Le stagioni dell’etica in medicina

Book Cover: Le stagioni dell'etica in medicina
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

LE STAGIONI DELL'ETICA IN MEDICINA ovvero RIFLESSIONI SULLA PROFESSIONE DEL MEDICO ALLE SOGLIE DEL DUEMILA

in Ai confini tra il nascere e il morire, a cura di Stefano Bellentani e Camillo Valgimigli

Modena 2000

pp. 43-63

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Esistono delle stagioni dell’etica in medicina. Nell’epoca premoderna era ancora l’etica medica tradizionale, che si può far risalire a Ippocrate, a stabilire le regole della buona medicina. Poi, nell’era moderna, quando per il medico è diventato sempre più difficile rendere le nuove esigenze della medicina tecnologica compatibili con un nuovo sistema di diritti e doveri, è avvenuta la transizione dall’etica medica alla bioetica. Il principio di autonomia è andato crescendo d’importanza man mano che si è esteso il valore delle scelte personali nelle questioni, anche controverse, che riguardano il corpo, la vita e la salute di un individuo. La necessità di trovare una nuova strada, una sorta di territorio d’incontro tra l’etica medica di tipo paternalistico (in cui il medico aveva un potere assoluto rispetto al bene del paziente) e la pratica medica, che nell’esperienza quotidiana incontrava nuovi dilemmi (il prelievo di organi per il trapianto, il non prolungamento delle terapie, la tutela della privacy), ha favorito l’evoluzione di questa nuova disciplina, la bioetica. La dimensione dei dilemmi o delle domande senza ancora risposte non è più solo individuale e privata, ma anche pubblica e sociale. Il monolitismo e il paternalismo etico, entrati chiaramente in crisi nelle organizzazioni sociali pluralistiche, hanno imposto con la bioetica, vista come luogo di incessante elaborazione e confronto, la ricerca di nuovi valori condivisi per gli interventi che riguardano l’uomo e più in generale la vita e il patrimonio genetico.

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Oggi, anche se non si è ancora entrati nel modello che è proprio della modernità, c’è già una mutazione in atto che presuppone un’etica dell’organizzazione che ha come simbolo “l’azienda” sanitaria. Mentre ciò che sta a cerniera fra l’epoca premoderna e moderna è di natura antropologica (il malato che partecipa alle scelte che lo riguardano e ha un rapporto ugualitario o, quanto meno, simmetrico con il medico), il cambiamento che introduce all’epoca post-moderna è più di natura sociale: coincide con il problema delle risorse in medicina e con l’esigenza di un uso ragionevole, razionale e ottimale delle medesime. La restrizione delle disponibilità economiche, a fronte di una domanda crescente di salute, impone quesiti etici del tutto nuovi. Quali alternative si prospettano a chi vuole garantire servizi sanitari di qualità? Si può spendere più denaro oppure diventare più efficienti, riducendo così gli sprechi. Oppure adottare setacci che filtrino l’assistenza sanitaria per stabilire quando essa è veramente “necessaria”. Ma secondo quale criterio: medico oppure sociale? A chi spetta valutare le priorità nel gestire le risorse?

I cambiamenti paradigmatici dell’etica in medicina hanno modificato completamente scenari e modelli. Se nell’epoca premoderna il valore fondamentale attorno al quale si è costruita l’etica medica era quello di “fare il bene” del paziente o di agire secondo il principio di beneficità (un modello sostenuto dai valori ideali di una professione che vede il medico come un “missionario”, paternalista e benevolo, che agisce secondo “scienza e coscienza”), il criterio instaurato in epoca moderna è cambiato. Nel nuovo modello, nato dalla transizione alla bioetica, la prima domanda da porsi è: “Quale trattamento rispetta il malato nei suoi valori e nella libertà delle sue scelte?” All’autonomia del medico si contrappone, in pratica, quella del paziente, il quale non è soltanto la persona in stato di necessità che va a chiedere un aiuto illuminato e benevolo a un’altra persona rivestita di sacralità (che è il medico), ma somiglia piuttosto a un “utente” che si rivolge al professionista, di cui utilizza il sapere e le competenze per giungere a una scelta, non più in una posizione di dipendenza.

A seconda delle diverse prospettive offerte dalle diverse bioetiche in medicina, cambiano le implicazioni. Nello scenario del prossimo futuro la riflessione etica si concentra soprattutto sul problema dell’uso delle

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risorse e delle priorità da stabilire. Un problema che è sempre esistito. Ci sono criteri di priorità usati quotidianamente, non solo in situazioni eccezionali. Ma la scienza medica ha posto il medico di fronte a responsabilità nuove, da affrontare con consapevolezza, e ha spostato l’attenzione del dibattito dall’etica quotidiana verso quella definita “di frontiera”, spesso portata alla ribalta dai mass media su temi altamente simbolici, come la fecondazione artificiale o il congelamento degli embrioni in sovrannumero. Nella pratica quotidiana ogni atto medico, sia in ospedale sia in ambulatorio, comporta da parte del medico delle scelte etiche e una lista di priorità, dal rispettare la fila all’anteporre, se occorre, il caso più grave. Criteri che si basano sul buon senso, ma che forse non bastano più ad affrontare i dilemmi sollevati dalla scienza medica moderna. Un quesito fra i tanti: è accettabile utilizzare una risorsa solo per quei pazienti che hanno la possibilità di trarne beneficio ed escludere quelli che non ne beneficiano? Il principio è lineare, ma tradotto nella pratica può essere facilmente travisato. Per esempio, l’orientamento a fare il bene del paziente può essere contaminato da un atteggiamento paternalista e nascondere un giudizio (pregiudizio) implicito su chi “merita” di usufruire dell’intervento medico. Il criterio può essere clinico, ma anche tener conto della posizione sociale di una persona: se è giovane e con figli a carico ha più possibilità di un anziano di avere un organo per un trapianto?

