Quale etica per l’ebm?

Book Cover: Quale etica per l'ebm?
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

QUALE ETICA PER L'EBM?

in Bioetica & Società

anno II, n. 1, gennaio-aprile 2004, pp. 36-46

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È riuscito il movimento dell’EBM a realizzare il suo intento dichiarato, ossia a promuovere una pratica della medicina di migliore qualità? La risposta alla domanda rischia di divaricarsi in posizioni estreme, alle quali non sono estranei pregiudizi e atteggiamenti acritici, sia a favore che contro. È più agevole, invece, trovare un consenso su un’affermazione apparentemente di basso profilo: il dibattito ha quanto meno prodotto un approfondimento di concetti spesso utilizzati senza avvertirne la problematicità. A cominciare ovviamente dalla stessa evidence. Tradotta in italiano in un primo tempo semplicisticamente con «evidenza» 1, ci si è dovuti rendere conto che nell’accezione comune la «medicina delle evidenze» era esattamente il contrario di quello che intendeva un anglofono quando proponeva una medicina basata sull'evidence (vale a dire sulle «prove di efficacia», come è invalso successivamente, almeno tra i più avvertiti circa i tranelli che può presentare la traduzione letterale dell’inglese) 2. Ma anche concetti quali «prova», «efficacia», «sperimentazione clinica», «scientificità», «protocollo» e «linee guida», «appropriatezza» sono passati attraverso un vaglio più rigoroso. Con un guadagno in consapevolezza rispetto alla medicina da promuovere e quella da scoraggiare.

Ci sentiamo autorizzati a chiederci: stabilendo un confronto tra l’EBM e l’etica, possiamo almeno aspettarci un beneficio analogo, ovvero la chiarificazione di che cosa intendiamo per «etica», quando la invochiamo in medicina? La ricerca di una buona medicina ― che è, in termini estremamente semplificato

1. Così anche in Pierluigi Morosini, Franco Perraro, Enciclopedia della gestione di qualità in sanità, Torino, Centro Scientifico Editore, 1999 (Evidence: «Prove e indizi a favore o a sfavore di una particolare ipotesi ― ad esempio sull’efficacia di un trattamento ― in particolare quelle derivabili dalla letteratura scientifica», p. 88).

2. Cfr. Le voci evidence/evidenza in Livio Hofman Cortesi, Bona Schmid, I segreti dell’ingleseBidizionario di falsi sinonimi e vere equivalenze tra italiano e inglese, Firenze, Sansoni, 1988.

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la sostanza stessa dell'etica ― si rivela difficoltosa perché i criteri con i quali tale bontà viene valutata stanno cambiando. Per un lunghissimo periodo, che coincide praticamente con lo sviluppo o una valutazione riservata alla professione sanitaria. Coerente con questa impostazione era la delega al medico di tutto il processo decisionale: il medico doveva prendere le decisioni cliniche «in scienza e coscienza». Il principio etico che guidava la decisione era l’orientamento al bene del paziente (nella terminologia filosofica anglosassone si parla di «beneficence» come criterio etico). Quanto alla «scientificità» dei servizi erogati ai pazienti, la valutazione era per definizione sottratta a questi ultimi, dal momento che non erano in grado di accedere alle conoscenze che qualificano il medico in quanto medico.

