanza. La carità fraterna è l’orizzonte più universale, che supera anche i diritti della coscienza. Paolo ha formalizzato questi principi intervenendo nella questione del diritto dei cristiani di mangiare la carne sacrificata agli idoli (ICor. 8). Il cristiano che ha incontrato il Dio vivente sa che gli idoli sono un nulla; in coscienza è perciò libero di mangiare la carne loro sacrificata. «Badate però ― continua l’Apostolo — che questa vostra libertà non diventi pietra d’inciampo per i deboli... Peccando in tal modo contro i fratelli e offendendo la loro debole coscienza, voi peccate contro Cristo. Perciò se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò carne in vita mia per non scandalizzare il mio fratello».
Anche se rinunciamo ad applicazioni concrete, è facile intuire quale incidenza possa avere il riferimento alla coscienza religiosa nella prassi professionale sanitaria. Può, ad esempio, un medico trovare nel proprio vissuto religioso ― nella sua esperienza
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religiosa privata o in quella della comunità di fede di cui è parte ― un motivo per obiettare in coscienza contro prestazioni richiestegli? Certamente sì. Tuttavia l’articolazione delle considerazioni precedenti ci autorizza a dire che l’obiezione di coscienza per motivi religiosi deve essere trattata con estrema delicatezza. Essa mette in moto un insieme di gravi interrogativi circa la qualità e la profondità del vissuto religioso dell’individuo, il suo rapporto con l’istituzione religiosa, i diritti della verità e quelli della carità, le interferenze tra la coscienza del singolo e la legislazione sociale. La qualità etica e religiosa di un tale atto esige che sia trattato con il massimo rispetto, senza sollecitazioni subdole, senza pressioni indebite.
Una delle acquisizioni etiche più indiscutibili su cui si basa la cultura umanistica è che l’uomo è fine, non mezzo. Questo principio acquista la sua massima forza quando è riferito a quell’atto che riconosciamo come più specificamente umano, vale a dire il comportamento motivato in coscienza, religiosa o laica che sia. L’obiezione di coscienza non deve essere strumentalizzata per qualsivoglia battaglia ideologica. Sarebbe una violenza fatta alla coscienza, un “peccato contro lo Spirito”.
In conclusione, possiamo sintetizzare l’intero sviluppo delle riflessioni affermando che l’obiezione di coscienza può essere tanto il più alto atto di moralità di una persona, quanto un atto situabile a livello premorale; l’obiezione di coscienza deve essere perciò il punto di partenza di un processo di discernimento soggettivo e di verifica indiretta da parte della società. Con ciò non abbiamo dato una risposta diretta ai problemi concreti che si pongono. Ma un esame sereno e profondo delle implicazioni etiche dell’obiezione di coscienza, delle sue grandezze e delle sue miserie, è più costruttivo; è inoltre un bisogno urgente dell’ora presente, se vogliamo evitare che la passione di parte giunga a servirsi delle coscienze come mezzo. Nell’attuale crisi dei valori la coscienza va difesa come un bene assoluto: perché se il sale diventa scipito, con che gli si ridarà sapore?
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1. Medicina e diritto
Interrogarsi su ciò che è in accordo o in disaccordo con i valori morali (qualunque sia la formulazione che si voglia loro dare in questo orizzonte di riferimento: il bene, il giusto, la dignità umana ecc.) è proprio dell’etica; quando questa stessa riflessione è rivolta verso lo stato delle leggi in vigore in un paese, ci si muove nello spazio della legittimità/illegittimità giuridica. I due ambiti, così grossolanamente delimitati si intuiscono diversi.
La distinzione è opportuna e va ribadita. Essa serve a chiarire che la legalità giuridica non esaurisce tutta la portata della legittimità. È possibile immaginare situazioni in cui un certo intervento (diagnostico, terapeutico o di ricerca) sia in accordo con le leggi esistenti, ma contrasti con il giudizio morale del professionista sanitario: e che quindi questi lo giudichi legale, ma non legittimo. Al di là della legge si apre lo spazio della “coscienza”. In alcuni ordinamenti viene esplicitamente presa in considerazione e viene regolata la possibilità che la coscienza entri in conflitto con la legge (cfr. la regolamentazione
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dell’obiezione di coscienza rispetto alle norme della legge 22 maggio 1978, n. 194, che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza in Italia).
Abbiamo già dedicato una riflessione esplicita a un’altra fonte di norme per le pratiche biomediche, che è indipendente, in linea di principio, sia dall’etica che dal diritto: le regole deontologiche. Generalmente queste non hanno valore di legge. Sono formulate dalla professione, al fine di garantire il buon funzionamento sociale della professione stessa. La sanzione delle infrazioni alla deontologia non è di natura né morale (colpa), né giuridica (crimine); ha piuttosto carattere disciplinare (ammonizione, sospensione o addirittura radiazione dall’albo professionale, con la conseguenza di non poter più praticare la professione nel contesto sociale che l’autorizza).
Etica, deontologia, legge: diversi sono i modi di correlare queste tre istanze normative, di dare loro rilevanza sociale. Si può immaginare tra loro un’azione sinergica. In questo senso sembra indirizzare la regolamentazione dell’interruzione della gravidanza in vigore in Italia dal 1978. La deontologia professionale del medico si situa a cerniera tra le istanze normative della legge e quelle della coscienza morale individuale. Il codice deontologico proclama la non disponibilità del medico per le interruzioni volontarie della gravidanza al di fuori dei casi previsti dalle legge, mentre lo lascia libero di seguire la coscienza negli altri casi (cfr. Codice di deontologia del 1978, nn. 46-47).
La deontologia viene così a collocarsi su un piano diverso dalla legge e non in rotta di collisione con essa. La legge, a sua volta, prevedendo la clausola dell’obiezione di coscienza, lascia sia all’etica che agli orientamenti deontologici il loro libero gioco. In particolare, la deontologia attuale concede al medico la facoltà di collaborare a una interruzione volontaria della gravidanza, senza per questo dover rinunciare a comprendere la sua opera professionale come orientata verso la salute.
Una regolamentazione di questo genere, che riconosca la specificità irriducibile delle tre istanze regolative — coscienza, deontologia, legge ―, sembra più adatta a contenere i mali dell’aborto di quanto possa esserlo una legislazione modellata in modo unitario sui principi morali (che nella nostra società non sono condivisi da tutti). Meglio
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delle costruzioni rigide, quelle articolate permettono un libero gioco tra le parti in conflitto e suddividono le spinte distruttive in atto in una società pluralista.
Questa impostazione, che tende a prevalere nella nostra società, attribuisce un ruolo autonomo alla deontologia professionale rispetto alle norme morali e alle prescrizioni della legge. Una resistenza a concepire così il ruolo della deontologia viene da coloro che la subordinano alla difesa dei valori, così come sono proposti dalle concezioni religiose o da sistemi etici. Un esempio particolarmente chiaro di questa tendenza è stato offerto dai medici polacchi, dopo la caduta del comunismo nel loro paese. Per contrastare una legislazione molto permissiva in tema di aborto volontario, hanno riallineato la deontologia professionale sulle posizioni tradizionali, che chiedevano al medico di non collaborare mai con l’aborto volontario, per non inquinare l’immagine di una professione che si vuole totalmente al servizio della vita, senza alcuna deroga. In questo caso la deontologia, ispirata da una concezione etica particolare, viene usata contro la legge.
Al contrario, chi difende la specificità della deontologia non vuole né farla diventare legge, né modellarla su una determinata etica. Non per opportunismo o per mancanza di convinzioni morali (le quali possono e devono trovare il loro spazio di espressione in una società liberale), ma perché la deontologia è subordinata alle decisioni morali concrete, a quel “caso per caso” che rispecchia l’infinita varietà delle situazioni umane e non può essere rispecchiato da nessun sistema etico. Nell’esercizio concreto della sua professione il sanitario si sente spesso sfidato a tenere insieme cose difficilmente conciliabili: come difendere la vita e tutelare la libertà delle scelte, ispirare la sua azione ad alti principi ― quale quello dell’inviolabilità della vita umana ― e rispettare come soggetto etico anche colui che chiede un aborto volontario, perché sente di non avere altra scelta. La deontologia appare più adatta della legge a guidare nelle zone grigie della vita e più capace dell’etica di rispondere alla fallibilità dell’umano, specialmente nell’ambito delle scelte tragiche.
Da questo punto di vista, una deontologia più muscolosa sarebbe solo illusoriamente più forte. In realtà, rendendola una legge o una morale, le si toglierebbe la capacità di essere un plastico strumento a
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servizio di un’azione che domanda di conciliare spinte contrastanti. Misurare la deontologia con il metro dell’etica è altrettanto inappropriato quanto chiedere alla legge di esaurire le esigenze della morale. Debole e disarmata rispetto ai confini netti del diritto e alle certezze dell’etica, più compromessa con le contraddizioni della libertà umana, la deontologia appare tuttavia più adatta ad alimentare la speranza.
La deontologia professionale può essere utilizzata bene o male. Un buon uso della deontologia può sgombrare il terreno da pratiche indebite e rendere meno incombente la presenza della legge. Si può immaginare quale contributo verrebbe dall’introduzione di severe norme deontologiche nell'ambito delle tecnologie applicate alla riproduzione. Se i professionisti che vi lavorano fossero capaci di delinearle con chiarezza e di farle applicare, sarebbero delegittimati tutti coloro che non vi si attengono. Molte pratiche stravaganti o non corrispondenti a uno standard medico esigente sarebbero così escluse. Ricadrebbero forse nella clandestinità o nella pratica “selvaggia”, ma potrebbero così essere più facilmente identificate e perseguite dalla legge.
Tuttavia, anche la migliore deontologia non può impedire che la pratica della medicina si confronti con la legge. Le aree di interferenza possono essere più o meno ampie: sempre, comunque, rischiano di essere in conflitto. Il rapporto tra la medicina e il diritto è stato tratteggiato in modo molto eloquente dal filosofo del diritto Francesco D’Agostino:
I medici non amano i giuristi. I giuristi sospettano dei medici. Il problema del rapporto tra medicina e diritto, che in sé non è mai stato facile, sembra poi essere divenuto particolarmente difficile oggi, per il suo intrecciarsi con le più complesse questioni bioetiche. Il diritto vede nella medicina un’attività benefica sì, ma pericolosamente suscettibile di rovesciarsi in una minaccia per l’uomo: e cerca di approntare tutte le tecniche a sua disposizione per garantire il paziente contro il medico. La medicina, a sua volta, tende a vedere nel diritto un ossessivo e formalistico sistema di norme generali ed astratte, incapaci di adattarsi alle molteplici e imprevedibili esigenze dei singoli casi concreti, e che impongono al terapeuta il rispetto di procedure spesso burocratiche e antiquate, e in definitiva irrilevanti per gli interessi dei pazienti 99.
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Sviluppando le proprie considerazioni, D’Agostino giunge a proporre un atteggiamento che, lasciato cadere il sospetto e la diffidenza reciproca che si sono cristallizzate in pregiudizi, porti a riscoprire l'intima correlazione tra medicina e diritto. La medicina non ha nulla da temere dal diritto; quest’ultimo, a sua volta, può essere aiutato dalla medicina e riconquistare la consapevolezza della propria logica e struttura intrinseca. L’appello al diritto, sostiene lo studioso (p. 51), coincide con l’appello alla normalità interna della medicina stessa: «I limiti che il diritto pone alla medicina (perché deve porglierli) sono gli stessi che la medicina deve porre a se stessa, se vuole preservare la propria identità». Di conseguenza, quando il diritto chiama il medico davanti ai propri tribunali, lo fa per accusarlo di infedeltà non tanto nei confronti di un codice di norme giuridiche, ma in primo luogo nei confronti della medicina stessa.
Il punto di convergenza profonda tra il sapere medico e quello giuridico è la logica relazionale che è loro comune. La relazionalità giuridica e la relazionalità terapeutica sono omologhe. Ascoltiamo ancora D’Agostino (p. 53):
Solo se riesce a sottrarsi alla tentazione ossessiva del monologo la medicina riesce a mantenere la sua identità di prassi profondamente umana e di sapere scientifico specifico, che non può essere ricondotto e identificato con tutte quelle dimensioni del sapere che costituiscono il pur necessario presupposto dell'agire terapeutico (dal sapere anatomico a quello fisiologico, dal sapere biologico a quello chimico-farmaceutico). Nessun problema di etica medica può essere oggi ben impostato se non lo si traduce in problema dialogico, se cioè non si ragiona a partire dal dare voce reale a tutte le parti reali che entrano nella dinamica terapeutica.
Medicina e diritto, in altre parole, coincidono nello stesso ethos: riconoscere a ciascun essere umano, in forza dell’intrinseca dignità che gli spetta in quanto uomo, la capacità di chiedere sia l’aiuto terapeutico che la protezione del diritto.
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2. È opportuno legiferare sulle tematiche bioetiche?
Se da questa posizione formale passiamo alle problematiche più concrete, il consenso sull’orientamento di fondo sia del diritto che della medicina a proteggere la persona umana e la sua dignità cede il posto a posizioni più differenziate, e anche divergenti, circa l’intervento della legge nelle singole pratiche che vengono dibattute in bioetica. In quali ambiti è opportuno legiferare e quali invece è meglio lasciare alle regolamentazioni deontologiche o all’unico criterio delle scelte etiche dei cittadini? Fino a che punto deve estendersi un’eventuale legiferazione in bioetica: deve determinare analiticamente tutte le fattispecie, oppure è meglio che si limiti a una legge-quadro?
Tutte le società sono attraversate da dibattiti di questo genere. È esemplare, a questo proposito, la vicenda francese. La Francia, che fin dal 1983 si è dotata di un Comitato nazionale di bioetica come organismo permanente, è stata anche all’avanguardia nel proporre, oltre l’etica, un insieme di regole e di istituzioni che traggano le conseguenze delle nuove procedure e traducano in prescrizioni il sentire morale comune. L’attività legislativa vera e propria è stata preceduta da uno studio approfondito sulla possibilità e le condizioni di legiferazione in ambito bioetico. Lo studio è stato richiesto al Consiglio di stato, il quale ha mobilitato un gruppo di esperti e ha lavorato in stretto collegamento con il Comitato nazionale di etica. Il risultato è un ampio documento, che costituisce la base teoretica e fornisce una griglia di massima per l’attività legislativa nei diversi ambiti: Sciences de la vie: de l’éthique au droit 100.
Nel tentativo di far fronte ai problemi nuovi posti dalle applicazioni delle scienze mediche e biologiche, la riflessione etica ha preceduto il diritto. Questo appare insufficiente nel fornire una guida positiva. All’esame cui lo sottopone il documento, talvolta risulta silenzioso (in quanto non prevede certe attività: come il dono dello sperma praticato dai centri di procreazione assistita), talvolta incerto
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(non permette, per esempio, di elaborare uno statuto giuridico del corpo umano); talvolta deve essere semplicemente verificata la sua tenuta nei confronti delle nuove problematiche (la proibizione, per esempio, dell’abbandono e della compravendita dei bambini ―già prevista dalle norme giuridiche esistenti — è sufficiente per dichiarare contrarie alla legge le pratiche di “affitto dell’utero”?).
Il documento registra le obiezioni che vengono portate contro l’intervento legislativo nell’ambito della bioetica. Si afferma che le legge non può ancora risolvere i problemi sollevati, perché gli spiriti restano divisi, la sensibilizzazione collettiva insufficiente, le opinioni chiare sono troppo rare. Altri sostengono che la legge non deve intervenire, ma piuttosto lasciare la responsabilità della decisione alla deontologia dei medici e dei ricercatori, la libertà di scelta alla coscienza di ciascuno. Nonostante le argomentazioni contrarie, la scelta del Consiglio di stato è a favore di interventi legislativi che pongano delle norme sociali chiare. Neppure l’argomento della libertà di ricerca risulta convincente. Ad esso viene contrapposto il classico aforisma di Lacordaire: «Tra il forte e il debole, tra il ricco e il povero, è la libertà che opprime e la legge che rende liberi».