I fatti di cronaca spesso ci costringono a confrontarci con i limiti del modello offerto dall’etica medica tradizionale, che affida alla competenza del clinico le conoscenze necessarie per prendere decisioni. Suscitò pochi anni fa grande dibattito il caso dell’équipe medica di Londra che avrebbe deciso di negare un trapianto di midollo a una bambina malata di leucemia perché il bilancio costi-benefici era negativo. Commentando la notizia, il filosofo Carlo Augusto Viano fece un’osservazione molto costruttiva. Egli mise in risalto che il richiamo ai principi, quali la sacralità della vita e l’uguaglianza di ogni essere umano, non esaurisce tutto il dibattito. La bioetica ha mostrato che anche le decisioni sulla vita e sulla morte non possono far dimenticare i calcoli che si devono fare con risorse scarse. “L’importante è che le regole vengano stabilite indipendentemente dai singoli casi” ha affermato Augusto Viano.

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Eppure Stephen Toumlin ha affermato che la medicina ha salvato la vita dell’etica, proprio per aver reintrodotto nel dibattito etico la questione dei “casi particolari”. Si ricollegava Toumlin, così dicendo, al concetto aristotelico del ragionamento pratico, secondo il quale nelle questioni etiche si deve soprattutto essere ragionevoli, piuttosto che insistere su un tipo di esattezza che la natura stessa dei casi non permette. Ciò significa, allora, che non si possono prendere decisioni pratiche in fatto di etica facendo appello a principi universali, ma che esse devono piuttosto basarsi, come succede nella pratica medica, sull’apprezzamento clinico di dettagli significativi, caratteristici di ogni caso particolare? Giustamente non si può fare della casistica un “esercizio del giudizio di coscienza”. Nessun principio, per quanto degno di rispetto, può evitare di entrare in competizione con un altro principio di eguale valore e nessuna teoria, per quanto ampia, può coprire tutti i casi. E dunque? Un nucleo di questioni va rimesso a regole più propriamente morali, non sanzionate giuridicamente, e un altro deve essere più rigidamente sanzionato e quindi codificato. Certamente non è facile definire i due campi e stabilire dove interagiscono e si intrecciano fra loro. L’assenza di principi o linee guida generali, che pure si basano su un vasto consenso sociale, può significare una bioetica permissiva che rischia di lasciarsi condurre dalle leggi di mercato e dalla logica dei “desideri” resa possibile dalle numerose opzioni offerte al paziente.

Da questo scenario di una medicina che ha fatto il suo ingresso nella modernità e in cui diventano prioritari il rispetto della libera scelta del malato e il principio di autonomia (il principale strumento che la bioetica ha creato per garantire questa scelta è stato il consenso informato), si sta passando alla medicina che deve ottimizzare l’uso delle risorse e produrre un paziente-cliente soddisfatto. E sembra, inoltre, rafforzarsi la tendenza a trasferire la responsabilità di identificare le priorità sanitarie dalle mani degli esperti e dei professionisti della sanità a quelle di manager e contabili, una tendenza che potrebbe non essere di vantaggio ai malati e nemmeno all’economia. In un servizio sanitario è necessaria una dose di simpatia umana unita a una specifica capacità professionale che non può essere sostituita da una transazione di tipo puramente finanziario o manageriale. Come è possibile conciliare una medicina di

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qualità con un’etica dell’organizzazione?

La terapia deve recare veramente beneficio, deve essere allineata alla bioetica, rispettare i diritti e i valori dei cittadini-pazienti, ma non basta. L’intervento di qualità, oltre a questi valori, deve difendere, per forza di cose, un uso ragionevole delle risorse. E i modelli per ottenere ciò vanno elaborati. Esistono delle ineguaglianze, infatti, nella distribuzione dei mezzi per far fronte alla domanda sanitaria che si fondano su discriminazioni sociali ed economiche. Si deve assolutamente lavorare per raggiungere un livello di equità. Un esempio? Le previsioni per l’anno 2000 indicano per l’Europa un aumento dei casi di tumore del 29 per cento rispetto al 1980; per l’Africa del 130 per cento; per l’America del Nord del 30 per cento; per l’America del Sud dell’80 per cento. Questi dilemmi appartengono alla bioetica, ma anche all’etica post-moderna chiamata a fare i conti con l’economia. Quanto più si affinano le tecniche di terapia tanto più l’accesso alla tutela della salute si trasforma in un problema di distribuzione delle risorse. Ed esistono priorità in un bilancio di uno Stato che diventano scelte politiche: si deve puntare sulla salute per tutti o solo per pochi? Secondo i dati della Banca Mondiale, se la mortalità infantile nei paesi poveri fosse ridotta al livello dei paesi ricchi, ogni anno undici milioni di bambini vivrebbero anziché morire.

In questa intervista Sandro Spinsanti chiarisce il suo punto di vista, offrendo diversi argomenti di riflessione sull’ormai impellente interrogativo: qual è la qualità di assistenza che si vuole garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro capacità economica? La scelta delle priorità dovrà essere il frutto di una contrattazione molteplice che deve tener conto di tre parametri: l’indicazione clinica (il “bene” del paziente), le preferenze e valori soggettivi del paziente e l’appropriatezza sociale. La professione medica, secondo Spinsanti, chiamata a conciliare nelle sue scelte esigenze diverse, talvolta contrastanti, senza per questo rinunciare alle esigenze della scienza, appare più che mai una difficile arte.

DomandaTenendo presenti le stagioni dell’etica in medicina, cioè etica medica, bioetica, etica dell’organizzazione, come si può interpretare il principio di beneficità, semplificato in latino dal motto “primum non nocere”? È ancora oggi la direttiva fondamentale?

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Alla deontologia ippocratica appartiene anche il principio di autonomia attiva del malato nella lotta contro il male e quest’ultimo è andato crescendo d’importanza nella stagione della bioetica.

