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Sandro Spinsanti
ETICA MEDICA
Pubblicazioni “Servizio Librario” dell’Opera Universitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 1982
pp. 63
INDICE
pg
8 INTRODUZIONE - Medico e cristiano: un mestiere difficile
11 Capitolo Primo - L’ethos ippocratico
13 1. Il giuramento di Ippocrate nel contesto storico
20 2. La tradizione e l’uso moderno del giuramento
24 3. Pro e contro il giuramento ippocratico
27 Capitolo Secondo - La deontologia medica
29 1. Dall’“etichetta” medica alla deontologia
35 2. I codici di deontologia medica
39 3. Oltre la deontologia professionale
43 Capitolo Terzo - Il riferimento alla coscienza nella professione medica
46 1. La coscienza come istanza etica
53 2. L’obiezione per motivi religiosi
59 Capitolo Quarto - La formazione etica del medico: un bilancio dei nuovi orientamenti
61 1. Una risposta alla crisi della medicina
63 2. L’etica medica, tra ideologia e pragmatismo
67 3. L’insegnamento dell’etica medica: problemi metodologici
INTRODUZIONE
Medico e cristiano: un mestiere difficile
Anche il medico che si dichiara cristiano e vuol agire di conseguenza si trova oggi, come qualunque altro dei suoi colleghi, in una situazione critica. Il camice bianco non gode più del prestigio incondizionato che lo aureolava fino a un passato molto recente. Un’inchiesta recente, svolta presso i medici, riflette un’immagine di sé ancora salda. I medici intervistati si valutano per lo più gran lavoratori, aggiornati, convinti della propria missione anche se “guadagnano poco”. Ma questa immagine luccicante rischia di nascondere una realtà di grande insicurezza.
Attorno ai medici c’è il gelo, quando non addirittura l’ostilità. Alcuni vorrebbero che, caduto il carisma, restasse la pura professionalità. Invece no: l’opinione pubblica non li considera come tecnici della salute, ma come carismatici mancati, come missionari che si son messi a fare i mercanti. L’accusa di speculare sui malati è una delle più pesanti, e anche delle più diffuse.
In realtà i medici sui quali a buon diritto può cadere questo sospetto (i “baroni” che usano le cliniche universitarie come feudo personale, i “cucchiai d’oro” specializzati in aborti, che magari ufficialmente risultano obiettori di coscienza, specialisti di gran fama che non esitano a chiedere cifre astronomiche per un consulto), sono un’esigua minoranza. Ma le odiosità provocate da tali clamorosi abusi di potere si riversano su tutta la categoria medica. Di qui l’immagine così diffusa del medico avido di guadagno e senza scrupoli sul modo di realizzarlo.
Il commercio della salute si scontra oggi con una coscienza nuova del diritto del cittadino all’assistenza sanitaria. Un passo decisivo in questo senso è stato compiuto con la legge che ha introdotto la riforma
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sanitaria. Essa ha stabilito, per la prima volta nella storia d’Italia, che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Affinché il programma non resti una pura velleità, è necessaria una radicale trasformazione della “cultura della saluta”. Già si abbozza la formazione di un vasto movimento d’opinione che investa l’ospedale, così come nel più recente passato è avvenuto per la fabbrica e per la condizione della donna. I malati, che molto spesso sono afflitti più dalla rabbia per il trattamento che ricevono che dai loro mali fisici, non vogliono più essere dei “pazienti”. Chiedono in primo luogo che cessi la violazione dei diritti umani.
In questo spirito è sorto, per impulso del Movimento federativo democratico, un “Tribunale per i diritti del malato”. Un tribunale che non vuol essere una struttura giudiziaria, bensì politica e morale. La rispondenza immediata della popolazione, che ha riversato sul tavolo dei promotori migliaia di denunce, ha rivelato una grande domanda di giustizia nel campo della salute. I fatti clamorosi di violazione dei diritti della persona che avvengono negli ospedali sono sufficientemente noti e pubblicizzati. Ma accanto a questi esiste una costellazione di sofferenze inutili, di umiliazioni e di oppressioni, che costituisce la via crucis del malato che deve passare per l’ospedale pubblico. Segregato dalla società civile, scopre di aver perso i diritti più elementari che gli spettano come cittadino e come uomo. Quando entra in ospedale, il suo lavoro, la sua cultura, i suoi desideri, i suoi oggetti, i suoi legami familiari non contano più nulla.
Con la rivendicazione del diritto alla salute tramonta un modello culturale imperniato sull’assistenzialismo, più o meno colorato di carità cristiana. Tramonta il mito dell’impunibilità e dell’ingiudicabilità del medico, che si sosteneva sulla rinuncia da parte della gente più debole a far valere i propri diritti. Anche l’arroganza connessa con il ruolo di terapeuta comincia a essere più tollerata.
Se la situazione è scomoda per qualsiasi medico, lo è in misura molto maggiore per chi vuol esercitare la professione da cristiano. Il credente medico più di ogni altro è in grado di avvertire che la credibilità della Chiesa in quanto annunciatrice della salvezza divina è legata strettamente a quanto la comunità cristiana opera a favore della salute dell’uomo. Oggi ne siamo coscienti più che in passato. L’attività terapeutica è stata il fulcro dell’opera messianica di Gesù. L’apologetica ha considerato i miracoli di Gesù solo per ricavarne argomenti con i quali dimostrare in modo incontrovertibile la sua divinità: è una visione riduttiva. Nella missione
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di Gesù l’opera di guarigione non era un aspetto secondario dei suoi poteri messianici, ma il vero e proprio mezzo per proclamare, istituire e ampliare la nuova era, sotto la signoria di Dio. Questa stessa missione Gesù ha lasciato alla comunità cristiana. Per rimanere nell’esempio del suo Signore, la Chiesa deve adottare la stessa “parzialità” di Dio, così come si è espressa nella parola e nella vita di Gesù: privilegiando coloro che vengono scartati, integrando quelli che vivono la malattia come esperienza di segregazione, facendo dei “piccoli” il centro della nuova comunità dei tempi messianici. E come non inserire oggi i malati nella categoria spirituale dei “piccoli”, quando in una società costruita sul culto dell’efficienza coloro che non corrispondono al modello ideale (handicappati, anziani, malati cronici, invalidi) vengono inesorabilmente sospinti ai margini della collettività?
Il medico cristiano, che vuol operare coerentemente come discepolo di Gesù, si trova inserito in quest’orizzonte profetico creato dall’appello alla diakonia, al servizio, rivolto a tutta la comunità. La sua professione gli pone tuttavia dei particolari doveri, che non si limitano alla morale evangelica. Come ogni professionista, è obbligato in primo luogo a rispettare specifiche norme deontologiche, che derivano, dal fatto di esercitare una professione nella società e per la società. La funzione di quelle norme è di garantire un rapporto di fiducia: il “cliente” ha bisogno di sapere a quali regole si atterrà il professionista nel rapporto interpersonale. Questa garanzia è particolarmente importante quando ci si espone molto sul piano personale (per esempio, quando si confidano segreti: per il rapporto di fiducia è indispensabile sapere che il professionista si impegna a non divulgarli). Nel caso del medico, il malato affida addirittura il proprio corpo, se stesso. Per questo la professione medica è stata quella che per prima ha sentito il bisogno di imporsi norme di comportamento.
Lo ha fatto fin dall’antichità classica mediante il giuramento di Ippocrate. Gli Ordini dei medici provvedono oggi a elaborare e ad aggiornare i loro codici deontologici, che contengono i doveri del medico verso i pazienti, verso i colleghi nella professione, verso lo Stato e la società.
Sul piano pratico, in Italia ogni medico, per esercitare, deve essere iscritto all’Ordine dei medici, il quale si impegna a far rispettare il proprio codice di comportamento. Di fatto, però, le sanzioni previste per i trasgressori vengono raramente applicate. L’uomo della strada non riesce a scrollarsi di dosso l’impressione di trovarsi di fronte a una corporazione che difende i suoi diritti e privilegi. Ma anche quando il codice deontologico
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fosse tenuto in alta considerazione e fatto rispettare, esso potrebbe garantire al massimo la correttezza professionale, insufficiente a risolvere delicate questioni di coscienza. Per districarsi nei casi di conflitto tra valori è necessario l’orientamento che viene dalla riflessione etica.
È stata una preoccupazione costante della morale cristiana applicare i principi che la ispirano ai problemi della salute e della vita fisica. Si è sviluppata una morale medica specifica, che è oggetto di insegnamento nelle poche facoltà di medicina delle università cattoliche. In America, dove si preferisce parlare di “etica medica”, questa disciplina è coltivata anche nei centri di studio non confessionali. Non c’è medico che, un giorno o l’altro, non si sia imbattuto in qualcuno dei problemi tipici della morale medica: proseguire o arrestare le cure di rianimazione? procedere o no alla sterilizzazione? la vita della madre o la vita del bambino? sì o no all’aborto? dire o tacere la verità al malato?
Anche la migliore morale medica ha però dei limiti rilevanti. È costruita su casi astratti e lascia fuori il vissuto personale, l’angolatura particolare che le vicende del corpo assumono per il fatto di essere inserite in un’esistenza individuale. Senza che sia infranto formalmente nessun caposaldo della morale, il trattamento del malato può diventare una ruota che stritola la dignità della persona, causa sofferenze e umiliazioni, provoca addirittura alterazioni della personalità.
Il fronte su cui il medico cristiano è chiamato a schierarsi è quello di una medicina per l’uomo intero. La medicina scientifica, pur con i suoi meriti indiscutibili, è viziata da un presupposto positivista. Per ricondurre la malattia a qualcosa di obiettivo, da spiegare sulla base delle leggi fisico-chimiche che regolano i fatti della natura, ha escluso la considerazione dell’uomo malato. Tutti i caratteri storici e personali della malattia sono messi tra parentesi: il malato interessa solo quando è ridotto a un “caso” clinico. La medicina non è organizzata intorno all’uomo malato, ma intorno alla malattia, o piuttosto all’organo malato. Lo si può vedere dal modo come è disposto l’ospedale: le malattie vengono suddivise per reparto come le merci in un supermercato; e i medici, passano di letto in letto come tecnici a una catena di montaggio, si dedicano a scoprire le cause del guasto per riparare l’organo malato.
Oggi negli ambienti più sensibili della medicina si sente il bisogno di superare quella concezione meccanicista della malattia. L’oggetto proprio della medicina non sono i singoli organi che non funzionano, ma l’uomo malato, inteso come una totalità. La tradizione filosofica cristiana
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ha espresso questo punto di vista parlando dell’uomo come persona. Il contributo che il medico cristiano può portare al rinnovamento in profondità della medicina è proprio la proposta di una “medicina della persona”, nel senso dell’antropologia cristiana. Più che una prassi medica accanto alle altre, la medicina della persona è uno spirito con il quale la medicina deve essere praticata. Include la tecnica, pur non limitandosi ad essa; presuppone l’apertura alla conoscenza antropologica moderna, ma non vi si identifica. L’antropologia cristiana ha una propria, irriducibile, specificità.
Essa porta nella prospettiva della “totalità” un punto di vista più ampio, che colloca l’uomo nell’ascolto di una chiamata. Il medico cristiano lo ha imparato da Gesù, il terapeuta. Il quale, nel calore dell’incontro interpersonale, curava uomini malati, non riparava macchine organiche; e al tempo stesso collocava la vita degli individui nell’orizzonte del Regno di Dio.
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Capitolo Primo
L’ETHOS IPPOCRATICO
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1. Il giuramento di Ippocrate nel contesto storico
Quanti hanno una conoscenza precisa di ciò che è contenuto nel giuramento di Ippocrate? Eppure non c’è persona mediamente informata che ne ignori l’esistenza, che non lo sappia indicare come uno dei documenti che costituiscono il nucleo essenziale del patrimonio spirituale dell’Occidente. Sono poche righe, estremamente concise, specchio di una prassi medica segnata dal tempo. Tuttavia hanno attraversato i secoli, sempre continuamente citate come portatrici di un ideale che trascende il proprio tempo e la propria cultura. Il giuramento ha contribuito in modo determinante a far diventare Ippocrate un eroe culturale in tradizioni tutt’altro che inclini all’ecumenismo: cristiani ed ebrei, musulmani e illuministi gli hanno unanimemente tributato un rispetto che confina con la venerazione. Giuramento ippocratico ed etica medica sono diventati due concetti correlati, un binomio inscindibile. Tuttavia, quante ombre dietro questa apparente luminosità!
La realtà storica del giuramento è probabilmente molto diversa da quella immaginaria che ha permesso nei secoli di renderlo simbolo delle più alte idealità che possono ispirare il medico nella sua professione. Presentando una moderna edizione del giuramento, il curatore faceva un bilancio della situazione dal punto di vista storiografico: “qual è la data del giuramento? è mutilato o interpolato? chi faceva il giuramento: tutti i medici e solo gli appartenenti a una corporazione? quale forza obbligante c’è dietro la sua sanzione morale? era una realtà o un semplice ‘consiglio di perfezione’? L’onesto ricercatore deve dire di non saperne
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nulla” 1. In seguito studi storici di grande valore hanno portato un po’ di luce su alcuni di questi interrogativi. I risultati della ricerca storica mettono in crisi molti luoghi comuni circa l’origine, il significato e l’utilizzazione del giuramento.
Passiamo brevemente in rassegna le principali acquisizioni, dovute principalmente agli studi di Edelstein e Sigerist 2. Sono problemi che non interessano solo gli eruditi, ma tutti coloro che si interrogano sul rapporto tra etica e medicina. Rituffandoci nelle origini, nel momento in cui per la prima volta la cultura occidentale ha intuito il legame e ha cercato di formularlo, ritroviamo lo stato germinale di ciò che si configurerà come “ethos” medico.
È opportuno, in primo luogo, considerare il contenuto e la struttura del giuramento. Dopo l’invocazione degli dei, — Apollo, Esculapio, Igea e Panacea — la prima parte è dedicata ai doveri verso la famiglia del maestro. Colui che giura si impegna a condividere i propri beni col maestro e a considerare i suoi figli come propri. La seconda parte è il vero e proprio codice etico, che enumera i doveri che il medico si assume verso i pazienti. È costruito in modo simmetrico. Al centro troviamo la sola affermazione positiva di tutto il giuramento: “conserverò casta e pura da ogni delitto sia la mia vita che la mia arte”. È preceduta da tre proibizioni: non recare danno o ingiustizia al malato, non somministrare a nessuno medicine letali, non provocare rimedi abortivi alle donne. La clausola di purità è seguita da tre altre proibizioni: non praticare la chirurgia, non avere rapporti sessuali con nessun membro della famiglia del paziente, non divulgare segreti uditi nell’esercizio della professione. L’ultimo paragrafo, infine, indica che la ricompensa per l’osservanza del giuramento sarà la fama e la buona reputazione, il disonore invece colpirà lo spergiuro.
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La nobiltà dei propositi giurati non paralizza il senso critico dello storico. Per il quale le clausole del giuramento presentano dissonanze vistose con quanto egli conosce circa la pratica della medicina nella Grecia classica. L’enigma più evidente è quello dell’esercizio della chirurgia. Sappiamo con certezza che il medico ippocratico era anche chirurgo. Anzi, gli scritti chirurgici sono tra i migliori del Corpus Hippocraticum, e sono spesso attribuiti al maestro stesso. Un problema presenta anche la clausola dell’aborto: come conciliare questa proibizione con il fatto accertato che l’aborto era generalmente praticato in Grecia, non solo dalle levatrici ma anche da medici ippocratici, che era accettato dalla società e perfino raccomandato dai maggiori filosofi, come Platone? Anche per quanto riguarda l’eutanasia la clausola del giuramento è in contrasto con quanto sappiamo della civiltà greco romana. Il suicidio, soprattutto per influenza dello Stoicismo, era generalmente accettato; conosciamo molti casi in cui il veleno è stato somministrato da medici.
Queste contraddizioni patenti rendono impossibile allo storico sottoscrivere l’immagine del giuramento come strumento, già in uso al tempo di Ippocrate, per inculcare al medico un’etica particolare, impregnata di idealismo o di filantropia, che lo impegna per il fatto stesso di abbracciare la professione medica. I discorsi convenzionali che si fanno sul giuramento ippocratico come simbolo di un ethos perenne, soggiacente a tutte le trasformazioni morali ed etiche, al quale il corpo medico si sarebbe sempre attenuto fin dagli albori della civiltà greca 3, non hanno un riscontro storico. Già in una prima ricognizione di quanto è storicamente appurato Jones escludeva che il testo trasmessoci dalla tradizione possa essere considerato come un giuramento da deporre obbligatoriamente per essere ammessi nella corporazione dei medici asclepiadi 4. La prima parte del giuramento, sotto forma di un accordo contrattuale, lega l’aspirante medico al maestro e alla sua famiglia, non a una corporazione. Se non si tratta, dunque, di un giuramento corporativo, qual è la
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sua natura? Le ipotesi formulate da Jones, e confermate poi dagli studi successivi, partono dalle informazioni storicamente attendibili che possediamo sull’età classica. Sappiamo da Platone (cfr. Protagora 311 B) che i medici insegnavano la medicina ai loro figli, e che Ippocrate insegnava ad altri discepoli dietro compenso. Siamo inoltre informati che nel periodo migliore della medicina greca c’erano delle scuole esclusive che restringevano il loro insegnamento ai membri di un clan (genos) e ad esterni, che venivano in qualche modo adottati. È probabile che questi membri adottati facessero un giuramento e firmassero un contratto legale. Gli studenti apprendisti venivano in qualche modo assunti nella famiglia e assumevano diritti e doveri dei membri della famiglia. Il giuramento, accordo privato tra il maestro e l’apprendista, definiva le relazioni tra quest’ultimo e la società in cui entrava, nonché le regole di condotta a cui quella società si attendeva che egli si conformasse. Nel corso del tempo può essersi evoluto un formulario, non proprio stereotipato e universale, ma con omissioni, alterazioni o addizioni, per adattarsi al periodo, alla scuola o al luogo. Nello schema, oltre alle promesse fatte al maestro, erano incorporate le clausole che avevano come oggetto la probità e l’onore medico. Questa l’ipotetica evoluzione del giuramento, la sua funzione e il suo contenuto originari.