La legislazione relativa alle tecniche che agiscono sull'uomo si deve orientare a stabilire un ordine pubblico minimo, fungendo da arbitro tra i diversi interessi in causa, che talvolta sono contraddittori. Deve inoltre ispirarsi a un’idea giuridica dell’uomo, largamente condivisa nella nostra società. I principi tradizionali che costituiscono le basi di un ordine pubblico destinato a governare l’insieme degli interventi sull’uomo possono essere così riassunti:
a) principio dell'indivisibilità del corpo e dello spirito: questa indivisibilità costituisce la persona umana e la personalità giuridica (nei termini della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, del 1789: «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nel diritto»);
b) principio dell'inviolabilità del corpo (con il suo corollario: il solo modo di intervenire legalmente sul corpo dell’altro è di ottenere preliminarmente il suo consenso);
c) principio dell’indisponibilità del corpo (il che permette solo il dono di parti del corpo a fini umanitari, non la loro vendita).
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Questa concezione giuridica tradizionale dell’uomo sta subendo forti attacchi. Così l’idea secondo la quale il corpo, inseparabilmente dalla persona, è fuori commercio appare sempre più difficile da difendere, man mano che nell’ambito della vita si diffondono tecniche commerciali e giuridiche che derivano direttamente dalle leggi del mercato. La libertà di disporre di sé è stata così accentuata, che per alcuni l’individuo può, in nome della sua libertà, disporre di se stesso fino al punto di rivendicare il diritto di porre le condizioni per determinare la lunghezza della propria vita.
Il Consiglio di stato inclina a radicare le leggi in bioetica sui principi tradizionali. È indispensabile che il diritto svolga il ruolo di fissare regole imperative e, alla loro luce, chiarire i diritti e i doveri di ciascuno e determinare le responsabilità. Ma la legge deve essere anche necessariamente evolutiva e adattabile, deve dare un inquadramento senza creare intralci.
Su questa base, la Francia ha cercato di tagliare il traguardo per prima, proponendo un progetto di legge d’insieme sulla bioetica. La data prevista, fortemente simbolica, era il 1989. In quell’anno ricorreva, infatti, il bicentenario della Rivoluzione francese: alla Francia sarebbe piaciuto proclamare una legge che segnasse un punto di riferimento chiaro sulla frontiera in espansione della rivoluzione biologica; si sentiva impegnata dalla sua storia e dalla sua cultura a indicare la strada agli altri paesi. Malgrado la motivazione politica e la forte spinta proveniente dal dilagare di pratiche che hanno bisogno di essere contenute in senso restrittivo (commercio di organi, espansione selvaggia delle pratiche di procreazione artificiale, brevetti di organismi geneticamente modificati ecc.), la legge francese non ha potuto nella data del bicentenario, essere varata perché l’acquisizione del consenso giuridico cammina più lentamente del consenso etico. Tuttavia la forte riflessione metodologica sui rapporti tra etica e diritto, propedeutica all’attività legislativa vera e propria, si è dimostrata pagante: la Francia, infatti, ha potuto legiferare negli anni ‘90 nell’abito della bioetica ― in particolare normando la procreazione medicalmente assistita ― prima di altri paesi.
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3. Il biodiritto nell’agenda del legislatore italiano
Diversamente dalla Francia si svolge il dibattito italiano circa la creazione di un biodiritto. La legislazione italiana relativa agli atti della medicina e biologia di frontiera è un work in progress. Parallelamente al dibattito in corso tra gli studiosi sul difficile passaggio dal piano dell’etica a quello di norme di comportamento fissate per legge (distinzione e rapporto tra ordine morale e ordine giuridico; stato contemporaneo e valori etici; ruolo spettante ai diritti dell’uomo in bioetica; rilevanza giuridica delle concezioni filosofiche personaliste), prosegue il piccolo cabotaggio dei progetti di legge.
Per tracciare un sommario inventario dello stato attuale di elaborazione legislativa ci serviremo dell’opera molto documentata che A. Bompiani ha dedicato alla bioetica in Italia 101. Va tuttavia premessa un’osservazione di carattere generale: il sistema giuridico italiano ha preferito non regolamentare in modo specifico il comune atto medico. Soltanto alcuni circoscritti ambiti dell’attività medica sono regolati da apposite norme sancite da leggi ad hoc (come le leggi relative al prelievo da cadavere a scopo di trapianto o al trapianto del rene tra persone viventi; al consenso per il prelievo del sangue; all’interruzione volontaria della gravidanza; all’assistenza psichiatrica; alla modifica del sesso per una nuova attribuzione). Sono stati disciplinati per legge anche l’uso di stupefacenti e sostanze psicotrope, nonché la lotta contro l’Aids. In tutte le altre situazioni, il trattamento medico-chirurgico si svolge nel silenzio della legge.
L’esercizio della medicina nella nostra società avviene in condizioni giuridiche abbastanza paradossali, che comportano la massima copertura etica e la minima copertura giuridica dell'atto medico. Intervenire sul corpo di un’altra persona, ai fini della salute, è un’azione connotata da valori altamente positivi (agire “per il bene del malato”, l’esercizio dell’arte terapeutica come “servizio” ecc.). Eppure i sanitari hanno l’impressione che la loro professione cammini su una corda, con il rischio permanente di cadere in un vuoto normativo che non riconosce all’atto medico una fisionomia giuridica specifica.
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Finora una tacita “alleanza terapeutica” tra medico e paziente e una benevola interpretazione giuridica dell’atto medico, che dava la priorità all’intenzione che lo animava, hanno assicurato un funzionamento relativamente tranquillo e senza eccessiva litigiosità giudiziaria. Le denunce di malpractice sono state rare ed eccezionali nella società italiana. Ora però la situazione sta cambiando. Il periodo in cui la deontologia professionale era sufficiente per normare il comportamento del sanitario e per garantirgli un ambito di intervento protetto, a giudizio insindacabile di una sua valutazione clinica, è tramontato.
La via della regolamentazione ex professo del comune atto medico, varando una legislazione che preveda in anticipo le condizioni di legittimità a cui il sanitario deve attenersi per non incorrere nei rigori della legge, non sembra percorribile in Italia. La prassi quotidiana resta perciò sostanzialmente affidata alle norme deontologiche e al contratto implicito (alleanza terapeutica) che si stabilisce tra il sanitario e il paziente. La tendenza è comunque ― come emerge dalle autorevoli indicazioni del Comitato nazionale per la bioetica espresse nel documento Informazione e consenso all’atto medico ― verso un esplicito e formale coinvolgimento del paziente nelle decisioni cliniche che lo riguardano.
La legge regola attualmente solo alcune pratiche tra quelle che creano perplessità etiche e giuridiche. Le passiamo rapidamente in rassegna.
La donazione di organi ― La legge 16 giugno 1967, n. 458, ha disciplinato il prelievo e il trapianto del rene tra persone viventi. Ne ha reso possibile la donazione, proibendo invece il commercio di organi. Per quanto riguarda il trapianto di organi da cadavere, la legge
dicembre 1975, n. 644, ha disposto che, in assenza di un’esplicita dichiarazione di donazione predisposta in vita, possono dissentire all’espianto il coniuge non separato o i figli maggiori di età. Un progetto di legge in discussione tende a negare rilievo al parere dei congiunti e a presumere l’assenso nel caso di silenzio in vita da parte della persona interessata.
Transessualismo ― Le tecniche chirurgiche per la modificazione del sesso fenotipico e la rettifica del sesso anagrafico sono permesse dalla legge 14 aprile 1982, n. 164.
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Sterilizzazione ― Con l’entrata in vigore della legge 194/1978 sono stati aboliti dal codice penale gli articoli sui Delitti contro la integrità e sanità della stirpe, che proibivano la sterilizzazione. Questa pratica risulta così legalizzata, anche se manca una legge apposita che ne regolamenti gli aspetti tecnici.
Interruzione di gravidanza ― È regolamentata dalla legge 194/1978. Il codice deontologico dei medici italiani lascia la possibilità al medico di decidere in coscienza se prestare la propria opera professionale per l’esecuzione di aborti volontari, nel quadro previsto dalla legge.
Sperimentazione umana ― Non esiste una regolamentazione per legge in Italia. La legge dovrebbe anche occuparsi della sperimentazione su embrioni e feti, nonché sui gameti umani. Un problema urgente è costituito dagli “embrioni residui o soprannumerari”, che vengono prodotti nel corso della procreazione medicalmente assistita e non impiantati.
Biotecnologie ― Deve ancora essere varata una legislazione che recepisca le indicazioni della CEE ai paesi membri circa la copertura brevettuale e le implicazione per la sicurezza nell’uso di organismi geneticamente modificati.
Tecnologie di riproduzione assistita ― Rimane uno dei principali appuntamenti per l’attività legislativa in ambito bioetico. Costituisce anche un test pratico per vedere quanto il dibattito pubblico circa una pratica diversamente valutata in senso etico e antropologico possa tradursi in un quadro accettabile di biodiritto.
Tuttavia, non è detto che il controllo della riproduzione medicalmente assistita funzioni veramente così come i controlli pretendono o si auspicano che funzioni. Se consideriamo che l’interlocutore di questi interventi tecnologici è la famiglia, e che la famiglia post-moderna (o “autopoietica”, come l’ha denominata il sociologo della famiglia Pierpaolo Donati) fa resistenza a chi vuole guidarla dall’esterno — funziona come vuole, piuttosto che come vorremmo che funzionasse —, siamo autorizzati a gettare uno sguardo disincantato sull’azione di controllo sia dell’etica che della legge. Realisticamente dobbiamo attenderci che regole e divieti si scontreranno con una famiglia sempre più determinata a regolare se stessa; la società, quindi, sarà in grado di far rispettare le norme solo in misura molto limitata.
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NATURA E PERSONA NELLA BIOETICA DI ISPIRAZIONE RELIGIOSA
1. Le norme morali delle religioni nell’orizzonte della bioetica
Le religioni, con le loro prescrizioni morali volte a guidare il comportamento dei credenti, svolgono un ruolo anche nella nuova ricerca di norme e regole rappresentate dalla bioetica. All’inizio degli anni settanta, quando fu coniato il termine destinato a designare la nuova disciplina e si cominciò a delinearne i contorni, il centro di gravitazione era ancora costituito dalla tradizionale etica medica. Si trattava di delimitare consensualmente le procedure lecite da quelle illecite, in un contesto in cui l’impatto dirompente della tecnologia aveva modificato la fisionomia tradizionale dell’atto medico e la società pluralista non permetteva più un allineamento su un sistema di valori morali omogeneo. Oggi, dopo sei lustri, la bioetica ha esteso i suoi interessi molto al di là dei problemi strettamente medici. Si occupa in misura sempre crescente della cura della vita in senso estensivo, riflettendo sui comportamenti responsabili nei confronti della vita nel suo insieme. Parallelamente all’affermarsi della bioetica e all’ampliamento del
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suo orizzonte tematico, corre una vicenda che riguarda i rapporti della bioetica con le religioni.
Possiamo affermare, in termini molto generali, che proprio l’attualità dirompente dei problemi connessi con la vita e il suo mantenimento ha dato alle religioni una visibilità insperata. La stretta in cui si trova la vita sulla terra sembra fornire alle religioni un’opportunità insperata di essere presenti sulla scena del mondo. Il loro patrimonio di saggezza è ascoltato con una serietà che era data per definitivamente scomparsa, dopo il trionfo dell’illuminismo. Il magistero morale delle religioni nell’ambito delle questioni collegate con l’etica della vita ha acquistato una risonanza che eccede ampiamente la cerchia dei fedeli.
Meritano le religioni l’apertura di credito nei loro confronti che il mondo contemporaneo va loro facendo nelle problematiche della bioetica? La domanda non vuol essere una insolenza, né una gratuita provocazione. Nasce piuttosto da una consapevolezza — tanto più dolorosa proprio per i credenti — che le religioni hanno alle spalle un lungo passato di intolleranza. Restringendo la visuale ai nostri paesi latini, sviluppatisi con l’eredità del cristianesimo, dobbiamo riconoscere che nella nostra tradizione la tolleranza non era compresa nella lista delle virtù. Anzi, era piuttosto sospettata come un vizio, mentre la vera virtù era l’intolleranza, identificata con la difesa a oltranza della verità. Di qui la lunga sequela di guerre di religione e l’oppressione delle coscienze, in cui l’inquisizione è solo il simbolo più noto. La tolleranza come virtù è stata scoperta dagli anglosassoni nel XVII secolo. Ad essa dobbiamo il rispetto della diversità sociale e il pluralismo come alternativa al fanatismo. Il fanatismo afferma che i valori sono completamente assoluti e oggettivi, e devono essere imposti agli altri con la forza; la tolleranza, invece, sottolinea l’autonomia morale e la libertà di tutti gli esseri umani e la ricerca di un accordo morale mediante il consenso.
Coloro che hanno partecipato con più intensità al processo di cambiamento che ha attraversato la chiesa cattolica nella seconda metà del nostro secolo ricorderanno l’appassionante dibattito sulla libertà religiosa che ha avuto luogo nel concilio Vaticano II. Alla fine, dopo molti contrasti, la dichiarazione Dignitatis Humanae ha potuto
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essere approvata, il 7 dicembre 1965. Per molte persone religiose, cresciute alla scuola dell’intolleranza, è stato un trauma. Il concilio ha proclamato, tra l’altro, che «l’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la coscienza, che è tenuto a seguire fondamentalmente in ogni sua attività per raggiungere il suo fine che è Dio. Non si deve quindi costringerlo ad agire contro la sua coscienza».
A questo riconoscimento teorico del valore centrale del riconoscimento della coscienza per l’uomo moderno deve seguire un cambiamento nella prassi secolare dell’intolleranza, se le religioni vogliono sintonizzarsi con quella ricerca di consenso sui comportamenti che ha luogo all’interno della bioetica. Il richiamo alla virtù della tolleranza e alla necessità che le religioni se ne facciano paladine nel dibattito bioetico diventa quanto mai urgente, se corrisponde alla realtà l’impressione di cambiamento in corso nel rapporto stabilitosi tra le religioni e la bioetica. Tracciando a grandi linee uno schema evolutivo, possiamo dire che il pensiero religioso, dopo una fase di presenza discreta e di animazione dall’interno della riflessione bioetica, sta cercando una collocazione più vistosa nel dibattito, accentuando lo specifico religioso.
Le grandi religioni storiche hanno tradizionalmente portato vivo interesse ai problemi connessi all’arte del guarire e si sono intensamente impegnate a elevare in senso etico e spirituale la motivazione dei sanitari. Erano perciò spontaneamente orientate a sintonizzarsi sulle tematiche proposte dal nuovo movimento della bioetica. Questa, da parte sua, non ha soltanto un legame storico con l’etica medica promossa dalle religioni della tradizione culturale dell’occidente.
Anche nel più recente passato e nel presente esistono delle interconnessioni profonde tra la riflessione filosofica nata all’interno delle scienze della vita e l’impegno umanistico condotto in nome della fede religiosa. Basti pensare al ruolo svolto negli Stati Uniti dalla Society far health and human values, particolarmente sostenuta dalla chiesa presbiteriana, per riportare i valori umani all'interno della pratica della medicina e delle scienze della vita. Alla sua azione va riconosciuto uno degli impulsi più decisivi per lo sviluppo del movimento della bioetica. Tuttavia, quando la bioetica si è elevata alla condizione
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di dimora intellettuale per un gruppo ben individuato di pubblici esperti nei problemi posti dalla biologia e dalla medicina, il ruolo svolto dagli studiosi esplicitamente radicati nella teologia è diventato sempre più marginale.
