Legge, deontologia ed etica

Book Cover: Legge, deontologia ed etica
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

Legge, deontologia ed etica: il gioco delle regole nell’ambito della procreazione medicalmente assistita

in Legalità e Giustizia

n. 1-2, 1999, pp. 6-16

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LEGGE, DEONTOLOGIA ED ETICA: IL GIOCO DELLE REGOLE

NELL’AMBITO DELLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA

1. L’orizzonte culturale delle nuove pratiche procreative

Lo scandalo ci sarebbe, anche senza quel gran soffiare sul fuoco a opera dei mass media e la pubblicità clamorosa che talvolta vien fatta ai protagonisti. Uno scandalo giustificato: quello che sta avvenendo nell’ambito della procreazione non ha antecedenti nella storia dell'umanità. La tecnologia applicata alla medicina sconvolge il nostro modo abituale di pensare la maternità-paternità e la figliolanza. Intorno alla procreazione le società hanno posto delle regole morali e delle norme giuridiche, che costituiscono come una griglia che protegge dagli abusi e dalla licenza la delicata funzione di trasmettere la vita. Le cose non sono sempre andate nel migliore dei modi: adultèri, procreazioni illegittime, disconoscimento dei figli sono storie vecchie quanto la memoria dell’umanità; ma nell’insieme ci si poteva accontentare.

Le barriere che ai nostri giorni vengono infrante non sono più soltanto quelle del diritto e della morale, bensì quelle che sembravano più inamovibili, perché poste dalla biologia stessa. Per fare un figlio era pur sempre necessario un rapporto sessuale tra uomo e donna, per quanto clandestino e irregolare potesse essere. Oggi non è più così. Il legame tra sessualità, corpo e riproduzione si è sciolto. Inseminazione artificiale, fecondazione in vitro, dono del seme o dell'ovulo, trapianto degli embrioni, locazione dell’utero, inseminazione post mortem; le «vicende dell’amore e del caso», che erano il tradizionale bersaglio delle farse sul matrimonio, impallidiscono di fronte a ciò che i metodi di procreazione artificiale hanno reso possibile.

E pazienza se si trattasse solo di farse o di rebus per i giuristi (di chi è figlio il bambino concepito in provetta con l’ovulo di una donna, impiantato nell’utero di un’altra donna portatrice e partorito da questa, per essere consegnato alla committente?). Talvolta purtroppo le commedie sfociano in drammi. Succede, infatti, che il bambino, concepito per inseminazione artificiale ricorrendo al seme di un donatore anonimo, col consenso del marito, venga successivamente disconosciuto come proprio figlio da quest’ultimo: il bambino può venirsi a trovare nella situazione di non avere né un genitore maschile né uno femminile. È successo in alcuni casi che il bambino,

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«commissionato» a una donna locatrice del proprio utero, sia nato malformato, e per questo è stato rifiutato tanto dai committenti, quanto da colei che lo aveva generato. In casi più benevoli il neonato è stato conteso dalla committente e dalla madre per procura, convertitasi alla maternità durante la gravidanza. Quanto basta, insomma, per convincere della necessità di intervenire con misure legislative in un campo così nuovo, soprattutto per tutelare i bambini procreati con i metodi artificiali.

Trovare leggi giuste e sagge è certamente un’urgenza del momento. Ancor più importante appare però l’inizio di una valutazione morale serena delle tecnologie applicate alla riproduzione. Proprio qui incontriamo invece le maggiori difficoltà. Quello che tende a prevalere è un giudizio emotivo, agitato da più o meno espliciti fantasmi. Giustificate o no che siano le preoccupazioni degli umanisti che si interrogano sul futuro, questa angolatura rischia di travisare irrimediabilmente le procedure di procreazione artificiale. La loro demonizzazione, in nome del fantasma del totalitarismo tecnologico, risulta irritante per coloro che sono coinvolti in queste pratiche. Le quali vogliono essere essenzialmente una risposta all’infertilità.