Tuttavia il giuramento che la tradizione ci ha consegnato attribuendolo a Ippocrate non può essere identificato con il giuramento ipoteticamente in uso nelle scuole ippocratiche del V e IV sec. a.C. Le clausole etiche che definiscono il rapporto del medico col malato, infatti, sono inconciliabili con ciò che conosciamo della pratica medica nel mondo classico. Sigerist è perentorio: “La spiegazione di tutte queste contraddizioni è semplicemente che il giuramento ebbe origine in un ambiente che era totalmente differente da quello di Cos o di Cnido: cioè in un ambiente filosofico, tra i Pitagorici” 5. Egli fonda la sua opinione sugli studi più conclusivi sull’argomento, che sono quelli condotti da Edelstein. A differenza di chi considera il giuramento come un messaggio di validità universale, unanimemente accettato nell’ambito della grande medicina greca dell’epoca classica, Edelstein lo fa risalire a un gruppo che rappresentava un piccolo segmento dell’opinione greca. Gli scritti medici, dall’epoca di Ippocrate a quella di Gallieno, dimostrano la violazione sistematica e costante di quasi tutte le ingiunzioni del giuramento. Soltanto
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verso la fine dell’epoca classica avvenne un profondo cambiamento, le cui radici affondano nella filosofia pitagorica, che cominciò a definirsi verso la fine del IV sec. a.C. La filosofia pitagorica includeva ideali di giustizia, fortezza, purezza e santità, e di rispetto della vita. Al greco medio non possiamo attribuire un rispetto della vita come valore. Basti pensare all’esposizione di bambini deboli o deformi, pratica diffusa non solo a Sparta, ma anche ad Atene. C’erano tuttavia gruppi religiosi nella società greca, specialmente orfici e pitagorici, i quali, forse sotto influenza indiana, nutrivano un profondo rispetto per la vita. Nel loro ambito ci si ispirava a una moralità più stretta rispetto all’etica platonica e aristotelica, o alla pratica medica comune. Il giuramento ippocratico è storicamente attendibile solo se lo consideriamo come un prodotto dell’etica pitagorica, applicata alla medicina. Il suicidio e l’aborto erano condannati dai pitagorici; di conseguenza, fu considerato non etico per il medico prestare la propria mano per azioni che conducevano alla distruzione della vita. La chirurgia fu separata dalla medicina generica. Il medico che si ispirava alla nuova filosofia poteva così lasciare al chirurgo lo spargimento del sangue e il rischio che il paziente morisse sotto il bisturi. In tale ambiente il giuramento cominciò a diventare popolare. I medici pitagorici potrebbero averlo redatto come un programma di riforme, e forse anche come protesta contro le pratiche correnti. In seguito fu considerato opera del grande Ippocrate, così come gli furono ascritte le opere mediche della biblioteca di Alessandria, ricorrendo a un processo di accreditamento comune nell’antichità. Il suo studio divenne parte del curriculum medico, idealmente la prima opera con cui lo studente di medicina si familiarizzava. I commentatori supposero che il maestro avesse scritto il giuramento come primo dei suoi libri e imposero al principiante di leggere questo trattato per primo 6.
La scuola pitagorica fece il ponte tra il paganesimo e il cristianesimo, il quale doveva cambiare i fondamenti della civiltà antica. Il cristianesimo si trovò in accordo con i principi pitagorici relativi alla vita e alla medicina. E proprio alla sua consonanza con il cristianesimo il giuramento ippocratico deve il successo che lo fece diventare il nucleo di tutta l’etica medica. Appena menzionato in epoca precristiana, godette invece di popolarità una volta entrato nell’area culturale cristiana. I padri della chiesa abbondarono nelle lodi di Ippocrate e della sua regolazione pratica della medicina 7; in seguito
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Ippocrate fu egli stesso considerato come un “padre della chiesa” dai medici, e la sua autorità mai rimessa in discussione. L’ideale etico che traspare dal giuramento fu proiettato sugli altri scritti, e in genere su tutta la medicina dell’antichità. Emergeva così la figura del medico come “filantropo”, che si impegnava con un giuramento di dedicarsi al servizio dei malati. Ma la finalità del giuramento medico era realmente la “filantropia”? Ulteriori precisazioni vengono dalle ricerche storiche recenti. Alcune indicazioni possono essere ricavate dall’analisi sia del contenuto che della struttura del documento. Le clausole tengono a stabilire non quello che il medico dovrebbe fare per essere un buon medico, ma le azioni dalle quali astenersi. Il fine è quello messo in rilievo dall’unica clausola positiva, posta architettonicamente al centro della seconda parte: conservare la vita pura per accrescere la propria “reputazione” (doxa). Sigerist ha particolarmente insistito su questa finalità del giuramento e dell’etica medica greca 8. Il medico era costretto ad occuparsi della propria reputazione, e ciò in forza delle condizioni della pratica medica dell’antichità. Il medico era, in pratica, un artigiano; esercitava la sua “arte” (techne) come gli altri artigiani, passando da un luogo all’altro. La buona reputazione e la fama che lo precedevano erano condizioni indispensabili per l’affermazione professionale 9. Non esistendo nessuna licenza per praticare la medicina concessa dallo stato o da altra organizzazione, la reputazione era la sola credenziale che il medico possedesse. L’acquistava con l’apprendimento, l’abilità, la coscienziosità, la corretta prognosi, e in generale conducendo una vita onesta. Il giuramento si colora così di una luce utilitaristica. Comprendiamo quindi perché, ai fini della reputazione, il medico si allineasse mediante il giuramento con le posizioni etiche più rigide, come quelle diffuse dai pitagorici, che richiedevano dal medico più di quanto gli imponevano la morale e la pratica corrente. Queste precisazioni storiche fanno forse scendere il medico che nell’antichità usava il giuramento ippocratico dal piedistallo del semidio filantropico, ma gli conferiscono anche, a suo vantaggio, uno spessore di umanità che lo rende più credibile. Anche attraverso la porta della ricerca della reputazione — non certo l’ideale più sublime che possiamo concepire dal punto di vista etico — entrava nella medicina il principio
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che la medicina è un’arte in cui la conoscenza è inseparabile dalla moralità. Cominciava così a delinearsi la figura del medico come vir bonus sanandi peritus.
Le conoscenze storiche acquisite ci mettono in grado di tracciare un quadro meno aprioristico dell’evoluzione dell’ethos medico nel mondo greco-romano, e del ruolo che vi ha svolto il giuramento ippocratico 10. Non c’è dubbio che il mondo classico sia arrivato a formulare l’ideale che deve ispirare il medico, e gli obblighi che acquisisce verso il malato, nei termini di misericordia, solidarietà, fratellanza universale: in una parola, come un’“etica della filantropia”. Tuttavia questo ideale non è stato l’unico, né si è imposto in tutto l’ambiente medico. Nell’epoca classica della civiltà greca il comportamento del medico non si ispirava agli obblighi verso l’umanità. La “filantropia” negli scritti ippocratici (V sec.) è intesa come gentilezza e buone maniere, contrapposta alla misantropia. I suggerimenti impartiti al medico riguardano i comportamenti più efficaci da tenere nel corso del suo lavoro, al fine di conseguire la fiducia del paziente e distinguersi dai ciarlatani. In altri termini, si tratta più di “etichetta” medica che di etica. L’ethos medico è quello di una corretta prestazione esterna. L’età classica, come risulta dagli scritti platonici, giudicava il lavoro manuale sulla base della competenza e dell’efficienza. Nessuna idealizzazione esaltava la medicina sopra le altre professioni: era considerata un’arte come le altre, estranea a valori come l’intenzione interiore e il cuore.
Il secondo stadio dell’evoluzione dell’ethos medico presuppone la trasformazione spirituale che si è espressa nell’insegnamento pitagorico e nella filosofia stoica, che considerava possibile a ogni stato di vita seguire le regole dell’etica. Anche l’ethos dell’artigiano medico fu riformulato in accordo con vari sistemi filosofici. Nell’arco di tempo che si estende dal IV sec. al II sec. d.C. la medicina è stata elevata al rango di arte filantropica. La moralità della prestazione esterna, caratteristica dell’epoca classica, cede ora alla moralità dell’intenzione: il medico, secondo Gallieno, non può non essere filosofo. Sorge così l’umanesimo medico dell’antichità. La sua espressione letteraria sono gli scritti deontologici del Corpus Hippocraticum: il giuramento in primo luogo, ma anche i Precetti, Sul medico, Sul decoro. Composti in epoca ellenistica o addirittura
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cristiana, rispecchiano l’ideale completo del medico come amore dell’umanità, filantropia. A un’analisi più accurata si riconoscono nei vari scritti sfumature filosofiche diverse. Così nello scritto Sul medico predominano le virtù della scuola aristotelica: il medico deve essere onesto, prudente, gentile. I Precetti e Sul decoro rivelano valori stoici, come la saggezza e la scelta razionale. Negli scritti di Scribonio Largo — il quale, incidentalmente, è il primo autore a menzionare il giuramento ippocratico nella prefazione al Compositiones: I sec. d.C. — l’etica della prestazione esterna e dell’intenzione interiore sono diventate ormai una unità inseparabile. L’umanesimo stoico trasmesso da Cicerone diventa per Scribonio Largo il fondamento di specifiche virtù professionali. Il medico come filantropo deve simpatia (misericordia) e umanità (humanitas) a ognuno dei suoi malati, sulla base della fratellanza tra gli uomini. L’amore dell’umanità diventa la virtù professionale del medico.
Anche se l’umanesimo medico è rimasto ristretto a una piccola minoranza di medici, resta tra gli ideali più sublimi concepiti dall’antichità. Il giuramento di Ippocrate assume il suo pieno significato solo se interpretato nel modo in cui fu compreso da Scribonio e dai suoi successori. E proprio perché ci è stato consegnato dall’antichità incastonato nell’ideale dell’etica della filantropia, di cui si è fatto supporto, ha potuto costituire nel corso dei secoli un punto di riferimento costante.
2. La tradizione e l’uso moderno del giuramento
La ricerca storica contemporanea ha esteso lo studio dei trattati ippocratici, oltre alla loro origine e alla formazione del Corpus Hippocraticum, anche al ruolo che hanno svolto nella storia del pensiero e della pratica medica 11. Ippocrate è stato, nelle epoche e culture più diverse, lo schermo di proiezione di un ideale, la perfetta incarnazione dell’atteggiamento medico volta a volta ritenuto più appropriato, spesso molto lontano dalla pratica affettiva dei medici del tempo. Il giuramento attribuitogli ha contribuito in modo determinante alla cristallizzazione dell’etica medica attorno al suo nome.
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L’opera degli storici, che ha portato a profonde revisioni del quadro oleografico che vedeva nella professione medica dell’antichità un gruppo omogeneo di guaritori con nobili intenzioni, dediti ai sublimi ideali del “sacro giuramento”, non ha risparmiato neppure le visioni più convenzionali relative al Medie Evo. Lo standard etico del medico durante l’epoca che si estende dalla disgregazione dell’Occidente fino alle prime regolazioni ufficiali della professione, ad opera di Federico II, risulta notevolmente poco elevato. I medici non erano soggetti né a misure penali e legali, né all’organizzazione di una corporazione universale. Durante il primo Medio Evo i medici furono esposti a due influenze divergenti, che abbiamo già visto operanti nell’antichità; una idealistica, l’altra pratica: in altri termini, “etica” ed “etichetta”. L’etichetta medica quotidiana che troviamo nei trattati dell’epoca 12 consiste in ammonizioni al medico a evitare eccessi di vino e ostentazione nell’abbigliamento, all’esercizio della pazienza con malati difficili, a non dar prova di avarizia nell’esigere il pagamento delle tariffe. Le motivazioni del comportamento medico quotidiano non dimostrano un orizzonte più alto di quello dell’opportunismo. Anche nell’ambito della cristianità, il comportamento concreto del medico si modella secondo criteri che chiameremmo secolari. Per quanto riguarda l’etica, invece, gli scritti a nostra disposizione combinano gli ideali ippocratici (in senso filantropico) con quelli cristiani. Si configura cioè un “ippocratismo cristiano”, in cui i precetti ippocratici — in particolare le ingiunzioni circa la somministrazione di veleni, l’aborto e la violazione della fiducia del paziente — non costituivano un codice di condotta imposto da un’istanza professionale dotata di autorità, ma piuttosto un insieme di ideali che il medico di nobili intenzioni era esortato a seguire. La forma più vistosa dell’ippocratismo cristiano è la revisione del giuramento “in modo che un cristiano possa giurarlo” 13. L’invocazione ad Apollo e alle altre divinità viene sostituita con quella della Trinità; cadono le clausole relative all’esercizio della chirurgia e alla condivisione dei beni e conoscenze con i membri della
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famiglia del maestro; permangono invece le proibizioni tradizionali relative a veleni, aborto e divulgazione dei segreti. La modifica della parte del giuramento concernente i rapporti tra maestro e discepolo è interpretata da Jones come superamento di una concezione elitaria, incompatibile con l’universalismo cristiano. Più radicalmente, le clausole che codificavano gli obblighi assunti dal discepolo all’essere cooptato nella famiglia del maestro non avevano più ragione di esistere, essendo cambiate le modalità dell’insegnamento della medicina. Non è escluso che si possa riconoscere un’eco del senso di fratellanza cristiana nell’impegno a “insegnare quest’arte a chiunque lo richieda, senza invidia e senza richiedere un contratto”. In epoca medievale le influenze del giuramento ippocratico sono rintracciabili anche al di fuori dell’area cristiana. Le ritroviamo nel “giuramento di Asaf”, contenuto in un manoscritto del VII secolo, la più antica opera medica della letteratura ebraica. Il giuramento appare anche in versione musulmana, in cui la sola modifica significativa è la sostituzione del pantheon greco con affermazioni in armonia con la teologia islamica 14.
Nella transizione dal medio evo alla civiltà occidentale moderna il giuramento di Ippocrate continuò ad essere modello per l’ideale etico dei medici. In alcune scuole di medicina si richiese, al termine del curriculum e prima di iniziare ufficialmente l’esercizio della professione, di tenere il giuramento nella sua forma originale: una pratica che non è del tutto scomparsa neppure al giorno d’oggi. La valorizzazione più enfatica del giuramento fu quella che ne fece il regime nazista in Germania. Si tratta, piuttosto, di una cinica strumentalizzazione. Himmler ne fece fare un’edizione di cui egli stesso scrisse la prefazione. Il giuramento, a suo dire, “contiene un’eredità di pensiero ariana, che attraverso duemila anni ci parla un linguaggio vivo” 15. Sotto la pressione nazista il giuramento, che aveva avuto per lo più un’esistenza marginale, fu diffuso ampiamente nell’ambito medico. Esso fu assunto a simbolo di un’etica particolare del corpo medico, che il regime distorceva nel senso di una fedeltà e lealtà dei medici agli indirizzi ideologico-sanitari del nazismo 16.
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Dopo il nazismo il giuramento ippocratico cadde in sospetto. Una delle prime preoccupazioni dell'Associazione Medica Mondiale, nell’assemblea generale tenutasi a Ginevra nel 1948, fu una dichiarazione che restaurasse l’immagine della medicina dedita ai fini umanitari, dopo i crimini medici che agghiacciarono l’opinione pubblica al processo di Norimberga. Pur abbandonando lo schema ippocratico tradizionale, la dichiarazione di Ginevra non rinuncia al simbolo del giuramento. Un giuramento laico, ormai, in cui l’istanza suprema a cui si fa appello è l’onore del medico che assume gli impegni. Affinché il giuramento potesse essere applicabile alle condizioni moderne della prassi medica, le affermazioni circa le responsabilità del medico di fronte al suicidio, all’eutanasia e all’aborto sono sfumate in generalizzazioni. Il medico si impegna a “mantenere il massimo rispetto per la vita umana fin dal tempo del concepimento, a non usare, anche sotto minaccia, le conoscenze mediche contrariamente alle leggi dell’umanità”.
Un’esplicita ostilità al giuramento di Ippocrate, quale simbolo dell’etica capitalistica, è nutrita nei paesi socialisti. Gli studi dedicati all’“ethos ippocratico” dalla sezione marxista-leninista della facoltà di medicina di Halle, nella Rep. Popolare Tedesca, possono valere come illustrazione didattica dell’ideologia medica socialista 17. L’interpretazione marxista della storia non può accettare l’esistenza di un’etica medica atemporale. L’etica, come tutte le sovrastrutture, è determinata dai rapporti socio-economici esistenti nella società. Di qui si passa conseguentemente ad auspicare una nuova etica medica, espressione della nuova società socialista. L’ethos medico socialista viene praticamente ad equivalere alle esigenze sociali della professione: il medico, prima che professionista, va considerato come un membro dello Stato socialista; più che un tecnico, un operatore attivo del nuovo ordine sociale. Tale concezione esula completamente dall’ottica del giuramento di Ippocrate. Nonché, più in generale, da tutto l’umanesimo medico dell’antichità. Secondo Edelstein 18,
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il solo tratto che distingue l’umanesimo pagano dall’atteggiamento cristiano e da quello che sarà proprio dei riformatori umanisti del XIX sec., è la mancanza di ogni riconoscimento di responsabilità sociali da parte del medico. Benché alcune malattie fossero ricondotte alle condizioni sociali, l'evangelo dell’amore fraterno considerava solo la relazione tra il singolo medico e il singolo paziente. L’etica medica socialista non riesce perciò a fare l’opera di assimilazione del documento ippocratico che invece è felicemente riuscita ad altri orientamenti e culture. Gli ideologi comunisti tedeschi, pur riservando al giuramento il rispetto dovuto a un documento storico del passato, auspicano la creazione di un nuovo giuramento, che renda ragione degli aspetti peculiari dell’etica medica socialista 19.
