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Sandro Spinsanti
La boxe: un problema di etica medica?
in Medicina e Morale
fasc. 1, 1985, pp. 92-98
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LA BOXE: UN PROBLEMA DI ETICA MEDICA?
Il ring uccide. Senza produrre ecatombi come la circolazione stradale, è tuttavia fatale per un numero considerevole di pugili. Secondo le statistiche, dal dopoguerra ad oggi 357 pugili sono rimasti vittime del ring, con una media annua di dieci pugili, tra dilettanti e professionisti. Uno stillicidio, una lenta emorragia. Tanto basta, però, per chiedersi se non si possa o si debba fare qualcosa per evitare quelle morti. Quando un pugile cade in coma o muore nel corso di un combattimento, divampa per un momento la polemica tra abolizionisti e antiabolizionisti della boxe; poi la questione scivola via dal campo di interesse, ed è presto dimenticata.
Una risonanza maggiore ha avuto l’intervento dell’Associazione medica mondiale, nel corso della sua XXXV assemblea tenutasi a Venezia nell’ottobre 1983. Tema della giornata di studio dell’assemblea era l’etica medica. In quel contesto venne presentata una risoluzione che auspica l’interdizione della boxe e, nel frattempo, raccomanda che vengano assunte alcune misure precauzionali per limitarne la nocività.
La voce che si leva da un organismo che rappresenta le organizzazioni mediche di tutto il mondo non poteva essere ignorata. Le valutazioni dell’A.M.M. sono rimbalzate sui giornali, rinfocolando la polemica sulla boxe. Il dibattito è aperto su diversi fronti. Si discute se non sia possibile minimizzare i rischi della boxe senza abolirla in quanto competizione sportiva (per es. responsabilizzando i manager o creando un’organizzazione di tipo sindacale che tuteli gli interessi morali e materiali della categoria dei pugili). Un palliativo — sostengono alcuni — potrebbe essere anche una presenza più efficace del medico a bordo ring, con facoltà di interrompere l’incontro quando, a suo avviso, sia in pericolo l’integrità fisica di uno dei pugili.
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Ma il dibattito si accende soprattutto sulla questione di fondo: hanno diritto i medici a intervenire in merito alla boxe in quanto sport? In nome di quale istanza la condannano e ne propongono l'abolizione? Al di là dell’interesse che si può avere per i problemi sociali ed etici che solleva la boxe, il dibattito sotto questa angolatura è un’occasione per verificare i presupposti e la portata dell’etica medica.
Ci domandiamo anzitutto: la presa di posizione contro la boxe da parte degli organismi rappresentativi dei medici equivale a un giudizio morale? A conclusione del congresso mondiale di Venezia i medici si sono premurati di chiarire la natura del loro intervento. Pur ammettendo di non avere i mezzi per modificare la situazione di fatto, hanno dichiarato di non poter continuare ad assistere senza prendere posizione al continuo massacro di pugili in ogni parte del mondo; con la loro dichiarazione rimandano alle «responsabilità di chiunque agisca nel mondo della boxe, senza con ciò voler avere l’aria di missionari o di moralisti, in quanto abbiamo a cuore la tutela dell’uomo». L’ultima distinzione merita un’attenta considerazione: pur appellandosi a «principi di ordine morale», i medici pretendono di non fare del moralismo, e di parlare da un punto di vista che è quello di professionisti che hanno a cuore la salute dell’uomo. I medici non solo non vogliono fare del moralismo, nel senso deteriore che solitamente si attribuisce a questo termine, ma neppure possono e vogliono far credere che la medicina sia in grado di fornire un giudizio ultimativo sulla moralità o immoralità della boxe.
La valutazione etica di questo comportamento è diversa, a seconda dei valori ai quali ci si riferisce. Inoltre, gli interessi personali possono insinuarsi e contaminare il giudizio etico. Per i pugili questa attività sportiva è molto appagante in senso narcisistico: venendo per lo più da ambienti sociali segnati dall’emarginazione e dalla deprivazione, tendono a banalizzare il rischio e i danni con i quali pagano il successo. Per il mondo che gravita attorno alla boxe sono gli interessi economici che turbano la serenità della valutazione morale. Un diffuso quotidiano ha visualizzato — non saprei dire se consapevolmente o no — questo aspetto del problema della boxe. La pagina che riportava la presa di posizione del congresso medico in Venezia era divisa simmetricamente in due parti: quella superiore condannava la boxe, mentre quella inferiore reclamizzava un incontro pugilistico in
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televisione, sponsorizzato da una marca di liquori, invitando alla «Grande Notte della Boxe»... A livello di massa, l’accettabilità morale della boxe è confusa con l’attrazione e l’entusiasmo che essa esercita sullo spettatore, al quale fornisce la possibilità di vivere proiettivamente la propria aggressività repressa.