Questa prospettiva getta un’altra luce sull’insieme delle procedure in questione. Bisogna tentare innanzi tutto di immaginare la portata di una sofferenza legata all’assenza di un bambino, quando è ardentemente desiderato. Per rimediare a questa tragica incapacità di generare, ci sono uomini e donne disposti a tutto. E questa non è solo una caratteristica dei nostri contemporanei. Viene spontaneo ricordare le mogli dei patriarchi biblici. Sara, sterile, ordina ad Abramo di darle un figlio unendosi alla propria schiava Agar: «Vedi, il Signore mi ha impedito di dare alla luce dei figli; và, ti prego, dalla mia serva; forse potrò avere prole da lei» (Gen. 16,1). Dopo due generazioni, la stessa strategia è ripetuta da Rachele. Il dramma intimo della sterilità è per lei ancora più drammatico: «Dammi dei figli ― dice a Giacobbe ― altrimenti ne morirò». E anche lei propone al marito: «Ecco la mia serva Bilha: unisciti a lei; essa partorirà sulle mie ginocchia e io pure avrò figli per mezzo di lei» (Gen. 30,1-3).

La sofferenza spirituale per l’impossibilità di avere un figlio è dunque la stessa, oggi come ieri. Con in più, per gli uomini e le donne del nostro tempo, il rifiuto della frustrazione dei propri desideri e l’abolizione della parola «rassegnazione» dal vocabolario. Per chi vuole un figlio a ogni costo, non c’è prezzo che lo trattenga. C’è chi paga un prezzo in lunghi ed estenuanti esami medici, peregrinazioni presso gli specialisti del mondo intero, interventi invasivi ripetuti. E c’è chi è disposto a pagare un prezzo in denaro.

L’aspetto economico di certe maternità per procura è in sé un elemento secondario, che però suscita grande sensazione e rischia di monopolizzare tutto il discorso. L’opinione pubblica è rimasta molto scossa dalla notizia

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che ci sono uomini che offrono il loro seme per l’inseminazione artificiale dietro compenso; e ancor più che delle donne si lasciano fecondare per conto di una donna sterile e si fanno pagare per portare il bambino fino alla nascita. L’immagine della maternità diventata una merce provoca uno shock: la concezione sacrale di una madre, che fa parte del nostro retaggio culturale, viene brutalmente modificata. In un mondo dove tutto si compra e si vende, si vorrebbe che almeno la generazione dei figli rimanesse immune dal denaro. L’assunto implicito è che tutto ciò che dipende da rapporti di denaro sia corrotto, mentre la relazione gratuita fa cadere le obiezioni.

L’atteggiamento del rifiuto del denaro, in particolare per remunerare la madre sostituta, ha indubbiamente una parte di verità istintiva. È doveroso però ascoltare le contro-argomentazioni dei fautori della maternità per delega. I quali rifiutano l’etichetta svalutante di «uteri in affitto» affibbiato alle donne che accettano di portare un bambino per conto di una donna che non può farlo (per mancanza di utero, per esempio). In realtà, non si può parlare né di affitto, né di prestito. Si tratta di una donna che si separa per sempre da un bambino che ha portato, con cui ha scambiato delle informazioni biologiche e tessuto dei legami, che ha vissuto in lei e ha risposto alle sue sollecitazioni. È una donna che si autorizza ad avere una gravidanza, una gestazione e un parto, senza accettare di essere madre dopo il parto. Questo, e non tanto il denaro che eventualmente entra nella transazione, è il cuore del problema.

Finora la maternità era un tutto composto di alcuni elementi concatenati: produrre un ovulo, essere fecondata, portare il feto per nove mesi della gestazione e partorirlo, allevare il bambino. Ora è possibile scindere la sequenza che tradizionalmente costituiva il «fare un figlio». Donne diverse possono intervenire in ciascuna delle fasi; l’aspetto biologico si scinde da quello volitivo-affettivo-spirituale. È questa la vera posta in gioco, che modifica il modo abituale di concepire la maternità. Su questo tema dovremmo essere chiamati a confrontarci e a decidere se far entrare questa prassi nei nostri costumi, senza lasciarci troppo suggestionare dal ruolo, tutto sommato secondario, che può giocarvi il denaro.

Ma prima di dibattere sull’opportunità di far entrare il denaro nella procreazione, dovremmo avere chiare le conseguenze, a breve e a lunga scadenza, del primato dato alla generazione attraverso il cuore e lo spirito. Le maternità sostitutive dietro pagamento non fanno che rendere più esplicito un fenomeno che è già ampiamente presente nella nostra società: la disponibilità di alcune persone a passare sopra alla paternità-maternità biologiche, a favore di quella adottiva, educativa, affettiva. È un atteggiamento al quale viene attribuito un carattere di nobiltà, quando si esprime attraverso l’adozione, oppure di turpitudine, quando ricorre all’acquisto illegale di un bambino da rendere proprio figlio.