Risposta: Il principio di beneficità è molto semplice e lineare, significa fare il bene del paziente, significa, in pratica, che la medicina è orientata e finalizzata ad essere un’impresa tesa a procurare un beneficio. Ma vale la pena fermarsi un attimo, perché la medicina non è una scienza pura, è una scienza applicata, ha la sua ragione di essere non nella conoscenza fine a se stessa, ma in una conoscenza che produce un beneficio. D’altra parte è anche vero che senza la scienza il beneficio non lo si raggiunge, perché esso passa attraverso la conoscenza della patologia e della terapia. Comunque, scopo centrale della medicina è fare il bene del paziente. Questo nessuno l’ha mai messo e lo mette in dubbio. Ma c’è una domanda supplementare, accessoria a questa constatazione ovvia e persino banale, e la domanda è: chi decide qual è il bene del paziente? È ponendoci questo quesito che si capiscono i cambiamenti che sono avvenuti o stanno avvenendo. Il primo cambiamento riguarda il concetto di “medico ideale”. Siamo ancora disposti ad accettare che il bene del paziente venga deciso in maniera autoritaria e paternalistica dal medico oppure la sua autorità deve essere democraticamente condivisa col paziente?

Domanda: Secondo questa lettura, dove si colloca oggi un medico come il professore Luigi Di Bella che si propone come il medico all’antica, benevolo ma anche autoritario?

Risposta: “Io sono il medico e so io quello che fa bene. Tu, malato, non ti preoccupare, te le do io le medicine che ti faranno guarire?” Questo è il messaggio del medico all’antica modello autoritario. Si fonda sul pregiudizio che colui che prescrive “sa” mentre il paziente “non sa”. C’è una fondamentale asimmetria conoscitiva: il medico sa e il paziente non sa quale beneficio ricaverà dalla terapia. Di Bella? È l’emblema del vecchio mito della medicina onnipotente, autoritaria e non certo democratica. Ricorda i baroni della medicina di un tempo che chiedevano al paziente una fiducia totale. Lui appartiene al modello “paternalistico benevolo” del medico che decide per il paziente, che possiede la verità e vuole essere

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legittimato senza confrontarsi, con le regole. Ma in questo caso, mi riferisco a Di Bella, c’è un’impostazione che definirei "miracolistica" della medicina, travestita da libertà di cura. In passato questo modello e andato bene perché i pazienti davano un credito incondizionato al medico.

Ma c’è anche un’altra considerazione importante e cioè un tempo quello che la medicina poteva fare o era eccellente o era niente. Non vi era però, come accade con la chemioterapia nel cancro, un beneficio talmente gravato da altri effetti collaterali di maleficio da giustificare che un malato, nonostante il beneficio che la medicina gli propone, dica: “No, grazie, non me la sento.”

Domanda: Da questo punto di vista, l’oncologia è il caso più drammatico e anche il caso più tipico.

Risposta: Sì, perché se l’oncologia guarisse sempre o nella maggior parte dei casi, con una dose minima di sofferenza, potremmo dire di essere ancora dentro il modello della medicina del passato: io so che cosa è utile, nel senso che è benefico per te. Ma è proprio l’oncologia la branca della medicina che è entrata più in crisi, perché a fronte di un beneficio ridotto, in ogni caso statisticamente incerto, non garantito, è difficile scegliere. Che cosa vuol dire che a 5 anni il 60 per cento dei pazienti e ancora in vita? Che io sarò ancora in vita i 5 anni, se mi sottopongo adesso alla chemioterapia: ma una volta passati 5 anni ce la faro oppure no? È l’assoluta incertezza, in una situazione di benefici spesso accompagnati da un enorme costo: psicologico, fisico, relazionale. A questo punto cade il modello autoritario secondo il quale chi guida le scelte è colui che sa e l’altro (il paziente) può soltanto accettare, subire o mettere in pratica quella che gli viene proposta come la soluzione.

Domanda: Non è un caso, quindi, che proprio l'oncologia sia uno degli ambiti in cui il modello paternalistico del passato sia stato messo in crisi?

Risposta: Il paternalismo si riduce, in poche parole, al presupposto che c’è una persona che vuol il bene dell’altra in maniera incondizionata e ha gli strumenti per farlo. Si parte, insomma, dal presupposto che ci sia una volontà incondizionata del bene dell'altro e che l'altro non abbia niente

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da dire sul proprio bene. Questi due aspetti sono venuti ora a mancare. Intanto, è venuta meno la fiducia verso il medico. Non è più visto come un padre o una madre totalmente disinteressati e orientati al bene esclusivo del paziente. Qui vorrei aprire una parentesi e far notare che non è solo da oggi che serpeggia scetticismo verso l’operato del medico. Gli spiriti più critici hanno sempre nutrito molti sospetti sul fatto che la medicina fosse quella pratica altruistica, benevola e orientata al bene del paziente. Uno dei giudizi più lucidi, e anche più spietati, ce lo ha offerto George Bernard Shaw nel dramma del 1903, Il dilemma del medico. Racconta di un medico che può prendere in cura solo un certo numero di pazienti (la tubercolosi era a quell’epoca la malattia più diffusa). Gli si presenta una giovane e affascinante signora, chiedendo che si occupi del marito, un giovane artista. E qui comincia il primo dilemma. Il medico si chiede: “Ma io ho il diritto di scartare uno dei pazienti che ho in cura per quest’altro?” Il medico si rende conto che deve dare un giudizio di valore sulle persone, che deve stabilire se un giovane artista vale più di un impiegato. Qui l’etica medica gli direbbe di no, che non può fare questa scelta, senonché si rende conto che la giovane e attraente signora potrebbe essere un buon partito per lui se restasse vedova. Che cosa fa? Decide di non prendere il marito della signora tra i suoi malati. E realizza, perché è anche molto acuto, che la deontologia non è poi una difesa totale del paziente.

Domanda: La deontologia medica, da Ippocrate fino al nostro secolo, e l’etica medica hanno anticipato alcuni concetti considerati fondamentali dalla bioetica. Lo scopo della medicina “è giovare e non essere di danno”, diceva Ippocrate ne Le epidemie. Ma anche il migliore dei medici non è infallibile...

