Verso la medicina delle scelte

Book Cover: Verso la medicina delle scelte
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

Verso la medicina delle scelte

in L'Arco di Giano, n. 21, 1999, pp. 107-112

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Ivan CavicchiIl rimedio e la cura,

Editori Riuniti, Roma, 1999

Rimedio e guarigione non possono essere ridotti solo a clinica, perché la funzione del rimedio deriva la sua realtà dalla sua organizzazione, che non è un problema clinico, ma culturale, sociale, sanitario, economico» (p. 20). Per esprimere con altre parole la tesi centrale espressa di questa affermazione: la medicina. non si riferisce solo alla condizione naturale di un corpo afflitto da una patologia, ma comprende necessariamente la società che decide se e come curarlo. È dunque un gioco con tre protagonisti: la natura, la medicina e la società.

Da questa tesi di fondo... alle favole, il passo è breve. Cavicchi nel suo libro più recente, dedicato alla nuova cultura della cura, lo percorre senza perplessità. Nel suo arsenale concettuale non scarseggiano filosofi, sociologi, antropologi culturali di gran nome, che hanno studiato la realtà delle cure mediche come momento costitutivo di una convivenza sociale; eppure non esita a iniziare il suo percorso analitico confrontandosi audacemente con l’“insostenibile leggerezza” della fiaba. Attinge a piene mani racconti di guarigione dalle Fiabe italiane di Italo Calvino, dalle antiche fiabe russe e dallo scrigno inesauribile delle Mille e una notte. Cavicchi è affascinato dal “senso” che la guarigione rivela nei racconti fiabeschi e

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dal valore metaforico che ha il rimedio in quei contesto: non si tratta solo di eliminare una patologia, ma di dare una risposta alla fragilità intrinseca dell’esistenza umana, alla ricerca di significato e al bisogno di una norma di comportamento. I rimedi forniti dalle fiabe ― la penna di Hu, l’erba dei leoni o la rosa fatata ― non sono solo scientificamente più efficaci, ma anche metafisicamente più efficaci.

Ma c'è anche un altro morivo per dare alle fiabe una priorità nella riflessione sulla nuova cultura della cura. Le fiabe parlano in modo trasparente della cura come di un’attività che deve obbedire a delle regole. Nella visione mitologica le regole sono date e la possibilità di modificarle è molto limitata (ciò corrisponde alla “moralità eteronoma” teorizzata da Piaget: ciò che la regola o l’adulto comandano deve essere fatto e la disobbedienza è comunque un atto riprovevole: Piaget, 1932). Se praticata al di fuori delle regole o contro di esse, la cura da attività benefica può diventare una minaccia.

In un libro dedicato al rapporto tra il medico e la morte nelle fiabe, il celebre teologo e psicanalista tedesco Eugen Drewermann ha ricostruito con acume la trama delle regole che limitano il potere del terapeuta, a cominciare dal discernimento tra le malattie che possono essere curate e quelle che devono essere lasciate al loro decorso naturale (Drewermann, 1990). Come punto di partenza per descrivere il rapporto tra il medico e le malattie mortali nella cultura tradizionale Drewermann sceglie la fiaba ‘‘Comare Morte” (‘‘Gevatter Tod” ― il padrino Morte nell’originale tedesco, così come si trova nella raccolta dei fratelli Grimm). Protagonista è un medico che ha ricevuto dalla Morte, sua madrina di battesimo, oltre alla conoscenza dei rimedi curativi, anche il dono di riconoscere se il paziente presso cui è chiamato a prestare la sua opera professionale è destinato a vivere o a morire: se la Morte ― che solo lui ha il privilegio di vedere ― si trova al capezzale del malato, questi vivrà; se invece sta ai suoi piedi, è destinato a morire.

Il medico per due volte ― essendosi ammalato il re e successivamente sua figlia ― dà scacco alla morte, ricorrendo a un’astuzia: fa girare il letto, così che la morte venga a trovarsi al capezzale dell’infermo. La trasgressione delle regole viene tuttavia pagata a caro prezzo dal medico, condannato a morire lui stesso (Grimm, 1997, pp. 150-153). La cultura tradizionale, che si esprime attraverso il nostro immaginario, non conosce un potere illimitato alla scienza medica: la facoltà di invertire il corso naturale degli eventi può essere

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esercitata solo entro limiti definiti. La regola fondamentale che nel racconto fiabesco inquadra la cura è il rispetto dei limiti.