In questo paradigma l’introduzione dell'evidence quale criterio per valutare la qualità delle decisioni cliniche (intendendo l’EBM, con Alessandro Liberati, come «l’uso coscienzioso ed esplicito delle migliori prove di efficacia per prendere decisioni circa l’assistenza ai pazienti e, più in generale, alle decisioni in sanità») non costituisce una innovazione. La richiesta di «scientificità» è la stessa di sempre; solo che oggi si fonda sulle acquisizioni dell’epidemiologia clinica e sulla metodologia degli studi clinici randomizzati. Rimane aperto il dibattito epistemologico se questo approccio sia sovrapponibile alla scientificità tout court, oppure se anche altre conoscenze ― precliniche e cliniche ― possono aspirare a chiamarsi scientifiche, pur essendo acquisite per vie diverse. Con questa argomentazione, ad esempio, Luigi Pagliaro richiede che la «scienza di buona qualità» (good science) sia coestensibile a tutto il sapere clinico, senza essere ridotta ai trial: «L’accento posto dall’EBM sulla ‘scienza di qualità’ può indurre medici entusiasti di questo nuovo ‘paradigma’ a trascurare le informazioni sulle scienze di base applicate alla clinica e alla diagnosi e gli studi osservazionali post-marketing, danneggiando implicitamente alcune categorie di pazienti» 3. Abbiamo bisogno non solo di una medicina basata sull'evidence, ma anche di una evidence basata sulla pratica clinica, che sappia ben utilizzare il ragionamento diagnostico.

L’etica medica non viene modificata da questa richiesta di prove rigorose: purché si offra al paziente ciò che la comunità scientifica ritiene corretto, siamo nell’ambito della buona medicina. Secondo questa impostazione ― che risale al paradigma ippocratico ― la medicina è un’arte, che va praticata dagli esperti secondo le regole che essi conoscono. L’ebm si inserisce perfettamente in questo modello, se ― per riferirci ancora alle definizioni di A. Liberati ―

3. Luigi Pagliaro et al., L’EBM: amica o nemica dei pazienti?, Janus, n. 3, 2001, pp. 34-42.

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«per praticare l'EBM è necessario integrare la competenza clinica individuale con le migliori prove di efficacia derivate da revisioni sistematiche dei risultati della ricerca epidemiologica e clinica». Ancor più: l’EBM potrebbe rafforzare ulteriormente quella «dominanza medica» 4 che si fonda sulla insuperabile asimmetria tra coloro che decidono quali servizi sanitari vanno erogati e i pazienti che ricevono tali servizi.

È importante sottolineare che, in quanto modello di medicina, la scienza (epistéme) è essenziale per il medico, ma non è richiesto che questi la traduca in informazione per il paziente. Di fatto, nella medicina del passato l’informazione non era richiesta come una condizione di qualità dell’atto medico. L’informazione era un optional, che dipendeva dalle qualità umane del medico e da circostanze che potevano farla ritenere più o meno opportuna. La medicina poteva diventare sempre più scientifica, senza pagare nessun tributo di informazione ai suoi beneficiari. Un grande medico-filosofo della metà del XX secolo, Vicktor von Weizäcker, riteneva per l’appunto che lo sviluppo della medicina verso una sempre maggiore scientificità avrebbe potuto rivelarsi catastrofica dal punto di vista del rapporto medico-paziente:

Se si va avanti così per un certo tempo, potrà succedere un giorno che un’intera corporazione, la corporazione dei medici e degli scienziati, diventerà l’oggetto di una grande aggressione; non mi meraviglierei se, come la rivoluzione francese ha ucciso gli aristocratici e i preti, un giorno fossero uccisi medici e professori, e non benché si siano irrigiditi cercando riparo dietro la scienza impersonale, bensì proprio per questo motivo 5.

Il distacco tra terapeuti e cittadini non si è sviluppato secondo lo scenario tragico evocato da von Weizsäcker; non di meno, il degrado si è realizzato nel giro di pochi decenni. L’incontro medico-paziente è diventato per lo più scontro; la comunicazione si è trasformata in un rapporto lontano, freddo e pieno di sospetti; l’informazione è diventata la caricatura di se stessa, e altrettanto il «consenso informato» così come viene per lo più praticato (oggi il paziente prima di un intervento diagnostico-terapeutico si vede proposto un foglio da firmare: se va bene, viene informato su indicazioni, controindicazioni, rischi e alternative; se va male, il foglio contiene solo formule di de-responsabilizzazione e autotutela del medico, che cerca una posizione di sicurezza in caso di un possibile contenzioso giudiziario...).