L’auspicio ha trovato realizzazione nel giuramento che il Presidium del Soviet Supremo ha imposto a tutti i medici russi, nel 1971. Anche se il giuramento ippocratico ha fatto da padrino, non sopravvivono più neppure le rassomiglianze formali. Il giuramento ha un significato esplicitamente politico. Il giovane medico si impegna ad esercitare là dove la società ha bisogno della sua opera e ad aderire internamente ai principi marxisti e all’etica comunista che regolano la società (“lasciarmi guidare in tutte le mie azioni dai principi della morale comunista, ricordarmi sempre dell’alta vocazione del medico sovietico e della responsabilità nei confronti del popolo e del governo sovietici”). All’ideale di dovere umanitario nei confronti del singolo paziente è sovrapposto l’impegno del medico a servire gli interessi della società.
3. Pro e contro il giuramento ippocratico
Generazioni di medici hanno considerato il giuramento di Ippocrate come la “magna carta” dell’etica medica. Eppure oggi l’unanime rispetto che la tradizione ha creato attorno a questo documento è infranto da alcune voci critiche. Non è più sufficiente nominarlo, per evocare l’indiscusso riferimento dei medici alle più alte idealità umanitarie. Nei confronti del giuramento ippocratico è subentrato un centro disincantato, indubbiamente facilitato dalla divulgazione degli studi filologici e storici che hanno permesso di comprenderne con più precisione la natura e la finalità. Oggi sappiamo che l’antichità è stata molto meno “ippocratica”
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di quanto una certa tradizione, nutrita di retorica, ha voluto far credere. Per alcuni critici l’interpretazione del giuramento ippocratico in ambito medico è l’esempio eclatante delle distorsioni che ha subito la storia ad opera di medici, a servizio della loro concezione elitaria ed esclusiva della professione: gli aspetti corporativi e utilitaristici del giuramento sono stati passati sotto silenzio; il giuramento ha potuto così essere reso simbolo di un ethos astorico, con pretese universalistiche 20. Non è un caso ― osservano alcuni con fastidio — che il giuramento venga puntualmente tirato in ballo dall’ala meno progressista dei medici quando si discute di problemi di etica o di politica sanitaria, per brandirlo contro una concezione più sociale della medicina. Presso i rappresentanti della medicina liberale il giuramento, magari riprodotto in formato pergamena, è contornato di una venerazione che non può essere rapportata al suo effettivo contenuto. In alcune facoltà viene anche oggi consegnato in forma solenne ai neo-laureati in medicina. Anche persone non sospette di faziosità partigiana hanno espresso le loro riserve rispetto a questa pratica. I giovani medici — nota ironicamente lo storico della medicina Sigerist — giurano che non eseguiranno operazioni chirurgiche, che sono pronti a condividere lo stipendio con i loro insegnanti e a considerare i loro figli come figli propri. Eppure i medici non esitano a fare operazioni, e molti pochi medici hanno condiviso le loro entrate con il loro professore e adottato i suoi figli; tradiscono segreti professionali, quando si tratta dell’interesse della comunità. I problemi dell’aborto sono regolati dalla legge e una gravidanza viene interrotta quando esiste indicazione medica 21. Il giuramento nel suo tenore tradizionale è chiaramente inadeguato a offrire direttive etiche per il lavoro pratico del medico di oggi. Se una parte dei medici vi resta così ostinatamente attaccata, si spiega non con il contenuto del giuramento, bensì con il significato simbolico che ha acquisito. Esso esprime non un’etica comune al corpo medico, ma l'esprit de corps che unisce i medici; fonda miticamente l’ordine di un gruppo. Coloro che avversano l’organizzazione corporativistica della medicina sono ostili al giuramento, in quanto con la sua semi-sacralità rituale consacra un’autocomprensione della classe medica come una casta. Secondo Lüth, la funzione del giuramento ippocratico sarebbe analoga a quella dell’araldica e continuerebbe ad accreditare una concezione della storia della professione medica come di una successione quasi-apostolica...
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Le critiche non si rivolgono, dunque, al giuramento nella sua realtà storica, bensì all’uso che viene fatto, e alla comprensione dell’identità professionale del medico che su di esso si fonda. Si rimprovera al giuramento di ostacolare il passaggio a una concezione della medicina meno impregnata di sacralità, più agganciata al gioco dei rapporti democratici, nella rispondenza rispettiva dei diritti e dei doveri. Esso rispecchia inoltre una visione della medicina centrata sulla persona del medico. Nel giuramento manca qualsiasi riferimento ai collaboratori del medico, che ― ieri come oggi — sono parte essenziale di qualsivoglia impresa terapeutica. Anzi, oggi ancor più di ieri, perché la medicina è in misura determinante lavoro d’équipe, opera di collaborazione. Tuttavia la figura del medico come eroe che si staglia solitario sulla massa, obbligato da un ethos particolare, è resistente a ogni trasformazione; l’uso di un giuramento per essere introdotti nella professione contribuisce a perpetuarla. È assolutamente aliena al giuramento un’ottica relazionale, in cui emerga anche il paziente come soggetto di diritti e doveri, in un rapporto di cooperazione che non esclude il conflitto. Nel giuramento il paziente è sospinto sullo sfondo, come oggetto cui è riservata la nobile abnegazione del medico.
Non c’è, dunque, più posto nella nostra epoca per il giuramento medico, ippocratico o “revisionato” che sia? La conclusione sarebbe affrettata. Lo dimostra l’uso del giuramento nell'Unione Sovietica. La concezione socialista della medicina, della sua articolazione con la realtà sociale e dello statuto professionale del medico, sono “toto coelo” diverse da quelle dell’area culturale che ha prodotto la medicina liberale. Eppure si è preferito rimodellare il giuramento, piuttosto che rinunciarvi del tutto.
Oggi siamo più che in passato acutamente coscienti delle ambiguità che possono deformare il senso del giuramento. Ciò non giustifica però nessun tentativo di ridurre P“ethos ippocratico” a un puro flatus vocis. Esso è venuto a significare l’obbligo che ha il medico di servire non solo l’uomo in carne ed ossa che si affida alle sue cure, ma l’umanità. Una dottrina utopica che ha, tra l’altro, il merito non trascurabile di evidenziare lo scarto tra l’ideale e la pratica quotidiana. Come tutte le dottrine utopiche, anche l’ethos ippocratico — e il giuramento che ne è diventato simbolo — apre al reale l’orizzonte del possibile.
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Capitolo Secondo
LA DEONTOLOGIA MEDICA
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L’aspirazione a essere non solo un medico, ma un “buon” medico, è una costante che percorre tutta la storia della medicina. I criteri per stabilire che cosa costituisca la bontà” del medico variano da cultura a cultura, e nelle diverse epoche. Gli ideali personali e i valori si intrecciano con le richieste sociali, le norme che si ispirano alla religione con quelle che si fondano sulla ragione. Per misurare la complessa varietà di questo “di più”, oltre la competenza professionale, che si richiede al medico, basta pensare alle diverse forme letterarie che l’hanno veicolato: preghiere (come quella famosa attribuita a Mosè Maimonide), giuramenti (da quello di Ippocrate al giuramento che il Soviet supremo ha imposto ai medici russi), codici deontologici, civili e penali. Il criterio scelto per stabilire delle norme può essere religioso o razionale; l’istanza obbligante può essere la coscienza, la società o il corpo professionale. Conseguentemente, variano anche la qualità e la forza delle sanzioni. In questo complesso di prescrizioni vogliamo isolare quelle che confluiscono nei codici di deontologia professionale. Cercheremo di comprendere che cosa significa essere un “buon” medico in senso deontologico. Ne risulterà anche una più chiara articolazione con la bontà etica e con quella che deriva dalle più alte aspirazioni morali ispirate dalla religione.
1. Dall'“etichetta” medica alla deontologia
Nella storia della professione medica è emersa precocemente la convinzione che fosse opportuno codificare non solo le conoscenze di patologia
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e di terapia, ma anche le regole relative al comportamento che il medico deve tenere con il paziente. In occidente svolgono il ruolo di antenati gli scritti ippocratici di natura deontologica (Sul decoro, Sul medico, Precetti...).
Indicazioni sul comportamento corretto sono frequenti nei trattati medievali di medicina. Non mancano neppure abbozzi di una regolazione dei rapporti con gli altri medici, all'interno della professione. Lentamente si è formato un corpo di regole pratiche che costituiscono ciò che potremmo chiamare l’“etichetta” medica. Mentre l’ethos ippocratico, simboleggiato dal giuramento e ripensato in termini cristiani, continuava a costituire il punto di riferimento ideale della medicina occidentale, sulla base dell’“etichetta” medica si veniva a costruire, fin dall’inizio del XIX sec., un corpo precettistico che sarà a più riprese codificato nei codici deontologici.
Prima di discutere la nozione tecnica di deontologia, ne vogliamo fornire un’immagine diretta riferendoci all’opera che svolge indiscutibilmente la funzione di prototipo: la Medical Ethics di Thomas Percival (1740-1804). Il trattato, scritto nel 1794 e pubblicato nel 1803 22, si inseriva in un dibattito molto vivo nell’ambiente medico del tempo. Ben presto gli fu riconosciuta un’autorità indiscussa, consacrata successivamente dall’essere stato assunto a modello per il codice dell’American Medical Association del 1847. Il motivo del nostro particolare interesse per l’etica di Percival risiede nel fatto che questi, nel proporre ai medici il primo disegno organico di condotta professionale, faceva trapelare l’ideologia che diventerà tipica della professione medica moderna e che continua a sottendere la nozione stessa di deontologia.
Il materiale era distribuito in quattro sezioni, che trattavano rispettivamente della condotta del medico negli ospedali, del comportamento da tenersi nell’esercizio privato della professione, del rapporto dei medici con i farmacisti e dei doveri professionali in determinati casi che richiedono la conoscenza della legge. La sezione di maggiore interesse per la deontologia è la seconda: su di essa si fonderà appunto, mezzo secolo più tardi, il codice deontologico americano, il primo della storia della medicina. Gli obblighi di un medico vengono fatti risalire alle diverse
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istanze obbliganti: il medico stesso in quanto persona, il rispetto dei colleghi, farmacisti e altro personale impegnato nella cura dei malati, e infine la legge. Quanto al primo aspetto, ad esempio, Percival considera il medico come un “gentleman”. Molte regole di comportamento vengono dedotte da questo carattere fondamentale. In quanto gentleman, il medico “deve unire la delicatezza con la fermezza, la condiscendenza con l’autorità”; in camera operatoria deve regnare un “silenzio decoroso”; il medico deve cambiare il grembiule tra un’operazione e l’altra; deve essere temperante, puntuale e ricevere “una regolare educazione accademica”. Gli aggettivi ricorrenti per qualificare il medico-gentleman sono: prudente, ragionevole, autoritativo ma umile, autocritico, colto. La condotta ideale che il medico doveva a se stesso in quanto gentleman si rifletteva ovviamente nel rapporto con i pazienti e con i colleghi.
La preoccupazione principale che traspare in questo primo corpo di norme deontologiche è quella di costruire un rapporto di fiducia con il paziente. A tal fine il medico deve dar prova delle virtù che fanno parte del patrimonio etico di qualsiasi persona — umanità, costanza, segretezza, delicatezza —; in più gli sono richiesti, nel rapporto con il paziente, alcuni comportamenti particolari: un ragionevole numero di visite; non abbandonare il paziente condannato; ammonire il paziente che sta soffrendo il fio del suo peccato (!); astenersi da previsioni fosche, eccetto quando il paziente debba predisporre la propria morte. Vengono anche prese in considerazione le norme per il trattamento economico: le tariffe devono essere commisurate alla condizione economica del paziente.
Un secondo polo attorno a cui si distribuiscono le regole è quello del rapporto con gli altri medici. Vengono dettagliatamente prese in considerazione le procedure da seguire nelle varie situazioni: il consulto con colleghi che hanno ricevuto una formazione accademica e con medici “selvaggi”; come subentrare a un altro medico nella cura del paziente; la salvaguardia della reputazione del corpo medico, astenendosi dalle critiche ai colleghi. Su questo ultimo punto Percival afferma testualmente: “L’Esprit de corps” è un principio di azione fondato sulla natura umana e, quando è debitamente regolato, è razionale e lodevole. Chiunque entri in una fraternità si impegna, mediante un tacito contratto, non solo a sottomettersi alle leggi, ma a promuovere l’onore e l’interesse della associazione nella misura in cui coincidono con la moralità e con il bene generale dell’umanità. Il medico, perciò, dovrebbe con ogni attenzione guardarsi da ciò che potrà recare ingiustizia alla rispettabilità in genere
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della sua professione; e dovrebbe evitare quelle immagini che sono offensive per la facoltà nel suo insieme; tutte le accuse generiche contro la probità; e di indulgere allo scetticismo, simulato o per gioco, circa l’efficacia e l'utilità dell’arte terapeutica”.
Per Percival la buona condotta andava a vantaggio sia del medico e della professione, che del paziente. Studi recenti 23 hanno messo in evidenza che questo primo abbozzo di deontologia professionale si inserisce nel dibattito allora vivo tra i medici in Inghilterra e rispecchia la concezione conservatrice dell'Illuminismo medico (che Percival fosse permeato di ideali illuministici lo dimostra la sua corrispondenza con Voltaire, Diderot, D’Alembert). L’etica che Percival produce a nome del corpo medico va vista come una risposta al liberalismo di Adam Smith. A differenza di Smith, Percival si oppone alle tendenze individualistiche nell’organizzazione sociale e al vantaggio economico come spinta sociale motivante. Alla concezione economica liberale contrappone una professione che trascende l’interesse personale e si ispira a un ideale che solo un uomo di indirizzo morale superiore può seguire. In tal modo evita che all’interno del corpo medico si introduca il tarlo della competizione; ma allo stesso tempo rafforza la struttura corporativa della medicina. L’ideale etico e le norme che lo incarnano mostrano la loro funzionalità: dare alla medicina uno statuto professionale differente, sottratto alla logica del liberalismo economico. Il comportamento uniforme dei medici, secondo le regole che si sono liberamente imposti, diventa così un insuperabile strumento di integrazione professionale.
Dalla presentazione, benché sommaria, del progetto di Percival e dello spirito che lo anima, emerge l’orizzonte ideologico in cui si colloca la deontologia fin dai suoi primi inizi. La sua funzione è quella di sviluppare standards di condotta che permettano al medico di curare correttamente i malati, e allo stesso tempo di incrementare la dignità della professione. Tanto il tradizionale ethos ippocratico quanto l’etichetta che regola il comportamento dei medici tra di loro sono fusi in un progetto organico.
Le norme non sono dedotte da un’etica, religiosa o laica che sia, ma derivate da un corpo sociale intermedio tra lo Stato e l’individuo, e con cui il medico si identifica: il gruppo professionale. La codificazione
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del comportamento serve agli interessi del gruppo; e indirettamente a quelli degli utenti dei servizi medici. Il mantenimento del codice è riservato al gruppo professionale stesso. Addirittura Percival esclude l’idea di un ricorso a sanzioni per coloro che si discostano dal comportamento normativo. Il potere inerente alla deontologia è quello della ragione: i medici hanno un solo modo razionale di comportarsi e, una volta mostrato in quella specie di rivelazione della ragione che opera il codice deontologico, lo seguiranno. Il compito del codice è dunque quello di essere la voce della ragione. Percival lascia trasparire in ciò la sua dipendenza dal pensiero illuministico.
Distaccandoci dal primo modello fornito dall’etica medica di Percival, possiamo a questo punto descrivere la deontologia in un modo più formale, che si avvicina quasi a una definizione. Essa comprende un insieme specifico di doveri (letteralmente significa appunto “scienza dei doveri”), ai quali sono legati i membri di una professione, diversi da quelli imposti dalla legge o derivanti dall’etica alla quale ognuno individualmente si riferisce. Sono i doveri che derivano dal fatto di esercitare una determinata professione 24. Quando la professione si organizza, tende a darsi uno statuto codificato, o almeno delle usanze che precisano i doveri dei membri. Le formulazioni deontologiche codificate, emanate dagli organi ufficiali della professione, godono di autorevolezza. È generalmente considerato legittimo il ricorso alle sanzioni (che possono andare dalle censure puramente morali fino alla sospensione o esclusione del professionista dall’album professionale), affinché i membri del gruppo rispettino i doveri che hanno accettato con la loro adesione. Tali formulazioni deontologiche sono regole che i professionisti considerano essenziali per il buon esercizio della professione comune. Sono, dunque, più che un semplice regolamento. Le si potrebbe chiamare uno “spirito”, che deriva da una percezione collettiva dell’attività svolta, del senso di questa attività e del suo articolarsi con l’organizzazione sociale. La deontologia non si definisce però riferendosi a concetti astratti. Essa tende a concretizzarsi, ha di mira i casi incontrati dal professionista nella pratica quotidiana. Con riferimento a simili casi, le prescrizioni deontologiche danno imperativamente soluzioni pratiche e precise, che definiscono i doveri del professionista. Nella forma di codici deontologici la deontologia assomiglia così un po’ a una casistica.
