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Sandro Spinsanti
UN DIRITTO GENTILE
in Toscana Medica
anno XXXIII, n. 1, gennaio 2015, p. 54
54
C'è fermento in questo periodo tra i componenti del gruppo che si è dato per obiettivo di promuovere "un diritto gentile in medicina". Costituitosi nella primavera del 2012, al gruppo di lavoro aderiscono giuristi, bioeticisti, medici, psicologi, infermieri, sotto la guida di Paolo Zatti, professore emerito dell'Università di Padova. Non si tratta di "anime belle", motivate da intenti idealistici sotto il segno dell'amabilità. Non vogliono edulcorare il diritto; hanno un obiettivo molto concreto: ricollocare il diritto sanitario là dove è di casa, ossia nella relazione terapeutica. Auspicano delle regole che evitino la violenza e rispettino la dignità delle persone, soprattutto nelle decisioni che riguardano la fine della vita. La pluralità delle professioni coinvolte nel progetto ci ricorda che costruire una rete di norme giuridiche corrette in sanità è un compito che non può essere delegato ai soli giuristi: richiede il contributo attivo di tutti i protagonisti della cura.
Ma che cosa è la "gentilezza" con cui vogliono qualificare il diritto? È più facile definirla in negativo: basta aver presente il clima che vigeva in Italia cinque anni fa, nel pieno della polemica intorno ai casi Welby ed Englaro (a rinfrescare la memoria aiuta il film di Marco Bellocchio: Bella addormentata!). La polemica senza esclusione di colpi, la polarizzazione delle posizioni ideologiche, i progetti di legge non ad personam, ma addirittura contra personam... Ebbene, i promotori di un "diritto gentile" si dissociano da quel clima e auspicano normative che, invece di ridurre la complessità a caricatura, ricollochino la questione giuridica nel contesto di un rapporto di cura, che ha dimensioni psicologiche, comunicative e organizzative.
L'euforia che serpeggia nel movimento ha un solido motivo: il 2 ottobre è stata pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato relativa alla legittimità del provvedimento con cui la Regione Lombardia ha respinto la richiesta avanzata da Beppino Englaro, in qualità di tutore della figlia Eluana, in stato di coma vegetativo permanente, nel rispetto della volontà precedentemente da lei espressa; il tutore chiedeva alla Regione di mettere a disposizione una struttura per il distacco del sondino naso-gastrico che la alimentava e nutriva artificialmente. I commenti compiaciuti che circolano in rete tra i componenti del gruppo circa la sentenza riposano sulla sostanziale sovrapponibilità tra le proposte avanzate dagli studiosi e quanto sostenuto dal Consiglio di Stato. Questo, infatti, nel respingere le argomentazioni con cui la Regione Lombardia ha sostenuto il suo rifiuto, riconduce la struttura giuridica sottintesa alle decisioni di fine vita al principio ― fondato costituzionalmente ― del consenso informato. Questo comporta la facoltà di rifiutare la terapia o di interromperla: "Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte la fasi della vita, anche in quella terminale".
A evitare ogni abusiva semplificazione, la sentenza richiama l'alleanza terapeutica, che può legittimamente prevedere una strategia della persuasione, offrendo un supporto di solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e sofferenza. Senza per questo rinnegare il principio dell'autonomia personale, garantito dal diritto vigente nelle relazioni di cura. È questo il principale motivo di esultanza per i promotori del "diritto gentile": la sentenza conferma la loro convinzione che non c'e incertezza del diritto intorno alle questioni di fine vita. Un eventuale intervento legislativo non deve scardinare il diritto vigente, ma solo esplicarlo e rafforzarlo.
Un'ulteriore osservazione: proprio la particolare fisionomia del "diritto gentile" in medicina giustifica la presenza dei medici nel gruppo di ricerca. Distanziandosi da chi immagina disegni legislativi contro i medici, bisogna affermare con forza che in medicina il diritto può essere legittimo solo se prende forma con loro, dando voce alla saggezza che nasce dall'esercizio consapevole della professione. I medici italiani, del resto, hanno saputo dare una felice formulazione, nel codice deontologico del 2006, delle regole che conferiscono "qualità professionale" al loro agire quotidiano: "Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell'autonomia della persona tenendo conto dell'uso appropriato delle risorse" (art. 6). La ricerca dell'equilibrio tra bene del paziente, rispetto dell'autonomia e considerazioni di ordine sociale (il movimento di Slow Medicine parla di medicina sobria-rispettosa-giusta) rende la pratica attuale della medicina un'arte molto più complessa che in passato. È importante sapere che coloro che la esercitano in questo modo non praticano qualcosa di arbitrario, ma hanno il pieno sostegno del diritto che tiene insieme il nostro Paese.