La quotidiana fatica di essere razionali in medicina

Book Cover: La quotidiana fatica di essere razionali in medicina
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

LA QUOTIDIANA FATICA DI ESSERE RAZIONALI IN MEDICINA

in Razionalità, razionamento, razionalizzazione, I quaderni di Janus

Zadig, Roma 2005

pp. 10-17

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Per pathos e logos intendiamo, come prima approssimazione, due luoghi ideali nei quali i protagonisti di vicende legate al curare e al prendersi cura ― professionisti sanitari, pazienti, familiari, nonché i responsabili dell'organizzazione dei servizi ― sono chiamati a prendere decisioni. Il pathos è il luogo degli affetti e delle emozioni, la dimensione viscerale dell’esistenza. Comprende ciò che la biologia, nella sua fragilità, ci fa subire ― la patologia, appunto, che conosciamo quando dallo stato di salute cadiamo nella malattia ― e la passione, ovvero quelle azioni di controllo che le emozioni determinano sull’intera personalità di un individuo umano.

Il pathos è lo scenario di base delle azioni di cura, sia quelle spontanee e informali, sia quelle organizzate della medicina. Ogni medico, ogni infermiere potrebbe raccontare situazioni di alta intensità emotiva che ha dovuto affrontare, o che ha tangenzialmente sfiorato nel suo lavoro. Il pathos crea un campo di alta tensione che sembra mettere fuori gioco la ragione. Sono situazioni romanzesche, che superano in complicazione e drammaticità quelle inventate dai narratori di professione. Senza mettere in competizione tanti possibili racconti di vita vissuta, prendiamo le mosse da una situazione di vita inventata, nella quale il pathos campeggia sovrano: il romanzo La custode di mia sorella, di Jodi Picoult 1. Protagonista è Anna, una ragazza di 13 anni con un passato medico molto particolare. È nata da un progetto dei genitori di creare una chance per la sorella più grande, che a tre anni è stata colpita da leucemia.

Nel processo di procreazione medicalmente assistita è stato selezionato l’embrione che garantiva la massima compatibilità con la sorella malata. Ascoltando la voce della madre: «Mi sembra che un genitore abbia solo due scelte quando gli dicono che un figlio ha una malattia mortale. O ti sciogli come una pozzanghera, o raccogli il fiato e ti

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obblighi ad alzare ancora la testa. In questo, somigliano probabilmente molto ai malati» (p. 233).

La decisione di mettere al mondo Anna proviene da una lotta a oltranza per far vivere Kate. Anna ha cominciato col donarle le cellule staminali contenute nel cordone ombelicale, successivamente, seguendo gli alti e bassi dell’evoluzione della patologia, ha fornito sangue, midollo spinale e quant’altro era utile per la sorella malata. Ora, a 13 anni, è la migliore candidata per un trapianto di rene, a beneficio di Kate che è in insufficienza renale acuta. Per i genitori la donazione va da sé, in quanto è l’unica possibilità di assicurare la sopravvivenza alla figlia maggiore. Non senza conflitti, è vero: «Solitamente i genitori decidono per il bambino, perché si presume che agiscano per il suo bene. Ma se sono accecati dal bene per un altro dei loro figli, il sistema crolla» (p. 118).

Alla ricerca del razionale

Anna si trova sotto le macerie del sistema familiare. La sua identità è sconvolta («Quand'ero piccola, il grande mistero, per me, non era come nascono i bambini, ma perché... Io ero nata con uno scopo ben preciso. Non ero il risultato di una bottiglia di vino da poco o della luna piena o di un entusiasmo momentaneo. Ero nata perché uno scienziato era riuscito a mettere insieme gli ovuli di mia madre e lo sperma di mio padre per ottenere una certa combinazione di prezioso materiale genetico» p. 13). Il massimo della razionalità scientifica sostenuta dalla tecnologia applicata alla riproduzione produce un nodo laddove viene formulata la domanda di natura esistenziale: «Chi sono io?». Ma il groviglio è ancora più inestricabile a livello etico. Anna si chiede quale sia la cosa giusta da fare. La rinuncia al proprio rene avrà conseguenze gravi per lei; ma sarebbe anche pesante rinunciare a offrire il proprio rene e lasciare morire la sorella. Ammette a se stessa: «Accanto alla parte di me che ha sempre voluto che Kate vivesse, c’è un’altra orribile parte di me che qualche volta vorrebbe essere libera... Voglio che Kate viva, ma voglio anche essere me stessa, e non una parte di lei... La morte di Kate sarebbe la cosa peggiore che mi sia mai capitata... e anche la migliore» (p. 392).