Per quanto paradossale possa sembrare, il problema dei limiti alle attività di cura e guarigione, posto in forma simbolica dalla fiaba, è diventato l'argomento centrale del dibattito filosofico-etico e politico dei nostri giorni. La riemergenza della necessità di porre dei limiti alla medicina è dovuta alla riflessione sistematica su questo tema che da un più di un decennio sta svolgendo il filosofo della medicina Daniel Callahan, nell’ambito dello Hastings Center di New York, di cui è stato direttore. Dal suo primo saggio: Setting limits: Medical goals in an aging society, nel 1987, alla ricerca internazionale promossa e coordinata dallo Hasting Center: Gli scopi della medicina: nuove priorità, del 1997, una rigorosa riflessione porta a proporre una distinzione tra gli interventi medici destinati a curare le malattie e quelli rivolti a prendersi cura del malato.

Come società, non possiamo permetterci si curare ognuno, ma dobbiamo invece sentirci obbligati a prenderci cura di tutti. Compito della società è di migliorare la vita nel suo insieme, di contenere il periodo di morbilità che abitualmente affligge l’ultima parte della nostra vita, di prevenire morti premature. Non si tratta semplicemente di procedere a un razionamento delle scarse risorse da destinare alla sanità, ma di affrontare le scelte a partire da una chiara visione che consideri la vita umana come naturalmente limitata. La crisi economica che si è abbattuta su tutti i sistemi sanitari dei paesi sviluppati ci sta offrendo una preziosa occasione ― anche se dolorosa ― di sollevare degli interrogativi di fondo sulla salute e sulla vita umana, sugli obiettivi della medicina e della sanità contemporanea. Non possiamo non seguire le argomentazioni di Callahan sui limiti “naturali”, anche quando sfociano in una perorazione per il recupero di un atteggiamento rispetto alla vita ispirato alla saggezza, consapevole dei limiti: «La medicina moderna è stata la beneficiaria della fede nel progresso e della volontà di perdonare i fallimenti della tecnologia ― e questo è abbastanza insolito ―, forse perché abbiamo lasciato che la nostra fede e la nostra speranza si allontanassero dal senso comune. È ancora tempo di fermarsi e di capire che siamo ancora creature finite e limitate» (Callahan, 1994, p. 85).

L’analisi che fa Cavicchi è sovrapponibile a quella proposta da Callahan: il malessere che serpeggia oggi nella medicina non si limita a mancanza di motivazione dei sanitari. È il rapporto stesso tra medicina e società che sta cambiando, a seguito di un mutamento nelle attese dei cittadini nei confronti

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dei rimedi e delle cure. Di conseguenza, la terapia che Cavicchi propone per la sanità malata non può essere solo la richiesta di un “supplemento d’anima” per i sanitari ― che non di rado si traduce in un progetto di “moralizzazione”, alla quale non sfuggono neppure certi programmi di correzione di rotta della medicina nati sotto l’egida della bioetica ―, bensì un massiccio intervento di medical humanities. Da questo punto di vista la riflessione di Cavicchi costituisce per la nostra rivista ― nata appunto con l’obiettivo esplicito di fornire alla cultura sanitaria italiana il correttivo di un ampio ricorso alle medical humanities ― un prezioso confronto e un’occasione di verifica della nostra rotta.

Il primo correttivo proposto per la medicina, quando passiamo dal rimedio “metafisico” (pp. 13-53) al “rimedio reale” (pp. 55-143), è di natura epistemologica. L’ampia disamina del carattere scientifico della medicina moderna porta Cavicchi a rimettere in discussione il monismo su cui si fonda: «Il monismo della medicina è il retaggio di secoli di scienza e di filosofia. Eredità, tra l’altro, che pure ha dato dei risultati (...). Il monismo medico oggi è in flagrante contraddizione con il pluralismo scientifico, etico, culturale, sociale, razziale, religioso della nostra società. Oggi siamo nella società delle società, nel mondo dei mondi. Ma siamo anche nella società che interconnette i mondi possibili» (p. 141). «Per quale motivo ― conclude retoricamente Cavicchi ― l’idea di una medicina non monista dovrebbe turbarci?» (p. 143).

I motivi della resistenza al superamento nel monismo sono analizzati in questa parte del saggio, che instaura un dialogo rigoroso con l’epistemologia moderna, determinata a superare le ipoteche del positivismo. A cominciare dalla concezione positivistica del “fatto”, quale oggetto del sapere scientifico che si sviluppa indipendentemente dai “valori”. Per respirare l’aria positivista che circola nelle strutture del sapere medico, in quanto ispirato all’ideale della scienza dei fatti, merita rileggere il celebre inizio del romanzo Tempi difficili di Charles Dickens (che è del 1854). In esso Thomas Gradgrind, un personaggio che si compiace di essere un uomo “eminentemente pratico”, proclama con frasi roboanti la sua fede positivistica di fronte a un gruppo di ragazzi e ai loro insegnanti: «Ora, quello che voglio sono Fatti. Insegnate a questi ragazzi e a queste ragazze Fatti e niente altro. Solo di Fatti abbiamo bisogno nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo coi Fatti si può plasmare la mente degli animali che ragionano: il resto non servirà mai loro assolutamente a nulla. Questo è il principio su cui ho

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allevato i miei figli, e questo è il principio su cui ho allevato questi fanciulli. Tenetevi ai Fatti, signore!» (Dickens, 1984, p. 27). Dobbiamo riconoscere che, se allo scenario di una scuola, in cui pontifica Thomas Gradgrind, sostituiamo la medicina scientifica dei nostri giorni, l’assunto fondamentale del positivismo sembra straordinariamente attuale.