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Ricorrendo a un'immagine, potremmo dire che la deontologia è analoga ai consigli che i fabbricanti pongono alla fine del depliant illustrativo allegato alle macchine che vendono. Quando questi foglietti sono ben fatti, vi si trova, dopo l’inventario dei pezzi della macchina e l’enunciato dei principi del suo funzionamento, un insieme di regole per l’uso, seguite dagli accorgimenti per la migliore utilizzazione possibile della macchina. Con ciò il produttore non fa altro che indicare come rispettare la natura della macchina, sulla base di esperienze e osservazioni del passato fornite dagli utenti stessi.
L’analogia ha certo bisogno di correzioni. Sarebbe improprio far derivare la deontologia unicamente dalla preoccupazione di efficienza utilitaristica. Essa si è sviluppata nel campo delle professioni liberali, che hanno per oggetto l’uomo e i suoi valori. Nel campo della medicina la deontologia si innesta sulla lunga tradizione umanistica ed è strettamente intrecciata con l’ethos ippocratico. Nel complesso, tuttavia, l’analogia con le “istruzioni per l’uso” è convincente. Essa evidenzia il carattere empirico delle norme deontologiche. Queste non equivalgono a una morale professionale, vale a dire a un insieme di precetti elaborati per deduzione da un’etica generale, considerando l’incidenza in un’attività professionale dei valori etici ai quali ci si riferisce. Sono piuttosto il frutto di una riflessione collettiva, stimolata dai problemi suscitati dalla professione, e che superano l’ambito dei regolamenti e della routine. Protagonisti della riflessione deontologica sono professionisti coscienti e critici, che intendono promuovere una prassi professionale efficiente e socialmente ineccepibile.
Quest’ultimo punto merita uno sviluppo: esso ci aiuta a identificare la funzione propria delle norme deontologiche. Queste mirano alla salvaguardia di alcuni valori, necessari in modo particolare nelle attività che fanno appello alla fiducia del cliente verso la persona del professionista. Per questo le professioni liberali sono così sensibili all’onore e alla dignità professionali. L’osservanza delle norme deontologiche è destinata a mantenere la fiducia nel corpo professionale, salvaguardandone la reputazione; si tratta, in ultima analisi, di una forma di autodifesa della professione stessa.
La deontologia, quindi, non è una morale. Le regole della morale possono, in modo contingente, essere incorporate alla deontologia professionale, dal momento che atti valutati come immorali dall’ethos dominante possono essere pregiudizievoli al professionista, e vanno perciò evitati. Tuttavia la deontologia non è, in sé, una specie di morale laica,
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quel minimo comun denominatore etico che fornirebbe un luogo di incontro comune a tutti i membri della professione. È un equivoco che si verifica spesso a proposito della deontologia medica, quando si vuol vedere in essa una sintesi di quei principi etici che tutti i medici riconoscerebbero come obbliganti, qualunque siano le ulteriori specificazioni confessionali e personali. La deontologia medica è invece una realtà contingente, che varia anche con il tempo. Ne offrono una prova i codici deontologici. Non sono una realtà astorica, immutabile; devono essere, invece, costantemente revisionati, al fine di riflettere le variazioni della sensibilità etica generale e dell’organizzazione della sanità. Una breve scorsa all’origine e all’evoluzione di alcuni codici deontologici medici lo conferma.
2. I codici di deontologia medica
Il primo codice medico ufficiale è, in ordine cronologico, quello emanato dall’American Medical Association nel 1847. Ne abbiamo già parlato accennando al legame con l’opera di Percival. La portata innovativa di questa regolamentazione professionale del comportamento medico emerge solo se la ricollochiamo nel suo contesto storico. Gli anni ’30 e ’40 del XIX sec. hanno visto, in America un vivace confronto fra la medicina accademica e le tendenze contestative che confluivano nel “Popular Health Movement” 25. Questo non era che il fronte medico di un’agitazione sociale generale, fomentata dai movimenti femminista e operaio. Il movimento era un attacco radicale all’élite medica e una vigorosa affermazione della tradizionale medicina del popolo. “Every man his own doctor”: era il motto di un’ala estremista del “Popular Health Movement”. Per certe sue iniziative il Movimento per la salute confluiva negli obiettivi del movimento femminista: come per esempio le “Ladies Physiological Societies”, che impartivano semplici istruzioni di anatomia e igiene personale, sotto la spinta a “riappropriarsi del corpo”. Il movimento non rivendicava una maggiore quantità di cure mediche, ma prospettava piuttosto una cura della salute di tipo radicalmente differente.
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Era una sfida alla medicina ufficiale, sia al modo in cui veniva praticata, sia al suo edificio concettuale: un vero e proprio progetto di “medicina alternativa” ante litteram.
All’azione destabilizzante del Movimento Popolare della Salute va aggiunta la concorrenza della medicina omeopatica e dei guaritori. Il centinaio di medici che si riunirono a New York nel 1846 per fondare l'American Medical Association si sentivano in stato di assedio. Si posero come scopo quello di riformare l’educazione medica negli Stati Uniti di sviluppare standards di comportamento che avrebbero migliorato la professione medica “regolare”. Ritenevano infatti essenziale distanziarsi dagli “irregolari”, e accreditarsi come unica istanza professionale cui competeva la cura della salute. Il codice etico che emerse l’anno seguente si inseriva dunque in un progetto esplicito di validazione della professione contro ogni concorrenza da parte dei corpi paralleli. La fiducia del pubblico doveva essere indirizzata esclusivamente verso i medici che avevano ricevuto la formazione accademica e si attenevano alle norme stabilite dal codice deontologico. La professione si univa in una crociata contro i guaritori di appartenenza settaria e contro i ciarlatani. Il codice stabiliva, a tal fine, che i medici regolari non dovessero accettare consulti con chiunque non avesse una licenza ufficiale per esercitare, approvata dall’organizzazione medica locale. Per rendersi conto di quanto fosse esclusivo il gruppo che così veniva a formarsi, basti pensare che prima del 1870 le società mediche regolari non accettavano come membri e proibivano consulti con medici donne e medici negri, e per la seconda metà del secolo con medici che accettassero una qualsiasi designazione settaria. L’osservanza delle norme del codice deontologico autoimpostosi dalle società mediche sortiva così anche un effetto secondario, ma non imprevisto: quello di organizzare i medici in un gruppo sociale e professionale compatto, omogeneo all’interno e chiuso all’esterno.
Dal punto di vista del contenuto, il codice deontologico del 1847 è suddiviso in tre parti, che riguardano rispettivamente: doveri dei medici verso i loro pazienti e obblighi dei pazienti verso i loro medici; doveri dei medici verso gli altri e verso la professione; doveri della professione verso il pubblico e del pubblico verso la professione. Nelle linee fondamentali il codice americano riprende le norme etiche di Percival. Se ne distacca solo in alcuni punti. Nelle regole per la condotta economica, per esempio. Mentre Percival raccomanda di discriminare tra pazienti di diversa disponibilità economica, il codice propone la tariffa a prezzo fisso
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Così rispetto al consulto con i medici senza preparazione accademica: mentre Percival lo considera possibile, il codice dell’AMA lo proibisce. Inoltre il codice pone restrizioni maggiori al segreto medico: non poteva essere altrimenti, volendo rafforzare la fiducia del pubblico verso la professione.
Il codice deontologico americano resta un prototipo, anche se fu riformulato in parecchie riprese (nel 1903, 1912, 1949, 1957). Numerosi altri codici, in altri paesi, sono sorti sulla sua scia. I governi nazionali se ne servirono per regolamentare la professione medica 26. Nei codici deontologici dei nostri giorni sono stati inclusi problemi di origine recente. L’accento cade in genere sui problemi dell’aborto, della retribuzione e del segreto professionale. I progressi e i cambiamenti sociali hanno richiesto la determinazione di linee di condotta su problemi particolari: i trapianti di organo (norme dell'AMA del 1968 e dichiarazione di Sidney della Associazione Medica Mondiale sulle precauzioni tecniche nel determinare la morte di un donatore d’organo); rianimazione e trattamento della malattie terminali (“Il medico e il morente”, AMA 1973); sperimentazione con soggetti umani e ricerche biomediche (Ass. Med. Mond., Helsinki 1964 - Tokyo 1975); l’aborto terapeutico (Ass. Med. Mond., Oslo 1970); “la tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, disumani o avvilenti in relazione alla detenzione e alla carcerazione” (Ass. Med. Mond., Tokyo 1975).
L’Associazione Medica Mondiale, stabilitasi nel 1948, incoraggiò i medici a sviluppare degli standards internazionali di etica medica. Il codice internazionale fu adottato nel 1949. Superate ormai le precedenti regolamentazioni dettagliate di etichetta per i consulti e nei rapporti con gli altri medici, la cadenza dominante è quella del riferimento ai valori. Il comportamento del medico dovrebbe essere sostanzialmente ispirato alla “regola d’oro” (“fai agli altri ciò che vorresti che fosse fatto a te”), così come viene specificata dalla pratica. I problemi dell’aborto e dell’eutanasia vengono solo accennati, con riferimento alla responsabilità del medico di preservare la vita. L’afflato idealistico è trapassato anche nella revisione del codice deontologico americano del 1957: invece della casistica tipica dei codici deontologici, comprende “dieci principi”, di valore generale.
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Per quanto riguarda direttamente l’Italia, l’organo competente per stabilire un codice deontologico è la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici. Di recente ha provveduto a rivedere il codice precedente, che datava dal 1956. Il nuovo codice, pubblicato nel 1978, consta di cento articoli, che suddividono la materia in: doveri generali del medico, rapporti con il paziente, rapporti con i colleghi, rapporti con i terzi, enti pubblici e privati. Rispetto al codice precedente, sono state introdotte innovazioni, anche di notevole rilievo. Le innovazioni sono ovvie, qualora si tenga presente la natura particolare della deontologia e la sua differenza dall’etica. Inserendosi come cerniera tra il corpo professionale e la società, la deontologia deve cambiare con il cambiare di questo rapporto. Compito dei responsabili della professione è di favorire quei cambiamenti che mantengono inalterato il rapporto di fiducia degli utenti con il corpo professionale.
La novità più eclatante introdotta dalla nuova stesura del codice di deontologia medica italiano è la caduta del tradizionale rifiuto dei medici a partecipare a interventi abortivi: “L’interruzione della gravidanza è regolamentata con legge dello Stato” (a. 46). Dal momento che la normativa introdotta con la legge 194 prevede, a certe condizioni, la possibilità di praticare l’aborto, il corpo professionale medico rinuncia a porre obblighi deontologici ai suoi membri in quei casi. Infrazione deontologica (“gravissima”), in particolare se fatta a scopo di lucro, è solo la partecipazione ad aborti all'infuori dei casi previsti dalla legge (a. 47). Da notare, in merito all’interruzione della gravidanza, la volontà di limitare le funzioni del medico all’ambito strettamente sanitario, rifiutando la figura del medico-giudice: “Il medico non è tenuto ad esprimere giudizi su circostanze che esulano dalla necessità primaria della salute psico-fisica della donna”. Ricco di spunti innovativi è anche il capitolo che riguarda i rapporti con il paziente. Nella pratica comune questo rapporto è fortemente asimmetrico: al medico tutto il sapere e il potere, al malato la docile soggezione. Il nuovo codice presuppone un malato che prenda parte attiva al processo terapeutico. La verità gli è dovuta; se non direttamente a lui, la prognosi grave o infausta deve essere almeno comunicata alla famiglia. “In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale egli ispirerà il suo comportamento” (a. 30). Dal momento che i nuovi mezzi tecnici permettono di prolungare la vita biologica al di là dell’umano, i medici si impegnano a rinunciare all’accanimento terapeutico e a limitare la propria opera alla “terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze” (a. 40).
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3. Oltre la deontologia professionale
La deontologia professionale costituisce per i medici un motivo di fierezza. Amano vedervi una specie di blasone nobiliare, una garanzia dell’impegno etico che contraddistingue la loro professione. Non tutti condividono però tale entusiasmo; o, quanto meno, non rinunciano a considerare criticamente i limiti e le possibili distorsioni della deontologia medica. Essa si presenta come l’espressione della benevola dedizione del medico al bene del suo paziente e dell’umanità; ma può essere assunta a servizio di cause meno nobili, come potrebbe essere un progetto monopolistico. Nel saggio di Berlant già citato, il carattere monopolistico è fatto risalire all’etica medica di Percival, che ha preparato la strada ai codici deontologici. Il conservatore Percival scrisse infatti la sua etica in un’epoca in cui le corporazioni mediche inglesi, a struttura elittaria, erano sottoposte a un attacco democratico, particolarmente ad opera della concezione economica liberale. Come apologia delle corporazioni, l’opera di Percival era superba; come strumento per integrare la professione, insuperabile. Mentre creava solidarietà tra i medici, estendeva i controlli monopolistici del Royal College of Physicians alle nuove professioni di chirurghi e farmacisti. Era uno strumento per sopprimere la competizione tra differenti tipi di professionisti che avrebbe potuto essere esacerbata dall’apparire di un numero crescente di corporazioni professionali. L’etica medica americana, formalizzata nelle diverse stesure dei codici deontologici, favori la monopolizzazione ancor più di quella di Percival. Abbiamo già visto come sia servita a distinguere il gruppo dei medici accademici dagli “irregolari”, e ad accreditarlo presso il pubblico come Punico corpo cui spettava di diritto la cura professionale della salute. Nelle varie edizioni del codice si rileva una fluttuazione circa il grado di controllo dell’associazione sulla condotta del singolo medico. Mentre il codice del 1847 non poneva come condizione l’affiliazione dell'AMA, ma si limitava a suggerire un certo numero di criteri etici per determinare i confini che legittimavano la professione, quello del 1903 richiedeva invece obbligatoriamente di diventare membri dell’associazione. Per evitare di cadere nei rigori della legge anti-trust, i controlli vennero successivamente allentati, per riemergere con il codice del 1949.
Neppure i critici più severi arrivano a sostenere che tutto sia monopolistico nell’ambito della deontologia medica. Tuttavia è difficilmente contestabile che le norme deontologiche, da mezzo per ordinare la condotta
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dei medici, possono facilmente diventare un mezzo per legittimare i privilegi monopolistici della professione nei confronti dello Stato e del pubblico. In definitiva, tutte le misure volte a indurre nel pubblico la fiducia verso la professione possono risolversi nel senso della monopolizzazione. Esse creano infatti un rapporto paternalistico con il paziente, prevenendo l’organizzazione dei consumatori per una mutua auto-protezione. Mediante l’atomizzazione del pubblico in pazienti vulnerabili, il paternalismo si risolve nel trattare, da parte dei professionisti, con individui frammentati, invece che con gruppi con una propria forza contrattuale. Il potere del medico trova un alleato nelle fantasie di salvezza del paziente. Questi è incline a considerare ogni ostacolo tra sé e il medico come una minaccia personale; di conseguenza, accetta di buon grado il desiderio dei professionisti medici di non trattare con altre controparti che non siano il singolo paziente.
Un attacco più a fondo alla deontologia medica viene sferrato da quanti vi individuano uno dei capisaldi ideologici della “medicina liberale”. Nell’uso comune si intende per medicina liberale quella il cui esercizio obbedisce ai principi della libera scelta del medico da parte del malato, libertà di prescrizione medica, pagamento diretto degli onorari, segreto professionale. Nell’opinione pubblica la medicina liberale è più che un insieme di istituzioni in cui si organizza la cura della salute: è anche un concetto simbolico, con una determinata colorazione etica. La discussione in merito scivola facilmente dal livello dei fatti al confronto di Weltanschauungen: un appuntamento obbligatorio per ogni dibattito sul rapporto tra medicina e politica. I più ardenti difensori della medicina liberale si limitano a opporre un mito ornato di qualità (colloquio singolare, indipendenza, medicina umana) a un mito coperto di difetti che servono da deterrente (medicina statizzata, burocratizzata, servizio sanitario nazionale). Per gli oppositori, la medicina liberale non è che una mistificazione. Spogliata dei suoi paludamenti etici, essa non è che liberalismo economico applicato alla medicina, il modo di produzione capitalista trasportato in ambito sanitario. L’ideologia mistificatrice della medicina liberale è accusata di proteggere e mantenere un sistema che assicura alla maggioranza dei medici una situazione di classe privilegiata. Secondo Guy Caro, autore di una delle disanime più impietose della medicina liberale, essa si baserebbe su un’impostura: “Associando, sotto il concetto di medicina liberale, da una parte dei principi che condizionano in parte la qualità della medicina e suscitano con ciò la fiducia del malato nel suo medico, e dei principi, d’altra parte, che permettono al medico di controllare il livello
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dei suoi redditi, i medici potevano far credere che gli interessi dei malati e quelli dei medici colludessero. Facendosi, come i proprietari di cui parla Emmanuel Mounier, “professori di virtù per difendere i loro interessi”, guadagnano su due campi: quello del loro livello di vita e quello della stima in cui erano tenuti” 27. Per gli oppositori della medicina liberale, il suo riferirsi ai principi deontologici servirebbe a mantenere la confusione tra la difesa del livello di reddito dei medici e quella della qualità della medicina; questa confusione farebbe parte delle armi dei conservatori dell’ordine sociale esistente per impedire i cambiamenti storicamente necessari.