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In questa situazione di stallo decisionale, Anna prende un’iniziativa: va da un avvocato e lo incarica di avviare una causa contro i suoi genitori, per «riprendersi i diritti sul suo corpo» (p. 25). Il romanzo si sviluppa attorno a questo processo per ottenere l’emancipazione medica. I diversi punti di vista ― dei genitori, della sorella malata, dell’avvocato, del tutore ad litem, del giudice, dei medici ― si confronteranno e si scontreranno. Viene anche coinvolto il presidente del Comitato etico dell’ospedale («Secondo il suo parere di esperto», gli chiederà il giudice, «è eticamente giusto che ad Anna Fitzgerald sia stato chiesto di donare ripetutamente parti del suo corpo per tredici anni?», p. 308). Le difficoltà insormontabili a trovare una soluzione sul terreno dell’etica (che cosa è bene fare) inducono a rifugiarsi nel diritto (che cosa è giusto fare). Questo, a sua volta, trova risposte solo procedurali: stabilire chi deve prendere le decisioni, indipendentemente dalla natura e dalla qualità delle decisioni stesse.

Lasciamo il romanzo (sia ha l’impressione che la narratrice stessa si sia trovata nella difficoltà di sciogliere tutti i nodi che ha intrecciato, dal momento che lascia semplicemente la soluzione al destino, che si presenta sotto forma di un incidente automobilistico) e torniamo alla realtà quotidiana. L’assalto del pathos nelle decisioni che si addensano attorno a certi momenti cruciali nel percorso attraverso la patologia non è meno spettacolare di quello che possono immaginare gli scrittori. Per questo tradizionalmente si è insegnato ai medici a diffidarne e a non assumerlo come guida nelle decisioni da prendere. La sede appropriata per le decisioni è stata spostata il più lontano possibile dall’epicentro dei terremoti emotivi che colpiscono le persone insieme agli eventi di malattia e ai pericoli di morte. Più il pathos è grande, più si ritiene inabile la persona che lo subisce a intervenire nel processo decisionale. Vengono informati (e decidono) i familiari, piuttosto che la persona malata, nella convinzione che il pathos che accompagna il fatto patologico sia un fatto globale, che arriva a compromettere la capacità intellettuale di capire la situazione e la stessa facoltà morale di prendere decisioni coerenti e sensate (il malato visto come minorato morale, oltre che mentale). I familiari sono stati tradizionalmente chiamati a subentrare nel processo decisionale, tanto che i codici deontologici medici fino a poco tempo fa li consideravano gli interlocutori

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naturali del medico, in caso di malattie gravi a prognosi infausta.

La polarità opposta al pathos, ovvero il logos ― intendiamo qui semplicemente la facoltà razionale, quella che produce proposizioni logiche ― è attribuita per definizione al medico. Secondo lo storico della filosofia Pierre Hadot, «il logos rappresenta un’esigenza di razionalità universale (presuppone un mondo di norme immutabili) che si contrappone al perpetuo divenire e ai mutevoli appetiti della vita corporea individuale 2. Al logos l’etica medica di derivazione ippocratica affida il compito di decidere in “scienza e coscienza”. E se la scienza è essenzialmente l'ambito della ragione raziocinante, impermeabile a quelle che Pascal avrebbe chiamato «le ragioni del cuore» («Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» 3), la coscienza deve non da meno proteggersi dalle ingerenze del pathos. La guida della coscienza deve impedire con fermezza che nel percorso ci si allontani dall’obiettivo unico e supremo: il bene del paziente. Ma nel valutare questo bene la neutralità affettiva che è propria del professionista è una garanzia migliore di un eccessivo coinvolgimento. Non a caso si ripete, come una verità fin troppe volte confermata dai fatti, che il sanitario tende a sbagliare soprattutto quando cura i propri familiari, oppure quando la sua neutralità è turbata da fattori contingenti. Tipica è la situazione dei pazienti-vip: proprio quando ci si impegna a fare più e meglio di quanto prevede la routine, si è esposti al pericolo di errori più clamorosi.