Risposta: Direi che la deontologia talvolta rivela di essere la ricetta per quello che Mark Twain chiamava “un uomo buono nel peggior senso della parola”. Il dottore del dramma di Shaw è anche lui un buon medico nel peggior senso della parola, perché si comporta correttamente, non prende un paziente per scartarne un altro. È un buon medico dal punto di vista deontologico, ma nel peggior senso della parola, perché in realtà la sua intenzione è tutt’altro che buona e corretta, è egoistica. Questo

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dramma è del 1903. Oggi i problemi delle scelte sono diventati quelli dell’etica dell’organizzazione: i dilemmi del medico sono oggi quelli della limitazione delle risorse nelle aziende sanitarie e negli ospedali. Quali servizi incrementare e a discapito di quali altre prestazioni?

Domanda: Secondo l’etica dell’organizzazione il beneficio oggi lo decide il manager in rapporto ai costi, non più il medico.

Risposta: Deve essere fatto un uso sempre più ragionevole e razionale delle risorse. Perché la tecnologia medica ha superato e continuerà a superare la nostra capacità di pagarla. Una realtà con la quale saremo chiamati a confrontarci. La qualità di vita futura va definita in termini personali e morali. Nei sistemi sanitari pubblici si sta facendo strada l’idea di “razionare le cure”, distribuendole in base al criterio dei cosiddetti Qualys, ossia dei quality adjusted life years, gli anni di attesa di vita, corretti a seconda della buona qualità. In termini pratici il razionamento delle cure privilegerebbe chi può vivere più a lungo, avendo una vita qualitativamente migliore, ed escluderebbe gli altri. Anni fa, nello stato americano dell’Oregon, è stata istituita una commissione che ha fatto un accurato lavoro, stabilendo delle correlazioni di diagnosi e di trattamenti elencati con un ordine di priorità, privilegiando i trattamenti efficaci che assicuravano un quoziente elevato di Qualy. In questa lista d’attesa, che comprendeva molte centinaia di descrizioni patologiche e terapie appropriate, a un certo punto, in corrispondenza del numero 596, era stata tirata una linea che delimitava le terapie cui tutti avevano diritto, anche i poveri. Dal 596 in poi le procedure non erano più pagate con il denaro pubblico, ma lasciate alla disponibilità economica degli individui.

Domanda: Mi può fare degli esempi di patologie che non erano coperte?

Risposta: La solidarietà pubblica non avrebbe dovuto coprire la terapia per l’epatite virale, per la ricostruzione del seno dopo la mastectomia, per il trapianto di fegato dopo cirrosi epatica alcolica. Il discutibile modello dell’Oregon è stato respinto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, perché incompatibile con i diritti umani. Un modello molto più sofisticato e meglio riuscito è invece quello proposto da una Commissione olandese appositamente costituita per studiare il problema delle scelte in sanità.

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Il vantaggio del sistema immaginato dagli olandesi è quello di rendere procedurali i criteri della scelta. La domanda fondamentale da cui sono partiti è stata: qual è l’assistenza che vogliamo garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro possibilità economica, in forza del principio di solidarietà che sta alla base dello Stato sociale? La Commissione olandese ha ritenuto che questo pacchetto base possa essere ottenuto solo attraverso un sistema integrato di scelte.

Domanda: Ma fino a che punto il dilemma delle risorse riguarda il futuro? Che dire del presente?

Risposta: Alcuni dilemmi continuano ad essere quelli noti: la scarsità di reni per il trapianto, le lunghe liste d’attesa, la necessità di affidarsi a criteri moralmente ineccepibili e la necessità di porsi quesiti come: a chi dare più chances, al più giovane, oppure quando produce maggiore quantità di vita, al più “degno”, o si tira a sorte? Il dilemma del medico è anche quello dell’operatore, ed è anche il dilemma delle organizzazioni. Perché l’obiettivo è fare buona sanità con risorse date e noi queste risorse le destiniamo ad altro: qui si può fare l’esempio del caso Di Bella e del fatto che si è avviata una sperimentazione costosa, che sovvertiva tutti i principi etici e scientifici universalmente accettati. C’è stata una dichiarazione di Formigoni che mi ha indignato. Quando ha comunicato i risultati della sperimentazione in Lombardia ha detto che, nonostante i miliardi spesi, se anche si fosse salvata una sola vita, già questo giustificava la sperimentazione. Ma questo è un argomento di una capziosità unica. Infatti noi non dobbiamo monetizzare nessuna vita, non possiamo dire se una vita vale 9 miliardi, se ne vale 7 oppure se vale 7 milioni: non si può calcolare il valore di una vita.

Domanda: Questo ragionamento giustificherebbe, in pratica, che quelle risorse siano state sottratte ad altri scopi?

Risposta: Sì. Se noi dobbiamo pensare alla sanità in base a risorse date, la sperimentazione è inclusa. E se noi sottraiamo delle risorse ai pazienti per destinarle ad altro, indirettamente provochiamo dei danni a qualcun altro. Ma al di là degli aspetti propriamente monetaristici, c’è di più. Per esempio, alcuni ricercatori del Regina Elena mi hanno detto che loro avevano ricerche

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in corso che sono state tutte bloccate perché le attrezzature, tutta la struttura dell’istituto Superiore di Sanità che coordinava le ricerche, tutto quanto è stato monopolizzato per seguire i protocolli della sperimentazione del metodo Di Bella. Anche questo è un uso delle risorse che va a danno di altri, perché se si avviano delle ricerche fasulle per motivi soprattutto politici o altro, ciò produce ripercussioni a catena. Questo è l’aspetto nuovo dell’etica dell’organizzazione che pone il problema delle risorse in maniera diversa dal passato, nel senso che una volta esisteva, ed è sempre esistito, il problema della microallocazione delle risorse. Se un medico vede un paziente piuttosto che un altro, sta allocando il suo tempo, e deve decidere a chi dare la priorità. Se è disponibile un cuore e ci sono due persone che hanno bisogno del trapianto, si deve decidere a chi delle due viene destinato. Ma, in fondo, nell’ottica della microallocazione se c’è la signora Rossi e il signor Bianchi che hanno bisogno di un cuore e il medico ne dispone di uno, deve decidere a chi andrà. Questo però non coinvolge il signor Verdi che sta in un reparto di oncologia e ha bisogno di un farmaco costosissimo, perché il problema di quella risorsa riguarda i due in competizione per il nuovo cuore. Finora nell’etica tradizionale è stata questa l’impostazione del problema dell’allocazione delle risorse: significava la scelta tra pazienti, come per il dottore del dramma di Shaw, ma non coinvolgeva una terza persona.