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La compravendita dei neonati è un fenomeno sommerso, ma tutt’altro che raro. Diminuite o rese più difficili giuridicamente le possibilità di adozione, la volontà di avere un figlio a ogni costo non recede neppure di fronte a pratiche condannate dalla legge e dalla sensibilità morale comune. La società, chiamata a decidere se dare o no diritto legale di cittadinanza alle nuove tecnologie riproduttive, si trova confrontata in primo luogo non con l’avidità e il cinismo dei mercanti, ma con il desiderio esasperato di maternità-paternità, disposto ad ignorare i legami che una volta si dicevano della carne e del sangue e che oggi si chiamano genetici, a favore dei legami del cuore.

Che la generazione spirituale sia possibile lo dimostrano gli innumerevoli casi di adozione felicemente riuscita. E non saranno certo i paesi di tradizione culturale cristiana a dimenticarlo: il cristianesimo, infatti, ha proposto con la «Sacra Famiglia» la più clamorosa trasgressione alla concezione biologica della generazione! Le nuove pratiche ci inducono a riflettere più profondamente sull’adozione che è implicita in ogni processo generativo. Intanto perché un padre e una madre che mettono in comune un patrimonio cromosomico per avere un figlio non ottengono mai un bambino come copia identica di sé stessi, ma il risultato di una roulette genetica. Questo bambino in parte simile e in parte diverso — a cominciare dal sesso, che è anch’esso parte di questo gioco delle probabilità ―, dovranno poi in qualche modo «adottarlo», perché diventi figlio proprio. Ma affinché la generazione riesca e sia completa, l'«adozione» è necessaria anche dall’altra parte. Il figlio, che non ha scelto i propri genitori, dovrà «adottarli»: e perché questo avvenga, i genitori dovranno dimostrarsene degni.

Questa dimensione affettiva e spirituale fa parte integrante del processo della trasmissione della vita umana. La separazione del processo biologico da quello relazionale, resa possibile dalle nuove tecnologia, ci aiuta a ricordarlo. Ma, in quanto umanità, siamo così evoluti da poter impunemente sganciare la generazione spirituale da quella biologica? Siamo talmente «Figli del Regno» da poter considerare nostri padri-madri-fratelli-sorelle coloro che fanno la volontà di Dio, piuttosto che quella con cui dividiamo una manciata di cromosomi? La litigiosità meschina tra genitori che, stando alle cronache, si sviluppa intorno ai bambini nati con l’aiuto della tecnologia ci avverte che questo traguardo spirituale l’umanità non l’ha ancora conseguito.

2. Controllo sociale e regolazione del desiderio procreativo

Mentre la crescita morale domanda tempo, affinché tutti gli aspetti umani di un problema emergano, ci sono situazioni in cui non si può rimandare l’azione. L’opinione pubblica è troppo allarmata dal diffondersi delle nuove pratiche di procreazione medicalmente assistita perché le autorità pubbliche possano

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rinunciare a intervenire con i mezzi che sono loro propri. Da quando le notizie di cronaca hanno cominciato a enfatizzare il vuoto normativo che rende possibile qualsiasi intervento ― è diventato uno dei luoghi comuni più ripetuti parlare del Far West della procreatica ― è andata crescendo la richiesta di un controllo sociale nell’ambito della procreazione che fa ricorso alle nuove tecnologie.

A un esame più accurato il controllo sociale invocato risulta meno univoco di quanto l’espressione stessa lascia intendere. Potremmo identificare due partiti: quello del punto interrogativo e il partito del punto esclamativo. Il punto interrogativo esprime l’atteggiamento di chi rifiuta «a priori» l’idea stessa di un controllo sociale nell’ambito della riproduzione. È la voce, ovviamente, di coloro che hanno già trovato un business di notevoli dimensioni nell’offerta di tali servizi medico-sanitari a una popolazione numericamente ridotta ma estremamente determinata nel perseguimento dei propri obiettivi. Ma è anche la voce di coloro che ritengono gli interventi di controllo sociale come illiberali, necessariamente contaminati da pregiudizi e viziati di moralismo, repressivi nei confronti di scelte individuali. L’opzione espressa da tale atteggiamento è a favore della scelta individuale e della non intrusione di istanze di controllo.