Anche coloro che non si spingono così lontano nel valutare la deontologia medica tradizionale non possono mancare di rilevare le sue carenze circa i doveri sociali del medico. Essa infatti considera esclusivamente i doveri del medico nei confronti del malato che lo consulta, ma resta muta quando si tratta di prevenire la malattia o di occuparsi dei malati che, a causa di barriere economiche, psicologiche o sociali, non accedono al medico. Di fatto i doveri tradizionali del medico non concernono che il malato individuale, mai la comunità. Se si introduce il punto di vista della responsabilità sociale del medico, i punti qualificanti della medicina liberale subiscono forti limitazioni 28. La libertà terapeutica assoluta non può più giustificarsi: a parità di efficacia, il medico ha il dovere di prescrivere la medicazione meno costosa per il malato e per la società. Il segreto medico è in conflitto con una efficace politica sanitaria. Questa, infatti, ha bisogno di basarsi su dati certi riguardanti la morbidità, su inchieste epidemiologiche, sociologiche ed economiche. Salvo restando il diritto del malato alla sua privacy, il segreto medico non può essere considerato oggi un assoluto. L’organizzazione sociale della medicina richiede un difficile equilibrio tra un’indispensabile discrezione, la cui assenza porrebbe una barriera all’accesso del paziente presso il medico, e il bisogno di raccogliere i dati necessari all’elaborazione di una vera politica della salute. Anche l’altro pilastro della medicina tradizionale, il pagamento all’atto, non è più sostenibile. Il sistema di retribuzione tra il medico e il paziente era funzionale alla società liberale. Gli onorari erano, per principio, proporzionali al servizio reso, alla notorietà del medico e alla situazione finanziaria del malato. Questo sistema, perfettamente coerente, è stato reso caduco dall’evoluzione sociale. Il corpo medico ha accettato di
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rinunciare al principio del pagamento all’atto e di entrare nel sistema assicurativo, con il rimborso forfettario degli atti medici. Un passo ulteriore è stato fatto con la creazione di un servizio sanitario nazionale. La nuova politica della salute, fondata su una concezione sociale della medicina, sconvolge l’ideologia liberale e mette in questione la deontologia professionale che su di essa si fonda. Le codificazioni tradizionali del comportamento medico — preghiere, giuramenti, codici deontologici — riposano, infatti, sul presupposto che i doveri del medico si strutturano sul rapporto diadico medico-paziente. La medicina sociale ha radicalmente rimesso in discussione proprio tale concezione. È diventato chiaro che gli aspetti sociali della prevenzione e cura delle malattie non possono essere adeguatamente trattati all’interno del rapporto medico-paziente. Il “modello cinese” del medico al servizio del popolo 29 costituisce certamente un’utopia per l’Occidente. La sua divulgazione ha contribuito, cionondimeno, a coagulare le richieste di un’alternativa alla medicina derivante dall’organizzazione capitalistica della società. La medicina sociale provoca uno spostamento di ottica che ha conseguenze decisive per l’etica: dalla cura alla prevenzione, dalla patologia localizzata alle cause strutturali che risiedono nelle condizioni di vita, dal servizio al singolo paziente all’obbligo verso tutti i cittadini. Non solo al singolo medico, ma alla professione in quanto tale si domanda di cambiare l’atteggiamento verso la società. Solo abbandonando la mentalità corporativistica i medici riescono a vedere il proprio ruolo all’interno di una più vasta organizzazione, che abbraccia tutti i professionisti della salute. Il servizio alla società ad essi richiesto si apre allora su un impegno etico molto più ampio di quello contemplato dai codici deontologici.
La rifondazione della deontologia su base sociale non è ancora avvertita in ambito medico. Le formulazioni fatte dai medici stessi, anche le più recenti, sono impregnate di paternalismo: è il medico che determina quale azione sia più conforme agli interessi sia del medico che del paziente. Al polo opposto, le “carte dei diritti del malato” sorgono su base rivendicativa: i consumatori dei servizi medici richiedono di essere presi in considerazione come soggetti nelle questioni che riguardano il loro benessere. In una situazione che si configura come di transizione, la deontologia medica ha ancora una sua utilità; ma in futuro dovranno essere raggiunte nuove frontiere etiche, in cui le prospettive unilaterali della deontologia saranno incluse in una prospettiva più ampia dell’interazione sociale.
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Capitolo Terzo
IL RIFERIMENTO ALLA COSCIENZA NELLA PROFESSIONE MEDICA
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Quando qualcuno nell’esercizio della sua professione si appella alla coscienza suscita istintivamente rispetto. La coscienza individuale nella gerarchia di valori del nostro universo culturale occupa il posto più alto. Ad essa si attribuisce la decisione ultima. Dalla coscienza dipende la qualità etica del comportamento: ciò che è in accordo con essa ha un valore morale positivo; l’infrazione del dettato della coscienza inquina la moralità anche di un atto in sé buono. Il ricorso alla coscienza è circonfuso da un’aura ancor più sacrale quando si tratta della professione medica, dal momento che il medico ha potere sulla vita di altri esseri umani.
La coscienza è, per sua natura, un’istanza insindacabile. Ciò non la sottrae però a qualsiasi forma di critica. In particolare, non può essere elusa la questione fondamentale: c’è veramente la coscienza dietro gli appelli alla coscienza? I “maestri del sospetto” ci hanno fatto aprire gli occhi sull’abisso esistente tra il linguaggio e la realtà. Non sempre siamo soggettivamente coscienti delle mistificazioni. Talvolta ci limitiamo a considerare le relazioni sociali apparenti, senza avvertire la realtà sociale di sopraffazione che nascondono. Oppure ci accontentiamo di ciò che le difese del pensiero cosciente lasciano filtrare, ignorando la realtà psichica repressa. Non soltanto chi è andato a scuola dal marxismo e dalla psicoanalisi è stato educato al sospetto sistematico. Anche l’uomo della strada ha imparato a diffidare delle parole altisonanti, a distinguere tra ciò che il linguaggio rivela e ciò che nasconde.
Le mistificazioni possono essere involontarie; per questo sono così pericolose. Specialmente quando coinvolgono la coscienza, il frutto più sublime e più fragile che l’educazione etica dell’umanità ha prodotto.
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Corruptio optimi pessima: lo sapevano anche gli antichi.
Poiché dunque l’appello alla coscienza può dar adito a mistificazioni, grossolane o raffinate che siano, è opportuno sottoporre l’obiezione di coscienza in campo medico a una riflessione critica. Non al fine di screditare l’obiezione, o per scoraggiare il ricorso ad essa, ma piuttosto per mettere in evidenza le condizioni che la rendono autentica e credibile; dunque, in sostanza, per promuovere un’obiezione di coscienza di qualità etica ineccepibile.
Il nostro interesse non va alla casistica, bensì al processo psicologico-sociale dell’obiezione di coscienza in quanto tale. L’appellarsi alla coscienza è come un sasso gettato in acque stagnanti, una provocazione alla prassi comune. Lasciando le nostre riflessioni estendersi come il gioco dei centri concentrici sull’acqua, entreremo in un complesso di interrogativi inquietanti che concernono l’esercizio della professione, le motivazioni del comportamento, l’esperienza religiosa. In sostanza, sottoporremo l’appello alla coscienza a una progressiva chiarificazione semantica a un triplice livello: deontologico, etico e religioso.
1. La coscienza come istanza etica
Per situarci d’emblée nell’ordine della coscienza etica pensiamo alla situazione che evoca l’accorata domanda: “Dottore, che decisione prenderebbe se si trattasse di sua figlia o di sua moglie?”. La domanda presuppone che, oltre alla coscienza professionale, esiste un’altra istanza. La cosiddetta “coscienza professionale” non è altro che l'ethos che caratterizza una determinata professione. A un’analisi ulteriore l'ethos professionale risulta dotato di una duplice rilevanza: giuridica ed etica. Il primo punto di vista costituisce il diritto professionale, strutturato come un insieme di prescrizioni di legge legate a una determinata professione. Esso specifica le obbligazioni di chi la esercita. Le infrazioni di tale normativa sono perseguibili penalmente. Ma l'ethos professionale non è ristretto a quanto può portare di fronte al giudice. C’è anche un insieme di doveri che dipende da un’altra fonte, quella che abbiamo chiamato l’istanza etica. Sono i doveri che costituiscono la deontologia di una professione. Oltre a questa coscienza professionale, esiste dunque un’istanza superiore, a cui si può far appello in situazioni eccezionali. Se
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il medico è interpellato in quanto medico, può lasciarsi guidare dall'ethos deontologico; ma, interpellato in quanto uomo, e dovendo prendere una decisione “in coscienza”, dovrà ispirarsi a un altro ordine di valori.
La domanda da cui siamo partiti evidenzia alcuni tratti che connotano la coscienza morale. Questa è una relazione intrinseca dell’uomo con se stesso, grazie alla quale l’individuo può conoscersi in modo immediato e privilegiato, e perciò giudicarsi con sicurezza. L’accesso alla coscienza di un altro non può essere forzato; la coscienza non si apre dall’esterno ma solo dall’interno, per libera automanifestazione del singolo all’altro uomo. La sfera d’interiorità costituita dalla coscienza è avvertita come realtà superiore e privilegiata. In quanto organo per la veracità e l’onestà, conferisce alle azioni caratteristiche peculiari: le rende libere, responsabili; in una parola: morali.
In questa sommaria descrizione della coscienza si sarà riconosciuta la concezione che, dall'illuminismo in poi, rappresenta l’ideale più alto di civiltà nell’ambito della cultura occidentale. L’uomo emancipato è quello che ha superato l’“etoronomia” — sia quella parentale del bambino che quella sociale del primitivo — per accedere all’“autonomia”, vale a dire una condotta guidata dalla coscienza. Un’azione compiuta secondo coscienza suscita un rispetto che confina con la venerazione. Si può addirittura parlare di una “religione della coscienza” come caratteristica della cultura illuministica di cui siamo figli.
Nessuno si sognerebbe oggi di contestare il ruolo preminente attribuito alla coscienza nella gerarchia di valori. Prima però che la coscienza possa rivendicare i suoi privilegi di istanza inappellabile e suprema, deve rispondere ad alcune questioni della massima importanza. Quali sono le decisioni che vengono veramente prese in coscienza? Esistono validazioni in grado di accreditare o inficiare gli appelli alla coscienza? Come si forma e come si evolve la coscienza?
Iniziamo dall’ultima questione. Parlare di formazione della coscienza implica una prospettiva dinamica ed evolutiva, secondo la quale la coscienza non esiste come un elemento immutabile, simile ai tratti trasmessi tramite il meccanismo dell’eredità genetica. La coscienza esiste, piuttosto, in potenza; spetta all’educazione creare le condizioni per il suo sviluppo. La coscienza del bambino non si lascia comparare con quella dell’adulto. Gli adulti sono così lontani dal continente perduto dell’infanzia che stentano a rendersi conto che persino la nozione di “intenzionalità”
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è acquisita. Per l’adulto la presenza di un’intenzione, pur non essendo sempre un fatto percettibile, è però un dato di cui occorre sempre tener conto per valutare la qualità di un’azione. Non così, invece, per il bambino. Gli studi di J. Piaget 30 hanno dimostrato che il pensiero infantile è per lungo tempo permeato di realismo, che comporta il primato dei dati percettivi su quelli rappresentativi. Il bambino deve percorrere un lungo cammino prima di giungere a scindere la presenza di un’intenzione dal risultato concreto dell’azione che essa suscita o guida, e a rendersi così conto che a una stessa intenzione possono corrispondere risultati diversi o, viceversa, che può verificarsi uno stesso risultato benché le intenzioni siano diverse. A Piaget dobbiamo l’ipotesi dell’esistenza di due moralità: una eteronoma o di costrizione, l’altra autonoma e fondata sulla cooperazione. Secondo la prima, che si ritrova nei bambini più piccoli, ciò che la regola o l’adulto comandano deve essere fatto e la disobbedienza è comunque un atto riprovevole; secondo la morale autonoma, che si impone più tardi sostituendosi — talvolta non interamente — alla prima, una regola ha quel valore che concordemente si decide di darle.
Affermando che la persona adulta e matura è solo quella che si lascia guidare nel suo agire da motivazioni di coscienza, si ottiene senza difficoltà il consenso generale. Non esiste invece un modello di sviluppo della coscienza che si imponga in modo indiscutibile. A titolo orientativo ci riferiamo a quello proposto da Charles Hampden-Turner, che si ispira alle teorie della personalità proposte dalla corrente nota come “psicologia umanistica” 31. Secondo questo modello, prima di giungere all’azione orientata alla coscienza si passa per numerose fasi, che possono essere così schematizzate:
― Orientamento di obbedienza (analogo alla moralità eteronoma di Piaget). L’azione è motivata dalla volontà di evitare punizioni o fastidi. Deferenza somma verso il potere; concezione oggettiva e non ancor soggettiva della responsabilità (Piaget lo chiama “realismo morale”: convinzione che commettere certi atti è cosa in sé cattiva e costituisce una colpa, indipendentemente da ogni considerazione del contesto psicologico che precede o accompagna il loro svolgersi).
― Orientamento egoistico strumentale. L’azione è orientata al soggetto stesso e ai propri bisogni: è giusta quella che li soddisfa. Questo atteggiamento
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non esclude eventualmente l’orientamento a bisogni degli altri. Determinante in questa fase è la concezione che non esistano valori assoluti: ogni valore è relativo ai bisogni e alle prospettive del singolo agente.
― Orientamento al ruolo. La formazione della personalità individuale passa attraverso l’accettazione di un ruolo. Questa accettazione permette di prevedere le azioni degli altri e di adattarvi la propria condotta. Una condotta orientata al ruolo implica la conformazione alle immagini stereotipate della maggioranza e l’intenzione di adattarsi al giudizio sociale su ciò che è naturale per un certo ruolo. Prototipo di questo atteggiamento è il bambino adattato che, pur di piacere, compiace. In ognuno che sia passato attraverso il processo di socializzazione è presente il “bravo ragazzo”, teso a riscuotere l’approvazione altrui.
― Orientamento alla legge. È l’orientamento a mantenere l’autorità e l’ordine sociale come fine a se stesso. Ispira il comportamento di coloro che “fanno il proprio dovere”, ne sono fieri e appagati. La concordanza personale con quanto si presenta con le caratteristiche di “ordine” esaurisce le esigenze morali presenti a questo livello.
― Orientamento al contratto sociale. Il dovere è qui definito in termini di contratto. È presupposto che ci si sia resi conto che nelle norme e nei ruoli c’è un elemento arbitrario, che dipende da un accordo sociale. L’azione ispirata ad esso intende evitare di violare il volere o i diritti degli altri e vuol favorire la volontà e il benessere della maggioranza.
― Orientamento ai principi o alla coscienza. È il comportamento di chi, al di là dell’orientamento alle regole sociali effettivamente ordinate, si ispira a principi di libera scelta personale. A questo livello il principio direttivo delle azioni è la coscienza. Il giudizio che si basa sui principi e sulla coscienza è la forma più elevata di giudizio morale. È proprio della persona matura, che ha completato la formazione della propria coscienza.
L’obiezione di coscienza è un caso particolare, di origine conflittuale, del comportamento morale adulto, ispirato ai principi etici. Prima però di considerare questo caso particolare, completiamo il quadro della personalità dell’uomo eticamente maturo. La persona matura, che si ispira ai principi, non equivale al “dogmatico”. Utilizzando la distinzione messa in uso da Rokeach 32, diremo che, a differenza del dogmatico è dotata di un quadro mentale “aperto”, non “chiuso”. Ciò vuol
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dire che la sua percezione abbraccia tutta la realtà, compresa l’intera gamma dei dilemmi. La sua è una percezione decentrata, capace di cogliere i bisogni degli altri, anche quelli che contraddicono i propri.
Grazie a una personalità tanto forte da non conformarsi alle aspettative di ruolo imposte dall’ambiente culturale, la coscienza adulta può affrontare la drammatica eventualità della situazione di conflitto. Può avvenire infatti che il soggetto etico si trovi nella situazione in cui l’orientamento ai principi e alla coscienza si oppone alle altre istanze. Non è una eventualità da presumere con troppa facilità. Normalmente le varie istanze si integrano abbastanza armonicamente, o quanto meno convivono; e solo una minima parte dei nostri atti morali fa appello diretto alla coscienza. Ma il caso eccezionale in cui l’orientamento alla coscienza si opponga agli altri orientamenti può crearsi. Allora la struttura etica è messa alla prova e il soggetto si trova di fronte a un dilemma: o sacrifica il riferimento alla coscienza, appoggiandosi a una delle altre motivazioni (secondo lo schema gerarchico che abbiamo proposto: esegue il comando che gli evita la punizione, si orienta secondo i propri bisogni, fa ciò che ci si spetta da lui, ciò che prescrive la legge, agisce secondo gli impegni che si è assunto verso la società); oppure investe tutto il suo potenziale morale sui principi, affrontando le conseguenze del conflitto. Le quali possono essere, in una tragica escalation: la soppressione del contratto sociale, lo scontro con il rigore delle leggi vigenti, la disapprovazione sociale per il non adempimento delle aspettative di ruolo, il disagio personale e, infine, la punizione. Due esempi luminosi di opposizione per motivo di coscienza, con la morte inflitta come epilogo, sono le vicende di Socrate e di Tommaso Moro.