Domanda: Che cosa significa entrare nell’etica dell’organizzazione?

Risposta: Noi entriamo nell’etica dell’organizzazione quando pensiamo che le risorse che noi destiniamo a un paziente vengano sottratte a un fondo comune, per cui il farmaco inutile che dò al signor Rossi, che soffre di cancro, riguarda anche il signor Bianchi che ha un’ulcera o qualcos’altro. L’etica dell’organizzazione ci obbliga, insomma, a intendere la sanità come un sistema dove qualsiasi intervento si faccia da una parte si ripercuote su un’altra, sia come beneficio che come maleficio. In ogni caso, lo spreco o l’allocazione di risorse non giustificate si pone come un danno per tutti. Questa è una consapevolezza nuova che ha preso corpo negli ultimi anni.

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Domanda: Quindi l’etica dell’organizzazione, in un certo senso, non può rispettare l’autonomia della scelta del malato, perché essa deve confrontarsi con i costi? È il pareggio dei conti che ha più peso?

Risposta: Questa è un’ottima osservazione, perché di fatto, se noi diamo un valore assoluto all’autodeterminazione del malato, entriamo in un contesto non governato, fatto di egoismi molto forti. La nostra società è così, è una società in cui l’individuo, ma più spesso le associazioni di malati, i gruppi di potere, cercano di ottenere tutto a proprio vantaggio, spesso nel disinteresse assoluto per gli altri. Non è più soltanto il singolo che vuole per sè, ma sono tanti, soprattutto i gruppi o le lobbies. E se le risorse vanno a chi grida più forte in piazza, a chi ha dietro il gruppo politico o il partito, chi non ha un appoggio di questo genere rischia di essere ancora più svantaggiato. Il grosso problema, quando la politica diventa demagogia, cioè va dietro a chi grida più forte, è la sorte dei “senza voce”.

Domanda: Quali sono i rischi e le opportunità di gestire le risorse stabilendo liste di priorità?

Risposta: Il rischio è che il ragioniere abbia l’ultima parola, con l’argomento inoppugnabile del pareggio dei conti. Il medico rischia così di venir spossessato non solo della sua tradizionale risorsa costituita dall’etica medica (che lo guida a fare il bene del paziente), ma anche del paradigma della bioetica (che lo vuole partecipe delle scelte del paziente che decide in autonomia e secondo i suoi valori). Insomma, il medico rischia di diventare subalterno dei manager e dei contabili. L’opportunità? È quella di vedere questa situazione critica come una sfida a ritrovare un ruolo del medico che è insieme etico, politico, sociale. Le stagioni dell’etica, questo va precisato, con le rispettive esigenze riguardo all’allocazione delle risorse e ai criteri per stabilire le priorità, non vanno viste come modelli conclusi che si succedono nel tempo, ma come esigenze contemporanee e contestuali.

Domanda: Il principio di autonomia significa che il medico propone una terapia e che poi il paziente sceglie autonomamente cosa fare. E sul principio della libertà di scelta che si è giocato molto e in modo

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ambiguo. Il diritto del malato a scegliere in base ai suoi valori e in piena autonomia è diventato “libertà di cura”. Nella vicenda di Di Bella l’equivoco su questo punto è stato enorme...

Risposta: È vero. Il punto più debole per la costruzione della libertà di scelta o di cura è di pensare che il paziente sia in una posizione di parità rispetto al medico e questo non è vero. E un argomento che dà ragione ai paternalisti i quali dicono: “Ci penso io a curarti, so io quello che fa bene”. Ciò mantiene il paziente in una condizione di subordine rispetto al medico: subisce, oltre al dolore, anche le decisioni del medico. Io credo che capire il bene del paziente sia qualcosa di molto più complesso; lo si può capire solo se ci si mette in una posizione di ascolto del paziente.

Domanda: Quindi ha senso parlare di autonomia di scelta solo se il paziente ha un dialogo col medico?

Risposta: Esattamente. Chi decide? In passato la posizione paternalista era una posizione di “one up” (il medico) e di “one down” (il paziente). E chi è “up” (in inglese “sopra”) che decide per chi è “down” (in inglese “sotto”). Questo vale per tutte le posizioni di potere. E il genitore che decide per il figlio, ovviamente se è una struttura benevola decide per il bene del figlio. Anche il potere politico decide per il bene dei cittadini, dei governati, ma la struttura di potere è “up-down”. La fantasia che molti medici hanno oggi, perché sentono crollare questo schema di riferimento, è che il paziente diventi “up” e lui “down”, cioè è il paziente che decide e lui esegue. Perché se si accetta la logica del consenso informato le posizioni si capovolgono.

Domanda: Davvero esiste questa situazione di passaggio del potere?

Risposta: La grande difficoltà è capire che è il modello di potere (“up-down”) che va cambiato, non i protagonisti. Il rapporto di potere non deve essere più pensato in termini di comando-esecuzione-gerarchia, ma in maniera diversa. Intanto, è un potere che presuppone un “face to face”, cioè un faccia a faccia, non uno schema “up-down”. Nel faccia a faccia tra medico e paziente io che sono il medico, io che sono l’oncologo, io che ho l’informazione, nonostante tutta la mia scienza, non saprò mai ciò che è meglio se non so ascoltare. Perché è lui, il malato, che deve prendere le decisioni.