Come partito del punto esclamativo potremmo caratterizzare, invece, le richieste del segno opposto, che spingono verso un restringimento delle possibilità di intervento riproduttivo tecnologicamente assistito, regolate attualmente dal «mercato» della domanda e dell’offerta. Confluiscono in questo gruppo di pressione esponenti di posizioni morali fondamentaliste, così come reazioni emotive ai casi più trasgressivi rispetto alla moralità comune resi noti dai media (la madre-sorella per dono di ovocita, locazioni di utero con eventuali strascichi giudiziari per riconoscimento della maternità, donazioni di embrioni ecc.). Il punto esclamativo può essere simbolicamente assunto come richiesta di uno sbarramento posto autorevolmente al dilagare di pratiche ritenute moralmente aberranti.

Né punto interrogativo, né punto esclamativo, e tanto meno un punto fermo... Nel dibattito sociale un’alternativa, che può essere vista come un contributo positivo per uscire dall’impasse delle rigide posizioni a confronto, è costituita dall’opportuna distinzione tra controllo sociale e regolazione del desiderio di paternità/maternità che induce a far ricorso alle tecnologie di riproduzione. Per esprimere d’emblée una tesi: controllo e regolazione sono due diverse istanze che non vanno confuse, né utilizzata l’una al posto dell’altra. Sia il controllo sociale che la regolazione della riproduzione umana ― tanto di quella «naturale» come di quella medicalmente assistita ― sono necessari; il controllo e la regolazione hanno però una diversa logica e modalità di esercizio.

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Una certa regolazione del desiderio di paternità/maternità è collegata al bisogno di altri per procreare. Anche se si vuol assumere la famiglia legale come elemento culturalmente determinato e non insuperabile, rimane il fatto che il desiderio e la disponibilità di un’altra persona a procreare costituiscono un elemento di regolazione del desiderio individuale. Nei casi in cui bisogna far ricorso alla tecnologia, per una insufficienza riproduttiva, la soggettività del medico che mette a disposizione il suo sapere e il suo potere si aggiunge alla regolazione intersoggettiva dei procreanti. In altre parole, la volontà del medico di contribuire a una determinata procreazione, assistendola con i supporti tecnologici, costituisce un elemento di regolazione del desiderio procreativo di una persona o di una coppia.

Nel dibattito pubblico si tende a sorvolare su questo elemento di regolazione. C’è una diffidenza generalizzata verso la capacità di medici e ricercatori di intervenire come elemento attivo di regolazione, mediante una deontologia corretta e trasparente. Per lo più ci si appella a un controllo sociale di queste pratiche mediante un’adeguata legislazione, saltando il momento deontologico. Schiacciata tra la legge e l’etica, la deontologia stenta a trovare un suo ruolo costruttivo. Eppure basta considerare quale apporto una seria riflessione deontologica, quale quella condotta in Francia dal circuito delle équipes CECOS, ha fornito alla stessa ricerca di una legislazione equilibrata in quel Paese (tra le regole deontologiche stabilite dal CECOS, menzioniamo la richiesta del dono gratuito dello sperma nel caso di inseminazioni eterologhe, la condizione che il dono avvenga da parte di una coppia con figli, con l’esplicito consenso della moglie del donatore: tutte condizioni rivolte a elevare le motivazioni sia dei donatori che dei riceventi).

L’intervento del medico nell’ambito del desiderio soggettivo di un individuo o di una coppia è certamente un processo delicato. Potrebbe dare adito a prevaricazioni venate di paternalismo. Eppure non si deve rinunciare a rivendicare per il medico una «competenza» che non riguarda esclusivamente il piano della patologia della funzione riproduttiva e dell’eventuale risposta tecnologica. Se e in quanto questi interventi restano atti medici, richiedono una valutazione globale che deve tener presente le conseguenze psicologiche e sociali per tutti i protagonisti di questo tipo di riproduzione. Eventualmente la competenza medica potrà essere coadiuvata da quella di altre professionalità ― come psichiatri, psicologi, assistenti sociali ―, ma non evacuata di questa dimensione essenziale della professione del medico: l’essere cioè ordinata al bene del paziente (la bioetica americana parla a questo proposito del «principle of beneficence» come criterio di discernimento etico dell’azione medica).