È vero che la cultura e l’etica ai nostri giorni si sono alleate nella richiesta

4. Cfr. E. Freidson, La dominanza medica, Milano, Franco Angeli, 2002.

5. Viktor von WeizsäckerPathosophie, Göttingen, 1956, p. 207.

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di un cambiamento in profondità nei rapporti tra coloro che erogano le aire e i cittadini che le ricevono, così da modificare la struttura stessa della comunicazione che intercorre tra di loro. Con una parola che sintetizza tutto il processo, ci si riferisce al fenomeno nel suo insieme come a un empowerment del paziente. La parola inglese contiene la nozione di «potere» (power). L’aspetto più visibile nel nuovo rapporto tra sanitari e cittadini è proprio quello di uno spostamento di potere tra le persone coinvolte nella relazione. Il potere a cui ci si riferisce non è quello di natura politica o, nei rapporti interpersonali, ciò che autorizza qualcuno a dare ordini, aspettandosi che altri obbediscano. Tutte le relazioni di cura e assistenza prevedono un potere, utilizzato in modo benefico a vantaggio di un altro: pensiamo al rapporto tra genitori e bambini, insegnanti e allievi, medici e malati, appunto. Il potere in questione è quello che, traducendosi in atto, si esprime in un atteggiamento di paternalismo benevolo.

Dal punto di vista semantico l’empowerment al quale ci riferiamo è un concetto molto più complesso di quello proposto dal dizionario di inglese Ragazzini, nella più recente revisione, che illustra il termine con «1 acquisizione del potere da parte delle donne». L'empowerment in sanità non equivale all’acquisizione del potere da parte del malato, sul modello dell’emancipazione proposto dal femminismo! Il modello dell’empowerment che proponiamo rispecchia la definizione che troviamo nell’Enciclopedia della Gestione della Qualità in Sanità:

Termine entrato in uso e di difficile traduzione in italiano per indicare la tendenza a dare più potere, più coinvolgimento nelle decisioni ai pazienti, al di là del consenso informato 6.

Il concetto di empowerment sostituisce quello di operatore sanitario come avvocato (o alleato) del paziente. Il primo in particolare presuppone un rapporto di dipendenza: il paziente ha bisogno di qualcuno che lo difenda. Empowerment invece sottolinea il concetto di autonomia. L’analisi di questo tipo di transazioni raggruppa rapporti di natura molto diversa nella categoria di «relazioni complementari». Sono quelle che si basano sulla differenza tra le posizioni coinvolte. Funzionano bene quando ognuno si attiene al suo ruolo e non pretende di fare la parte dell’altro. Dal punto di vista grafico, il modello che le rappresenta prevede due posizioni: una sovrastante (one up) e una di sottomissione (one down):

6. Pierluigi Morosini, Franco Perraro, op. cit., p. 82.

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one up

__________

one down

Diverse invece sono le «relazioni simmetriche», nelle quali i protagonisti hanno uguale potere e non si comportano secondo ruoli fissi. Ce li possiamo immaginare l’uno di fronte all’altro, faccia a faccia, senza poter dire chi comanda e chi obbedisce 7.

Il senso del processo di empowerment del paziente non è quello di mettere quest’ultimo in posizione one up e il medico in posizione one down, invertendo i rapporti di potere che siamo soliti associare con l’esercizio della medicina (dove il medico è considerato tanto più bravo quanto più esercita un’autorità indiscutibile e induce il paziente a essere «osservante» o compliant). Non sarebbe un progresso se il medico diventasse l’esecutore delle decisioni prese dal paziente in posizione di completa autonomia; anzi ciò costituirebbe una minaccia per la salute, perché al paziente verrebbe a mancare il bagaglio di conoscenze proprie del sapere professionale del medico. L'empowerment è invece un cambiamento di rapporti complesso, che ha luogo su diversi piani.

Lo schema che proponiamo prevede dei cambiamenti significativi su tre diversi piani: sul piano sociale (o della cultura), nel rapporto clinico tra professionisti sanitari e pazienti, nell’ambito dei valori condivisi o dell’etica.

Empowerment del cittadino nel processo di cura

I. Dimensione culturale

― Autogestione della salute vs «espropriazione della salute» (I. Illich), mediante «un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla loro salute e migliorarla» (Carta di Ottawa).