Sulla condanna morale della boxe non c’è un consenso sociale, che si basi su valori condivisi da tutti. È emblematica, in questo senso, la reticenza della morale cattolica. Si possono registrare, è vero, posizioni di singoli moralisti che valutano severamente la boxe in quanto sport 1. Così G. Perico, partendo dal presupposto che la violenza è l’anima del pugilato e che la tendenza insita nel combattimento stesso è quella di danneggiare l’avversario, giunge a una conclusione molto critica, che tuttavia non si spinge fino alla condanna: «Sul piano della valutazione morale, tenuto conto dei danni psicofisici che un pugile cerca di infliggere all’altro per metterlo fuori combattimento, devono essere sollevate forti riserve sia nei confronti del pugilato dilettantistico che di quello professionistico». Pur disapprovando la boxe, non la considera un comportamento inequivocabilmente proibito per il cristiano, in quanto azione che contrasta col comandamento di non uccidere o con il supremo valore della carità 2.
Posizioni più possibilistiche erano offerte dalla morale manualistica tradizionale. Un dibattito sulla moralità del pugilato, avvenuto verso la metà degli anni ’50 e condotto pubblicamente su riviste come Famiglia Cristiana e Palestra del clero, aveva visto posizioni contrastanti. P. Palazzini, sintetizzando la posizione prevalente della morale di scuola, parlava di «giudizi in sé troppo severi» pronunciati nella polemica. A suo avviso, la lesione sportiva può essere tollerata in considerazione dell’effetto buono. In base ai principi dell’azione con duplice effetto, riteneva sufficiente alla liceità di tali sport pericolosi che esistesse una causa proporzionatamente grave. Per la pratica di
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sport che espongono a pericolo prossimo escludeva come motivo il divertimento e il lucro, ma accettava come sufficiente «l’educazione della volontà e la formazione del carattere» 3. Le posizioni dei singoli moralisti mostrano una certa oscillazione, accentuata dal fatto che manca in materia una presa di posizione ufficiale del supremo magistero ecclesiastico; nell’insieme, tuttavia, la boxe non è considerata un’attività per natura sua incompatibile con lo standard morale che si richiede a un cristiano.
Si assumeranno, dunque, i medici il compito di condannare moralmente la boxe, quando la Chiesa stessa non ha voluto farlo? Proibiranno le associazioni mediche ai loro iscritti di collaborare in quanto medici alla realizzazione di incontri pugilistici, dichiarando questa attività incompatibile con l’esercizio della professione medica? Menzioniamo questa possibilità perché essa è, astrattamente, possibile. Il meccanismo invocato in tali casi è quello delle normative deontologiche, particolarmente se codificate. Le norme deontologiche vietano alcuni atti in quanto incompatibili con la professione. Il criterio non è quello della malvagità morale dell’atto — che può essere, secondo i criteri etici di ognuno, valutato diversamente —, quanto piuttosto quello della coerenza con lo spirito che anima la pratica della medicina. Se qualche procedura compromette socialmente l’immagine del medico, ne offusca il buon nome — la doxa, di cui parla il giuramento di Ippocrate —, travisa il significato della professione e incrina il rapporto di fiducia che sorregge la pratica della medicina, i responsabili dell’organizzazione professionale si premuniscono, imponendo ai medici di astenersene. Questo era il caso, per esemplificare, della proibizione fatta ai medici di partecipare a pratiche abortive, in vigore fino alla revisione del codice deontologico avvenuta nel 1978. L’interruzione della gravidanza per motivi non terapeutici, al di là della valutazione morale personale dell’atto, era inconciliabile col senso della professione medica, nella fisionomia da questa assunta in interscambio con la realtà sociale. Analogamente possiamo considerare la partecipazione del medico alla tortura.
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Se la collaborazione del medico allo svolgimento di incontri pugilistici fosse incompatibile con la professione e compromettesse socialmente la sua immagine, sarebbe possibile ricorrere alla proibizione per motivi deontologici. Di fatto, nessun codice deontologico lo vieta. Esiste, per contro, una commissione medica della Federboxe. Anche se i poteri del medico a bordo ring sono rigorosamente limitati — non può intervenire di propria iniziativa, ma solo se chiamato dall’arbitro — in qualche maniera offre di fatto una certa copertura alle riunioni pugilistiche e la sua presenza fornisce un comodo alibi. Probabilmente è questa implicita chiamata in correo del medico che assiste agli incontri, quando muore un pugile, che ha suscitato il progetto di condanna dell’Associazione medica mondiale. La complicità, ovviamente, è solamente morale, senza rilevanza giuridica: la boxe è infatti — come è stato notato — l’unico sport in cui, se qualcuno rimane ucciso, a chi è responsabile di questa morte non arriva comunicazione giudiziaria.