Se la deontologia professionale perde questo delicato equilibrio e inclina dalla parte del controllo, perde la sua capacità di contribuire alla regolazione

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del desiderio di paternità/maternità. Il pericolo è ancora più grave per l’etica. Molti propendono per un’utilizzazione dell’etica come forma di controllo del desiderio, considerato minaccioso e sregolato in se stesso. Per salvare l’intrinseca vocazione dell’etica a operare con la modalità della regolazione, piuttosto che con quella del controllo, bisogna puntare decisamente sulla sua funzione di educazione del desiderio.

3. Per una pedagogia del giudizio etico

Il tempo delle incertezze, caratteristico di una società complessa come la nostra, può sviluppare delle singolari opportunità per la formazione del giudizio etico. L’ambito della riproduzione con l’ausilio delle tecniche bio-mediche si rivela singolarmente adatto a questo compito, proprio grazie alle sue novità, mentre su altri comportamenti grava il peso di una tradizione che si è confrontata con essi e ha eventualmente espresso un suo giudizio, di accettazione o di condanna.

La «formazione morale» è troppo spesso interpretata come la trasmissione di tali giudizi, ai quali i giovani sono invitati a uniformarsi, modellando il proprio comportamento di conseguenza. Ai nostri giorni, inoltre, bisogna registrare una collusione perversa tra questo tipo di formalismo morale e il linguaggio telematico, che costituisce l’ambiente culturale nel quale siamo immersi. Questo linguaggio è quello del 0-1, del «sì» e del «no», che esclude il «forse». È universalmente deprecato che oggi vengano formate persone che sanno usare le macchine, ma che non sanno pensare. Questa carenza è fatale in campo etico, perché la semplice osservanza delle regole morali, considerate come regole di procedimento, non basta a creare il comportamento moralmente buono.

L’educatore che abbia a cuore di sviluppare la capacità di passare da un giudizio a un ragionamento etico che lo fonda, potrà accogliere le opportunità che gli vengono offerte da un dibattito che affronti tematicamente la valutazione etica delle tecnologie riproduttive: è bene o è male, dal punto di vista morale, ricorrere alle risorse che la tecnologia mette al servizio della medicina per ottenere esiti di riproduzione così nuovi e così lontani dalle modalità naturali? Un primo passo consiste nell’analizzare se, dietro l’apparenza di un giudizio etico, non si debba in realtà riscontrare nient’altro che una presa di posizione emotiva, sorretta dalla propria Weltanschauung. Per lo più i diversi modelli antropologici veicolano indirettamente dei giudizi etici. Un obiettivo prioritario dell’educazione al giudizio morale è proprio quello di esplicitare e rendere consapevoli tali modelli.

Un elemento costitutivo della Weltanschauung è la «fede». La formazione deve aiutare a discernere in che maniera si coagula la fiducia fondamentale che orienta in profondità le attese della persona. Là dove la «fede» punta sulla scienza, questa viene considerata come l’unica risposta efficace a

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tutte le miserie umane. Da essa ci si aspetta che faccia continuamente indietreggiare la barriera dell’impossibile, mediante qualche nuovo «miracolo» della medicina. Anche sotto la diffidenza astiosa nei confronti dell’intrusione degli uomini di scienza nell’ambito di ciò che è «naturale» è possibile riconoscere una fede implicita. Talvolta è rivestita di un carattere di sacralità, in quanto è correlata con la volontà di Dio creatore. La natura nella sua dimensione biologica può allora apparire come limite che non si può valicare senza peccare di «hybris».

Un altro elemento che ha bisogno di chiarificazione è la funzione che viene implicitamente attribuita alle regole morali nell’ambito della tecnologia applicata alla riproduzione. Da esse ci si può aspettare che fungano da diga contro l’irrompere dell’arbitrario e l’agire irresponsabile; oppure che diano esse stesse impulsi positivi alla ricerca e alla sperimentazione, promuovendo l’opera di umanizzazione implicita nella scienza stessa.