― Conoscenza dei propri diritti; rappresentanza attiva, anche organizzata («rivoluzione liberale» in medicina).

― Atteggiamento psicologico «adulto» verso medici, infermieri e altri professionisti sanitari.

― Coinvolgimento dei cittadini nel miglioramento dei servizi, sollecitando suggerimenti, anche critici.

7. Cfr. P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.

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II. Dimensione clinica

― Raccolta sistematica di informazioni sui trattamenti proposti (ricerca; diagnosi; terapia) e sulle alternative.

― Promozione del «parere complementare» (second opinion).

― Accesso consapevole alle prestazioni sanitarie, grazie alla conoscenza di benefici attesi, effetti collaterali, rischi, complicazioni.

― Competenza nell’automedicazione semplice.

― Educazione all’autogestione delle patologie croniche.

III. Dimensione etica

― L’autonomia come principio etico che bilancia il principio del «bene del paziente» stabilito unilateralmente dal medico.

― Più ampia partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano (decisioni consensuali).

― Assumere la responsabilità per le scelte sanitarie e, più in generale, per la propria vita.

― Autodeterminazione personale (l’individuo, non la famiglia come referente delle informazioni e soggetto delle decisioni).

― Promozione delle direttive anticipate: living will o indicazione di persona delegata a decidere; disposizioni per la donazione di organi.

Nella dimensione culturale dell’empowerment individuiamo anzitutto l’adeguamento alla filosofia che ispira I’oms nota come «promozione della salute» (Health promotion). La carta di Ottawa (1986) l’ha descritta come «un processo che renda le persone capaci di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla». L’autogestione è il contrario di quella «espropriazione della salute» che il classico saggio di Ivan Illich ― Nemesi medica (1977) ― imputava alla medicina, quando diventa un’impresa totalitaria che pretende di gestire la salute al posto del soggetto. La rivoluzione liberale, introdotta anche nell’ambito della medicina, presuppone la prospettiva dei diritti nelle relazioni che si instaurano nell’ambito della cura.

Dato il perdurare dell’asimmetria nei rapporti di potere, si tende a dare rilievo ai rappresentanti dei pazienti (ad es. gruppi organizzati di pazienti, di ex pazienti o di familiari) o a istituzioni di tutela dei diritti (tribunale dei diritti del malato, comitati consultivi misti ecc.). Iniziative di questo genere hanno contribuito in modo determinante a modificare l’atteggiamento psicologico di sudditanza che i malati in passato tendevano ad assumere, promuovendo un atteggiamento adulto.

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Anche la prospettiva dell'«aziendalizzzazione» ha in sé la potenzialità di modificare socialmente i rapporti tra chi eroga i servizi sanitari e chi li riceve. Nel concetto di «cliente» è implicita la considerazione della soddisfazione di colui che riceve i servizi, nonché il suo coinvolgimento attivo nella valutazione della qualità ― quanto meno della dimensione soggettiva, che può essere percepita dall’utente ― delle prestazioni erogate. La dimensione del mercato applicata alla società è indubbiamente pericolosa, in quanto può stravolgere l'ethos ippocratico nel quale tradizionalmente la medicina si è riconosciuta; tuttavia può anche potenzialmente arricchire lo spessore sociale di chi riceve servizi sanitari, attribuendogli un ruolo critico e di promozione attiva della qualità.

Sul piano clinico ― ovvero nei rapporti che si instaurano tra medici, infermieri e altri professionisti sanitari da una parte, e il paziente e i suoi familiari dall’altra ― l’empowerment diventa effettivo solo attraverso un processo informativo sistematico. Il paziente va informato se ciò che gli viene proposto si inquadra in un progetto di ricerca (il consenso alla sperimentazione è diverso da quello che ha per oggetto un trattamento standard), in un’indagine diagnostica (eventualmente, qual è l’ipotesi che guida la ricerca diagnostica) o in un trattamento terapeutico. L’informazione non è completa se non include anche le alternative, i benefici attesi, gli effetti collaterali, i rischi e le complicazioni dei trattamenti proposti. E naturalmente nell’informazione va incluso, in termini comprensibili al singolo paziente, il grado di evidence del trattamento proposto.