La semplice menzione dei due simboli più noti, nella nostra cultura, della trascendenza della coscienza ci fa intravvedere quale straordinaria efficacia possa avere l’obiezione di coscienza. Il principio per amore del quale si è disposti a mettere in gioco ogni cosa sollecita negli altri una reazione di conferma, che travolge i contratti sociali, le leggi e le aspettative di ruolo; tale principio può diventare una nuova base per la convivenza civile, una nuova legge, un nuovo modello di ruolo. Non è retorica affermare che i progressi etici dell’umanità non sono avvenuti per accumulazione progressiva, come quelli scientifici, ma per salti qualitativi dovuti a coscienze singolari, come appunto quelle di Socrate e di Tommaso Moro (se i due esempi sembrano eccessivamente patetici per la tragica fine degli obiettori, si pensi come situazione emblematica a Francesco
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d’Assisi, nudo di fronte al padre: è anche questa un’immagine fortemente espressiva della radicalità cui può portare la motivazione di coscienza).
La descrizione fenomenologica della motivazione di coscienza che abbiamo sviluppato come risposta alla domanda iniziale sulla formazione della coscienza ci offre gli elementi per discernere un'obiezione di coscienza da ciò che non lo è. Non è sufficiente che ci sia un atto di ribellione alle leggi e al contratto sociale perché si abbia obiezione di coscienza. La ribellione può manifestarsi tanto nella fase più formalmente etica quanto nelle fasi precedenti, in cui il comportamento si orienta ad altro che ai principi etici. Se la persona non si è maturata normalmente fino a raggiungere la capacità di un’azione orientata ai principi, non si può parlare di obiezione di coscienza. Quante persone raggiungono questo stadio? Il nostro narcisismo culturale, avvezzo a mettere il comportamento dell'homo sapiens su un piedistallo tanto più elevato di quello dell’animale, vorrebbe lasciarsi illudere che la motivazione di coscienza è l’atmosfera etica in cui si muove abitualmente l’umanità. Probabilmente la realtà è ben diversa. Pensiamo all’anestesia delle coscienze, al conformismo e all’adattamento generalizzato che costituiscono la triste base su cui poggiano tutti i regimi totalitari. Motivo di riflessioni non meno deprimenti ci offrono i risultati dell’esperimento di Stanley Milgram sull’acquiescenza all’autorità. I soggetti sperimentali ai quali fu ordinato di somministrare scariche elettriche a cavie umane (benché in realtà, all’insaputa dei protagonisti dell’esperimento, si trattasse di attori abili nel mimare il dolore), elevarono il voltaggio, su comando, fino a livelli mortali per la cavia. Soltanto pochissimi soggetti rifiutarono le direttive degli sperimentatori. Evitiamo di sollecitare conclusioni troppo ampie dall’esperimento, anche se è stato confermato da esperimenti analoghi condotti in Italia; una cosa, tuttavia, appare certa: non tutti, forse addirittura poche persone, sono capaci di ribellarsi. Se la capacità di opporre resistenza per motivo di coscienza fosse così diffusa come la fede nel valore della vita umana, i risultati degli esperimenti sull’acquiescenza agli ordini immorali sarebbero ben diversi (e non ci sarebbero stati né Auschwitz né l’arcipelago Gulag).
È facile passare da queste considerazioni al campo specificamente sanitario. I suoi operatori professano il principio dell’intangibilità della vita e svolgono un’attività volta a fini terapeutici; eppure si trovano spesso, di fatto, al centro di un campo di forze contrarie alla vita. Contrariamente alle attese, le obiezioni di coscienza non sono frequenti. Se
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consideriamo con realismo quanto raramente il comportamento umano si orienti ai principi e alla coscienza, non troveremo nel fatto un motivo per stracciarsi le vesti. Del resto, in base alle osservazioni precedenti sappiamo di non essere in grado di inferire con certezza dal fatto in sé della ribellione ad attese di ruolo o a prescrizioni legali un’obiezione di coscienza. Per definizione la coscienza è autoevidente ed autoriferentesi: essa esclude perciò qualsiasi forma di diretta verifica dall’esterno. Un comportamento di ribellione potrebbe essere orientato a tutt'altro che alla coscienza. A livello sociale le questioni di coscienza sono circondate da un velo di agnosticismo: “ignoramus et ignorabimus”. La società infatti, pur considerando la motivazione di coscienza come il vertice supremo della moralità umana, si regge non sulla coscienza, bensì sugli altri ordini di moralità. Non sarebbe possibile una convivenza civile se l’unico ordine di riferimento fosse il dettato della coscienza individuale. Ciò ci permette di capire il carattere irritante che ha, a livello sociale, l’obiezione di coscienza. L’appello alla coscienza è un fatto anomalo che sembra sospendere altre forme di moralità che garantiscono la convivenza civile, in particolare l’ordinamento giuridico e il contratto sociale. Tanto più che la coscienza individuale è un’istanza che sfugge a qualsiasi controllo sociale (di cui le riserve nei confronti della disposizione che accompagna la legge del 1973 circa il diritto di obiezione di coscienza al servizio militare, secondo cui una commissione deve giudicare le motivazioni di coscienza; la disposizione contraddice il concetto stesso di obiezione di coscienza).
Quali risorse restano alla società per difendere se stessa dalle obiezioni di coscienza spurie? La possibilità delle verifiche indirette. Il gruppo sociale, il quale non può rinunciare alla collaborazione dei suoi membri, per evitare che l’obiezione di coscienza sia solo la copertura di un disimpegno di comodo, può avanzare richieste di un impegno compensatorio. Così nel caso dell’obiezione di coscienza al servizio militare la comunità dovrà richiedere una equivalente e impegnativa prestazione civile (purché non diventi in pratica una forma di penalità). Quando poi l’obiezione cada su alcuni punti che il gruppo ritiene di valore sostanziale per la convivenza civile, la società, pur non potendo richiedere un’esecuzione contro coscienza, potrà esigere che si subisca la pena o si esca dal gruppo 33. È un’eventualità che, come abbiamo illustrato sopra, è insita nella nozione stessa di obiezione di coscienza.
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Questi principi etici possono essere applicati ai casi di obiezione di coscienza che riguardano i medici nell’esercizio della loro professione; in particolare alla prestazione della loro opera per procurare l’aborto. Tutte le legislazioni dei paesi democratici che hanno varato normative in proposito hanno previsto la figura giuridica del medico obiettore di coscienza (alcune l’hanno estesa anche ad istituzioni sanitarie in quanto tali). Più che le concrete determinazioni di tali norme, ci interessa valorizzare il fatto in sé dell’obiezione prevista dal legislatore e la tensione tra la società legiferante e il medico obiettore che ciò presuppone. Si crea così uno spazio per l’inquietudine e l’interrogazione. Il gruppo sociale, ammettendo nella propria normativa, in maniera del tutto anomala, la possibilità dell’obiezione, confessa la propria insicurezza. Il patto sociale non è perfetto, se la coscienza di alcuni può essere prevedibilmente offesa da qualche norma e la legge stessa, che pur dovrebbe garantire l’armoniosa convivenza, si vede costretta a prevedere vistose deroghe. Ammettendo l’obiezione di coscienza, la società proclama implicitamente che si tratta di una situazione transitoria e di emergenza, che reclama di essere superata mediante una crescita qualitativa della moralità comune.
La tensione dialettica tra coscienza individuale obiettante e normative sociali apre inoltre uno spazio di interrogazione per colui che obietta. È la sua una vera obiezione di coscienza? Per essere tale non basta infatti che l’azione obbedisca a una qualsiasi convinzione, ma deve derivare da un principio fondamentale. Questo, a sua volta, non esiste isolato, ma fa corpo con tutto l’organismo etico dell’individuo. Non si può, se non a prezzo di una contraddizione insanabile, difendere un principio in una circostanza e poi rinnegarlo allegramente in tutto il resto della propria attività professionale. Oltre i casi di più smaccata ipocrisia, c’è tutta una gamma di incoerenze personali e istituzionali che attendono la seria verifica dell’obiezione di coscienza per essere messe in luce. Di fronte al tribunale della coscienza, si sa, ognuno è solo; ma l’essere il testimone della propria immoralità può essere una ben dura condanna, di quelle che si scontano a vita.
2. L’obiezione per motivi religiosi
L’obiezione di coscienza per motivi religiosi è uno dei casi in cui l’autorealizzazione etica dell’individuo tocca i vertici. È noto come storicamente
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sia stato il protestantesimo a rivalutare l’obiezione di coscienza come espressione dello spirito cristiano; con la protesta in nome del Vangelo stesso il libero esame, mediato dalla coscienza individuale, ha spezzato la monolitica unità garantita dall’istituzione ecclesiastica. In ambito cattolico si è fatto a lungo resistenza al principio della libertà di coscienza. Tanto la concezione protestante quanto quella illuministica erano giudicate come un’indebita semplificazione dell'organismo etico, di cui fa parte essenziale il riferimento all’autorità. Il concilio Vaticano II ha ratificato un processo di rivalutazione della coscienza individuale avvenuto anche tra i cattolici. Con la dichiarazione Dignitatis humanae l’istanza dottrinale di vertice, il magistero, ha preso ufficialmente posizione a favore della libertà religiosa; la dichiarazione, pur non richiamandosi all’obiezione di coscienza, afferma i principi dai quali deriva il diritto all’obiezione.
I problemi suscitati dalla coscienza religiosa sono numerosi e delicati. Ciò che interessa il nostro assunto è la possibilità di un’obiezione di coscienza nella professione medica in nome di un’incompatibilità con i propri principi religiosi. Procederemo come abbiamo già fatto per le altre due istanze, quella deontologica e quella etica. Ciò che ne risulterà non sarà una casistica spicciola, ma piuttosto una specie di radiografia dell’obiezione stessa. Il nostro scopo è di mostrare quali sono le condizioni che garantiscono la consistenza interna e l’accettabilità sociale dell’obiezione religiosa.
Specifichiamo in primo luogo che l'appello alla propria coscienza religiosa può avere valenze diverse. In sé, esso dice riferimento alle istanze dottrinali e morali della comunità di fede religiosa a cui si appartiene (dal momento che una religione non è mai un fatto puramente individuale). Tuttavia il legame con la comunità e il suo apparato dottrinale-autoritario può essere di qualità molto diversa. L’autenticità e la profondità del legame ammettono una vasta gamma di possibilità. Per prendere gli estremi, si può andare dall’adesione nominale — a cui magari possono non essere estranei interessi materiali o vantaggi sociali —, all’identificazione sofferta (si pensi al caso di Galileo, preso nella morsa del contrasto tra la propria visione scientifica e la fedeltà all’autorità dottrinale della chiesa). Anche qui, come già nel caso dell’appello ai principi etici, la possibilità di una verifica obiettiva del grado di autenticità è esclusa a priori. La possibilità del “tartufismo” è purtroppo da mettere in conto, anche se non può essere una ragione sufficiente per accogliere con sospettoso pregiudizio qualsiasi riferimento a principi religiosi.
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Solo il credente stesso può sapere se si riferisce unicamente alla struttura esterna del gruppo confessionale, oppure ne partecipa l’intima sostanza in modo personale; in altri termini: se la sua religiosità è pura appartenenza sociologica, oppure si fonda su un’esperienza religiosa.
Quando l’appello alla coscienza attinge le profondità esistenziali dell'esperienza religiosa personale, viene a qualificarsi come un momento che ha la stessa tessitura etica del comportamento motivato da principi individuali. L’esperienza religiosa in quanto tale è difficile da definire. Fa parte di una di quelle esperienze psicologiche che Abraham Maslow ha definito peak experiences; vale a dire esperienze di ordine superiore, che permettono all’individuo di compiere sintesi di coscienza improvvise, panoramiche e fuori dall’esperienza comune 34. Esperienze di questo tipo vengono sentite come auto-validanti» auto-giustificanti, recanti in sé il proprio intrinseco valore.
Secondo I.T. Ramsey, per intendere a quale tipo di situazioni fa riferimento l’esperienza religiosa bisogna unire insieme due fattori: “discernimento” e “impegno”. Il primo può essere illustrato con quelle situazioni, familiari alla psicologia della Gestalt, in cui “qualcosa scatta”, “il ghiaccio si spezza”, una persona “prende vita”; l’impegno è una risposta incondizionata a qualcosa “che è al di fuori di noi” 35. Si tratta, in ogni caso, di approssimazioni. Non può esistere una descrizione che metta in grado di capire un’esperienza senza farne l’esperienza.
L’esperienza è la sostanza della fede. Questa ha come unico parametro interno di autenticità l’esperienza religiosa, in quanto nasce da essa o tende verso di essa. Ciò non esclude il momento comunitario e la conseguente tensione tra spontaneità e normatività delle istituzioni. Ma i due termini devono essere lasciati coesistere dialetticamente; un modo costruttivo di risolvere la tensione non potrebbe essere quello di sopprimere uno dei due.
In che senso l’esperienza religiosa ha un’incidenza nella questione dell’obiezione di coscienza? Ci pare di poterlo indicare nel fatto che l’esperienza religiosa costituisce una fonte di motivazione etica. In quanto espressione di somma autorealizzazione umana (una realizzazione che
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in alcune religioni storiche è esplicitata come dono connesso all’incontro con il “Tu” divino), l’esperienza religiosa è percepita dal credente come un’esistenza nuova, da cui deriva un’esigenza morale nuova. Cambia il suo essere, cambia il suo agire. Lo sboccio della novità, elemento comune ai vissuti esistenziali culminanti, è esigente. Nell’esperienza si esprime un’autorità superiore alla quale il credente non può — non vuole sottrarsi, perché con essa si identifica. Il comportamento etico dell’uomo religioso si fonda sull'autorità di Dio, come istanza irriducibile alle altre. È difficile definire in termini antropologici come sia determinata la coscienza dell’uomo che l’esperienza religiosa ha aperto a una dimensione nuova dell’essere. Non si tratta di “autonomia”, vale a dire la conquista che l’individuo post-illuministico ha strappato alle determinazioni sociali e che difende come “libertà di coscienza”; neppure si tratta dell’“eteronomia” della coscienza non emancipata. Bisogna ricorrere a un termine proposto da alcuni teologi: “teonomia”, della coscienza. Si tratta di un rapporto di “libera dipendenza” dall’istanza autoritaria suprema, un rapporto esperibile ma non descrivibile.
La descrizione delle coscienze normate dal loro rapporto con Dio ha un carattere astratto. Di fatto però noi abbiamo conosciuto l’esistenza di tali coscienze non per opera di speculazione; queste coscienze si sono storicamente mostrate. Pensiamo a Cristo di fronte a Pilato. Due universi etici polarmente opposti. Non è soltanto la qualità delle azioni che li fa divergere, ma, in radice, l’autorità etica a cui la loro coscienza fa riferimento. Cristo fa osservare a Pilato che non avrebbe autorità su di lui se non gli fosse stata data da chi gli sta sopra; il suo potere è mutuato da un organismo politico-sociale (nel caso, di oppressione imperialista!) che lo sostiene e lo giustifica. Di fronte a lui Gesù di Nazaret è un uomo di “un altro mondo” non solo metafisico, ma etico. Il suo potere non dipende da un’istanza gerarchica esterna: lo ha dentro di sé, in quel centro di esperienza esistenziale in cui è uno con Dio. Pilato, il detentore del potere, è eteronomamente determinato come uno schiavo; Gesù, il suddito, è teonomamente libero.
Considerazioni analoghe si potrebbero sviluppare in margine alla disputa tra Gesù e i sommi sacerdoti a proposito della sua autorità (cfr. Mc. 11,27-33). I rappresentanti dell’istituzione religiosa, che avevano con l’autorità divina un rapporto basato sulla tradizione e sulla formalità legale e gerarchica, non potevano capire di dove venisse l’autorità di chi portava in sé la salvezza di Dio.
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Gli ebrei, tuttavia, non escludevano a priori l’esistenza di esperienze di Dio che fondassero una nuova esigenza spirituale ed etica. Tutta la loro storia sacra, in particolare la vicenda dei profeti, stava a dimostrarlo. Per questo l'“obiezione di coscienza” dei primi discepoli di Gesù (“Se sia giusto davanti agli occhi di Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo voi stessi. Quanto a noi, non possiamo non rendere pubblico quanto abbiamo visto e ascoltato”: Atti 4,19-20) fece particolare impressione sul sinedrio; e in seguito, dietro l’intervento di Gamaliele, espressione della saggezza spirituale del popolo di Dio (Atti 5,34-39), fu deciso di rinunciare a perseguirli con la forza.
La coscienza religiosa, dunque, si modella essenzialmente sull’evento dell’esperienza religiosa, più che sul precetto. Ha bisogno anche del precetto come pedagogo; ma il precetto da solo è uno scheletro senza vita, un’armatura opprimente. La legge è solo pallida memoria dell’evento. La coscienza che si riferisce esclusivamente alla legge non conosce la creatività. Un ultimo elemento: l’autorità morale radicata nell’esperienza religiosa costituisce l’individuo nella sua unicità, ma non lo isola dalla comunità. Non crea degli “illuminati”, sganciati da qualsiasi riferimento al gruppo con cui condividono l’esperienza religiosa. La convinzione intima che si ha davanti a Dio è un diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta un primato assoluto. Essa non è tuttavia l’ultima istanza. La carità fraterna è l’orizzonte più universale, che supera anche i diritti della coscienza. Paolo ha formalizzato questi principi intervenendo nella questione del diritto dei cristiani di mangiare la carne sacrificata agli idoli (I Cor. 8). Il cristiano che ha incontrato il Dio vivente sa che gli idoli sono un nulla; in coscienza è perciò libero di mangiare la carne loro sacrificata. “Badate però — continua l’Apostolo — che questa vostra libertà non diventi pietra d’inciampo per i deboli... Peccando in tal modo contro i fratelli e offendendo la loro debole coscienza, voi peccate contro Cristo. Perciò se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò carne in vita mia per non scandalizzare il mio fratello”.