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Nel bilancio costi-benefici devono entrare anche variabili drammatiche come: vale la pena accanirsi, tentare tutte le possibili strade oppure è meglio optare per la qualità di vita, tentare cure palliative piuttosto che accanirsi con terapie? Molti pazienti oggi muoiono con la chemioterapia, ma ha un senso scientifico e quanto è umano farla? Questa dimensione presuppone che io medico so cos’è bene per il malato, non solo in base alle conoscenze cliniche che io ho su quel certo tipo di cancro o di patologia, ma anche in base a ciò che so di lui: la sua condizione psicologica, sociale e i suoi valori. Perché le persone variano l’una dall’altra. Esiste una variabile antropologica oltre che etica. E questo presuppone che, se io medico non ascolto, non saprò mai qual è il bene per il paziente.

Domanda: Questo ci fa introdurre un argomento a lei molto caro, quello del consenso che si basa su un autentico ascolto del malato. Come si può stabilire ciò che è prioritario per il paziente se non ci si pone al suo ascolto con empatia?

Risposta: Sì. Il consenso informato del paziente non deve cominciare (e finire) quando pone la sua firma su un modulo. Ma il consenso informato non comincia neppure con l’informazione; essa è solo un prerequisito, il minimo, dal punto di vista etico, per poter dire che si tratta di un consenso informato. Senza informazione il consenso non ha alcuna legittimità sociale. Non basta far firmare una carta per cautelarsi in senso giuridico. Si mette tutto l’accento sul consenso e non sull’informazione. E ancor prima dell’informazione, sull’ascolto. Perché se non c’è l’ascolto anche l’informazione è carente. Essa sarà giustificata eticamente solo se entra in sintonia con quello che il paziente vuole sapere veramente e che lo aiuta a fare una scelta, ovviamente insieme al medico. Non si può parlare di informazione quando si sparano in faccia al malato delle previsioni statistiche (“Lei ha un carcinoma alla prostata. Prognosi infausta: cinque anni di sopravvivenza nel 25 per cento dei casi”). Questo non è informare, ma brutalizzare il malato, senza tener conto delle sue emozioni e senza creare quella partnership che sviluppa un’alleanza terapeutica. La negoziazione con il paziente presuppone, per essere eticamente corretta, un ascolto autentico.

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Domanda: La buona medicina è a beneficio del paziente. Oggi che cosa è fondamentale per una “buona medicina”?

Risèosta: Nella richiesta attuale di buona medicina si sono aggiunte esigenze relative all’informazione da dare al paziente e al suo coinvolgimento nelle scelte che lo riguardano. C’è stato un ampliamento del concetto stesso di qualità. Ma oggi la buona medicina oltre a badare all’elemento comunicazione-informazione, deve tener conto delle risorse, cioè del bene di tutti. Perché con queste risorse si devono fare i conti. Anche qui ci vuole un ascolto che i politici o i manager devono fare delle preferenze e dei bisogni delle popolazioni e dell’insieme della popolazione. Perché esiste una terza dimensione; anche questa nasce da un ascolto che non è solo clinico, ed è l’epidemiologia. Se non sappiamo qual è lo stato di salute della popolazione, quali sono i benefici che possiamo effettivamente procurare, quali sono le patologie più diffuse, è difficile pensare, dal punto di vista dell’organizzazione, ad un obiettivo come il pareggio di bilancio. Non si può pensare di fare buona medicina se non si parte dai dati, dalle ipotesi, dalle verifiche, dalla constatazione di che cosa cambia dai nostri interventi, altrimenti è tutto un procedere alla cieca. Non si può sostenere che quella cardiologia è molto buona perché ha fatto tanti by-pass. Ma erano necessari quei by-pass, hanno portato un beneficio, un miglioramento della salute cardiologica della popolazione o tanti bypass hanno portato a tanti Drg e tanti Drg hanno sanato il bilancio? Si deve fare un riscontro continuo che si basa sulle evidenze, anche le misure di politica sanitaria devono basarsi sulle prove di efficacia.

Domanda: Ma il buon medico e la buona medicina come li immagina lei in questo nuovo scenario?

Risposta: Io sogno una medicina che abbia saputo fare una crescita, per cui il genitore del diciottenne non è soltanto più in alternativa al padre-padrone, non è soltanto l’albergatore, ma è anche una persona con cui il diciottenne o la diciottenne, il giovane adulto ha un rapporto di fiducia per cui si lascia consigliare, si confronta, partecipa. A me piacerebbe pensare che il medico possa essere accanto al malato così come un buon genitore è accanto al giovane figlio o alla giovane figlia adulti, che devono fare delle scelte di vita e che, pur assumendosi le proprie responsabilità,

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quindi non in un rapporto di obbedienza o dipendenza ma adulto, compiano delle scelte in cui c’è l’esperienza del genitore. L’alternativa al rapporto di potere non deve essere un’assenza di rapporto.

Domanda: Con buona pace del medico tradizionale che agisce secondo “scienza e coscienza”?

Risposta: Molte volte dire “io agisco secondo scienza e coscienza” vuol dire “io agisco in maniera arbitraria, cioè decido io”. La scienza dovrebbe rimandare alla comunità scientifica, alle linee guida, ai protocolli, alle prove di efficacia, perché scienza non significa ciò che io preferisco. Anche la coscienza però non è una istanza arbitraria, insondabile e insindacabile. I miei valori, le mie preferenze devo confrontarli con un’altra coscienza che potremmo definire collettiva, espressione di valori condivisi. Ciò significa che la mia coscienza non è un appello assoluto. Semplificando, io posso decidere, se faccio il biologo, se valga la pena di sacrificare delle scimmie macaco per la ricerca. Decido se è buona scienza e lo decido in coscienza, ma non posso seguire lo stesso procedimento con un paziente, perché io ho davanti a me un’altra coscienza con cui confrontare i miei valori. E le sue scelte potrebbero essere diverse dalle mie.