Nel processo dell’informazione acquista oggi un peso nuovo il parere complementare (in inglese: second opinion), inteso come un diritto del paziente ad acquisire informazioni diverse presso altri professionisti. L'empowerment implica anche l’acquisizione delle conoscenze che permettono l’autogestione delle malattie croniche (le patologie dalle quali non si guarisce, qualunque cosa faccia il medico, sono oggi l’80%, rispetto a un 20% per le quali si può sperare la restitutio ad integrum). L’oms ha raggruppato questo tipo di interventi che favoriscono il controllo del paziente sulla propria malattia sotto l’etichetta «educazione terapeutica» 8. Nell’ambito clinico l'empowerment può essere fatto equivalere, in sintesi, a un maggiore «senso di padronanza» della situazione.

Questo modello di buona medicina ha un intreccio vitale con l’EBM. La buona medicina non deve limitarsi a fornire al paziente «le cose giuste» (nell’ipotesi dell’EBM: di provata efficacia), ma deve fornirle «nel modo giusto».

WHOTherapeutic Patient Education, Genève, 1998.

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Ciò implica oggi il rispetto del diritto del paziente a partecipare alle scelte che lo riguardano. La condizione preliminare è che il soggetto che beneficia dei servizi medici sia messo in grado di partecipare, mediante un trasferimento sistematico di informazioni. L’EBM obbliga il sanitario a rispettare il diritto del paziente a conoscere l’efficacia, in termini assoluti e comparativi, delle prestazioni che gli vengono proposte, così da poter decidere su una base di conoscenze affidabili.

È ben vero che lo squilibrio delle conoscenze resterà incolmabile. Ancor più: godendo dell’appoggio autorevole dell'evidence, il sanitario potrà essere indotto a utilizzarlo come strumento di pressione per indurre il paziente ad aderire alla propria proposta. La disponibilità di conoscenze solide non comporta automaticamente che le si usi correttamente. Decidere con il paziente e non sul paziente (anche se «per il suo bene») implica un cambiamento nell’atteggiamento di fondo che non è, di per sé, un portato del movimento dell’EBM. L’orientamento all’empowerment del cittadino nei rapporti di cura è il frutto maturo della «rivoluzione liberale» in medicina; l’incontro con i valori che ispirano l’EBM è auspicabile, ma non è detto che avvenga spontaneamente. Il modello cui tendere potrebbe essere quello proposto da Tony Hope: una «Evidence-based Patient choice» 9. Ma dobbiamo essere chiaramente consapevoli che si tratta di due movimenti che si sono sviluppati in sanità a partire da logiche diverse.

La spinta verso una medicina basata sulle prove di efficacia e quella che nasce dalla richiesta di partecipare alle scelte da parte del cittadino potrebbero dare luogo a scenari di reciproca estraneità: l’EBM potrebbe porsi domande sempre più lontane dagli interessi esistenziali dei pazienti, ovvero dagli ambiti nei quali potrebbero partecipare alle scelte che li riguardano; il movimento che promuove l’autodeterminazione del cittadino potrebbe, a sua volta, prendere la strada della prevaricazione del paziente sul sanitario, attribuendogli la posizione one up che una volta aveva il medico e chiedendo a questi di mettersi in posizione one down, accogliendo tutte le scelte che il paziente fa in posizione di autonomia. Ciò che ci preoccupa non è tanto la perdita di potere dei medici, ma il danno che i cittadini potrebbero procurare a se stessi correndo dietro a terapie svincolate dal controllo del sapere scientifico.

Uno scenario infausto di questo genere può essere evocato con l’aiuto di alcuni versi di T.S. Eliot:

9. T. HopeEvidence-Based Patient Choice, King’s Fund.

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Where is the wisdom we lost in knowledge?

Where is the knowledge we lost in information?