La bioetica si è sviluppata come un discorso secolare, condotto dai filosofi, volgendo deliberatamente le spalle all’ispirazione religiosa. Mentre prendeva rilievo una categoria nuova di intellettuali — i “bioeticisti” — sempre più accreditati a prendere la parola in pubblico per articolare la riflessione sulle questioni connesse con il progresso biomedico, i teologi si ritiravano nei loro territori. Questa, almeno, è la ricostruzione storica della vicenda americana che si ricava dal libro Theological voices in medical ethics, edito a cura di A. Verhey e S. Lammers. Si tratta di una serie di saggi di teologi della prima generazione di studiosi che si sono occupati di bioetica. Vediamo sfilare, tra i cattolici, Bernard Haring, German Grisez e Richard McCormick; tra i protestanti, figure della statura di Paul Ramsey, James Gustafson, Stanley Hauerwas e James Childress. Non manca neppure un rappresentante dell’ebraismo, nella persona del rabbino Immanuel Jakobovits. Dalla presentazione e analisi del loro pensiero emerge in modo incontrovertibile il contrasto tra il posto significativo che la teologia ha occupato agli inizi della bioetica e la sua marginalità attuale. La disciplina è andata sempre più sviluppandosi all’insegna della filosofia morale, mentre l’articolazione religiosa del discorso è stata relegata nell’ambito privato dell’esperienza morale.
Questo corso delle cose non è gradito a quelle istituzioni religiose che sono più determinate a far prevalere la propria visione dell’uomo e la morale che ne consegue. Ciò vale in modo particolare per la chiesa cattolica. Il suo irrigidimento — che confina talvolta con l’intransigenza ― nelle questioni di bioetica è congruente con l’evoluzione della teoria morale avvenuta nel magistero pontificio nel corso dell’ultimo pontificato. Essa è culminata nell’enciclica Veritatis Splendor, del 1993.
Se qualcuno pensasse che un documento dottrinale di questo genere ha valore e significato solo all’interno della confessione religiosa che lo ha prodotto, non ha che da rievocare lo stile della presenza delle religioni in eventi culturali di portata mondiale. Si pensi, in
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concreto, alla conferenza dell’ONU su “Popolazione e sviluppo”, svoltasi al Cairo nel settembre 1994. L’immaginario collettivo è stato segnato da rappresentazioni degli eventi che, per quanto semplificate e drammatizzate dalla stampa, riflettevano uno schema di reale scontro tra sistemi ideologici: il papa contro il presidente Clinton, il Vaticano alleato all’Islam per dare scacco all’ONU, le religioni schierate contro la ragione, gli imperativi della morale difesi a prezzo della sofferenza che gli esseri umani, in particolare le donne... Una presenza di questo genere degli organismi religiosi nei dibattiti che affrontano supreme questioni dell’etica della vita ― come appunto la demografia ― trova una giustificazione teorica in impostazioni dottrinali come quella della Veritatis Splendor.
L’enciclica in sé è un discorso molto tecnico, che ha per oggetto i problemi di cui si occupano filosofi e teologi che riflettono sui fondamenti e le condizioni della moralità. Una meta-etica, in sostanza, che non si riferisce al discorso etico così come lo incontriamo nella vita quotidiana, dove siamo chiamati a fare le nostre scelte districandoci in un insieme di doveri talvolta contrastanti e dove la buona decisione è più spesso legata ad atteggiamenti interiori e virtuosi, più che alla capacità di argomentare in modo razionalmente ineccepibile (“video meliora proboque, deteriora sequor”...).
Le informazioni assolutamente indispensabili che bisogna avere previamente per comprendere la portata dell’enciclica riguardano il movimento teologico che in parte ha preceduto e soprattutto ha fatto seguito al concilio Vaticano II (1962-1965). Una corrente di moralisti ha proposto di identificare lo specifico della morale cristiana non in “contenuti” concreti (che, di fatto, non sono sostanzialmente diversi da quelli delle altre religioni o da quelli elaborati da molte etiche basate sulla pura ragione naturale), bensì nella “opzione fondamentale”, che proviene da quella libertà esistenziale mediante la quale una persona decide globalmente di se stessa. È quella che Joseph Fuchs chiama la dimensione “trascendentale” della morale, ed altri la “forma” morale. A questa corrente hanno aderito, con accentuazioni diverse, i principali moralisti del mondo cattolico degli ultimi venti anni. Oltre al già menzionato Fuchs, vanno fatti almeno i nomi di Franz Böckle e di Bernhard Häring, il quale con le sue due grandi
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somme La legge di Cristo (1953) e Liberi e fedeli in Cristo (1988) ha segnato la grande transizione verso la nuova teologia morale cattolica.
L’obiettivo dell’enciclica sembra essere quello di delegittimare questa corrente. La tesi di fondo è che lo specifico della morale cristiana non ha solo carattere formale o trascendentale, bensì si estende anche ai contenuti concreti. Esiste un ethos cristiano assolutamente specifico, identificato dalla legge veterotestamentaria, dalle prescrizioni neotestamentarie e dalla tradizione della chiesa, sotto la guida del magistero. Questa morale è — in ultima analisi — rivelata, e per questo è inseparabile dalla fede. Di fatto, la ragione naturale da sola non è capace di stabilire un sistema morale coerente e completo, come conseguenza del peccato originale. Per questo ha senso che esista una rivelazione morale specifica, e che la chiesa sia la sua unica interprete. Su questo terreno, perciò, non c’è spazio per la libertà di opzioni, né è possibile un pluralismo teologico. Le istruzioni che l’enciclica impartisce ai vescovi si concludono con la richiesta di allontanare dall’insegnamento i teologi moralisti che appartengono alla corrente non autorizzata e di ritirare l’appellativo di “cattolico” a istituzioni che non si allineino con questo orientamento: scuole, università, cliniche e servizi socio-sanitari.
A questo punto anche le persone più orientate a voler ignorare una diatriba interna alla chiesa cattolica non possono non considerare il significato politico del documento. Esso tende a presentare la chiesa come un gruppo sociale e ideologico, con una dottrina morale ben identificata. Chi vede la chiesa cattolica dal di fuori deve sapere qual è la sua morale e deve negoziare con la chiesa come una istituzione che ha un suo codice morale unico e inconfondibile. E coloro che vivono la chiesa dal di dentro devono accettare questo codice, sotto pena di cessare di appartenervi. In questo modo i cattolici sapranno esattamente quali sono i loro obblighi morali e nei paesi nei quali sono in maggioranza potranno imporre i loro punti di vista morali nella vita civile.
Si profila uno scenario in cui nell’arena della vita sociale i diversi gruppi ideologici domandano considerazione e rispetto, senza che si entri a discutere i loro argomenti. È così, in fondo, che diamo spazio ai Testimoni di Geova: accettiamo che non vogliano ricevere il sangue, senza discutere i loro argomenti. Questo è lo statuto civile
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che, secondo l’enciclica, sembra rivendicare anche la chiesa cattolica. Una situazione che in inglese potrebbe essere descritta con il termine “parochialism” (con tutte le connotazioni negative della parola). Fatte le debite proporzioni, la chiesa cattolica verrebbe trattata come la Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni o come la setta dei Mormoni (e la Veritatis Splendor avrebbe la stessa rilevanza di un documento con cui, a Salt Lake City, si esautorasse una scuola di pensiero morale dei Mormoni divergente dall’insegnamento ortodosso).
È una situazione che rischia di trovare il consenso di due gruppi molto distanti tra loro: i cattolici fondamentalisti, arroccati in una posizione di difesa, e i rappresentanti del pensiero laico che desiderano un avversario ben identificato e ricondotto a posizioni standardizzate (così pensano i cattolici sull’aborto e l’eutanasia, così invece il pensiero laico...). Siamo invece molto lontani dalla bioetica come ricerca di un’etica civile, che si articola con la morale individuale in una dialettica di etica del “minimo morale” ed etica dei “massimi morali” (secondo il significato che questi termini hanno nella proposta di una “bioetica minima” formulata da Diego Gracia). Delegittimati o meno, molti cattolici, per i quali la chiesa è chiesa, e non “parrocchia”, stanno pensando e agendo in quella direzione. Insieme a molti altri uomini di fedi e orientamenti ideologici diversi. Questo orizzonte fa la differenza tra la bioetica e l’etica confessionale.
La belligeranza delle religioni contro la modernità — che include la contestazione della possibilità di elaborare un progetto secolare veramente morale ― suscita come reazione la belligeranza delle etiche laiche contro le religioni, mettendo in discussione la loro pretesa di determinare le condotte umane come buone per una via diversa da quella puramente razionale. Il confronto fondamentalista non è una soluzione accettabile, così come non lo è il compromesso. La via di soluzione passa per lo scrupoloso rispetto della libertà religiosa di tutte le persone, da una parte, e per l’accettazione, dall’altra, da parte delle religioni dei minimi etici che lo stato deve esigere coercitivamente da tutti, cioè l’etica civile. Questa deve essere stabilita mediante procedimenti partecipativi e democratici, e pertanto deve rispettare il parere di tutti, secondo i meccanismi che portano alla formazione della maggioranza.
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È vero che le opinioni morali — anche quelle della maggioranza ― possono essere sbagliate, o può sembrare ad alcuni che lo siano. Ma questa convinzione autorizza solo a iniziare un dibattito o un processo di educazione morale della società, nel quale esercitare la propria capacità di convincere gli altri, con argomenti razionali, a far proprie le ragioni addotte. Ogni altro procedimento, che invece di proporre ed educare cerchi di imporre, deve considerarsi, in linea di principio, inaccettabile nella nostra epoca.
2. La “bioetica cattolica”: il personalismo
Qualsiasi confronto tra bioetica e teologia comporta, a un esame approfondito, grandi difficoltà, in particolare quando il pensiero teologico fa ricorso a nozioni quali “bioetica cristiana” (o “ebraica” o “musulmana”, e così via). Anche se rinunciamo a ricostruire i percorsi del secolare dibattito sull’esistenza di una filosofia cristiana, non possiamo evitare gli interrogativi di fondo che sorgono dall’accostamento tra bioetica e teologia circa lo statuto epistemologico della bioetica, quando questa assume una colorazione confessionale, o in ogni caso religiosa. Come dato di fatto, non possiamo ignorare l’esistenza nel nostro panorama culturale di un costrutto dottrinale che presenta se stesso come “bioetica cattolica”.
Un’indagine fenomenologica di tale sistema di pensiero rileva immediatamente che le norme che regolano i comportamenti nell’ambito bio-medico, se le si paragona ad altri settori della morale cattolica, appaiono molto più rigide e dettagliate che in qualsiasi ambito della vita morale. La chiesa cattolica quando tratta temi come la pace e la guerra, l’economia o la vita sociale e politica, tende a privilegiare il linguaggio “profetico”, mentre quando affronta problemi nati dal progresso scientifico della biologia e della medicina preferisce esprimere il suo insegnamento morale secondo una determinazione rigida dei comportamenti richiesti ai credenti.
In questo caso la sua predicazione relativa agli ideali e ai valori prescrive comportamenti che non esitano a distaccarsi da quelli correnti in vigore nella società: si pensi, ad esempio, alla condanna
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reiterata dell'interruzione volontaria della gravidanza, anche al fine di salvare la vita della madre. In alcuni casi estremi, la norma morale cattolica non esita a mettersi in contrasto anche con ciò che sembra conforme al senso comune, come avviene nel caso del rifiuto dell’uso del preservativo, anche quando il ricorso a questa pratica è concepito come misura profilattica per prevenire il contagio di Aids.
Non è per caso che posizioni paradossali come quelle ricordate (sia nella loro formulazione negativa — “L’uso della contraccezione è ‘intrinsece malum’ —, sia in quella positiva — “Ogni atto sessuale deve essere ‘aperto alla vita’”, anche se l’atto prescritto all’opinione pubblica appare piuttosto come “aperto alla morte” ―, largamente diffuse dai media), sono assimilate dall’opinione pubblica con l’immagine dominante che si ha della “bioetica cattolica”. Nell’ambito della bioetica la morale cattolica sembra autorizzata a mostrare un certo atteggiamento muscolare, rifiutando ogni compromesso o ammorbidimento di fronte alla logica della società civile e del pensiero laico. Il senso di sicurezza, non turbata da esitazioni, che la bioetica cattolica mostra nell’arena pubblica è rafforzato dalla spiccata visibilità nei media che l’attualità dei dibattiti bioetici e la loro presa sul grande pubblico conferiscono alla religione cattolica, così come alle altre formulazioni morali derivanti da un pensiero religioso.
Questa situazione ci induce a sollevare due questioni, tra loro connesse. In primo luogo: l’utilizzazione del termine bioetica, seguito dall’aggettivo “cattolica”, è giustificato quando si vuol designare la funzione dottrinale che abbiamo descritto ? E inoltre: il sostantivo bioetica è usato in maniera univoca quando si riferisce alla dottrina morale di una determinata comunità ― nel nostro caso: la chiesa cattolica — e quando designa la disciplina promossa dal movimento che studia i problemi connessi con il progresso bio-medico e tende a trovare un consenso sociale su comportamenti definiti etici ?
Quando si parla di bioetica in campo cattolico è difficile sottrarsi all’impressione che si tratti di un nome nuovo attribuito a una pratica antica, cioè alla morale medica, il cui sviluppo è anteriore alla disciplina che ha assunto il nome di bioetica. Per morale medica si intende l’insieme dei precetti che tendono ad applicare i principi della teologia morale ai problemi che sorgono nell’esercizio della medicina.
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Si tratta di una morale creata dai confessori e proposta ai medici cristiani affinché la applichino (così come è proposta a tutti i cristiani, in quanto chiamati a modellare le loro decisioni in modo conforme alla morale cattolica). L’atteggiamento paternalista di questa morale medica è innegabile; anzi, si può individuare una catena di dipendenze, in quanto il moralista — che a sua volta dipende dal magistero ecclesiastico — indica la scelta morale corretta al medico, il quale prende la decisione per il paziente, secondo quello che, “in scienza e coscienza”, ritiene essere il comportamento moralmente corretto. Per questo motivo la morale medica si indirizza essenzialmente al sanitario, e solo in modo mediato al paziente.
A parte la maggiore complessità dei casi che si presentano ai nostri giorni nell’ambito della biologia e della medicina, si può affermare che i principi e la metodologia di ciò che viene presentato come bioetica cattolica coincidono con quelli della morale medica dei manuali tradizionali. Gran parte della produzione saggistica che vede oggi la luce sotto l’etichetta di bioetica cattolica potrebbe ugualmente ― e forse in modo più appropriato — essere presentata come un aggiornamento della manualistica teologica relativa alla morale medica.
Lo studioso che coltiva la bioetica cattolica è per lo più un teologo — quasi sempre un ecclesiastico —, attento a fondare le prescrizioni etiche sulle fonti della rivelazione, in particolare sul magistero del papa, così come richiede il sistema dottrinale della chiesa cattolica. Rimane fondamentalmente teologo anche quando, per ragioni sociali o accademiche, pretende di basare le sue argomentazioni sulla “ragione”, piuttosto che sulla “rivelazione”. La bioetica così prodotta ha in comune con la teologia alcune caratteristiche importanti, la principale delle quali è il riferimento all’autorità dottrinale. Una prova supplementare del carattere segretamente teologico di gran parte della produzione saggistica della bioetica coltivata da studiosi cattolici è l’assenza di vere divergenze con le norme del comportamento morale proclamate dall’insegnamento della chiesa, anche nel caso in cui come parametro di riferimento non è assunto esplicitamente il magistero pontificio, ma la ragione filosofica.
Per la teologia, il fatto di coincidere con l’autorità dottrinale autorizzata a interpretare la fede non ha un carattere facoltativo, ma è la
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giustificazione della sua stessa ragion di essere. È quindi coerente con questa impostazione non considerare la bioetica cattolica come uno spazio libero, aperto al confronto di opinioni di studiosi; come la teologia stessa, deve essere orientata in senso autoritario. Questa struttura è essenziale alla teologia, perché il suo fondamento è la rivelazione divina, in quanto autorità che si impone al pensiero umano. Nel quadro della teologia cattolica, inoltre, questa struttura autoritaria è rafforzata dal ruolo attribuito al magistero papale.