La «facies» dell’etica cambia sostanzialmente, quando si attribuisce alle regole morali una finalità di contenimento, oppure di promozione dell’opera dello scienziato e del medico. Nel primo caso tenderà a prevalere un’impostazione casistica che vorrà entrare nei dettagli per porre freno con precisi dettati comportamentali ai veri o presunti straripamenti della scienza; nel secondo, l’accento cadrà di preferenza sui valori da promuovere, lasciando all’uomo di scienza l’autonomia e la responsabilità per le sue scelte comportamentali.

Giudizi etici impliciti si nascondono, oltre che nelle concezioni antropologiche ― la qualità umana dell’uomo, il suo rapporto con la natura, la funzione delle norme etiche per l’individuo e per la comunità ― anche nei termini con cui le nuove pratiche vengono designate. La semantica è un veicolo privilegiato di giudizi etici che si sottraggono al confronto di argomentazioni razionali. Tra tutti i termini con cui gli interventi bio-medici nella riproduzione vengono designati, «manipolazione» è quello più carico di connotazioni etiche negative. Se si chiamano manipolazioni questi interventi bio-medici nel campo della riproduzione, li si colora a priori con un sospetto di illiceità morale.

Al contrario, la designazione di «terapie dell’infertilità» riflette su tali pratiche l’aura di accettabilità morale riservata a tutto ciò che è finalizzato alla guarigione. La formalità terapeutica permette di considerare in una luce diversa taluni aspetti pratici dei procedimenti bio-medici. Così, ad esempio, alcuni moralisti cattolici si sentono giustificati a sospendere le loro riserve sulla modalità abituale di raccolta dello sperma considerando l’atto masturbatorio all’interno di un progetto globale, che lo connota in senso terapeutico, piuttosto che edonistico.

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Le pratiche finalizzate alla procreazione artificiale ― sottolineano con vigore i medici e i biologi che vi sono coinvolti — non sono arbitrarie manipolazioni della natura, bensì interventi terapeutici sotto forma di «aiuto alla natura». Per quanto stravaganti possano apparire al senso comune, gli interventi bio-medici vogliono essere essenzialmente una risposta all’infertilità. Quando si rivendicano per queste procedure la qualifica di «terapia dell’infertilità», implicitamente si richiede una loro valutazione etica positiva, quella stessa valutazione che accompagna le azioni finalizzate alla salute e al benessere.

In tal senso orienta anche la designazione di «procreazione assistita». Ma il beneficio della «terapia» può essere esteso a tutto l’arsenale oggi disponibile di tecnologie riproduttive? Qui si apre un campo importante per il discernimento etico. L’estensione della categoria di «terapia» a situazioni in cui prevale un desiderio a connotazioni psicopatologiche, o motivazioni futili, o addirittura confinanti con il capriccio, è abusiva. Lo sforzo per delimitare ciò che è terapeutico da ciò che non lo è si rivela un momento costitutivo della formazione di un giudizio etico.

Il fatto di considerare la sterilità una «malattia», e il rimedio all’infertilità un’opera terapeutica, solleva alcuni problemi dal punto di vista antropologico. Se la medicina si proponesse di rispondere a tutti i desideri e le convenienze della popolazione, le conseguenze sarebbero di enorme portata, tanto sul piano della politica sanitaria, quanto su quella della deontologia medica. Una medicina sociale dovrebbe rendere accessibili a tutti le costose pratiche della procreazione artificiale. Nella concezione liberale della sanità, invece, il medico, trasformato in prestatore di servizi, si troverebbe inevitabilmente preso nell’ingranaggio commerciale che regola la domanda e l’offerta, perdendo la facoltà di discernere tra le richieste, sulla base dell’orientamento dell’attività medica alla salute, come richiede una corretta deontologia professionale.

Una terza categoria generale, usata per riferirsi a questa vasta gamma di interventi bio-medici, è quella di «tecnologie riproduttive». Anche questa designazione veicola implicitamente un giudizio etico, e precisamente quello soggiacente alla nozione stessa di tecnologia. Nell’ambito culturale dell’Occidente, profondamente compenetrato dell’umanesimo greco della techne e della spiritualità biblica del «Dominate e soggiogate la terra», le azioni riconducibili alla tecnologia godono, a priori, di una considerazione positiva. In seno al cristianesimo ecclesiale, da questo punto di vista, non sono mai stati coltivati atteggiamenti sospettosi verso la scienza medica, come invece troviamo in alcuni gruppi settari.