Anche se rinunciamo ad applicazioni concrete, è facile intuire quale incidenza possa avere il riferimento alla coscienza religiosa nella prassi professionale. Può, ad esempio, un medico trovare nel proprio vissuto religioso — nella sua esperienza religiosa privata o in quella della comunità di fede di cui è parte — un motivo per obiettare in coscienza contro prestazioni richiestegli? Certamente si. Tuttavia l’articolazione delle considerazioni precedenti ci autorizza a dire che l’obiezione di coscienza per
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motivi religiosi deve essere trattata con estrema delicatezza. Essa mette in moto un insieme di gravi interrogativi circa la qualità e la profondità del vissuto religioso dell’individuo, il suo rapporto con l’istituzione religiosa, i diritti della verità e quelli della carità, le interferenze tra la coscienza del singolo e la legislazione sociale. La qualità etica e religiosa di un tale atto esige che sia trattato con il massimo rispetto, senza sollecitazioni subdole, senza pressioni indebite. Una delle acquisizioni etiche più indiscutibili su cui si basa la cultura umanistica è che l’uomo è fine, non mezzo. Questo principio acquista la sua massima forza quando è riferito a quell’atto che riconosciamo come più specificamente umano, vale a dire il comportamento motivato in coscienza, religiosa o laica che sia. L’obiezione di coscienza non deve essere strumentalizzata per qualsivoglia battaglia ideologica. Sarebbe una violenza fatta alla coscienza, un “peccato contro lo Spirito”.
In conclusione, possiamo sintetizzare l’intero sviluppo delle riflessioni affermando che l’obiezione di coscienza può essere tanto il più alto atto di moralità di una persona, quanto un atto situabile a livello pre-morale; l’obiezione di coscienza deve essere perciò il punto di partenza di un processo di discernimento soggettivo e di verifica indiretta da parte della società.
Con ciò non abbiamo dato una risposta diretta ai problemi concreti che si pongono. Ma un esame sereno e profondo delle implicazioni etiche dell’obiezione di coscienza, delle sue grandezze e delle sue miserie, è più costruttivo; è inoltre un bisogno urgente dell’ora presente, se vogliamo evitare che la passione di parte giunga a servirsi delle coscienze come mezzo. Nell’attuale crisi dei valori la coscienza va difesa come un bene assoluto: perché se il sale diventa scipito, con che gli si ridarà sapore?
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LA FORMAZIONE ETICA DEL MEDICO:
UN BILANCIO DEI NUOVI ORIENTAMENTI
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1. Una risposta alla crisi della medicina
L’erogazione dell’assistenza sanitaria è accompagnata da un’insoddisfazione che minaccia di diventare ormai strutturale. Non si tratta più di disfunzioni occasionali o isolate, ma dell’incapacità cronica della medicina moderna di rispondere alla domanda del consumatore. E il disagio aumenta. Lo si è visto nel nostro paese quando l’istituzione dei “tribunali dei diritti del malato” ha permesso alle voci degli utenti stessi di farsi udire direttamente. La raffica delle accuse non risparmia nessuno: primari e personale ausiliario, medici e infermieri, tutti legati insieme dal cemento costituito dalle carenze dell’iniziativa politica.
L’insicurezza serpeggia nel mondo medico, in quella parte almeno che si lascia mettere in discussione. Ci si domanda se non sia necessario intervenire con una profonda revisione della formazione che ricevono i medici. Cominciando da quella scientifica. Il curriculum medico è tra i più lunghi e sfibranti. Eppure, anche i migliori studenti, giunti al termine, si sentono sostanzialmente inadeguati per i compiti che li attendono. Il volume delle conoscenze biomediche raddoppia ogni venti anni; ciò che è apparso soltanto pochi anni fa nelle riviste di ricerca scientifica è già parte essenziale di quello che deve essere memorizzato in una formazione tipica. E per di più agli studenti di medicina non viene insegnato ad elaborare criteri per discernere il valore delle nuove acquisizioni. “La metà di tutto quello che vi viene insegnato oggi — è la battuta che circola nelle facoltà di medicina americane — è sbagliato; purtroppo, non sappiamo quale metà”. In discussione è soprattutto l’assunto epistemologico
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di fondo che regola la scienza medica: una conoscenza sempre più analitica — to know more and more, about less and less — riesce ancora a cogliere il fenomeno umano, normale o patologico che sia? La scienza medica non rischia di smarrire il suo oggetto, vale a dire l’uomo malato?
Una discussione ancor più radicale investe quella parte della formazione che riguarda gli aspetti relazionali e interpersonali. Nell’ambito linguistico inglese gli aspetti del comportamento medico che sono rivolti al malato in quanto essere umano ricevono talvolta il nome di componente “umanistica” della medicina. “Come possiamo formare i medici ad essere più umanistici?”: questa domanda, che costituisce il fulcro di un recente congresso americano 36, lascia trapelare la preoccupazione per una medicina che sembra impoverirsi sul versante umano in misura proporzionale all’aumento dell’efficienza tecnica. Dal medico ci si aspetta un atteggiamento che sia una miscela di scienza e di umanità. La richiesta è tra le più ovvie e tradizionali. Oggi però non ci si limita ad auspicare che il medico coltivi, di propria iniziativa, anche questo lato della sua professione: si sente l’urgenza di provvedere alle carenze mediante un insegnamento adeguato. L’insegnamento dell’etica medica vuol essere appunto una risposta alla denunciata emorragia d’anima della medicina moderna.
Se l’esigenza è sentita ovunque, le realizzazioni invece sono lungi dall’essere omogenee. La maggiore fioritura di iniziative è avvenuta nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti. In poco più di un decennio l’etica medica è diventata una disciplina di tutto rispetto. Ormai non può più essere confusa con i corsi di “medical ethics” che talvolta venivano impartiti nelle facoltà di medicina americane, ma per trasmettere regole di “etichetta” medica. Gli studenti di medicina venivano socializzati nel loro nuovo ruolo, imparando come avere relazioni corrette con i professori, con i colleghi, e infine con i pazienti 37. Attualmente ai corsi di etica medica, con nuovi contenuti e finalità, arride negli USA
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una larga popolarità, e non solo nelle scuole di medicina. La bioetica occupa il posto centrale dell’interesse che era tenuto negli anni ’60 dall’etica della guerra e dei diritti civili 38. Una quantità di iniziative di alto livello accademico affiancano l’insegnamento. Tra le più accreditate segnaliamo: il “Kennedy Institute of Human Reproduction and Bioethics”, presso l’Università di Georgetown, cui si deve la pubblicazione dell’Encyclopedia of Bioethics, in quattro volumi; l’“Institute of Society, Ethics and the Life Sciences”, il quale pubblica una rivista, l’Hastings Center Report, con bibliografia selezionata e annotata; il Journal of Medical Ethics, che ha iniziato ad apparire nel 1975 e si è subito imposto tra gli organi più autorevoli. Fin dai primi fascicoli della rivista sono apparsi periodicamente articoli che fanno il punto sull’insegnamento dell’etica medica nei diversi paesi: Svezia, Olanda, Inghilterra, Irlanda, Stati Uniti. Sono state presentate esperienze pilota e tentativi originali di assicurare la formazione etica dei medici. Gli interrogativi volta a volta emergenti — perché introdurre l’etica medica nel curriculum dei medici e come insegnarla; a chi spetta impartire questo insegnamento; in che modo valutare l’abilità acquisita dallo studente — conducono l’interesse dell’osservatore verso alcune questioni focali che hanno una rilevanza non solo pratica, ma anche epistemologica. Attorno a queste organizzeremo di preferenza la nostra rassegna.
2. L’etica medica, tra ideologia e pragmatismo
Una certa resistenza a riconoscere all’etica il diritto di cittadinanza in medicina è motivata dal timore che venga turbato lo statuto di oggettività che la medicina pretende in quanto scienza. Tuttavia anche i più attardati ammiratori del positivismo ottocentesco non possono chiudere gli occhi sul fatto che la medicina non è solo scienza, ma anche prassi: non è volta solo a stabilire la natura della realtà, ma a cambiarla. Se per etica intendiamo un sistema inteso a regolare il comportamento umano, al fine di salvaguardare e realizzare determinati valori, il riferimento
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all’etica in medicina è imprescindibile. Non è dall’etica in quanto tale che l’esercizio della medicina ha qualcosa da temere, bensì dal moralismo. Questo incombe quando un’ideologia impone norme di comportamento deducendole aprioristicamente da teorie relative alla natura dell’uomo e della società, e facendo in qualche modo violenza alla complessità dei fatti. Il timore dei medici che il campo del loro operare sia in qualche modo colonizzato da un’istanza esterna, unica accreditata a giudicare ciò che è bene o male, morale e immorale, conforme e no alla natura umana, spiega in parte perché i medici preferiscano privilegiare l’aspetto tecnico della loro professione rispetto a quello umano, e tendano a navigare lontano dagli insidiosi dibattiti sui principi etici, appellandosi al pragmatismo. Temono che l’etica sia il cavallo di Troia che introduce nella medicina la violenza dell’ideologia.
Concretamente, il pericolo può provenire sia dalle ideologie politiche totalitarie, sia dall’etica religiosa. Un progetto di medicina ideologizzata traspare nei paesi dell’Est più preoccupati dell’ortodossia marxista. Possiamo citare come esempio tipico la facoltà di medicina dell’università di Halle, nella Repubblica popolare tedesca. Nelle pubblicazioni accademiche della facoltà ritornano attacchi sistematici alla medicina borghese, cui viene contrapposta la medicina veramente “scientifica”, cioè quella che si basa sull’interpretazione marxista-leninista della realtà 39. L’etica marxista è incorporata sistematicamente nella medicina, ne determina le scelte e gli orientamenti.
Nei paesi occidentali il moralismo proviene piuttosto dall’imposizione di determinate etiche confessionali. Queste hanno da tempo appuntato la loro attenzione sui problemi che derivano dalla medicina moderna. Prima di prendere piede in modo così esuberante nelle facoltà di medicina di alcuni paesi, l’etica medica è stata una disciplina coltivata soprattutto nei luoghi di formazione dei pastori. Non mancano esempi di corsi impartiti nelle scuole rabbiniche 40; ma è soprattutto in ambito cristiano,
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e più particolarmente cattolico, che all’etica medica è stata dedicata la maggiore attenzione 41. Questo tipo di etica medica è sostanzialmente una teologia morale applicata ai problemi sanitari. Non solleva nessuna difficoltà finché viene insegnata nel suo luogo proprio, cioè nelle scuole di teologia o di formazione pastorale. Ma in alcune facoltà di medicina a denominazione confessionale l’insegnamento dell’etica medica è stato introdotto obbligatoriamente per tutti gli studenti. Così nelle università cattoliche di Lovanio, di Roma e di Cork in Irlanda. Basandoci su un resoconto relativo a quest’ultimo caso 42, possiamo renderci conto dei problemi delicati che possono sopravvenire quando l’insegnamento di morale confessionale viene impartito in una facoltà di medicina. “L’etica medica — riferisce l’autore dell’articolo, responsabile del corso a Cork — è stata tradizionalmente vista dagli studenti come un’intrusione da tollerare in un rigoroso programma di studi ‘strettamente medici’, vale a dire quei corsi che contribuiscono direttamente a sviluppare l’abilità medica nel guarire e prolungare la vita fisica. Gli studenti erano soliti meravigliarsi che si pensasse all’etica medica come a un complemento, supplemento, o in qualsiasi modo a un contributo per la loro formazione come professionisti medici. L’insegnante di etica medica all’University College di Cork riconoscerà senza difficoltà che gli studenti sono generalmente scettici circa la necessità di un corso obbligatorio di etica medica”. L’impressione era rafforzata dal fatto che il docente fosse di solito un sacerdote cattolico: ciò faceva supporre che il corso si limitasse ad essere una reiterazione dell’insegnamento morale cattolico su problemi come la contraccezione, l’aborto, la sterilizzazione, l’eutanasia. “Gli studenti presupponevano implicitamente che, qualunque problema fosse discusso nel corso, dovesse in qualche modo, in ultima analisi, essere reso compatibile con l’insegnamento autoritativo della chiesa cattolica. Sulla base di questo presupposto, la possibilità per una riflessione aperta e critica sui problemi dell’etica medica erano spesso di fatto ridotte”. Nel caso di Cork per sbloccare l’atteggiamento diffidente degli studenti sembra siano state sufficienti alcune modifiche strutturali — come l’affidare il corso a un docente non ecclesiastico del dipartimento di
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filosofia — e una ridefinizione degli obiettivi del corso. Questo si propone, infatti, esplicitamente di educare gli studenti a chiarire l’interdipendenza e allo stesso tempo a distinguere tra la valutazione medica e i giudizi etici; intende inoltre portare a riflettere sui rapporti che intercorrono tra legalità e moralità, nonché tra religione ed etica.
Anche dai resoconti di altre esperienze di insegnamento, sulle quali tuttavia non gravano a-priori di tipo confessionale 43, risulta che il corso di etica medica non può esimersi dall’affrontare i problemi di fondo relativi alla natura dell’etica e dell’articolazione tra i suoi due aspetti, valutativo e normativo. Se i problemi relativi al significato, ai metodi e ai modelli dell’etica — potremmo chiamare tutto questo ambito, per brevità, “meta-etica” — sono di pertinenza specifica della filosofia morale, la questione del rapporto tra l’etica empirica e l’etica normativa fa parte integrante di un corso di etica medica. Dal punto di vista normativo interessa stabilire come i medici “dovrebbero” agire nelle circostanze concrete, in armonia con i principi dell’etica, laica o religiosa. Quando sorgono conflitti tra differenti prospettive, diventa imprescindibile una chiarificazione meta-etica e un buon ancoraggio empirico. Ma soprattutto si rivela spesso risolutivo un approfondimento valutativo. Salute e malattia, infatti, sono variabili antropologiche suscettibili di indefinite variazioni culturali. Il medico non può elaborare in modo autonomo definizioni di vita e di morte, di salute e di qualità della vita, al di fuori dei luoghi dove si elaborano socialmente i significati. Ciò implica che oggi la medicina non può svolgere adeguatamente il suo compito senza un interscambio con le scienze dell’uomo. L’etica medica è il luogo appropriato di tale comunicazione. In essa confluiscono le acquisizioni della sociologia, della psicologia medica, dell’antropologia culturale; senza dimenticare l’apporto della linguistica e della letteratura. Un solo esempio, per illustrare quest’ultimo settore: il medico che ha assimilato la lezione di Susan Sontag sulla pregnanza semantica del cancro in quanto metafora di malattia mortale 44, vedrà i problemi della “verità al malato” in un’ottica più fedele al vissuto della malattia, così come è condizionato dal momento culturale.
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3. L’insegnamento dell’etica medica: problemi metodologici
La vistosa tendenza attuale a moltiplicare i corsi di etica medica non deve far dimenticare che praticamente non è mai esistita una medicina che non fornisse ai nuovi medici un certo insegnamento etico. L’educazione medica è un processo che trasmette non solo un corpo di conoscenze oggettive e un repertorio di capacità cliniche, ma anche un apparato di atteggiamenti professionali. La professionalizzazione è un lungo e sottile indottrinamento attraverso il quale vengono comunicate scale di valori e atteggiamenti che caratterizzano all’interno e all’esterno il gruppo chiuso dei medici. L’habitus mentale che contraddistingue il medico viene assimilato, più che attraverso le forme esplicite di istruzione normativa (come la trasmissione delle norme codificate indispensabili alla pratica della medicina: dal giuramento di Ippocrate ai moderni codici di deontologia professionale), mediante una sorta di osmosi, nel contesto della frequentazione quotidiana. Ancor oggi il principale veicolo della formazione etica degli studenti di medicina è l’apprendistato diretto che avviene durante il curriculum degli studi. Lo studente, che passa anni a contatto con i suoi istruttori, gradualmente assume un insieme di precetti etici che riconosce come norme obbliganti.
Possiamo parlare di problemi metodologici e didattici solo quando si intende passare da questo tipo di insegnamento informale a quello esplicito. Questa è appunto la tendenza emergente oggi: è passato il tempo — si ripete — in cui l’etica medica poteva essere insegnata con l’esempio dei maestri e dei colleghi più anziani! Le questioni più delicate che si pongono quando si accede a questo livello formale, con la sua corrispondente rilevanza accademica, sono quelle relative alle finalità da attribuire all’insegnamento, ai modelli didattici, al metodo e alle possibilità di valutare l’apprendimento. Passiamo brevemente in rassegna i diversi problemi.