Nelle questioni della bioetica questo magistero esercita una vigilanza accurata sul pensiero degli studiosi cattolici, dai quali si richiede una conformità totale con l’ortodossia dell’insegnamento morale ufficiale. Tale tendenza si è ancor più accentuata con gli sviluppi recenti del magistero nell’attuale pontificato di Giovanni Paolo II, che richiede un allineamento fedele su tutta la linea della dottrina cattolica formulata dall’autorità dottrinale pontificia, dalle questioni dogmatiche a quelle etiche, soprattutto in tema di interventi sulla vita.
Il criterio di conformità con l’insegnamento ufficiale in materia di contraccezione, di aborto e di procreazione medicalmente assistita è stato adottato in vista di una “normalizzazione” dei teologi nei loro compiti di insegnamento nelle facoltà cattoliche. In questo ambito il pluralismo, che nella chiesa cattolica vige in numerose questioni, è stato praticamente abolito (anche se la rigidità dell’allineamento sembra proporzionale alla distanza dal centro geografico della cattolicità: se a Roma nessun docente di teologia morale si allontana dallo spirito e dalla lettera dell’insegnamento ufficiale sulla bioetica, si tollera tuttavia che nella lontana Australia un teologo sostenga che la vita personale dell’embrione non inizi che a partire dalla seconda settimana del concepimento...).
Uno dei tratti importanti di ciò che abbiamo chiamato “bioetica cattolica” è il ricorso nell’argomentazione a una pluralità di modelli. Paradossalmente, in questa dottrina etica, tipicamente deontologica, gli argomenti razionali che conducono al giudizio morale sono utilizzati o lasciati cadere secondo la loro “utilità” (potremmo parlare a questo proposito di utilitarismo argomentativo). L’argomento che ritorna più di frequente per giustificare i giudizi etici è quello basato
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sul concetto di “persona”, tanto che il personalismo è diventato sinonimo della bioetica cattolica.
L’adozione del personalismo da parte della teologia morale cattolica è più che una curiosità nella storia delle idee, qualora si consideri la diffidenza che questo movimento ha suscitato nei filosofi di ispirazione religiosa alla sua prima formulazione. Esposto a ostacoli di ogni genere al tempo di Emanuel Mounier (1905-1950), e senza alcuna rilevanza pratica nei due decenni che hanno fatto seguito alla morte del suo principale teorizzatore, il personalismo ha acquistato una seconda giovinezza e un’improvvisa popolarità contemporaneamente all'apparire dei problemi della bioetica. Il ricorso al concetto di “persona umana” è stato considerato come la via più breve per risolvere problemi estremamente complessi ed eterogenei, quali: determinare l’inizio della vita umana, così come lo statuto antropologico e giuridico dell’embrione; elaborazione di criteri per decidere se sottoporre o no a terapia intensiva neonati con gravi malformazioni; utilizzazione eventuale di organi di feti anencefalici; arresto o continuazione di alimentazione e idratazione in pazienti in coma vegetativo permanente; distacco del respiratore da pazienti in coma irreversibile; pratiche di inseminazione artificiale o altre tecniche per rimediare alla sterilità nelle quali siano prodotti embrioni in sovrannumero...
Il personalismo bioetico sostiene che il rispetto della persona umana possa offrire una soluzione coerente ai dilemmi morali che sorgono in tutte queste situazioni. Un esempio dell’argomentazione più frequentemente utilizzata nella bioetica cattolica è quello che fa appello al criterio “ex persona humana”, invocato dall’istruzione pontificia Donum vitae relativa alle questioni legate all’intervento biomedico agli inizi della vita (1987). Alla domanda: «Quale rispetto è dovuto all’embrione umano, tenuto conto della sua natura e della sua dignità?», la risposta suona: «L’essere umano deve essere rispettato ― come una persona — fin dal primo istante della sua esistenza. Da questo principio deriva il rifiuto di ogni forma di inseminazione artificiale, così come quello dell’utilizzazione di embrioni per la ricerca».
La proibizione di pratiche di procreazione medicalmente assistita viene giustificata dalla bioetica cattolica con argomentazioni diverse: “ex persona humana”, “ex natura” e “ex dignitate”, suggerendo
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l’idea della loro intercambiabilità. Il ricorso alla legge naturale così come all’ordine fisico, o della natura, quale norma dell’ordine morale ha una lunga tradizione nella dottrina morale cattolica (bisogna tuttavia riconoscere che l’orientamento naturalista nella morale si apre ai risultati più diversi, in quanto i concetti classici di physis e di natura si prestano alle più diverse interpretazioni; la teoria della legge naturale ha prodotto storicamente sia cambiamenti rivoluzionari che una intransigenza reazionaria). L’argomento riferito all’“ordo naturae” è utilizzato di frequenza per i problemi attinenti alla sessualità e all’etica del matrimonio (si veda in particolare l’enciclica Humanae vitae, 1968), così come a quelli più recenti concernenti la fecondazione artificiale.
Ancora una volta il ricorso alla Donum vitae si rivela istruttivo. La domanda: «Dal punto di vista morale qual è il legame tra procreazione e atto coniugale?» riceve la risposta seguente: «La fecondazione è lecita quando la finalità dell’atto coniugale è votata alla procreazione, ciò che il matrimonio ha come scopo per sua natura, per la quale ragione la coppia diventa una sola carne. Dal punto di vista morale, la procreazione si vede privata della sua perfezione quando non è voluta come frutto dell’atto coniugale, cioè l’atto specifico dell’unione degli sposi». Indifferente alle critiche di Hume riguardo alla “fallacia” dell’argomento naturalista, la bioetica cattolica adduce come ragione il riferimento all’ordine naturale (“ciò è, e dunque ciò deve essere”), presupponendo che questo sia lo stesso che risulta dalla rivelazione (il salto dì piano è evidente nella dottrina sopra menzionata, relativa alla natura della sessualità coniugale).
Il terzo argomento utilizzato riguarda la “dignità umana”, impiegato sia per risolvere le questioni legate al trattamento degli embrioni (cfr. Donum vitae, 1987), sia per opporsi a dei movimenti che, partendo dalla nozione di qualità della vita, giungono a sostenere che gli individui possono disporre della propria vita. È il caso, ad esempio, dei movimenti pro-eutanasia o per una “morte degna”. È interessante notare che l’argomento della “dignità della vita umana” può servire contemporaneamente sia a promuovere un determinato comportamento, sia a giustificare il suo contrario; in concreto, è utilizzato dalla bioetica autonomista per giustificare un’azione che mette fine a una vita giudicata
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“indegna di essere vissuta”, e dalla bioetica cattolica per fondare l’interdizione, in nome della dignità umana, a disporre della vita, anche nelle sue primissime fasi embrionali.
Quando l’argomento “ex dignitatae” è usato nell’orizzonte di una dottrina fondamentalmente naturalista, si dimostra funzionale al paternalismo. Infatti, mentre il ricorso alla dignità fa appello a principi autonomisti (in armonia con la valutazione di ciò che è ritenuto soggettivamente opportuno o desiderabile, in ogni caso “degno” della persona), nel contesto paternalista le modalità dell’azione sono stabilite dall’esterno (un’altra istanza, diversa dalla persona interessata, decide ciò che è conforme o no alla sua dignità...).
I tre argomenti — “persona” “natura” e “dignità” — sono usati alternativamente nella bioetica cattolica con relativa facilità; sono considerati quasi intercambiabili rispetto al progetto globale di difesa e di promozione dei valori umani ai quali tale dottrina si ispira. L’obiettivo di ciò che possiamo chiamare il “personalismo cattolico in bioetica” è quello di rivendicare il valore intrinseco dell’essere umano, in opposizione a ogni strumentalizzazione utilitarista. Intende proteggere la vita umana anche nel caso in cui il grado soggettivo del suo valore sia compromesso o non ancora raggiunto; propone in modo implicito, al di là di ogni considerazione fenomenologica, un “principio di contemplazione”, necessario per cogliere il valore di una vita umana. È una prospettiva che raccoglie il consenso di coloro che sono orientati verso valori umanisti, indipendentemente da una loro appartenenza formale a una chiesa o dall’adesione a un credo religioso.
Rimane aperta la questione di sapere se questo progetto etico trovi un’espressione adeguata nel termine “personalismo”. Un modo diverso di porre la stessa questione è quello di domandarsi se oggi Mounier acconsentirebbe a essere chiamato personalista, tenuto conto degli sviluppi e delle applicazioni che il personalismo ha avuto nella bioetica contemporanea. Questo interrogativo retorico ha il vantaggio di permetterci di domandarci quali aspetti del progetto originario di Mounier il personalismo cattolico ha applicato alla bioetica, e quali invece ha lasciato cadere.
L’attenzione non va solo all’aggettivo “comunitario”, che definiva il personalismo proposto da Mounier, ma allo spirito stesso del suo
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progetto. Mounier non avrebbe approvato l’uso del personalismo a fini apologetici. Nella sua concezione, la persona non è un’entità giuridica che bisogna difendere dalla collettività per opposizione all’individuo, quale essere isolato e pura astrazione, perché fin dalla nascita la persona fa parte della collettività. L’intenzione di opporsi all’individuo in quanto entità chiusa portava Mounier a sottolineare l’apertura alla trascendenza della persona, a cominciare dal suo legame essenziale con l’universo. Questa concezione dinamica del personalismo non è stata conservata dalla bioetica cattolica che ha fatto del personalismo il suo punto di riferimento privilegiato. Ridurre la persona a un’entità immobile, che esiste interamente in se stessa, comporta la sparizione del concetto di formazione della persona.
Essere o cessare di essere una persona non chiarisce tutto in medicina. La dignità della persona esige che si tratti il soggetto correttamente dal punto di vista morale, ma non determina quale sia la forma corretta di trattarlo in ciascun caso. Per esempio, non si agisce contro la volontà della persona se si tratta un malato in fin di vita come tale. Il personalismo ha bisogno, oltre che dell’aspetto comunitario, di una dimensione storica che è stata trascurata dalla bioetica personalista promossa dai teologi cattolici. Per questo osiamo immaginare che oggi Mounier non si assocerebbe ad alcune formulazioni della bioetica, che pur hanno fatto del personalismo la loro bandiera.
3. Per una bioetica a dimensione ecumenica
Nel giugno 1996 il supplemento culturale del giornale Il Sole 24 Ore pubblicava un documento che si presentava con il titolo programmatico di Manifesto di bioetica laica. Ne è seguito un insieme di interventi di diversi studiosi che hanno preso posizione sul documento stesso, periodicamente pubblicati sul giornale. Ben presto il Manifesto si rivelava come il classico sasso nello stagno, che suscita onde di riflessione sempre più ampie. L’osservatore esterno non poteva sottrarsi all’impressione che il dibattito avviatosi tra studiosi di bioetica e intellettuali italiani avrebbe potuto ricavare un sostanziale beneficio da un punto di vista totalmente diverso da quello formalmente
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evocato, cioè una presa di posizione favorevole o contraria ai principi presentati come caratterizzanti la bioetica laica.
Consapevoli di voler deliberatamente produrre un effetto di “estraniamento”, proponiamo di leggere le vicende relative al rapporto tra bioetica laica e bioetica religiosa in parallelo con un’esperienza, allo stesso tempo intellettuale e spirituale, che si è sviluppata in tutt’altro contesto: il dialogo ecumenico tra le chiese cristiane. L’accostamento, per quanto inusuale, non è inappropriato. Le posizioni discordanti sulle questioni fondamentali della bioetica (sia quella del metodo o della fondazione stessa della disciplina, sollevata dal Manifesto di bioetica laica, sia quelle relative alle tematiche concrete, come la questione degli inizi della vita umana che il documento Identità e statuto dell’embrione del Comitato nazionale per la bioetica proponeva nello stesso periodo di tempo) sono almeno altrettanto irriducibili quanto quelle che per secoli hanno contrapposto tra di loro i fedeli di varie chiese (con l'“odium theologicum’ in meno...!).
Nel dibattito teologico l’inflessibilità nella difesa di capisaldi dottrinali aveva, come aggravante, il riferimento non a un’opinione filosofica, ma a una rivelazione divina. Fatte salve tutte le differenze, le analogie con il dibattito bioetico non mancano. Anche in questo è circolata, per esempio, l’accusa di considerare la personalità dell’embrione come un “dogma”. È chiaro che in questo caso l’imputazione ha solo un significato polemico, essendo chiaro a chiunque che in bioetica non può essere questione di dogmi in senso stretto; tuttavia sembra stabilire un parallelo con quanto avveniva nelle dispute secolari tra cristiani, nelle quali verità di fede si contrapponevano a verità di fede, con praticamente nessuna possibilità di far avanzare l’intesa. Ed è effettivamente l’impressione che si ricava da molti dibattiti sulla bioetica, relativi sia al metodo che ai contenuti: si risolvono in uno schieramento di posizioni contrapposte, in cui ogni concessione fatta all’avversario sembra equivalere a una debolezza. Il presentarsi statico di fronti irremovibili ci autorizza a proporre il parallelo tra il dibattito bioetico e la lunga guerra di posizione tra le chiese e confessioni cristiane.
Un’aggravante ulteriore per i conflitti teologici è stata la lunga tradizione di sopraffazioni e di intolleranza, che ha dato esito perfino
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a guerre di religione. E quando le spade e le bombarde sono diventate impresentabili agli occhi della società civile, sono state sostituite con le armi più raffinate della polemica (che, non per caso, ha la parola “guerra” nel suo etimo) e dell’apologetica. Generazioni di intellettuali organici ― leggi: teologi ― sono stati educati a praticare l'apologetica, che consisteva essenzialmente nell’individuare i punti deboli dell’avversario e nel presentare la propria posizione come l’unica intellettualmente e moralmente difendibile. In pratica, la macchina dell’argomentazione apologetica doveva costringere l’avversario ad ammettere o di essere intellettualmente incoerente, o di mancare dell’onestà morale necessaria per arrendersi alla verità, abbandonando il proprio errore. L’apologetica mirava alla conversione dell’avversario, così come in precedenza la spada tendeva al suo sterminio. In pratica, l’apologetica svolgeva la funzione che von Clausewitz attribuiva alla politica: essere una prosecuzione delle guerre, con altri mezzi...
Abbiamo tutti i motivi per stupirci che la contrapposizione tra concezioni teologiche che è stata praticata per secoli abbia ceduto il posto a qualcosa di radicalmente nuovo. Le religioni ― si sa — sono resistenti ai cambiamenti. Eppure il cambiamento è avvenuto, grazie al movimento ecumenico. È nato per iniziativa di alcuni pionieri, all’inizio del secolo; progressivamente ha coinvolto le stesse istituzioni ecclesiastiche. Anche la chiesa cattolica, dopo il doloroso confronto interno avvenuto nel concilio Vaticano II, vi ha aderito. Persone aperte alla teoria e alla pratica del dialogo, da Socrate in poi, sono sempre esistite; ma l’ecumenismo è stato nella storia dell’Occidente il primo esempio di dialogo per grandi numeri, tra istituzioni forti come sono le chiese. È stata una scuola molto faticosa. L’ipotesi che vogliamo proporre è che le sue acquisizioni possono essere utili per altre controversie di tipo ideologico, come sono quelle che, sul finire del secolo, si stanno addensando intorno alla bioetica. In modo estremamente sintetico, ci si presentano tre lezioni possibili.
In primo luogo praticando il dialogo ecumenico si è dovuto riconoscere che esistono i cosiddetti “fattori non teologici”delle divisioni. Là dove il dibattito teologico registrava posizioni dottrinali inconciliabili, fonti di diatribe infinite — basti pensare alla questione del
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“Filioque”, o al primato papale, o alla dottrina della transustanziazione ― la pratica dell’ecumenismo faceva scoprire che i dissensi teologici erano sostenuti e alimentati da situazioni di carattere culturale e sociale, riconducibili sostanzialmente a prevaricazioni nell’esercizio del potere. Possiamo esemplificare riferendoci al peso che hanno avuto legislazioni discriminatorie nei confronti dei protestanti in Italia o dei cattolici in Inghilterra (per non parlare dei “fattori non teologici”, ma di natura sociale, dello scontro tra cattolici e protestanti nell’Ulster). Per fare un altro esempio, la pratica confluenza di interessi tra Democrazia Cristiana e chiesa cattolica ha impedito ai protestanti italiani di riconoscersi in quel partito, dando alle scelte politiche un carattere “teologico” del tutto indebito.