A rischio di forzare in senso caricaturale, possiamo mettere la dominanza del logos in medicina in parallelo con il cosiddetto “codice Hemingway”, che caratterizza un’azione che non si lascia distrarre da pensieri ed emozioni. Lo scrittore ha mostrato l’atteggiamento a cui è stato attribuito il suo nome in atto nel romanzo Per chi suona la campana 4 del 1949. Il libro parla di guerra, non di medicina; eppure le caratteristiche attribuite al buon combattente sono sorprendentemente simili a quelle richieste a un buon terapeuta. L’eroe del racconto ― un professore americano, impegnato nella guerra civile spagnola dalla parte del movimento rivoluzionario ― vede il pericolo costituito dal porsi troppe domande sulla guerra che sta combattendo, sui torti e le ragioni, sugli ideali e la violenza quotidiana, la verità e le menzogne. «Tu sei un uomo che fa saltare i ponti, non un pensatore», dice

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il protagonista a se stesso, soffocando sul nascere una riflessione che non sa dove potrebbe portarlo (nonché un senso di compassione per i giovani soldati e guardie del ponte, che dovranno essere sacrificati alla sua azione di guerra). E per istruire un vecchio partigiano, che ha remore morali al pensiero di uccidere un altro essere umano, lo esorta a prendere la mira con calma, sparando a un punto determinato: «Non pensare che è un uomo, ma un bersaglio».

Non è una provocazione mettere in parallelo la concentrazione totale sull’azione di un combattente e il comportamento medico. Certo: uno mira a distruggere la vita, l’altro a salvarla. Ma il codice Hemingway può essere applicato nell’uno come nell’altro caso. Un parallelo è suggerito dallo scrittore stesso, quando descrive il suo eroe Robert Jordan mentre colloca le cariche di dinamite per far saltare il ponte, «lavorando come un chirurgo con rapidità e con arte». La tipologia del sanitario tutto concentrato sull’obiettivo (sconfiggere una patologia, dilazionare la morte del paziente, neutralizzare un sintomo) è tutt’altro che infrequente. Il pathos non deve interferire con la sua azione. «La sua mente è in vacanza fino a quando non vinceranno la guerra», potrebbe dire, insieme al protagonista di Per chi suona la campana, il sanitario che si lascia guidare esclusivamente dal logos.

Un giro di vite nel primato della ragione è stato provocato dall'orizzonte delle risorse limitate a disposizione per la sanità. Le scelte mediche devono confrontarsi con la scarsità e quindi entrare nella dimensione della razionalità che è propria deH’economia. Come punto di partenza di questa nuova consapevolezza si è soliti citare, per quanto riguarda gli Stati Uniti, il discorso del 1987 del presidente del Senato dello Stato dell’Oregon, con cui annunciava alcune misure di razionamento esplicito e pubblico: «La tecnologia medica ha superato, e continuerà a superare, la nostra capacità di pagarla. Questa è la dura realtà: dobbiamo limitare il denaro che spendiamo nella cura della salute». Progressivamente le metafore del mercato (con termini assolutamente estranei alla tradizione medica, come bilanci, profitti, redditività, budget, competitività) hanno sostituito le metafore belliche. Considerare la medicina come una guerra a oltranza contro la malattia e la morte costituiva già un’implicita giustificazione morale

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delle strategie economiche di guerra, dove niente è ritenuto troppo costoso se aiuta a raggiungere la vittoria.