Domanda: Insomma, la scienza deve confrontarsi con la comunità scientifica e la coscienza si deve confrontare con la coscienza dell’altro. Il concetto di scienza-coscienza, visto che il medico deve aggiornarsi, raccogliere dati, riferimenti, protocolli, risultati, ricalca in fondo il modello un po’ antiquato del medico apostolo. Che rischia di rimanere isolato, che non si aggiorna, e che è lì, tutto convinto delle sue idee...

Risposta: Ma questa è la fotografia di Di Bella. Cioè del medico che rimane fermo nel tempo, che asserisce di sapere che questa secondo lui è una cosa buona e continua con quella, senza verificarsi con nessuno, senza confrontarsi con niente. È un uso improprio del richiamo a scienza e coscienza. Perché, ripeto, il richiamo alla scienza esige il confronto con la comunità scientifica e il richiamo alla coscienza quello con i valori sociali e dell’individuo. Certo, uno può decidere in coscienza di mettersi contro la società. Ma, se sono Socrate, accetto di bere la cicuta e devo avere il

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coraggio di arrivare fino al martirio: io non vedo medici che accettano il martirio.

Domanda: Ma come deve essere il medico ideale?

Risposta: Il modello è molto innovativo. Intanto deve essere un medico che ha non solo un primato di tipo scientifico, ma anche una leadership, ossia ha dei valori condivisi dall’équipe con cui lavora, dall’organizzazione e dall’azienda. Sa comunicare e motivare le persone sul lavoro. Questo è un modello assolutamente nuovo rispetto a quello di tipo individualistico, per cui il buon medico era quello che aveva più scienza degli altri, ma che non sfruttava le risorse umane, che non era capace di motivare le persone o di farle lavorare. Basta immaginare il modello del primario vecchio stile che si vede in certe caricature: lui è al centro, circondato da uno stuolo di assistenti, ed è lui che decide e che dice: qui si fa come dico io....

Domanda: Che cosa resta oggi di questo modello antiquato? Pensa che ci siano ancora medici che si comportano così?

Risposta: Infatti. Perché introdurre delle idee in un’azienda sanitaria è molto di più che far passare un nuovo sistema di organizzazione. Cambiare modo di lavorare è la cosa più difficile, perché vuol dire cambiare le persone. Nessuno ha insegnato al medico a fare il medico dal punto di vista dei comportamenti. Ricordo quando ero docente alla Università Cattolica. Mi faceva impressione vedere gli studenti al primo anno di medicina e verificare come cambiava il loro atteggiamento, come si modellavano ai gesti e ai movimenti dei medici più prestigiosi o dei primari. Alla fine camminavano come loro (sto esagerando, ma non troppo). Del resto, nella nostra cultura si pensa ancora che il primario sia la persona che comanda e che conta di più. E il medico, da parte sua, fa fatica ad accettare che l’infermiera nel suo ambito sia autonoma, che possieda un insieme di conoscenze, competenze e responsabilità.

Domanda: Qui lei ha toccato un punto fondamentale: quello delle responsabilità. Per l’etica dell’organizzazione il principio della responsabilità condivisa diventa cruciale. Non è così?

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Risposta: Sì. Invece, nell’ambito della medicina ospedaliera organizzata lo scarico delle responsabilità è ancora l’atteggiamento più diffuso. Anche il consenso informato, con la firma del modulo da parte del paziente in ambito ospedaliero, rischia di diventare solo un sistema per scaricare le responsabilità, per dire che io non c’entro, il paziente è stato informato e ha firmato. Quindi se qualcosa non va come dovrebbe, il responsabile è ovviamente lui. Se in passato il medico non veniva mai chiamato in giudizio perché la sua autorità era intoccabile, oggi si rischia di arrivare a fare di tutto per non essere responsabili. È quello che cerco di far capire con i nostri corsi di formazione. Remando contro corrente, tento di far capire che diventare azienda non è solo fare un budget o limitare la spesa o cercare di arrivare al pareggio di bilancio, è anche organizzare il lavoro, prendere delle responsabilità, condividere i problemi, valorizzare il lavoro degli altri. Insomma, un sistema diverso di lavoro. In cui entra un nuovo protagonista: il cliente-paziente.

Domanda: Un nuovo “tiranno” (oltre al direttore amministrativo dell’azienda-ospedale) con cui il medico si ritroverà a fare i conti?

Risposta: Perché il medico non viva se stesso come il servitore di due padroni (da una parte il direttore generale che gli dice di risparmiare e dall’altra il paziente che vuole sempre di più) deve continuare ad essere medico, assumendosi maggiore responsabilità anche sociale nei comportamenti e nelle scelte, e cercando di non farsi considerare da chi dirige l’azienda ospedale come un ordinatore di spesa, quello che gli fa spendere di più o di meno. Quando parlo ai medici ci tengo a precisare che lo slogan “il cliente ha sempre ragione” è sbagliato nel commercio ed è sbagliatissimo in medicina. Il medico non può mettersi a inseguire le preferenze, magari i capricci e la disinformazione, del paziente: ha ragione quando ha ragione, ha torto quando ha torto. Il mio problema di medico deve essere il paziente “ingiustamente soddisfatto” o “ingiustamente insoddisfatto”. Se faccio la cosa giusta, appropriata e lui è insoddisfatto devo capire il perché.

Domanda: Quali sono le cause del difficile passaggio dall’etica medica alla bioetica e infine all’etica dell’organizzazione? Quali gli strumenti per arrivarci rapidamente e in modo non drammatico?