Potrebbe essere utile domandarsi quanto, in modo analogo, la contrapposizione ideologica tra bioetica laica e bioetica religiosa non possa essere alimentata da “fattori non ideologici”, ovvero da questioni che risalgono alla gestione del potere. Non è un segreto che nel nostro paese intorno alla bioetica si sia sviluppata un’occupazione di posti strategici nelle cattedre universitarie e nei comitati — a cominciare dal Comitato nazionale, con la vicenda delle sostituzioni di carattere politico avvenute nel dicembre 1994 — che ha tutto il sapore della discriminazione nei confronti dei cultori della disciplina non “organici” alla difesa di una linea di assoluta fedeltà ai dettami del magistero papale.
Anche la stessa vibrata difesa del perimetro della bioetica laica — un fatto culturale tipicamente italiano, che potremmo considerare idiosincratico di una tradizionale contrapposizione tra guelfi e ghibellini, se non volessimo addirittura svalutarlo come un fatto provinciale, incomprensibile in altri contesti culturali ― può essere ricondotto a una comprensibile reazione al controllo stretto che le strutture della chiesa cattolica esercitano in Italia su tutto ciò che ha attinenza alla bioetica. Se così è, un ravvicinamento reale tra posizioni diverse non dovremo aspettarcelo dal raffinamento delle argomentazioni rispettive, ma da qualche cambiamento nei rapporti di potere.
Una seconda acquisizione importante che proviene dall’esperienza del movimento ecumenico è quella relativa alla necessità di
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una “rivoluzione copernicana” per sbloccare situazioni di contrapposizione dottrinale congelata. Per le chiese questo ha voluto dire abbandonare l’idea del “ritorno” quale via per ricostruire l’unità della chiesa , sollecitando la conversione dei “fratelli separati”. Nell’ecumenismo concepito come un ritorno ogni confessione si considerava al centro, allo stesso modo della terra nel sistema tolemaico; gli altri raggruppamenti cristiani giravano attorno al perno costituito dalla propria struttura dottrinale e istituzionale, a distanza più o meno ravvicinata. La difesa della propria integrità dottrinale equivaleva a una lotta per la sopravvivenza. Per questo le chiese si sono a lungo opposte all’ecumenismo: temevano che, aderendo a una pratica del dialogo che rimettesse in discussione proprio la centralità del proprio sistema dottrinale, sul quale misurare gli altri, avrebbero perso la propria identità. Nella chiesa cattolica le forze ostili all’ecumenismo proponevano un “ecumenismo cattolico”, come contrapposto a quello protestante od ortodosso: i tradizionalisti erano disposti a entrare solo in un dialogo che accettasse le proprie condizioni.
La svolta copernicana può essere esemplificata dal ruolo che gioca l’aggettivo riferito all’ecumenismo: la chiesa cattolica è entrata ufficialmente e istituzionalmente nell’ecumenismo solo quando ha accettato, nel decreto conciliare sull’unità delle chiese — Nostra aetate, del 1965 — di rinunciare ad aggettivare l’ecumenismo (e quindi a proporre un “ecumenismo cattolico” contrapposto ad altri), a favore di un ecumenismo tout court, al quale ci si avvicina a partire da “principi cattolici”. Le implicazioni dello spostamento dell’aggettivo sono enormi. La rivoluzione copernicana nell’ecumenismo ha comportato l’abbandono del posto centrale in cui ogni chiesa metteva se stessa, rapportando gli altri ai propri parametri di riferimento. Quando si entra in un ecumenismo senza aggettivo (cattolico, protestante ecc.), tutti sono invitati a considerarsi pianeti che ricevono luce da Colui a cui, come al sole nel sistema copernicano, viene riconosciuta la funzione di Lumen Gentium. La posizione eccentrica permette a ognuno di modificarsi e crescere, interiorizzando quella parte di verità che viene meglio riflessa da altri. Allo stesso tempo lo spostamento permette che si realizzi quella dialogicità che è l’espressione originaria del pensiero etico.
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Condizione essenziale per il dialogo è la fiducia tra gli interlocutori. La fiducia naufraga là dove si ritiene che gli altri giochino in modo sleale, oppure si partecipa al confronto con la presunzione di avere la risposta giusta già pronta, cercando solo il modo per imporla. Perché si realizzi un dialogo secondo le esigenze già teorizzate da Socrate, gli interlocutori devono essere tutti disponibili ad essere guidati da un “daimon”, sottraendosi all’influsso del “diabolos” (la radice greca “dia-ballo” contiene in sé i germi della separazione, dello scetticismo, della posizione difensiva). Senza la fiducia reciproca e la convinzione dell’eccedenza della verità rispetto a tutte le diverse posizioni, anche le più solidamente argomentate, non si ha etica del dialogo. E nemmeno una bioetica compatibile con quell’acquisizione filosofica e culturale che sta al cuore dell’esperienza dell’occidente.
La bioetica ha come una vocazione innata a realizzare la sua propria rivoluzione copernicana, costringendo i sistemi filosofici e le diverse ideologie morali a smettere di considerarsi come l’unità di misura. La bioetica nasce, infatti, dalla percezione del pericolo in cui versa la vita nel suo insieme. Prendendo in prestito un’immagine da Paul Kennedy — sviluppata nel libro Preparing for the Twenty-First Century, di cui riferisce Daniel Maguire in un articolo sulla rivista Bioetica, n. 3, 1995 — possiamo considerare la diversità della terra rispetto agli altri pianeti vicini costituita dall’essere ricoperta da una pellicola di materia chiamata “vita”. È una pellicola estremamente sottile; pesa non più di un miliardesimo del peso del pianeta che la sostiene. Entro quella delicata pellicola stanno le piante, gli animali, le terre coltivate e la stessa specie umana. Per via dell’attività dell’uomo, il delicato fenomeno della vita, che rende il nostro pianeta unico e prezioso, ora è in pericolo.
La crisi della vita, che giustifica la bioetica, è la situazione di emergenza in cui si trova la vita — sia nella sua qualità che nella sopravvivenza del suo stesso essere ― a causa di quell’epidemia che è l’uomo stesso. Se concediamo all’etica della responsabilità per la vita di occupare il posto centrale attorno a cui girano i sistemi di pensiero, laici e religiosi, non è più giustificata nessuna forma di monopolio della preoccupazione per la vita. Cade così anche
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quell’arroganza intellettuale che porta a giudicare tutti coloro che difendono posizioni differenti dalla propria come se non avessero a cuore l’uomo e i suoi migliori interessi, erigendosi a unici paladini della vita e della sua qualità.
La svolta copernicana in bioetica può tradursi anch’essa in uno spostamento di aggettivi. Se diamo alla bioetica in quanto responsabilità per la vita il posto centrale, non ha più senso difendere una “bioetica laica” o una “bioetica religiosa” quali sistemi chiusi in competizione fra di loro. Possiamo invece proporre che i principi — o approcci filosofici, o concezioni antropologiche — con i quali si affrontano i problemi della bioetica siano legittimamente e utilmente diversi. L’aggettivo va a qualificare l’approccio, non il prodotto del dialogo, il quale si pone in una posizione superiore rispetto a quella di partenza dei dialoganti. Nessuno è autorizzato a sentirsi minacciato da un approccio laico o da un approccio religioso alla bioetica; al contrario, il pluralismo si traduce in un arricchimento di tutti.
Una terza lezione, infine, che possiamo mutuare dal movimento ecumenico è il rapporto organico che esiste tra l'ortodossia e l’ortoprassi. L’unità tra i cristiani ha trovato una via di accelerazione quando la preoccupazione per la corretta interpretazione della dottrina si è sposata all’impegno per risolvere insieme i problemi degli uomini. Dalla comune testimonianza di fede alla cooperazione nel campo sociale, per i cristiani coinvolti nel movimento ecumenico si è aperto davanti un campo di “ortoprassi” che non presupponeva una preliminare soluzione di tutte le divergenze dottrinali. «Se la teologia intende svolgere il suo compito al servizio degli uomini e delle chiese — affermava Hans Küng negli anni in cui anche la chiesa cattolica cominciava ad aprirsi all’ecumenismo — deve impegnarsi a indicare, come conseguenza delle sue motivazioni teoretiche, delle soluzioni responsabili nel campo dell’azione». Anche i teologi dovevano scoprire che l’impegno comune risolve questioni che dal punto di vista dottrinale potrebbero essere discusse all’infinito.
L’etica della responsabilità e l’etica dei principi, nella classica
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distinzione proposta da Max Weber, non sono proprietà esclusive dell’approccio laico o dell’approccio religioso, ma si devono compenetrare.
L’accento spostato sulla prassi è tanto più rilevante per la bioetica, in quanto questa nasce come guida all’azione, piuttosto che come attività accademica. Le differenze non sono di poco conto. Nel mondo universitario la modalità di rapporto dominante è la sfida. È nelle regole del gioco accademico cercare di trovare il punto debole dell’avversario, distruggere le sue argomentazioni e produrne di migliori. Nella bioetica invece gli uomini di pensiero sono sollecitati a incontrarsi con gli uomini d’azione: non per dettare loro le proprie regole, frutto di speculazione teorica, ma per imparare da loro. O meglio, per imparare insieme, in quanto gli uomini di pensiero e gli uomini di azione dipendono gli uni dagli altri. L’etica, che in quanto disciplina appartiene alla filosofia pratica, non può essere pratica se non include le complicazioni della sfera operativa nelle riflessioni con cui si giustifica una norma. “Fare” l’etica, e non solo pensarla, è il punto di vista innovativo che è stato introdotto dalla bioetica. Per chi “fa” l’etica deve essere chiaro che le sue idee valgono soltanto se adeguate ai presupposti sociali e istituzionali. Il peggio che si possa dire di un esperto di bioetica è: «Egli aveva una soluzione..., ma non era adatta al problema!».
Scoperta dei fattori di divisione non ideologici ma riferiti all’esercizio del potere; ricerca di un punto di convergenza esterno e più alto rispetto ai sistemi di pensiero; rilevanza della prassi per un pensiero responsabile: altrettanti insegnamenti che la bioetica può mutuare dall’ecumenismo. A meno che non si preferisca deliberatamente la contrapposizione frontale. Questa sembra la via che è deciso a percorrere il bioeticista americano Tristam Engelhardt, paladino di un’etica concepita in funzione di mediazioni contrattualistiche tra cittadini intesi come irriducibili “stranieri morali”. Engelhardt ha fondato nel 1995 una rivista funzionale al suo modello: Christian Bioethics. A scanso di equivoci, ha messo esplicitamente nel sottotitolo: “Non-ecumenical studies in medical morality”.
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LA BIOETICA E L’ORIZZONTE TRANSPERSONALE
1. La coscienza della vita e gli obblighi etici
Partecipando al primo convegno europeo della International Transpersonal Association, tenutosi a Bruxelles nel 1984, Elisabeth Kübler Ross ha sorpreso molti di quelli che l’ascoltavano con una sua affermazione. Presentando se stessa e il suo lavoro, la celebre psichiatra, nota in tutto il mondo per aver rinnovato l’arte dell’accompagnamento dei morenti, dichiarava: «Io non ho mai fatto ricorso a droghe psichedeliche per alterare gli stati di coscienza; non so stare ferma a fare meditazione, né conosco stati di illuminazione o esperienze mistiche. Tutto quello che so fare, è stare accanto alle persone gravemente malate, stare ad ascoltarle, accompagnarle alla morte. Questo è il mio contributo alla realizzazione transpersonale mia e degli altri».
Con le sue parole confermava l’impressione che molti hanno avuto avvicinandosi a questo movimento: nella casa del transpersonale vi sono molte dimore. Con rara tolleranza, in questo movimento si tende a includere, più che a escludere. Non predomina la tendenza a uniformare i comportamenti delle persone, a far camminare tutti con lo
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stesso passo. Nel transpersonale non si entra come in una religione, mediante una conversione, lasciando dietro di sé la propria vita precedente. Riconoscersi nel transpersonale è piuttosto questione di un insight, che modifica la percezione della propria attività abituale, senza tuttavia strappare da essa. Anche pratiche così care a chi si colloca in questo ambito, come la meditazione o l’azione rivolta a modificare gli stati della coscienza, non sono un obbligo o una via prescritta per nessuno.
La Kübler Ross, rappresentante eminente dello sforzo attuale di umanizzare la medicina, non ha semplicemente voluto, con una plaisanterie, evitare un inquadramento rigido e riduttivo nel movimento transpersonale. Ha piuttosto avanzato un suggerimento metodologico: considerare il transpersonale non come un hortus conclusus, ma come un paradigma interpretativo che si può applicare a diverse realtà. Accettando la sua indicazione, ci possiamo chiedere: la bioetica ha qualche rapporto con il transpersonale? Ovvero: quella riflessione sistematica sulla qualità morale e l’accettabilità civile di comportamenti resi possibili dal progresso della biologia e della medicina, diffusasi con il nome di bioetica, contribuisce all’obiettivo di crescita della coscienza dell’umanità, che è proprio del movimento transpersonale?
È difficile rispondere con un sì o un no univoci, perché si può fare bioetica in diversi modi, che hanno legami più o meno stretti con il livello transpersonale. Procedendo in modo piuttosto schematico, si possono prendere in considerazione tre diversi scenari. In tutt’e tre la riflessione e l’azione connessa possono legittimamente richiamarsi alla bioetica, ma con implicazioni diverse rispetto a ciò che costituisce l’interesse specifico del transpersonale, cioè la modificazione degli stati di coscienza. In breve, possiamo dire che i tre scenari implicano percezioni diverse del rapporto dell’uomo con la vita.
Il primo scenario colloca tutta la novità della bioetica nella consapevolezza di nuovi doveri dell’uomo nei confronti del mondo e della vita, a seguito delle capacità di manipolazione della natura rese possibili dal progresso tecnologico. La bioetica che nasce in questo orizzonte si può sinteticamente ricondurre al “principio di responsabilità”,
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formulato dal filosofo Hans Jonas 102. A suo avviso, la tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove, che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. La natura si è dimostrata vulnerabile e l’avventura dell’umanità sulla terra risulta esserne minacciata. Ancor più, ci si è resi conto che l’irresponsabilità dell’uomo può compromettere la vita stessa sul pianeta: sia che ciò avvenga attraverso la bomba atomica — timore prevalente fino a poco tempo fa — sia attraverso la bomba biologica, secondo le più recenti paure.
Questo atteggiamento responsabile nei confronti della vita apre orizzonti nuovi per la moralità e introduce nell'ethos comune sensibilità finora assenti. Per fare qualche esempio: solo ora la vita animale non umana sembra affacciarsi entro l’orizzonte della preoccupazione etica. Finora l’uomo, almeno nella tradizione occidentale, ha pensato nei confronti degli animali di avere solo diritti, non anche doveri. Questa sicurezza da padrone dispotico sta cedendo il posto ad atteggiamenti più riflessivi; anche se sono pochi coloro che si lasciano sedurre dagli ideali estremisti della animal liberation, un senso di moderazione nei rapporti con i viventi non appartenenti alla specie umana sta entrando nei costumi.