La dura legge del logos

Volenti o nolenti, anche i sistemi sanitari a carattere universalistico, come il nostro, hanno dovuto piegarsi alla necessità di coniugare una medicina ad alto profilo etico, sotto il segno della risposta solidaristica ai bisogni di salute di tutti, con una medicina attenta alla produttività, e quindi al logos che domina l’economia. Il primo segnale esplicito, per quanto riguarda il Servizio sanitario pubblico italiano, è contenuto nel Piano sanitario nazionale per il triennio 1994-1996, dove si dava per tramontato «il sogno utopistico di uno Stato che si proponga di rispondere a tutti i bisogni di salute dei cittadini» e venivano descritti cambiamenti di scenario che «impongono la dura necessità di fare delle scelte, sia a livello macro sia a livello microeconomico, al fine di riuscire a massimizzare i benefici ottenibili dalle risorse disponibili». La storia della sanità pubblica nel decennio seguente fino ai nostri giorni, non ha fatto che confermare il percorso tracciato, semmai con un’accelerazione che dieci anni fa non riuscivamo a immaginare.

Il logos ha dunque scalzato definitivamente il pathos, delegittimando ogni considerazione che non si fondi sulla ragione e sul calcolo? E il logos equivarrà alla razionalità economica, dove l’unica voce è quella impersonale dei numeri? Ci soccorre una distinzione proposta dal sociologo francese Serge Latouche nel libro La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea 5 che propone una distinzione tra razionalità e ragione. In termini simbolici, Latouche ricorda che a Minerva vengono attribuiti miticamente due figli spirituali: Phrónesis, la maggiore, in latino tradotta come Prudentia, ovvero “il ragionevole”, e Logos epistemonikós, ovvero la ragione geometrica o “il razionale”: «Quest’ultimo, a lungo sottomesso alla sorella maggiore, ha proceduto in armonia con lei fin verso il secolo XVI, allorquando si è emancipato scoprendo orizzonti sconosciuti. E infine egli ha relegato la sorella in un esilio lontano (forse in Cina o nel cuore dell’Africa) dove saremo costretti ad andarla a cercare» (p. 10). Il sociologo è impietoso nel rilevare la dominanza del logos epistemonikós

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anche in campo medico: «Le fredde acque del calcolo razionale invadono financo gli ambiti più intimi, gli organi in vita o post mortem, il sangue, lo sperma, le ovaie, l’utero in affitto, il genoma umano, il patrimonio genetico di un popolo, i sentimenti, l’affetto, il talento, l’abnegazione. Tutto si compra e tutto si vende: l’imperialismo del razionale non lascia sfuggire nulla dalle sue maglie» (p. 64). Per Latouche raccogliere la sfida di Minerva significa contrapporre alla semplicità coerente e rigorosa del calcolo razionale una forma diversa di ragione, sotto il segno del ragionevole. In altri termini, il razionale non sarebbe unico, ma molteplice; alla tirannia dello spirito di geometria si può sfuggire recuperando il ragionevole, che è stato la grande vittima del trionfo del razionale, in particolare con l’avvento del regno dell’economico. Questo ragionevole non l'irrazionale, perché è anch’esso figlio di Minerva: è phrónesis, la prudentia.

Se c’è un ambito in cui è urgente ritrovare una razionalità più ragionevole, è proprio quello delle decisioni mediche. Non possiamo affidarci in esclusiva né al pathos, né al logos, se ciò implica una divisione violenta e artificiale della realtà umana. Cuore e cervello devono comunicare, anche se, come in una carta girevole, ora può apparire in primo piano un aspetto, ora l’altro. Nel simbolo di Giano bifronte i nostri padri latini avevano colto un'immagine permanente della nostra realtà umana. Con la faccia che scruta le emozioni e con quella che soppesa le ragioni dobbiamo far fronte al precario equilibrio, sotto il segno della fragilità.

BIBLIOGRAFIA

1 Picoult J., La custode di mia sorella, Milano, Corbaccio 2005.

2 Hadot P, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi 2002.

3 Pascal B., Pensieri, Milano, Mondadori 2004.

4 Hemingway E., Per chi suona la campana, Milano, Mondadori 1998.

5 Latouche S., La sfida di Minerva, Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri 1998.