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Risposta: È innanzitutto un problema di mentalità e di cultura. Ci sono ancora medici che considerano il consenso informato un’inutile perdita di tempo. Anche se ritengo che ci sia modo e modo per ottenere un consenso, che non sia solo formale ma frutto di una decisione veramente consensuale, penso che ci siano medici irrecuperabili. Nei corsi di formazione il consenso informato è un’occasione per discutere e per informare i medici. Come si può pretendere che un atteggiamento, che è stato interiorizzato in 2500 anni di etica medica, passi dall’oggi all’indomani perché l’Ordine dei Medici ha cambiato il codice deontologico? Lo stesso Ordine dei Medici, nel 1992, quando è uscito il documento “Informazione e consenso all’atto medico” del Comitato nazionale per la bioetica, ha obiettato dicendo che quelle regole non li riguardavano perché loro si attenevano al codice deontologico il quale diceva che:”è il medico che valuta se dare o non dare l’informazione”. E questo avveniva nel ‘92! Nel ‘95 il codice deontologico è stato cambiato, ma non basta modificare la formulazione di un codice deontologico per cambiare mentalità rispetto al consenso informato. Ciò che passa sono le caricature, le carte, la burocrazia... ma non il consenso informato. Per essere richiesto in modo veramente corretto richiede tempo.

Domanda: Il consenso informato è un problema di potere o di cultura?

Si tratta di sapere, tra il paziente e il terapeuta, chi comanda e chi ubbidisce? Significa solo evitare le grane?

Rispsota: È giusto che faccia paura perché è un cambiamento e i cambiamenti fanno paura. Certo nel problema del consenso informato c’è anche la dimensione del potere, ma dietro alla fantasia del rovesciamento dei ruoli c’è dell’altro. In questione è stato messo il modo stesso di esercitare il potere in medicina. In altre parole, il problema non è chi esercita il potere, ma come lo esercita. La sostanza del cambiamento è proprio la rimessa in discussione del modello “up-down”. Inoltre, il consenso informato è anche una questione di cultura che noi sentiamo in qualche modo estranea, “un’americanata”, come l’ha definita qualcuno. Un’antropologa, Deborah Gordon, e un epidemiologo, Eugenio Paci, hanno individuato due tipi di sub-culture o narrazioni culturali che regolano il rapporto medico-paziente: la narrazione di “autonomia e controllo”

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e quella di “protezione sociale”. In queste due narrazioni è diverso ciò che ci si aspetta dai medici, dai familiari e dal malato stesso. In una, la prima, prevale la comunicazione diretta e l’individuo controlla il proprio destino e quindi chiede le informazioni necessarie per farlo; nell’altra prevale il lasciar capire o il nascondere e il gruppo (la famiglia) controlla, minimizza, tranquillizza. Nel modello “autonomia-controllo” le decisioni le prende il paziente, o il medico più il paziente, mentre nel modello di “protezione sociale” le decisioni le prende il medico.

Domanda: Non crede che la passività con cui i cittadini hanno finora accettato l’esclusione dall’informazione sia oggi sempre più messa in discussione?

Risposta: Gli italiani hanno molti motivi per essere insoddisfatti delle cure sanitarie che ricevono, come risulta dalla ricerca promossa dalla Fondazione Smith Kline:”Il cittadino e il servizio sanitario nazionale”. E buona parte dell’insoddisfazione riguarda precisamente le carenze dell’informazione. In un articolo scritto da un medico di medicina generale, Eliseo Longo, si trova questa descrizione di come, secondo la sua esperienza, viene abitualmente fornita l’informazione :”I miei assistiti, appena dimessi dall’ospedale, di solito nulla sanno raccontarmi di quello che è avvenuto durante la loro degenza: ipotesi diagnostiche, indagini effettuate, motivi per cui sono state decise e spesso nemmeno le conclusioni cui sono giunti i medici alla fine degli accertamenti. La lettera di dimissioni è spesso indecifrabile e mi chiedono, non senza ansia, di sapere che cosa è successo alla fine di tutto”.

Domanda: Il consenso informato è, a suo parere, anche una questione epistemologica, in quanto ha a che fare con il tipo di certezza che ci dà la scienza?

Risposta: Sicuramente i problemi del consenso ci portano a riconsiderare le modalità di comunicazione e di condivisione, non solo delle certezze, ma anche delle incertezze. Siamo costretti a vedere quanto fosse ingenua la concezione di sapere scientifico proposta dal pensiero positivista, secondo il quale la luce della conoscenza era destinata a cacciare sempre più lontano le tenebre dell’ignoranza. Oggi ci accorgiamo che l’aumento

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della scienza non fa diminuire le incertezze; al contrario, più progrediamo, più le incertezze aumentano. Di conseguenza, l’ambito della variabilità delle scelte diventa più problematico. E questa dimensione della medicina ci porta a confrontarci con il problema della negoziazione con il paziente, quale modalità di rapporto sottointesa dalla nuova medicina. E la negoziazione presuppone, per essere eticamente corretta, l’ascolto del paziente.

Domanda: Irene Merli nel libro “Come riconoscere il medico giusto” è andata a domandare a tutti gli specialisti quali sono i criteri per cui un paziente può capire se riceve un trattamento giusto o no. Poi, come distinguere il medico dai ciarlatani, il consenso informato e così via. Nella prefazione al libro lei ha asserito che i cambiamenti non avvengono perché siamo preparati ad essi, ma perché devono avvenire. Ci può spiegare?

Risposta: L’epoca moderna o la rivoluzione francese non sono avvenute perché eravamo preparati. La rivoluzione francese, che ha posto fine all’ancien regime, lo ha fatto tagliando la testa a coloro che incarnavano il potere esercitato in modo assolutistico (il re, i nobili, l’alto clero). Il cambiamento in medicina non ha preso la via della rivoluzione nel vero senso del termine, però i tempi sono cambiati anche se ci sono ancora medici che dimostrano di non essersene resi conto e che continuano a comportarsi con i pazienti come hanno sempre fatto. Nella professione attingono a solide conoscenze di medicina scientifica per mantenersi lontani dalla tentazione di esercitare un potere e di restare ignoranti. Ma se alla scienza e alla coscienza non hanno imparato ad abbinare l’informazione, quello che fanno non corrisponde più alla buona medicina come la concepiamo oggi così sono passati, senza saperlo, fra i parrucconi dell’ancien regime. Ci penseranno i pazienti a togliere loro la parrucca e a costringerli a confrontarsi con le esigenze della nuova cultura sanitaria. Perché una cosa è certa: i tempi sono cambiati.