È stato lungo il percorso che ha portato a riconoscere nel “fatto” ― in quanto participio passato del verbo fare ― qualcosa di “costruito”. È quindi impregnato dei valori di chi lo determina. La decantata neutralità della scienza si rivela così come un mito. I pericoli insiti nel rigore scientifico, inteso come una strategia difensiva del mondo medico per tenersi lontano dalla complessità del reale, sono stati colti e denunciati da Viktor von Weizsäcker, il fondatore del movimento della “Medicina antropologica”, in un passo che anticipa con precisione lo scollamento che si sta creando tra la scienza medica più rigorosa ― magari anche Evidence based... ― e la domanda di cura della popolazione:

Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione (“Stand”), la corporazione dei medici e degli scienziati, diventerà l’oggetto (“Gegenstand”) di una grave aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi mettendosi dietro alla scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo (Weizsäcker, 1956, p. 344).

Lungi dal lasciarsi sedurre dall’enfasi attuale sulla “medicina dell’evidenza”, Cavicchi riconduce la rilevanza della cura al complesso intreccio di interessi e motivazioni dei protagonisti del rapporto terapeutico: “evidenza” dei fatti e intenzionalità di chi l’interpreta non sono separabili; allo stesso modo, la “prova” dell’efficacia è fornita anche dalla valutazione soggettiva del paziente (per il quale Cavicchi ha ripetutamente proposto come più appropriata la qualifica di “esigente”: cfr. Cavicchi, 1999).

La terza e quarta parte dell’opera, dedicate rispettivamente al “rimedio sociale” e al “rimedio concettuale”, delineano la medicina della scelta, che per Cavicchi è la risposta positiva alla crisi della medicina contemporanea. Scegliere vuol dire avere a disposizione per curare più riferimenti (farmacologici, biologici, antropologici, etici ecc.), cioè più logiche, più risorse. Tra queste risorse vi sono i mondi personali del malato e del medico. Nel momento in cui vengono meno le regole universali e giustificative della

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vecchia medicina, quando la sfida è posta dal soggetto con i suoi valori, nell’ambito di una società necessariamente pluralista, l’unico modo per rispondere è la libertà di scelta. «La scelta non corrisponde a un’idea impersonale e necessitante della medicina, un rimedio presuppone l’inevitabilità di una decisione. La decisione non esprime m realtà un nesso di necessità tra ipotesi terapeutica ed evidenza terapeutica, ma condizioni di possibilità tra evidenza terapeutica dei referenti e asserzioni terapeutiche corroborative. Nel caso di un rimedio, la separazione tra fatti terapeutici, valori terapeutici, teorie terapeutiche non è lecita» (p. 242).

La decisione tra più metodi non è considerata da Cavicchi una sconfitta della medicina o una ritirata strategica, ma una scelta pragmatica, rivolta a «garantire le condizioni di convenienza reciproca di un gioco a tre tra natura, scienza o società» (p. 243). Potremmo chiamarlo un compromesso. Ala un compromesso che non ha nulla di disonorevole, in quanto riconosce e presuppone nuove capacità da parte dei medici e dei malati, nonché nuove responsabilità degli uni come degli altri.

Riferimenti bibliografici

Callahan D., “Porre dei limiti: problemi etici e antropologici”, in L’Arco di Giano, n. 4, 1994, pp. 75-86.

Cavicchi I., “Il malato: da paziente a esigente”, in Prodomo R. (a cura di), Le nuove dimensioni della relazione terapeutica, Macroedizioni, Cesena, 1999, pp. 31-40.

Dickens Ch., Tempi difficili, Rizzoli, Milano, 1994 (1a ed. orig. 1854).

Drewermann E., Der Herr Gevatter. Arzt und Tod in Märchen, Walter, Freiburg i. B., 1990.

Grimm J. e W., Fiabe, Demetra, Bussolengo, 1997.

Hasting Center, “Gli scopi della medicina: nuove priorità, in Notizie di Politeia, n. 45, 1997.

Piaget J., Le jugement moral chez l’enfant, Paris, 1932.

Weizsäcker V. vonTathosophie, Göttingen, 1956.