Un secondo esempio è l’apertura dell’etica alla prospettiva delle generazioni future. Il bene e il male hanno anche una misura temporale. Da questo punto di vista, Hans Jonas ha potuto riformulare l’imperativo kantiano introducendo la responsabilità verso le generazioni non ancora nate: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione rendano possibile la continuazione della vita sulla terra». L’uomo dell’epoca postindustriale ritrova così un rispetto ben presente nell’etica delle culture tradizionali. Jeremy Rifkin riferisce, in un suo saggio dedicato alla percezione del tempo e all’impatto che le diverse concezioni del tempo hanno sulla vita sociale, di un capo di una tribù di Irochesi che esprimeva così la procedura deliberativa del suo popolo: «Quando dobbiamo decidere qualcosa, ci domandiamo: la decisione che ora prendiamo, andrà a beneficio della settima generazione?
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Se possiamo rispondere in senso affermativo, prendiamo la decisione; altrimenti decidiamo in senso contrario» 103.
Per sintetizzare quest’etica della responsabilità nei confronti della vita possiamo ricorrere a uno slogan che è stato recentemente utilizzato per promuovere una nuova rivista internazionale di bioetica. Fino al XX secolo il motto era: “Nul n’est censé ignorer la Loi” (ovvero: “Nessuno è autorizzato a ignorare la Legge”); nel XXI secolo sarà: “Nul n’est censé ignorer la Vie” (“Nessuno è autorizzato a ignorare la Vita”).
Non possiamo che rallegrarci di questa attenzione alla vita. Tuttavia, non è in questa direzione che troviamo la novità che interessa chi si orienta secondo la dimensione transpersonale. La vita di cui ci si preoccupa e nei cui confronti ci si vuol comportare responsabilmente è per il soggetto ancora una cosa, che può essere rappresentata dal pronome neutro “esso”. Il paradigma entro cui si muove questa bioetica è “Io-esso” (in inglese: I-It).
2. Lo scenario personalista per la bioetica
Un secondo scenario di dibattito bioetico è quello rappresentato dal paradigma reso celebre da Martin Buber: quello del rapporto “Io-Tu” (I-You). Si tratta del paradigma che regola i rapporti interpersonali 104. L’eticità a questo livello è misura di riconoscimento reciproco; comporta uguale dignità, rispetto e presa in carico reciproca (con un corollario che riguarda chi non è in grado di rivendicare i propri diritti: costui deve essere preso in carico da altri).
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Nella bioetica contemporanea tale criterio personalista è diventato un punto di riferimento centrale. La dignità della persona è invocata per tutelare da comportamenti in cui l’attenzione esclusiva al lato tecnico e a risultati di efficienza può esporre a prevaricazioni gravi nei confronti di altri soggetti. Il progresso tecnologico ha, infatti, anche un lato d’ombra, che produce clamorosi tradimenti dei valori umanistici. Dire che la persona umana va tutelata dall’inizio alla fine della sua vicenda corporea, significa mettere dei limiti a ciò che siamo in grado di fare con la biologia e la medicina di cui disponiamo oggi: non ci è lecito fare tutto ciò che siamo capaci di fare.
Le associazioni mentali più spontanee sono quelle collegate con l’inizio e la fine dalla vita umana. Si tratta dei problemi che la divulgazione della bioetica ha fatto conoscere anche al grande pubblico: fecondazione artificiale e tecnologie applicate alla riproduzione, diagnosi prenatale e interruzione della gravidanza; e poi ancora: rinuncia all’accanimento terapeutico ed eutanasia, comunicazione della diagnosi, rispetto della volontà del paziente che vuol mettere dei limiti alle cure che gli vengono somministrate, trattamento di malati in stato vegetativo permanente, accompagnamento dei morenti.
Non esistono delle formule capaci di risolvere tutti i problemi connessi con i segmenti iniziali e finali della vita, là dove le categorie antropologiche tradizionali vengono meno, tanto che nei casi specifici non sappiamo se si tratta già di vita umana (embrioni nei primissimi stadi di sviluppo), o se c’è ancora vita umana (stato vegetativo permanente). Tuttavia, il criterio personalista costituisce una valida indicazione di principio: «Stabilisci con l’altro un rapporto Io-Tu; tratta l’altro — anche l’altro che è l’embrione, o il malato terminale — come te stesso». È superfluo dire quanto questa via sia difficile, ma anche quante possibilità offra di crescere in umanità.
Lo scenario personalista, che pur stenta a ottenere il consenso unanime nel dibattito pubblico, non è l’orizzonte ultimo per la bioetica. Anche valorizzando al massimo le possibilità offerte dal paradigma “Io-Tu”, dobbiamo considerare una terza possibilità di concettualizzare
rapporti con la vita: è quella che ci è offerta dal paradigma ”Io-Sé” (I-Self). L’evocazione del Sé può suonare come dottrina iniziatica a chi non sia familiarizzato con il linguaggio del movimento
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transpersonale. Lasciando alla letteratura specifica gli appropriati approfondimenti 105, possiamo indicare nella prospettiva che trascende la persona il contributo originale che questo movimento offre alla cultura contemporanea: il richiamo a un punto di convergenza al di là del livello personale, quale si realizza all’intemo di un’esperienza vissuta del reale come totalità (wholeness).
In questo scenario, l’etica e la vita si correlano attraverso un rapporto non di possesso responsabile (Io-esso), né di incontro interpersonale (Io-Tu), ma di sottomissione partecipativa. Il soggetto vivente si scopre parte della vita come un Tutto, si sperimenta come Io nel Sé e grazie al Sé, in un processo esperienziale diretto. Nella visione olistica promossa dall’istanza transpersonale l’Io, senza essere abolito, si risolve nel Tutto, che lo comprende a un livello superiore. Tutto ciò si riduce a delle formule, finché il vissuto non le traduce in possibilità esistenziali. L’accesso a questa dimensione della vita che si staglia al di là della persona — sintesi suprema, ma anche maschera; epifania, ma anche parziale eclissi dell’essere — è quello che la tradizione considera tipico della mistica. Ma è anche proprio di ogni esperienza (religiosa o areligiosa, quotidiana o straordinaria, in modo privilegiato attraverso le possibilità offerte dall’amore universale e dalla creatività artistica) che porta a un superamento della percezione duale della realtà.
Tra l’accesso diretto all’esperienza vissuta e la fredda teorizzazione esiste una possibilità intermedia: la partecipazione intuitiva che è resa possibile dalle espressioni artistiche. Un vertice in tale senso è costituito dall’episodio che Thomas Mann nel romanzo I Buddenbrook (10a parte, cap. 5) dedica all’esperienza spirituale del senatore Thomas Buddenbrook 106. A questo punto del racconto il mercante e uomo politico di successo è invecchiato, sfinito, amareggiato da una vita che non sembrava appagare le sue aspettative: «Le sue forze diminuivano; si rafforzava solo la convinzione che tutto questo non potesse andare
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avanti per molto e che la sua morte fosse vicina» (p. 398). Né la speranza di una sopravvivenza individuale nel senso della fede cristiana, né la speranza di sopravvivere forte e rinvigorito nel suo unico figlio Hanno sono per lui vie praticabili: «di fronte all’assoluto e al fine ultimo non c’era aiuto dall’esterno, non c’era intercessione, condono, assopimento o consolazione!».
In questo stato d’animo sopravviene l’evento inatteso: al protagonista capita tra le mani il libro di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione e vi legge il capitolo intitolato Della morte e il suo rapporto con l’indistruttibilità del nostro essere. I pensieri del filosofo mettono in movimento un processo interiore che cova sotterraneamente ed esplode infine, nel corso della notte, in una serie di insight che dilatano la sua coscienza e danno una risposta, attraverso destrutturazioni e nuove sintesi, ai suoi interrogativi. Il romanziere ci fa partecipare in questi termini alla peak experience di Thomas Buddenbrook (pp. 401-3):
Era immerso in un buio completo, perché le tende delle due alte finestre erano ben tirate. In un silenzio profondo, nell’afa pesante, rimase supino fissando l’oscurità.
Ed ecco, all’improvviso fu come se l’oscurità si lacerasse davanti ai suoi occhi, come se la parete vellutata della notte si squarciasse, scoprendo una profondissima, eterna immensità di luce [...] «Io vivrò!», disse Thomas Buddenbrook quasi a voce alta e sentiva tremare in petto intimi singhiozzi.
«È questo, io vivrò! Lui vivrà... e che questo “lui” non sia io, è soltanto un inganno, è stato solo un errore che la morte sistemerà. È così, così... Perché?». E a quella domanda la notte si richiuse davanti ai suoi occhi. Di nuovo non vedeva, non sapeva e non capiva più niente e si lasciò sprofondare ancora di più nei cuscini, abbagliato e indebolito da quel poco di verità che aveva potuto intravedere.
Giacque immobile, in fervida attesa, quasi tentato di pregare che la luce tornasse un’altra volta. E la luce venne. Le mani giunte, senza ardire una mossa, poté vedere [...].
Che cosa era la morte? La risposta non gli apparve in povere o presuntuose parole: egli la sentiva, la possedeva nel più profondo del suo cuore. La morte era una felicità, così grande che si poteva misurarla solo in momenti di grazia come quello. Era il ritorno da un inganno indicibilmente penoso, la correzione di un gravissimo errore, la liberazione dai più avversi legami e barriere... il risarcimento per una deplorevole sciagura.
Fine o disfacimento? Tre volte da compatire colui che prova orrore di
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questi concetti futili! Che cosa finirà e che cosa si dissolverà? Questo corpo? [...]. Questa personalità e individualità, questo pesante, ostinato, sbagliato, odioso impedimento ad essere qualcosa di diverso e di migliore! Ogni uomo non era un errore o un passo falso? Non cadeva in una penosa detenzione appena nato? Prigione! Carcere! Barriere e vincoli ovunque! Attraverso le inferriate della sua individualità, l’uomo fissa senza speranza le mura di cinta delle circostanze esteriori, finché arriva la morte e lo richiama a casa, alla sua libertà [...].
Individualità! Ah, quello che si è, che si può e che si ha, sembra povero, grigio, modesto e noioso; ma quello che non si è, non si può e non si ha, è proprio quello che guardiamo con invidia struggente, che diventa amore per paura che diventi odio.
Io porto in me il germe, la radice, la possibilità per tutte le attitudini e le attività di questo mondo [...]. Dove potrei essere, se non fossi qui? Chi, che cosa, come potrei essere se non fossi me stesso, se questa mia persona non mi chiudesse, se non separasse la mia coscienza da tutti coloro che non sono me! L’organismo! Cieca, sconsiderata, deplorevole eruzione dell’incalzante volontà! Meglio, per davvero, che questa volontà si liberi nella notte senza spazio e senza tempo, invece di languire in prigione, appena illuminata da una tremula e vacillante fiammella dell’intelletto!
Avevo sperato di continuare a vivere in mio figlio? In una persona ancora più pavida, più debole e più indecisa? Puerile, ingannevole follia! A che mi giova un figlio? Non ho bisogno di un figlio! [...]. Dove sarò dopo la morte? Ma è così chiaro, così immensamente semplice! Sarò in tutti quelli che hanno sempre detto io, che lo dicono e lo diranno: ma specialmente in quelli che lo dicono più pienamente, più. fortemente, più felicemente...
Da qualche parte nella notte cresce un bambino ben dotato e ben riuscito, capace di sviluppare il suo talento, cresciuto schietto e sereno, puro, crudele e allegro, uno di quegli uomini la cui vista accresce la felicità dei felici e porta gli infelici alla disperazione: quello è mio figlio. Quello sono io, presto... presto... appena la morte mi libererà dalla miserevole illusione che io non sia tanto lui quanto me stesso [...].
Ho mai odiato la vita, questa vita pura, crudele e forte? Follia e malinteso! Solo me stesso ho odiato, per il fatto che non la potevo sopportare. Ma io vi amo... Amo tutti voi che siete felici e presto questa stretta prigione che mi tiene escluso da voi cesserà; presto ciò che dentro di me vi ama, il mio amore per voi, sarà libero, sarà con voi e dentro di voi... con voi e dentro voi tutti!
Piangeva, affondava il volto nei cuscini e piangeva, tremando come sollevato nell’ebbrezza di una felicità che non ha paragone al mondo per la dolorosa dolcezza. Era questo, tutto questo che lo riempiva dal pomeriggio precedente di un’indefinibile ebbrezza, che nella notte si era mosso nel cuore e l’aveva svegliato come un amore che sboccia. E
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mentre lui adesso lo poteva capire e riconoscere ― non in parole e pensieri che si concatenano, ma in improvvise e beatificanti illuminazioni dello spirito era già libero, era effettivamente già liberato e si era disfatto di tutti i legami naturali e artificiali. Le mura della sua città, nelle quali si era chiuso volontariamente e consapevolmente, si aprivano e rivelavano il mondo al suo sguardo, tutto il mondo del quale un giorno aveva visto un pezzettino qua e là e che la morte gli prometteva in dono per intero. Le ingannevoli nozioni di spazio e di tempo e perciò della storia, il pensiero di sopravvivere storicamente e con onore nei discendenti, la paura di una qualsiasi dissoluzione e decomposizione finale ― tutto ciò svaniva liberando il suo spirito e non gli impediva più di capire l’eternità. Niente cominciava, e niente finiva. Esisteva solo un’infinita presenza, e quella forza dentro di lui, che amava la vita con un amore dolce, doloroso, insistente e nostalgico, di cui la sua persona era solo un’espressione mal riuscita, avrebbe sempre saputo trovare le vie d’accesso a questo presente.
«Io vivrò», sussurrava nel cuscino, piangeva e... dopo un momento non sapeva più perché. La sua mente era ferma, il suo sapere si era spento, e all’improvviso dentro di lui non rimaneva che la muta oscurità. «Ma ritornerà!», si rassicurava. «Non l’avevo già posseduto?...» E mentre sentiva che lo stordimento e il sonno lo intorpidivano irresistibilmente, fece il giuramento di non rinunciare mai a quest'enorme felicità, ma di riunire tutte le forze per imparare, per leggere e per studiare, finché avesse fatta sua tutta la concezione della vita dalla quale tutto ciò proveniva.
Lasciamo ai critici dipanare lo stretto intreccio operato da Thomas Mann tra il pensiero di Schopenhauer (nostalgia della dissoluzione dell’io operata dalla morte) e quello di Nietzsche (continuazione della vita in coloro che della vita costituiscono una realizzazione più forte e coraggiosa). Inoltre dobbiamo tener presente che Thomas Mann non è uno scrittore che ami distribuire facili consolazioni. La vibrante descrizione del salto di consapevolezza del suo personaggio non è disgiunta da amara ironia: nessuno dei propositi sarà mantenuto; all’indomani la pesante vita borghese riassorbirà il senatore Buddenbrook, che morirà in modo tutt’altro che sublime, cadendo con la faccia nel fango. Ma l’oscillazione ironica non ci impedisce di partecipare intuitivamente alla esperienza spirituale del personaggio, centrata essenzialmente su un cambiamento di paradigma fondamentale nel rapporto con la vita. A questo facciamo riferimento quando parliamo di dimensione transpersonale.
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3. La bioetica nel paradigma transpersonale
Adottare la prospettiva transpersonale per la bioetica implica una radicale correzione dell’antropocentrismo (la bio-etica è già per sua naturale vocazione correlata alla biosfera) e l’accesso a quell’atteggiamento verso la vita che è tipico della tradizione religioso-sapienziale. La vita si presenta allora essenzialmente come un dono, a cui si partecipa mediante la modalità della comunione. Questo, che è lo stato di coscienza tipico dell’uomo spirituale, è anche l’ideale di una bioetica che non voglia essere semplicemente una disciplina che si limita a registrare il consenso sociale sulla normatività riferita ai nuovi interventi in campo biologico-medico.
La prospettiva transpersonale può arricchire anche la riflessione bioetica che si sviluppa entro un paradigma di riferimento interpersonale (Io-Tu). Essa corrobora, ad esempio, l’imperativo di non ridurre mai l’altro entro uno schema interpretativo. Questo può essere biologico (come avviene correntemente nella medicina organicista: il malato identificato con la sua malattia), ma anche morale. Questo secondo aspetto merita una spiegazione più dettagliata, perché è più difficile da identificare.