Il poeta presenta la saggezza, la conoscenza e l’informazione come se fossero poste su un piano inclinato, che degrada verso il basso. In inglese si parlerebbe di una slippery slope, ovvero di una china scivolosa. Passando da una all’altra, è come se stessimo perdendo qualcosa, in un processo che tende a un progressivo impoverimento.

Applicando queste categorie alla medicina, in particolare al rapporto tra chi cura e chi è curato, la situazione originaria è rappresentata dalla saggezza: la phrónesis secondo Aristotele, o prudentia per i latini, ovvero la saggezza pratica di chi prende le decisioni in base alla propria arte. È il sapere di cui dà prova il capitano della nave, applicando le regole generali della navigazione alle circostanze concrete in cui si trova a navigare. La conoscenza certa ― epistéme ― è quella che persegue la medicina adottando il metodo scientifico e che ha prodotto, come frutto maturo, l’EBM. L’auspicio è che le conoscenze di maggior rigore scientifico (per Eliot, knowledge) servano a prendere decisioni più sagge, mediante un inserimento esplicito nel processo deliberativo che conduce a decisioni partecipate; ma potrebbe anche avvenire che la conoscenza si renda autonoma rispetto alla sapienza, trovando proprio nella «scientificità» una ragione di totale autoreferenzialità.

Un gradino più in basso si pone la pura informazione. Fosse anche l’informazione corretta finalizzata a dare al paziente quel potere conoscitivo che lo abilita a prendere le decisioni in ambito clinico. La pura informazione da sola non costituisce il beneficio da cui ci aspettiamo una migliore medicina. Le informazioni possono diventare un momento di comunicazione, ma non devono sostituirsi alla comunicazione. Ovvero: un conto è scaricare le informazioni sul paziente, provocandogli più angustie, dilemmi e incertezze; un conto è inserire le informazioni ― evidence based! ― all’interno di un rapporto comunicativo.

La comunicazione comporta l’orientamento al bene del paziente, che è il valore etico centrale della medicina di ieri e di sempre, ma con una struttura di tutela, di accoglienza e di accompagnamento nel processo della cura. Le informazioni di cui è ricca l’EBM ― e che è anche un imperativo sociale disseminare, facendole conoscere sia ai sanitari che ai cittadini ― non ci danno automaticamente una buona medicina. Il criterio decisivo è quello del modo in cui vengono utilizzate: possono favorire l’incontro terapeutico o accentuare piuttosto la reciproca estraneità di sanitari e pazienti. Non possiamo neppure escludere che l’EBM venga messa a servizio della medicina difensiva (inducendo il sanitario a erogare non i servizi che reputa migliori per il bene del malato,

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ma quelli che lo pongono in posizione di sicurezza in caso di contestazioni di malpractice, in quanto validati da linee guida).

Ci si deve anche interrogare sull’impatto che le conoscenze correlate all’EBM hanno sul rapporto fiduciale del paziente verso la medicina in genere e i medici a cui si rivolge in particolare: genera più fiducia la strategia di presentare una posizione unica, suggerendo che questa sia la sola risposta che la medicina offre ai problemi del paziente, o l’informazione circa le divergenze esistenti nel mondo medico? La fiducia va rapportata a tre livelli: i macrosistemi (come il ssn), le istituzioni intermedie (medicina ospedaliera o servizi offerti dalla medicina di base) e le microrelazioni (come quella che si instaura tra il medico e il singolo paziente). A tutti questi livelli l’EBM opera una notevole rimessa in discussione della fiducia e obbliga a ripensare il potere della medicina in termini di empowerment.

Un’evoluzione ulteriore ha compiuto l’etica applicata alla medicina: quella che ci porta a valutare i servizi erogati con le risorse impiegate. In termini molto generali, l’esigenza è quella dell'accountability, ovvero di rendere conto del proprio operato ― comprese le scelte di allocazione delle risorse ― all’organizzazione sociale. In concreto, per i sistemi sanitari a orientamento universalistico, come sono i Servizi sanitari nazionali, si tratta di coprire le esigenze di salute di tutti i cittadini con risorse che sono forzatamente limitate. L’etica dell’organizzazione richiede che «le cose giuste» ― fornite «nel modo giusto» che nasce dall'empowerment del cittadino ― pervengano «a tutti quelli che hanno diritto e bisogno». Il valore guida è quello della giustizia, all’interno dei servizi sanitari a carattere pubblico.