Se, dunque, i medici non prendono posizione contro la boxe in nome di una valutazione etica con cui la giudicano immorale, né elevano contro di essa una barriera di norme deontologiche, che valore rimane alla dichiarazione della massima assemblea mondiale? È un interrogativo che si estende anche ad altre dichiarazioni emesse con scadenza regolare dall’A.M.M. Fin dalla sua creazione, nel 1948, F Assemblea si pronunciò su numerosi problemi, suggerendo ai medici linee di condotta in linea con principi etici severi. Così la dichiarazione di Sidney del 1968 sulle precauzioni tecniche nel determinare la morte di un donatore d’organo; quella di Helsinki del 1964, rivista a Tokyo nel 1975, sulla sperimentazione con soggetti umani e sulle ricerche biomediche; quella di Tokyo del 1975 sulla tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, disumani o avvilenti in relazione alla detenzione e alla carcerazione. In tutti questi problemi le associazioni mediche, pur non potendo pretendere l’unanimità del giudizio morale di tutti i medici, orientano la prassi secondo un «ethos» professionale più rigorista di quello che si rispecchia nella comune moralità.
È un atteggiamento che vediamo già in atto nell’antichità, quando ha preso forma il primo nucleo di quell’etica medica a cui costante- mente ci si richiamerà in Occidente. Il cosiddetto giuramento di Ippocrate rispecchia un allineamento con la morale pitagorica, molto più restrittiva, rispetto ai costumi greco-romani, per ciò che riguarda
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l’interruzione della gravidanza, l’aiuto dato ai sucidi e le cruente pratiche chirurgiche. Senza diventare una «super-morale», che faccia cadere giudizi in nome di una cattedra etica più alta di quelle della religione e della filosofia, l’ethos medico ha trovato nel riferimento costante alla promozione della vita un’ispirazione che ha guidato i comportamenti professionali, talvolta distaccandosi dalla comune sensibilità morale dell’epoca. Quando Albert Schweitzer, alla ricerca di un principio auto-evidente da porre a fondamento di tutta la costruzione concettuale dell’etica, lo trovò nel «rispetto della vita» (Lebensehrfurcht, dove Ehrfurcht dice molto più di «rispetto», richiamando il timore reverenziale che confina con il fascinosum et tremendum del sacro), rispecchiava in qualche modo quell’ethos 4. E Schweitzer era, per l’appunto, un medico.
Lasciandosi guidare da tale principio, che fa corpo con il senso della professione medica stessa, il medico può trovarsi schierato su posizioni che magari non hanno il supporto della sensibilità comune, e forse neppure quello di un’argomentazione di filosofia morale stringente. Tale sembra essere il caso della boxe. Il preambolo della dichiarazione di Venezia è sintomatico. Senza menzionare come referenti principi filosofici o religiosi, si richiama al dato di fatto incontrovertibile che la boxe è uno sport pericoloso per la vita e l’incolumità fisica: «contrariamente agli altri sport, lo scopo fonda- mentale della boxe è quello di infliggere un danno corporale all’avversario. La boxe può provocare la morte e avere una pericolosa incidenza sulle lesioni cerebrali croniche». Tanto basta al medico per sentire e dichiarare l’inconciliabilità della pratica della boxe con quello che è lo scopo che persegue con la sua professione, e quindi la sua inaccettabilità dal punto di vista medico.
Ci vorrà certamente del tempo prima che questa sensibilità compenetri la mentalità comune; ancor più tempo perché, smantellati gli interessi economici colossali che vi girano attorno, si possa
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eventualmente arrivare a misure politiche di abolizione o radicale modifica. I medici avranno fatto, nel frattempo, qualcosa di più che una solenne dichiarazione per sgravio di coscienza: avranno portato un contributo, attingendo dall’eredità del proprio ethos professionale, a far maturare le coscienze su un aspetto particolare della difesa della vita.
1 A questa luce considera la boxe E. Chiavacci, Morale della vita fisica, Bologna 1976, p. 32, giungendo a una «condanna morale... netta e senza riserve». Nel pugilato e nella lotta, a suo avviso, «le capacità fisiche si misurano direttamente le une sulle altre, e il metro è direttamente la supremazia fisica sull’altro, che non può esprimersi che nel danno fisico che si è in grado di arrecare all’altro». La sua ferma condanna di tale attività sportiva in se stessa è una voce isolata nell’insieme della teologia morale cattolica.
2 G. Perico, «Sport», in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1973, p. 1041.
3 F. Roberti e P. Palazzini, Dizionario di teologia morale, Roma 1955, pp. 1392-1395. Con lo stesso criterio veniva risolto il problema dell'imputabilità delle lesioni: «Si verifica il doppio effetto; l’uno buono (vittoria sull’avversario), e questo è voluto; l’altro cattivo (una eventuale lesione, qualunque fessa sia), e questo è soltanto tollerato. Né si reca ingiuria all’avversario, il quale, almeno praticamente, acconsente ed accetta l’aggressione con i suoi effetti».
4 Cfr. A. Schweitzer, Ma vie et ma pensé, Paris 1960. Il rispetto della vita nell’etica di Schweitzer implica non solo un rispetto timido e per così dire passivo della vita, ma un atteggiamento attivo che si manifesta in uno sforzo per incoraggiare la vita, e non solamente nella preoccupazione di proteggerla e di astenersi dal distruggerla. In questo senso il principio del «rispetto della vita» può diventare un pilone portante di: tutta l’etica: favorire la vita è bene, distruggerla è male. Vedi anche A. Minder, Rayonnement d'Albert Schweitzer, Colmar 1975.