Possiamo partire dal senso di colpa. Non esiste solo il senso di colpa per qualcosa che si è commesso (questo è il più ovvio e il più frequente), ma esiste anche un senso di colpa esistenziale, collegato con il tradimento dell’essere: per non aver realizzato le potenzialità di cui si era dotati, per aver trascurato qualche dimensione del proprio essere (l’affettività, per esempio, a vantaggio dell’intellettualità o della realizzazione professionale; oppure per aver soffocato la propria crescita spirituale). La prospettiva transpersonale ci presenta appunto il senso di colpa non come un esito spiacevole dello sviluppo dell’individuo, da eliminare con adeguato intervento psicoterapeutico: esso ci appare piuttosto come un’ombra che accompagna permanentemente lo sviluppo della persona 107.
Accettare l’altro come persona significa aprire una linea d’orizzonte più ampia di ogni riduzione, comprese quelle riduzioni che operano
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fomentando nell’individuo il senso di colpa. Il riferimento non è diretto solo alle colpevolizzazioni più grossolane (come quelle messe in atto nei confronti dei malati di Aids, quando sono dichiarati puniti da Dio e meritevoli di ciò che si sono andati a cercare), ma anche a quelle più sottili; anche a quelle che non provengono dall’esterno, ma sono elaborate dall’individuo stesso.
Il rapporto Io-Tu, quando è compreso sullo sfondo costituito dalla dimensione transpersonale, mette in contatto con l’essenza personale che sta dietro alla maschera; rifiuta di ridurre l’altro a ciò che appare (un grumo di cellule ancora indifferenziato, un organismo devastato dal male, un progetto di libertà deformato dalla propria colpa); sa cogliere l'eccedenza della persona rispetto a tutto ciò che la limita. Nel rapporto interpersonale autentico, il «Tu» produce un’interpellazione, che ci porta a evadere dalle prigioni dell’Ego, compresa la prigione che ci costruiamo da soli con la colpa esistenziale. L’incontro con il «Tu» fa risuonare una promessa liberatoria: «Io sono più grande di me stesso!».
Una seconda dimensione di ampliamento della coscienza resa possibile dalla dimensione transpersonale è quella del pathos. Lo stato di coscienza transpersonale ci indica un atteggiamento verso la vita che non sia modulato esclusivamente sulle categorie dell’azione (anche se si tratta di un’azione che accetta di lasciarsi confrontare con i limiti posti dall’etica). La bioetica si trova molto impegnata a mettere dei confini al desiderio: al desiderio di generare, di generare figli con certe caratteristiche e a certe condizioni, di prolungare la vita o di abbreviarla, di modificare il patrimonio genetico ecc. In breve, la bioetica è confrontata con le mille trasformazioni dell’eros, cioè del desiderio e del potere dell’uomo sulla vita.
Nelle sue infinite espressioni, l’eros ci presenta la vita, propria e altrui, come un campo di intervento illimitato, grazie all’aumento di possibilità dovuto al progresso scientifico e tecnologico. L’ebbrezza di interventismo attivo sulla vita, tipica della cultura occidentale, è tutta centrata sulle possibilità di tutto conoscere e tutto cambiare. Ma anche il pathos, cioè quella modalità di esistenza che dipende non da ciò che facciamo ma da ciò che subiamo, è una dimensione costitutiva della vita.
La determinazione volontaria è entrata pesantemente anche in fatti esistenziali che prima venivano fatti dipendere dal caso o dalla provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento di arrendersi alla morte. Tutto ciò ora tende a dipendere dall'azione
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dell’uomo. Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica: l’uomo che aumenta a dismisura il potere arbitrario su se stesso non diventa ancor più uomo, ma una caricatura d’uomo.
Abbiamo bisogno di integrare la modalità “patica” dell’esistenza nel repertorio dei comportamenti che costituiscono l’umano autentico. La “passione”, infatti, e non solo l’azione, costituisce una possibilità di crescita. Anzi, la pazienza — intesa in senso etimologico, come virtù correlata ai comportamenti che dipendono dal pathos ― ci può far arrivare là dove l’azione non ci può portare. “Passività di crescita” ha chiamato Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza che richiedono la pazienza come risposta comportamentale 108. La passività costituisce, rispetto all’azione, l’altro braccio con cui Dio ci attira a sé; la pazienza è la virtù che si appropria di queste possibilità di crescita.
La bioetica non ha il compito, come un gendarme, di mettere dei limiti e delle scadenze al desiderio. Il suo obiettivo, espresso positivamente, è quello di far emergere l’interpellazione presente in ciò che la vita ci fa subire. Deve educare il desiderio a riconoscere la voce del pathos, ad aprirsi a questo “Tu” che ci viene incontro nella durezza di ciò su cui non abbiamo potere.
Anche questo atteggiamento recettivo verso la vita — che possiamo qualificare come spirituale, anche senza essere necessariamente vissuto entro una religione costituita — ha bisogno di essere incluso nella bioetica. Questa si è prevalentemente occupata finora di contrastare le inclinazioni faustiane del progresso biomedico, mediante accurate valutazioni del lecito e dell’illecito nell’ambito della genetica, della biologia e della nuova pratica della medicina. Per essere completa, la bioetica ha bisogno di integrare anche quanto la vita, come festoso-tragico gioco dell’Essere, veicola attraverso il pathos, inducendoci al trascendimento. Ed è compito di chi promuove quello stato di coscienza che nasce dalla esperienza della vita come dono a cui si partecipa, quale è concettualizzato all’interno del movimento transpersonale, stimolare la riflessione bioetica a confrontarsi anche con quest’ultimo orizzonte.
255
1. Le ragioni della storia
pg
29 Nuovi diritti, nuovi doveri in sanità
43 L’economia sanitaria nell’orizzonte della bioetica
73 I Comitati nazionali per la bioetica
73 Le Commissioni statunitensi
80 Il Comitato consultivo in Francia
84 Il Comitato nazionale italiano
89 Le istituzioni sopranazionali europee
105 I comitati di etica negli ospedali
2. Le ragioni della filosofia
121 Fonti delle norme in campo bio-medico
139 Deontologia, etica medica, bioetica: rapporti e differenze
155 Il giudizio morale e la sua giustificazione
167 I principi dell’etica medica: teoria e pratica
179 Vivere e modellarsi: la funzione dei modelli per lo sviluppo della vita morale
193 Il riferimento alla coscienza nella professione medica
209 Bioetica e biodiritto
221 Natura e persona nella bioetica di ispirazione religiosa
243 La bioetica e l’orizzonte transpersonale
[quarta di copertina]
Anche se chiamata con un termine di nuovo conio ― bioetica ―, l’etica applicata nell’ambito biomedico presenta per lo più un volto antico: quello che affida all’etica compiti polizieschi e repressivi, legati alla funzione di demarcare i confini tra il lecito e l’illecito e di segnare i limiti che non vanno in nessun caso oltrepassati. Più rara è la proposta di una bioetica in funzione di stimolo positivo, per assicurare all’attività umana nell’ambito della biologia e della medicina lo spessore che deriva dal tentativo di coniugare scienza e valori umani. Per fare questo la bioetica deve privilegiare il proporre più che l’imporre; indicare le mete da raggiungere, piuttosto che i baratri da evitare; favorire le sinergie, invece che contrapporre ideologia a ideologia. E soprattutto deve saper articolare e illustrare le sue ragioni.
L’arsenale argomentativo della bioetica ― ovvero, le sue ragioni ― si presenta organizzato intorno a due poli, rappresentati rispettivamente dalla storia e dalla filosofia. Il libro è costruito sull’opzione di privilegiare la ragione dialogica, alla cui luce le questioni di fondo che la bioetica pone alla nostra società possono diventare un’opportunità per ampliare i confini della nostra coscienza, individuale e comunitaria.
1 W.H.S. Jones, Hippocrates, London 1923, 1, 291-297.
2 L. Edelstein, The Hippocratic Oath: Test, Translation and Interpretation, in The Bull. of the History of Medicine, Suppl. 1, Baltimore 1948; ID., The Professional Ethics of the Greek Physician, in O. Temkin (ed.), Ancient Medicine, Selected Papers of Ludwing Edelstein, Baltimore 1967,319-348. Sigerist, il fondatore della moderna storia della medicina, si è occupato a più riprese del giuramento e dell’ethos ippocratico. Segnaliamo i riferimenti principali: H.E. Sigerist, Grosse Aerzte. Eine Geschichte der Heilkunde in Lebensbildern, München 1923; Id., “On Hippocrates”, in Bullettin of the Inst. of Medicine 2 (1934) 190-214, ripreso nella raccolta On the History of Medicine, N. York 1960, 97-119; Id, Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954. La trattazione più completa è quella che Sigerist riserva a Ippocrate nella monumentale storia della medicina, progettata in otto volumi, ma che la morte gli impedì di portare a termine: A History of Medicine, vol. II: Early Greek, Hindu and Persian Medicine, N.Y. 1961.
3 Tradizionalmente l’ethos medico espresso dal giuramento è individuato nella difesa della vita o della salute. «Come lo sportivo di Maratona aveva il dovere di portare e difendere la fiamma olimpica, così il medico ippocratico ha il dovere di difendere la fiamma della vita. Se anche nella casistica terapeutica Ippocrate non è aggiornato, sui principi necessari, oggi come allora, egli è di un’attualità morale sorprendente e imprescindibile: medico vuol dire sacerdote della vita; ad altri, se occorre, il compito, a volte il dovere di limitare la vita. A noi quello di facilitarla, di difenderla e di salvarla»: L. Gedda, Il giuramento di Ippocrate oggi, Roma 1954, p. 19.
4 W.H.S. Jones, The Doctor’s Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924. Vedi anche l’introduzione alle opere di Ippocrate, cit. n. 1.
5 H.E. Sigerist, A History of Medicine, cit. p. 303.
6 Cfr. L. Edelstein, The Hippocratic Oath, cit.
7 Cfr. Gregorio di Naz., PG. XXXV, col 767A: Girolamo, Epist. 52,15 PL XII, col. 539.
8 Vedi specialmente H.E. Sigerist, On Hippocrates, cit.
9 Per il medico che arrivava come straniero il modo migliore per guadagnare la fiducia era di fare una prognosi corretta. Ciò rende ragione, secondo Edelstein, della posizione centrale che ha la prognosi nella medicina ippocratica.
10 Seguiamo soprattutto il saggio di L. Edelstein, The Professional Ethics of Greek Physician, cit.
11 Una visione d’insieme, basata sull’analisi di un certo numero di trattati composti dal V al XII sec., nel saggio di L.C. Mac Kinney, Medical Ethics and etiquette in the early Middle Ages: The persistance of hippocratic ideals, in C.R. Bums a cura di, Legacies in ethics and medicine, New York 1977, 173-203.
12 Cfr. i risultati del colloquio di Strasburgo, tenuto nell’ottobre 1972: La collection hippocratique et son rôle dans l'histoire de la médecine, Leiden 1975. La stessa attenzione è presente in W.D. Smith, The Hippocratic Tradition, Ithaca-London 1979.
13 Il giuramento modificato in senso cristiano è riprodotto in tre codici. Due di essi ― l’Urbinate 64 della Bibl. Vaticana e l’Ambrosiano B113 ― dispongono il testo in modo che ne risulti una croce. La cristianizzazione del giuramento di Ippocrate risulta così anche graficamente. Queste versioni del giuramento sono state pubblicate per la prima volta da W.H.S. Jones, The Doctor’s Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924.
14 Per riferimenti più dettagliati, cfr. D. Konold, “Codes of medical ethics”, in Encyclopedia of Bioethics, N. York 1978, 1, 162-171.
15 Gravitz (a cura di), Hippokrates. Gedanken ärztlicher Ethik aus dem Corpus Hippocraticum, Prag 1942.
16 La discussione sul ruolo giocato dalle organizzazioni professionali dei medici nel realizzare la politica sanitaria del Terzo Reich comincia solo oggi, dopo un silenzio di parecchi decenni. Il “Gesundheitstag” tenutosi a Berlino nel maggio 1980 ha scelto, per la prima volta, come tema di discussione il rapporto tra medicina e nazionalsocialismo. Un’attenzione particolare è andata all’etica professionale come ideologia vincolante che ha messo i medici a servizio del regime. Cfr. gli atti dell’assemblea: G. Baader e V. Shultz (a cura di), Medizin und Nationalsozialismus. Tabuisierte Vergangenheit-Ungebrochene Tradition? Berlin 1980.
17 E. Luther e B. Thaler (a cura di), Das hippokratische Ethos. Untersuchungen an Ethos und Praxis in deutschen Aerztenschaft, Halle (Saale) 1967.
18 L. Edelstein, The Professional Ethics, cit. Nella nota 43 adduce abbondante materiale a sostegno della tesi.
19 E. Luther e B. Thaler, cit. p. 156.
20 H.E. Sigerist, Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954.
21 Almeno per quanto riguarda il cittadino comune... Molière coglie in modo fulminante i diversi esiti della disparità sociale quando fa esprimere al farmacista i progetti circa l’avvenire professionale del figlio, che studia medicina. Argan, il malato immaginario, gli chiede se non pensa di procurare al figlio una carica di medico a corte. «Il nostro mestiere presso i grandi — risponde l’avveduto padre — non è mai sembrato gradevole; ho sempre trovato che è meglio per noi rimanere col popolo. Il popolo è di facile contentatura. Non avete da rispondere delle vostre azioni a nessuno [...] Il fastidio tra i grandi è che, quando si ammalano, vogliono assolutamente che il medico li guarisca»: da Il malato immaginario, atto II, scena VI.
22 Cfr. Corriere medico, 22-23 novembre 1988.
23 Per la ricostruzione della vicenda giudiziaria e del suo significativo nella cultura italiana nell’ambito dei rapporti medico-paziente, si veda A. Santosuosso (a cura di), Il consenso informato, Cortina, Milano 1996.
24 I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1975, pp. 141-9.
25 La ricostruzione più completa della storia del principio dell’autonomia del paziente nella giurisprudenza e nella pratica della medicina è quella di R. Faden, T. Beauchamp, A history and theory of informed consent, Oxford University Press, New York 1986.
26 Cfr. E.L. McLoskey, The Patient Self-determination Act, in Kennedy Institute of Ethics Journal, 1, 1991, pp. 163-9.
27 Cfr. O. Corli (a cura di), Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia, Città Nuova, Roma 1988.
28 N. King, L.R. Churchill, A.W. Cross, The physician as captain of the ship: A criticali reappraisal, Reidel Pub. Comp., Dordrecht 1988.
29 E.D. Pellegrino, D.C. Thomasma, Per il bene del paziente. Tradizione e innovazione nell'etica medica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1992.
30 The New England Journal of Medicine, 21 luglio 1988, pp. 171-173.
31 E. Haavi Morrein, “Cost containment: Issues of moral conflict and justice for physicians”, in Theorethical Medicine, 6 (1985), 257-279.
32 Albert R. Jonsen, Introduzione a George J. Agich e Charles E. Begley (a cura di), The Price of Health, D. Reidel Publ. Comp., Dordrecht 1986.
33 Sul concetto di professioni liberali e sulla dinamica sociale che presuppongono, vedi Willem Tousjin (a cura di), Sociologia delle professioni, Il Mulino, Bologna 1979.
34 Warren Reich (a cura di), Encyclopedia of Bioethics, The Free Press, New York 1978. Le voci attinenti alla problematica in questione sono: “Rationing of medical treatment”, pp. 1414-1419; “Justice”, pp. 802-811; “Future generations, Obligations to”, pp. 507-512; “Environmental Ethics”, pp. 379-399.
35 Cfr. Nancy King, Larry R. Churcill, Alan W. Cross, The Physician as captain of the ship: A critical reappraisal, Reidel Pubi. Comp., Dordrecht 1988.
36 Un’analisi accurata delle ripercussioni del Drg sul rapporto tra medico e paziente è stata fatta da E. Haavi Morrein, “The MD and the Drg”, in Hastings Center Report, giugno 1985, pp. 30-38. Si veda anche: Robert M. Veatch, “Drgs and the ethical reallocation of resources”, in Hastings Center Report, giugno 1986, pp. 32-40.