Per quanto riguarda il nostro servizio sanitario, si tratta di contrastare le sperequazioni e le iniquità nella possibilità di accedere ai servizi, che stanno creando un razionamento occulto sotto forma di liste di attesa per prestazioni essenziali. Il pareggio di bilancio ― vincolo esterno alle decisioni di politica sanitaria in epoca di sanità aziendalizzata ― tende a essere inteso come obiettivo. E a essere conseguito mediante tagli nei servizi erogati. Anche in questo scenario l’EBM potrebbe venir utilizzata in modo improprio, per supportare scelte di natura politica. Un sospetto che grava sull'EBM, e che contribuisce a screditarla, è proprio quello che si presti a un uso strumentale da parte di un management sanitario attento più al risparmio che alla qualità.

Certo, l’etica richiede oggi dal sanitario anche un’attenzione all’uso appropriato delle risorse. Il medico non può limitarsi a promuovere una scienza sempre più rigorosa, né a tutelare il maggior beneficio per il singolo paziente: non può ignorare anche i legittimi interessi della comunità. È la conclusione a cui giunge E. Haavi Morreim nell’articolo dell’Encyclopedia of Bioethics (1995) dedicato al conflitto di interessi. Mentre una volta il dovere che nasceva dalla fiducia che il paziente riponeva nel professionista consisteva

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soprattutto nell’astenersi dallo sfruttamento volgare, oggi l’obbligo di porre gli interessi del paziente prima dei propri non può più essere per il professionista un obbligo senza limiti: «Una delle più importanti e difficili sfide della nuova economia che regola la medicina consiste nel considerare non solo ciò che i sanitari sono obbligati a dare ai loro pazienti, ma anche i limiti di questi obblighi» 10. In altre parole, i conflitti di interesse obbligano a riscrivere le regole del gioco tra tutti coloro che sono coinvolti nel sistema di erogazione delle cure: ricercatori, professionisti sanitari, amministratori pubblici, divulgatori scientifici, cittadini. Anche da questo punto di vista l’EBM contribuisce a mettere meglio a fuoco quale significato attribuiamo all’etica quando la invochiamo nell’ambito dell’organizzazione dei servizi sanitari.

10. E.H. MorreimEncyclopedia of Bioetkics, New York, Simon & Schuster Macmillan, 1995.

1 Così anche in Pierluigi Morosini, Franco Perraro, Enciclopedia della gestione di qualità in sanità, Torino, Centro Scientifico Editore, 1999 (Evidence: «Prove e indizi a favore o a sfavore di una particolare ipotesi ― ad esempio sull’efficacia di un trattamento ― in particolare quelle derivabili dalla letteratura scientifica», p. 88).

2 Cfr. Le voci evidence/evidenza in Livio Hofman Cortesi, Bona Schmid, I segreti dell’ingleseBidizionario di falsi sinonimi e vere equivalenze tra italiano e inglese, Firenze, Sansoni, 1988.

3 Luigi Pagliaro et al., L’EBM: amica o nemica dei pazienti?, Janus, n. 3, 2001, pp. 34-42.

4 Cfr. E. Freidson, La dominanza medica, Milano, Franco Angeli, 2002.

5 Viktor von WeizsäckerPathosophie, Göttingen, 1956, p. 207.

6 Pierluigi Morosini, Franco Perraro, op. cit., p. 82.

7 Cfr. P. Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.

8 WHOTherapeutic Patient Education, Genève, 1998.

9 T. HopeEvidence-Based Patient Choice, King’s Fund.

10 E.H. MorreimEncyclopedia of Bioetkics, New York, Simon & Schuster Macmillan, 1995.