Quali scopi deve proporsi l’insegnamento dell’etica medica? Una commissione americana, creata per analizzare i problemi dell’insegnamento della bioetica, ha pubblicato un rapporto in cui vengono indicate le principali finalità 45. In primo luogo si tratta di mettere gli studenti in grado di saper riconoscere i problemi etici, distinguendoli dalle questioni puramente tecniche. La distinzione si rivela opportuna anche
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quando il medico non sia coinvolto in prima persona nel processo della decisione. Se è cosciente delle diverse possibilità di risolvere i conflitti etici, potrà presentare i problemi al paziente in modo da permettere un’appropriata soluzione da parte del paziente stesso. Tuttavia il medico dovrà avere anche personalmente una certa preparazione che lo abiliti a sviluppare strategie per analizzare i problemi morali che si pongono in medicina e a mettere in riferimento i principi morali con i casi contingenti. Non ci si può aspettare che un medico risolva ogni problema etico in modo infallibile e all’istante; ma non può esimersi dall’essere preparato per il tipo di casi che incontrerà più frequentemente. Per quanto, infatti, la maggior parte delle decisioni vengano prese dal paziente o dal gruppo degli utenti delle cure mediche, alcune scelte etiche devono essere fatte da coloro che forniscono le cure (si pensi alla quantità di informazioni da trasmettere al paziente circa una particolare diagnosi; oppure all’infermiera che deve decidere se obiettare, per motivi etici, a un determinato trattamento). Per risolvere i conflitti intrapersonali e interpersonali che emergono, bisogna ricorrere a una decisione etica. Pur essendo le decisioni atti pragmatici di volontà, non sono necessariamente capricciose. L’intento dell’etica medica è appunto quello di elaborare teorie razionali per ottimalizzare le decisioni 46.
Quanto all’organizzazione dell’insegnamento, emergono due modelli principali: accentrare la materia attorno a una serie di problemi di grande spessore antropologico (la morte e il morire, la sperimentazione, la genetica, il controllo del comportamento, l’aborto...) 47; oppure dare al corso un’organizzazione tematica (la libertà, il consenso, benefici per il paziente e per la società, autonomia e autodeterminazione, la giustizia sociale, la verità nel rapporto medico-paziente). Il primo approccio permette
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di mettere meglio a fuoco i problemi così come sorgono nel contesto medico; il secondo ha invece il vantaggio di rendere possibile un’analisi sistematica dei problemi etici e filosofici soggiacenti alla casistica specifica.
Più delicate sono le scelte che si impongono al docente di etica medica circa la didattica. Una prima questione riguarda l’obbligatorietà dell’insegnamento. Soltanto in un numero limitatissimo di facoltà di medicina i corsi sono stati resi obbligatori; per lo più si pensa che il lasciarli facoltativi incrementi la partecipazione attiva. Questo è infatti il problema principale della didattica dell’etica medica. L’apprendimento in questo campo non avviene allo stesso modo in cui si acquisiscono le altre nozioni che costituiscono il bagaglio professionale del medico. Lo stesso insegnamento cattedratico ha valore limitato. Va data la preferenza a quei veicoli che incoraggiano la partecipazione attiva degli studenti, i quali possono venir così coinvolti nell’interscambio che si instaura tra teoria etica e prassi medica. L’interpretazione tra teoria e pratica, vitale per ogni scienza, lo è in modo particolare quando si tratta di etica medica. Un’etica puramente teorica, infatti, è irrilevante per il medico in quanto medico; e un’etica esclusivamente pratica, cioè prescrittiva, non sfugge al pericolo del moralismo. È valido solo quell’apprendimento che è basato sull’esperienza e la partecipazione. Per favorire la partecipazione sono ampiamente sperimentati, oltre alle lezioni accademiche, anche seminari, “work-shop” residenziali durante il fine-settimana, discussioni di casi clinici, in cui il punto di vista dell’etica medica si integra con quello terapeutico.
Un problema connesso è quello della competenza necessaria per l’insegnamento dell’etica medica. All’insegnante si richiede una formazione tanto nelle scienze biologiche e mediche, quanto nelle discipline etiche. La commissione americana per l’insegnamento della bioetica ha raccomandato come standard minimo che il docente abbia una formazione professionale in almeno una di queste aree, e che sia un “amateur” competente nell’altra.
E infine: con quali criteri valutare le acquisizioni di etica medica da parte degli studenti? Le tre componenti della formazione medica — conoscenza, capacità e atteggiamento etico — non sono uniformemente accessibili allo studio. La trasmissione della conoscenza nozionale è la più facile da considerare: si comincia con l’essere ignoranti e si termina con l’essere informati. Le capacità che costituiscono la competenza clinica
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sono più difficili da valutare; tuttavia esiste un certo consenso su ciò che può essere richiesto a uno studente di medicina per essere abilitato ad esercitare la professione. Ma il terzo fattore — il complesso di valori e atteggiamenti — è misterioso sia nella sua natura che nella sua trasmissione. Lo scienziato sociale si troverebbe in difficoltà se volesse studiare in modo rigoroso come l’etica medica è insegnata ed appresa. Così come è arduo trovare criteri sulla base dei quali valutare se è stata acquisita l’abilità a risolvere i problemi etici che sorgono nella prassi. Nelle riviste specializzate si possono trovare i primi tentativi di un confronto tra docenti 48. Le risposte più soddisfacenti si trovano solo però in quei progetti di ristrutturazione globale dell’insegnamento della medicina in cui l’etica medica viene inserita strutturalmente nel curriculum 49. In questi casi l’intensità e la qualità della partecipazione al programma formativo, che prevede un assiduo scambio di opinioni attraverso le quali gli studenti insegnano a se stessi a prendere decisioni etiche in modo responsabile, rendono praticamente superflua la verifica per mezzo di un esame.
NOTE
1 W.H.S. Jones, Hippocrates, London 1923, I, 291-297.
2 L. Edelstein, The Hippocratic Oath: Test, Translation and Interpretation, in The Bull, of the History of Medicine, Suppl. 1, Baltimore 1948; id., The Professional Ethics of the Greek Physician, in O. Temkin (ed.), Ancient Medicine, Selected Papers of Ludwing Edelstein, Baltimore 1967, 319-348. Sigerist, il fondatore della moderna storia della medicina, si è occupato a più riprese del giuramento e dell’ethos ippocratico. Segnaliamo i riferimenti principali: H.E. Sigerist, Grosse Aerzte, Eine Geschichte der Heilkunde in Lebensbildern, München 1923; id., “On Hippocrates”, in Bullettin of the Inst. of Medicine 2 (1934) 190-214, ripreso nella raccolta On the History of Medicine, N. York 1960, 97-119; id, Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954. La trattazione più completa è quella che Sigerist riserva a Ippocrate nella monumentale storia della medicina, progettata in otto volumi, ma che la morte gli impedì di portare a termine: A History of Medicine, vol. II: Early Greek, Hindu and Persian Medicine, N.Y. 1961.
3 Tradizionalmente l’ethos medico espresso dal giuramento è individuato nella difesa della vita o della salute. “Come lo sportivo di Maratona aveva il dovere di portare e difendere la fiamma olimpica, così il medico ippocratico ha il dovere di difendere la fiamma della vita. Se anche nella casistica terapeutica Ippocrate non è aggiornato, sui principi necessari, oggi come allora, egli è di un’attualità morale sorprendente e imprescindibile: medico vuol dire sacerdote della vita; ad altri, se occorre, il compito, a volte il dovere di limitare la vita. A noi quello di facilitarla, di difenderla e di salvarla”: L. Gedda, Il giuramento di Ippocrate oggi, Roma 1954, p. 19.
4 W.H.S. Jones, The Doctor’s Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924. Vedi anche l’introduzione alle opere di Ippocrate, cit. n. 1.
5 H.E. Sigerist, A History of Medicine, cit. p. 303.
6 Cfr. L. Edelstein, The Hippocratic Oath, cit.
7 Cfr. Gregorio di Naz., PG. xxxv, col 767A: Girolamo, Epist. 52,15 PL xii, col. 539.
8 Vedi specialmente H.E. Sigerist, On Hippocrates, cit.
9 Per il medico che arrivava come straniero il modo migliore per guadagnare la fiducia era di fare una prognosi corretta. Ciò rende ragione, secondo Edelstein, della posizione centrale che ha la prognosi nella medicina ippocratica.
10 Seguiamo soprattutto il saggio di L. Edelstein, The Professional Ethics of Greek Physician, cit.
11 Cfr. i risultati del colloquio di Strasburgo, tenuto nell'ottobre 1972: La collection hippocratique et son rôle dans l’histoire de la médecine, Leiden 1975, La stessa attenzione è presente in W.D. Smith, The Hippocratic Tradition, Ithaca-London 1979.
12 Una visione d’insieme, basata sull’analisi di un certo numero di trattati composti dal v al xii sec., nel saggio di L.C. Mac Kinney, Medical Ethics and etiquette in the early Middle Ages: The persistance of hippocratic ideals, in C.R. Burns (ed.), Legacies in ethics and medicine, New York 1977, 173-203.
13 Il giuramento modificato in senso cristiano è riprodotto in tre codici. Due di essi — l'Urbinate 64 della Bibl. Vaticana e l’Ambrosiano B113 — dispongono il testo in modo che ne risulti una croce. La cristianizzazione del giuramento di Ippocrate risulta così anche graficamente. Queste versioni del giuramento sono state pubblicate per la prima volta da W.H.S. Jones, The Doctor’s Oath: an essay in the history of medicine, Cambridge 1924.
14 Per riferimenti più dettagliati, cfr. D. Konold, “Codes of medical ethics”, in Encyclopedia of medical Ethics, N. York 1978, i, 162-171.
15 Gravitz (a cura), Hippokrates, Gedanken ärztlicher Ethik aus dem Corpus Hippocraticum, Prag 1942.
16 La discussione sul ruolo giocato dalle organizzazioni professionali dei medici nel realizzare la politica sanitaria del Terzo Reich comincia solo oggi, dopo un silenzio di parecchi decenni. Il “Gesundheitstag” tenutosi a Berlino nel maggio 1980 ha scelto, per la prima volta, come tema di discussione il rapporto tra medicina e nazionalsocialismo. Un’attenzione particolare è andata all’etica professionale come ideologia vincolante che ha messo i medici a servizio del regime. Cfr. gli atti dell'assemblea: G. Baader e V. Shultz (a cura), Medizin und Nationalsozialismus. Tabuisierte Vergangenheit-Ungebrochene Tradition? Berlin 1890.
17 E. Luther e B. Thaler (a cura), Das hippokratische Ethos. Untersuchungen an Ethos und Praxis in deutschen Aerztenschaft, Halle (Saale) 1967.
18 L. Edelstein, The Professional Ethics., cit. Nella nota 43 adduce abbondante materiale a sostegno dell’informazione.
19 E. Luther e B. Thaler, cit. p. 156.
21 H.E. Sigerist, Die Heilkunst im Dienste der Menschheit, Stuttgart 1954.
22 Th. Percival., Medical Ethics, or a Code of Institutes and Precept Adapted to the Professional Conduct of Physicians and Surgeons, London 1803. L’opera è stata ristampata nel 1975 con un’introduzione storica di C.R. Burns dedicata a Percival come prodotto dell’Illuminismo.
23 Jeffrey L. Berlant, Profession and Monopoly: study of Medicine in the United States and Great Britain, Berkeley 1975.
24 R. Savatier, “Déontologie”, in Encyclopaedia Universalis, Paris 1971, vol. v, pp. 436-439.
25 Sul “Popular Health Movement” cfr. R.H. Shyock, Medicine in America: Historical Essays, S. Hopkins Press 1966; J. Kett, The Formation of the American Medical Profession: The Role of Institutions, 1780-1860, Yale University Press 1968; più brevemente, e da un’ottica femminista: B. Ehrenreich - D. English, Witches, Midwives, and Nurses. A History of Women Healers, The Feminist Press, New York 1974.
26 Cfr. D. Konold, “Codes of Medical Ethics. History”, in Encycl. of Bioethics, New York 1978, i, 162-171.
27 G. Caro, La médicine en question, Paris 1974, p. 58.
28 Cfr. H. Cleempoel, “De la déontologie médicale à une étique de la santé”, in AA.VV., Pour une politique de la santé, Bruxelles 1968, pp. 101-105.
29 Cfr. V.W. Sidel e R. Sidel., Serve the People, New York 1973.
30 J. Piaget, Le jugement moral chez l'enfant, Paris 1932.
31 Hampden Turner, The Radical Man, Cambridge (Mass.) 1970.
32 M. Rokeach : The Open and the Closed Mind, New York 1960. Il dogmatismo per Rokeach compare sotto forma di “totalità cognitiva di idee e rappresentazioni, che sono organizzati in sistemi relativamente chiusi”.
33 G. Davanzo: Obiezione di coscienza, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 1973, pp. 676-681.
34 A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Roma 1971. Tutto il libro, costruito sulle esperienze e i momenti più sani nella vita della gente comune, vuol dimostrare che gli esseri umani possono essere nobili e creativi, che sono capaci di seguire i valori e le aspirazioni più elevate.
35 I.T. Ramsey, Il linguaggio religioso, Bologna 1970; specialmente pp. 17-76.
36 Cfr. M.D. Basson (ed.), Ethics, Humanism, and Medicine, New York 1980.
37 Un ruolo analogo ha svolto, e svolge ancora, l’insegnamento della deontologia medica nelle nostre facoltà di medicina. Gli interventi italiani al congresso europeo sulla formazione del medico tenutosi nel 1969 auspicavano un potenziamento dell’insegnamento della deontologia — attuale monopolio della medicina legale —, al fine di fornire al giovane medico “la conoscenza degli obblighi legali, morali e consuetudinari indispensabili per il buon esercizio della professione medica, delle potestà e dei diritti che fanno capo al medico”: Atti del congresso europeo sulla formazione del medico, Roma 1969.
38 Tra le numerose pubblicazioni dedicate alla situazione americana, cfr. soprattutto R.M. Veatch (ed.), The Teaching of Medical Ethics, New York 1973: R.M. Veatch e D. Fenner, “The Teaching of medical ethics in the United States of America”, in Journal of Medical Ethics 1 (1975) 99-103; R.M. Veatch, “Medical ethics education”, in Encyclopedia of Bioethics, vol. ii, 870-875.
39 Cfr. soprattutto E. Luther e B. Thaler, Das hippokratische Ethos. Untersuchungen zu Ethos und Praxis in deutschen Aerztenschaft, Halle 1967. L’opera raccoglie diversi studi della sezione marxismo-leninismo della facoltà di medicina. Si propone di smitizzare l’ethos medico, denunciandone la determinazione sociale, vale a dire la sua dipendenza dai rapporti economici e politici prevalenti nella società. Per una visione d’insieme della biblioteca nei paesi influenzati dalla filosofia marxista, cfr. B. Page: “History of Medical Ethics: Eastern Europe in the Twentieth Century”, in Encyclopedia of Bioethics, vol. ii, 977-982.
40 I. Jakobovits, Jewish Medical Ethics: a Comparative and Historical Study of the Jewish Religious Attitude to Medicine and its Practice, New York 1975; F. Rosner, Modern Medicine and Jewish Law, New York 1972.
41 La quantità di pubblicazioni autorevoli in materia, dovute a teologi moralisti, non permette indicazioni bibliografiche, neppure sommarie. Non si può però mancare di segnalare il magistero di Pio XII, per il ruolo di stimolo e di guida che ha avuto nelle questioni emergenti dell’etica medica. Cfr. Pio XII: Discorsi ai medici, ed. Orizzonte medico, Roma, 1963.
42 D. Dooly-Clarke, “The teaching of medical ethics: University College, Cork, Ireland”, in Journal of Medical Ethics 4 (1978) 36-39.
43 Cfr. C. Blomquist, “The teaching of medical ethics in Sweden”, in Journal of Medical Ethics 1 (1975) 96-98; P. Sporken: “The teaching of medical ethics in Maastricht”, in Journal of Medical Ethics 1 (1975) 181-183.
44 S. Sontang, La malattia come metafora, tr. it. Torino 1979.
45 Cfr. R.M. Veatch: “Medical ethics education”, in Encyclopedia of Bioethics, vol. ii 873.
46 La teoria più elaborata sul processo decisionale in medicina (medical decision making) è quella di Edmond A. Murphy, The logic of Medicine, Baltimore 1976; cfr. anche D.V. Lindley, Making decision, N.Y. 1971. Mentre in passato l’etica medica si è espressa in termini sillogistici, ora si preferisce ripensarla nel quadro di una teoria più generale della decisione probabilistica. Sia i benefici (sollievo da un’infermità, bellezza, fecondità, accresciuto senso del benessere), sia le penalità (perdita della vita, dolore, infermità, vergogna, perdita di denaro ecc.) possono essere condensate in una funzione matematica delle variabili sulle quali la decisione deve basarsi. Alla formula matematica che ne deriva si dà il nome tecnico di cost function. Se il costo eccede il beneficio, il trattamento non sembra autorizzato.
47 A illustrazione di questo modo di procedere si veda l’ottimo “readings” a cura di S.J. Reiser, Ethics in Medicine. Historical Perspectives and Contemporary Concerns, Cambridge-London 1977. Il materiale è distribuito in sezioni che comprendono: La protezione degli utenti nella medicina clinica; La verità nel rapporto medico-paziente; La sperimentazione medica con soggetti umani; Le decisioni procreative; Soffrire e morire; Diritti e priorità nel fornire l’assistenza medica.
48 Cfr. H. Brody, “Teaching Medical Ethics”, in Journal of the American Medicai Association 229 (1974) 177-179: A.H. Keller, “Ethics Human Values Education in the Family Practice Residency, in Journal of Medical Education 52 (1972) 107-116.
49 Gli esperimenti più istruttivi in questo senso sono stati fatti in Olanda. Sia nella nuova facoltà in medicina di Maastricht, in cui si sperimenta un tipo completamente nuovo di formazione medica, sia in quella più tradizionale di Nimega, l’insegnamento dell’etica medica è inserito organicamente nel curriculum fin dall’inizio degli studi. Per maggiori informazioni, cfr. P. Sporken, “The teaching of medical ethics in Maastricht, The Netherlands; in Journal of med. ethics 1 (1975) 181-183: M. De Wachter, “Theaching medical ethics: University of Nijmegen, the Netherlands”, in Journal of medical ethics 4 (1978) 84-88.