La nozione filosofico-teologica di «natura» quale criterio etico («è buono ciò che è conforme alla natura e alla naturalità dell’atto») non ha escluso

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l’intervento correttivo sulla natura stessa. Oggi, tuttavia, la valenza etica positiva di ciò che è espressione di tecnologia si è incrinata. O piuttosto: siamo diventati più consapevoli dell’ambivalenza della tecnologia, che può anche rivolgersi contro l’uomo. L'homo faber, maggiorato in homo technologicus, sente più fortemente che la tentazione a «giocare a fare Dio» è carica di minacce per l’umanità. Il ricorso alla designazione di «tecnologie riproduttive» non consente di evitare un confronto con gli interrogativi etici, come se questi interventi fossero solo tecnologia applicata. Quando la tecnologia acquista un così grande potere, è la tecnologia in se stessa che diventa oggetto di riflessione etica.

L’analisi della terminologia è solo apparentemente un ambito di riflessione pre-etico. In realtà può costituire un laboratorio ideale per avvicinarsi all’etica considerandola non nei suoi aspetti prescrittivi e formali, ma sostanziali: il campo dei valori in cui la decisione operativa è chiamata a confrontarsi criticamente col modello antropologico che si persegue.

Soprattutto i problemi che sorgono nelle tecnologie applicate alla riproduzione si prestano a una verifica della concezione diffusa della morale. Questa viene spesso rappresentata come un corpo estraneo che non si amalgama col desiderio umano, ma lo frustra sistematicamente col divieto. Non possiamo escludere in modo assoluto che il discorso etico non abbia rappresentato talvolta un aspetto di questo genere; anzi, specialmente in ambito bio-medico, continua molto spesso a presentarlo.

Medici e ricercatori mostrano una comprensibile allergia verso l’etica concepita come un sapere dogmatico, precostituito, che viene elaborato in altra sede: la sede, appunto, dove le istituzioni totalitarie forgiano le loro credenze. Temono che la loro coscienza e il loro operato siano in qualche modo colonizzati da un’istanza esterna, unica accreditata a giudicare ciò che è bene e ciò che è male, morale e immorale, conforme o no alla natura umana. Ciò spiega, ad esempio, perché chi opera nel campo delle tecnologie riproduttive preferisca spesso fare appello all’aspetto tecnico piuttosto che a quello umano, e tenda a navigare lontano dagli insidiosi dibattiti sull’etica, appellandosi al pragmatismo. Medici e biologi temono che l’etica sia il cavallo di Troia che può introdurre nella cittadella della scienza la violenza dell’ideologia.

Quando si invoca l’etica nell’ambito delle tecnologie riproduttive, si alza in volo la paura che vengano dei «chierici» (ideologi e funzionari di partito, oppure teologi, progressisti o integristi che siano) a dire ai sanitari che cosa devono fare in questo o quel caso. Purtroppo l’etica e la morale sono sinonimi ― soprattutto in Europa, terra di inveterati conflitti ideologici ― di intolleranza. Evocano il tentativo di imporre agli altri la propria visione, di tracciare sentieri obbligati per la verità, di eliminare mediante la sopraffazione

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il pluralismo e le divergenze. Ancora una volta, quindi, osserviamo che il dibattito sugli aspetti etici della riproduzione assistita può essere opportunamente utilizzato come occasione privilegiata per fare della «meta-etica», verificando operativamente la natura del discorso etico e i compiti che gli si attribuiscono.

In particolare l’etica è convocata nelle cliniche dove si combatte la sterilità e nei laboratori dove vengono messe a punto procedure di controllo della riproduzione, col compito di operare un discernimento critico ed ermeneutico del desiderio di procreare. Ci sembra che la riflessione etica, condotta in questo modo, possa diventare uno strumento pedagogico di formazione della coscienza, e quindi un fattore di umanizzazione. Lasciando ad altre istanze la funzione di controllo sociale della volontà di procreare, l’etica così intesa identifica come suo compito la regolazione del desiderio, mediante lo sviluppo della capacità di formulare giudizi morali.