37 Cfr. Jay Katz, The silent world of doctor and patient, The Free Press, New York 1984.
38 E.H. Morrein, cit. n. 7.
39 Ci riferiamo soprattutto alla ricerca curata dal CENSIS: La domanda di salute in Italia. Comportamenti e valori dei pazienti degli anni ‘80, F. Angeli, Milano 1989. A un decennio di distanza, gli orientamenti degli italiani nei confronti della salute sono stati verificati da un’altra ricerca, sempre condotta dal CENSIS: La domanda di salute degli anni Novanta. Comportamenti e valori dei pazienti italiani, F. Angeli, Milano, 1988. La rivisitazione della domanda ha evidenziato la crescita di atteggiamenti di non compliance e sostanzialmente ambigui: i pazienti sono sempre più informati e tendono a negoziare spazi di autogestione per la propria salute; tuttavia in presenza di malattie gravi si affidano in modo pressoché completo alla capacità curativa e riabilitativa dei “tecnici”.
40 Per le trasformazioni della famiglia nel nostro Paese, cfr. Pierpaolo Donati (a cura di), Primo rapporto sulla famiglia in Italia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989.
41 Cfr. Aa.Vv., Nascere, amare, morire. Etica della vita e famiglia, oggi, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1989.
42 Larry R. Churchill, Rationing Health Care in America: Perceptions and principles of justice, Notre Dame, Ind., Univ. of Notre Dame Press, 1989.
43 Cfr. Pierpaolo Donati, Equità generazionale: un nuovo confronto sulla qualità familiare, in Aa.Vv., Secondo rapporto sulla famiglia in Italia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991.
44 Ampia documentazione sul dibattito intorno al Comitato nazionale per la bioetica e alla sua composizione si può trovare nella rivista Bioetica, n. 1, 1995.
45 Bompiani A., “La convenzione europea dei diritti dell’uomo e la biomedicina: un commento”, in L’Arco di Giano, n. 16, 1998.
46 Personalmente continuo a ritenere che in italiano si dovrebbe evitare l’espressione “comitati etici”, a favore di “comitati di etica” o “per l’etica”. La qualità etica di un comitato di etica più che una cosa scontata — come la locuzione “comitato etico” sembra insinuare — è piuttosto un’esigenza che è opportuno verificare costantemente. Detto in altre parole, alcuni comitati di etica destano l’impressione di essere concepiti e di funzionare in maniera disonesta, e quindi di essere “non etici”. Ciò può avvenire quando il comitato è composto in maniera tale che può solo legittimare le istituzioni che lo promuovono e non ha alcuna possibilità di controllo o di critica. Un’altra figura che rende molto problematica l’eticità di un comitato di etica è quella dell’“incesto istituzionale”, intendendo con questa espressione la partecipazione di ufficio al comitato delle figure che svolgono funzioni “genitoriali” nell’istituzione. L’indipendenza e la libertà di espressione di un comitato è una conditio sine qua non per poter parlare della sua correttezza o eticità.
47 I lavori del simposio sono riportati nel volume: AA. VV., I comitati di etica in ospedale, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988.
48 Anche gli atti di tale simposio sono disponibili in stampa, nella rivista Sanare infirmos, 2, 1987.
49 Il documento è riportato in appendice al volume di C. Vella, P. Quattrocchi, A. Bompiani, Dalla bioetica ai comitati etici, Ancora, Milano 1988, pp. 189-92.
50 L’esperienza del San Raffaele è ampiamente riportata nel volume di Vella, Quattrocchi, Bompiani, Dalla bioetica ai comitati etici, cit.
51 Le vicende della nascita dell’Encyclopedia of Bioethics sono raccontate da Warren Reich nel volume di C. Viafora (a cura di), Vent’anni di bioetica, Fondazione Lanza ― Libreria Gregoriana Editrice, Padova 1990, pp. 129 ss. Per l’accezione originale del termine bioetica, cfr. B. Chiarelli, E. Gadler, Nota storica. Van Rensslaer Potter e la nascita della bioetica, in Problemi di bioetica, n. 5 1989, pp. 61-3.
52 Gli interventi di Pio XII, costituiti da una nutrita serie di discorsi e allocuzioni a medici e scienziati, sono raccolti nel volume di F. Angelini (a cura di), Pio XII: discorsi ai medici, Orizzonte Medico, Roma 1963.
53 L. Walters, La religione e la rinascita dell’etica medica negli Stati Uniti: 1965-1975, in E.E. Shelp (a cura di), Teologia e bioetica, Dehoniane, Bologna 1989, pp. 37-57.
54 Di qui l’altra designazione di questo ambito disciplinare come “medicina pastorale”. Un manuale con questo titolo, pubblicato dal tedesco Albert Niedermayer, tradotto in italiano (Compendio di medicina pastorale, Marietti, Torino 1955) può essere assunto come punto di riferimento per ricostruire i contenuti e il metodo di questo tipo di incontro tra pratica della medicina e riflessione morale, che ha continuato ad essere coltivato in Italia fino all’irruzione della bioetica americana.
55 S. Toulmin, How Medicine Saved the Life of Ethics, in Perspective in Biology and Medicine, 25, 1982, pp.736-50. Sul tema della riabilitazione della filosofia morale pratica, cfr. E. Berti (a cura di), Tradizione e attualità della filosofi pratica, Marietti, Genova 1988.
56 Cfr. L. B. Hoffmaster, B. Freedman, G. Fraser (a cura di), Clinical Ethics: Theory and Practice, Humana Press, Clifton, N.Y. 1989; A.R. Jonsen, M. Siegler, W.J. Winslade, Clinical Ethics, Macmillan Publ. Company, New York 1986; G.C. Graber, D.Beasley, J. A. Eaddy, Ethical Analysis of Clinical Medicine, Urban and Schwarzenberg, Baltimore 1985. In questo ambito va collocato il revival della casistica, rivalutata come procedimento di autentica filosofia morale, dopo il discredito in cui era stata gettata da Pascal in poi: cfr. A.R. Jonsen, S. Toulmin, The Abuse of Casuistry, University of California Press, Berkeley 1988.
57 B. Freedman, A Meta-Ethics of Professional Morality, in Ethics, 89,1978, pp. 1-19; M.W. Martin, Right and Meta-Ethics of Professional Morality in Ethics, 91, 1981, pp. 619-25; Freedman, What Really Makes Professional Morality Different: Response to Martin, in Ethics, 91, 1981, pp. 626-30.
58 Cfr. J.A. Roth, Professionalism. The Sociologist’s Decoy, in Sociology of Work and Occupations, 1,1974; trad. it. in G.H Prandstraller (a cura di), Sociologia delle professioni, Città Nuova, Roma 1980.
59 Cfr. W. Tousijn, Medicina e professioni sanitarie: ascesa e declino della dominanza medica, in Tousijn, Le libere professioni in Italia, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 169-201.
60 Cfr., in senso esemplare, il saggio di A. Febbraio, Struttura e funzioni delle deontologie professionali, in Tousijn, Le libere professioni in Italia, cit., pp. 55-86.
61 R.C. Fox, Training for Uncertainty, Harvard University Press, Cambridge Mass 1957.
62 Cfr. id., The Autopsy. Its Place in the Attitude — Learning of Second-Year Medical Students, in Essays in Medical Sociology: Journeys into the Field, Wiley Publ., New York 1979, pp. 51-77.
63 Cfr. S. Spinsanti (a cura), Documenti di deontologia ed etica-medica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1985.
64 Cfr. G. Guerra, La medicina come istituzione e il suo sapere, in S. Spinsanti (a cura di), Bioetica e antropologia medica, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1991, pp. 83-97. Su tutta la problematica psicosociale delle istituzioni, cfr. R Menzies, The Functioning of Social System as a Defence against Anxiety, Tavislock Institute, London 1970.
65 Centum Aphorismi medico-politici di Alexandri Knips Macoppe, volgarizzati da Tito Berti, Casamassima, 1991, pp. 37 ss.
66 D. Gracia Guillén, Procedimentos de decisión en ética clínica, Eudema Universidad, Madrid 1991.
67 Per questo schema di giustificazione dei giudizi etici ci riferiamo al metodo proposto da T. Beauchamp, L. Walters, Contemporary Issues in Bioethics, Wadsworth, 1982.
68 Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research, Belmont Report, Washington 1978.
69 S. Toulmin, The Tyranny of Principles, in Hastings Center Report, 11 n. 6, 1981, pp. 31-5.
70 Il termine inglese di beneficence è stato tradotto in italiano da alcuni studiosi con “beneficenza”. Il risultato della trasposizione è francamente inaccettabile: se si legge, ad esempio, che il medico nel rapporto con il malato si deve ispirare alla beneficenza, come non pensare ― nella nostra tradizione linguistica — ad azioni caritatevoli e alle istituzioni di beneficenza? Il termine “beneficità”, pur senza essere linguisticamente irreprensibile, dà meno adito a ridicoli malintesi.
71 M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948.
72 R. Gillon, Medical ethics: Four principles plus attention to scope, in British Medical Journal, 309, 1994, pp. 184-188.
73 D. Gracia, Fondamenti di Bioetica. Sviluppo storico e metodo, ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 1993.
74 D. Gracia, Primum non nocere. El principio de no-maleficencia corno fundamento de la ética médica, Reai Academia de Medicina, Madrid 1990.
75 W. Reich, Care. Contemporary ethics of care, in Encyclopedia of Bioethics, 2“ ediz. riveduta, Macmillan — Free press, New York, 1995.
76 W. Reich, Alle origini dell’etica medica: Mito di contratto o mito di cura?, in Cattorini P. e Mordacci R. (a cura di), Modelli di medicina. Crisi e attualità dell’idea di professione, Europa Scienze Umane ed., Milano, 1993.
77 I.T. Ramsey, Models and Mystery, Londra 1964. È utile il riferimento anche ad altre opere di Ramsey, più specificamente teologiche, in cui è sottolineato il ruolo del modello nel linguaggio religioso; per es., Religious Language, an Empirical Placing of Theological Phrases, Nuova York 1963. Si occupa dei modello dal punto di vista linguistico anche M. Black, Models and Metaphors: Studies in Language and Philosophy, Ithaca 1968.
78 I.T. Ramsey, Models and Mystery, p. 61.
79 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it. Torino 1964, p. 82.
80 Ci rifacciamo alla revisione del pensiero di Wittgenstein attuata di recente da alcuni studiosi delle sue opere più attenti e più problematici. Cfr. A. Janik - S. Toulmin, Wittgenstein's Vienna, Londra 1973. In Italia questa rilettura di Wittgenstein è stata divulgata soprattutto da Dario Antiseri in numerosi scritti.
81 Cfr. W.W. Bartley, Wittgenstein maestro di scuola elementare, Armando, Roma 1974.
82 P. Engelmann, Lettere di Ludwing Wittgenstein con Ricordi, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 107.
83 M. Scheler, Vorbilder und Führer, in Schriften aus dem Nachlass, t.I., Berlino 1933, p. 27.
84 Ibidem.
85 Cfr. M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1916.
86 H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Parigi 1932, pp. 29-30.
87 Cfr. H. Weinrich, Teologia narrativa, in Concilium IX (1973, n. 5) pp. 66-79; J.B. Metz, Teologia come biografia. Una tesi e un paradigma, in Concilium XII (1976 n. 5) pp. 76-87.
88 J.B. Metz, Breve apologia del narrare, in Concilium IX (1973, n. 5) p. 88.
89 R. Guardini, Libertà, grazia, destino, Morcelliana, Brescia 1968, p. 7.
90 Herrlichkeit è stata pubblicata in Italiano a cura di G. Ruggieri, dalla editrice Jaca Book.
91 Alcuni teologi statunitensi, muovendo da posizioni etiche centrate sul “carattere” individuale e sul suo influsso sulla comunità hanno portato contributi originali a quella che potremmo chiamare la “teologia della vita”. Ci riferiamo soprattutto alla scuola di H.Richard Niebuhr. Le opere più significative sono quelle di J. Guastafson, Christian Ethics and the Community, Philadelphia 1971; S. Hauerwas, Character and the Christian Life: A Study in Theological Ethics, San Antonio 1974; e soprattutto J.W. MC Clendon, Biography as Theology: How Life Stories can Remake Today’s Theology, Nuova York 1974, che abbiamo seguito più da vicino.
92 S. Spinsanti, La bioetica. Biografie per una disciplina, Franco Angeli, Milano 1995. Anche M. Ventura ha avviato un progetto di “approccio narrativo” alla bioetica: cfr. Religion, société et bioéthique. Jalons pour une recherce critique, in Journal international de bioétique, 1998, n. 1-2, pp. 13-20.
93 J. Piaget, Il giudizio morale nel fanciullo, Giunti, Firenze 1972.
94 Charles Hampden Turner, The Radical Man, Cambridge (Mass.) 1970.
95 M. Rokeach, The Open and the Closed Mind, New York 1960. Il dogmatismo per Rokeach compare sotto forma di «totalità cognitiva di idee e rappresentazioni, che sono organizzati in sistemi relativamente chiusi».
96 G. Davanzo, Obiezione di coscienza, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, ed. Paoline, Roma 1973, pp. 676-681.
97 A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio, Roma 1971. Tutto il libro, costruito sulle esperienze e i momenti più sani nella vita della gente comune, vuol dimostrare che gli esseri umani possono essere nobili e creativi, che sono capaci di seguire i valori e le aspirazioni più elevate.
98 I.T. Ramsey, Il linguaggio religioso, Il Mulino, Bologna 1970; specialmente pp. 17-76.
99 F. D’Agostino, Diritto, in L’Arco di Giano, 1, 1993, p. 51.
100 Sciences de la vie: de l’éthique au droit (Étude du Conseil d’État), in La Documentation française, n. 4855, 1988.
101 A. Bompiani. Bioetica in Italia. Lineamenti e tendenze, Ed. Dehoniane, Bologna 1992.
102 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.
103 J. Rifkin, Guerre del tempo. Il moto dell’efficienza e del progresso e lo sconvolgimento dei ritmi naturali, Bompiani, Milano 1989: «La cultura dell’orologio e la cultura temporale del calcolatore spostano i canoni etici dal passato al futuro e dalla limitazione alla inesauribilità delle risorse. Prima dell’epoca moderna, ogni etica solitamente imponeva un divieto. Durante l’era industriale, il codice etico è mutato nell’imperativo della produttività. L’etica del nuovo mondo del calcolatore richiede creatività» (p. 164). Secondo Rifkin, con i programmi dei calcolatori siamo passati da una stretta partecipazione ai ritmi della natura all’isolamento pressoché totale dai ritmi della terra: la società comincia a misurarsi con il futuro in modo completamente nuovo. Ciò non diminuisce, anzi accresce la nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future.
104 M. Buber, Il principio dialogico, Comunità, Milano 1958.
105 Sul movimento transpersonale comincia già ad esistere una seria letteratura di riferimento anche in italiano. In particolare, cfr. K. Wilber, Oltre i confini. La dimensione transpersonale in psicologia, Cittadella, Assisi 1985; S. Grof, Oltre il cervello. L’esplorazione transpersonale delle possibilità della coscienza umana, Cittadella, Assisi 1988.
106 T. Mann, I Buddenbrook, trad. it. a cura di M. C. Minelli, Newton Compton, Roma 1992.
107 Cfr. AA.VV., In cammino oltre il senso di colpa, Cittadella Assisi 1984; in particolare L. Boggio Gilot, Il senso di colpa in prospettiva transpersonale, pp. 34-43.
108 R Teilhard De Chardin, Le milieu divin, Seuil, Parigi 1957, in particolare il capitolo dedicato alla “divinizzazione delle passività”, pp. 71-80, dove le “passività” formano la metà dell’esistenza umana, in quanto noi subiamo la vita in misura analoga, se non di più, di quanto subiamo la morte.