Etico bio-medica

Book Cover: Etico bio-medica
Parte di Bioetica sistematica series:

Sandro Spinsanti

ETICA BIO-MEDICA

Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987

pp. 230

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INTRODUZIONE

QUESTO LIBRO: PERCHÉ E COME

La fine del secolo XX ci sorprende con una richiesta di riflessione etica proveniente proprio da quegli ambienti culturali che sembravano essersi ormai irrimediabilmente sganciati dal riferimento a valori e norme, in nome dell’oggettività e del sapere scientifico. Si sta facendo strada la consapevolezza che l’efficienza tecnica non basta: ci sono questioni di altro ordine, che non possiamo evitare. Ciò è vero soprattutto quando è in gioco la salute, quel coagulo di valori che coinvolgono l’uomo nella sua totalità. Qui il semplice rispetto delle regole di procedimento non basta. Riprendendo un esempio fatto da Kant, si può osservare che le prescrizioni per il medico, che voglia guarire il paziente, e per l’avvelenatore, che intende uccidere un uomo, sono le stesse. Il «saper come fare» (to know how) non risponde alla domanda dell’etica, che ci porta nel «regno dei fini», non dei mezzi: questi possono obbedire alle stesse regole di procedimento, tanto per il terapeuta quanto per l’assassino. Ed è proprio questa suprema questione, eminentemente etica, che sorge in campo bio-medico: l’enorme efficienza raggiunta è impiegata a vantaggio o a danno dell'uomo, per la sua guarigione o per la sua rovina?

Il successo della tecnologia, applicata alla fisica e alla biologia, ha messo in mano all’uomo potenzialità prima impensate: dalla divisione dell’atomo all’intervento sulla struttura genetica della cellula vivente. Si è aperto così un nuovo fronte di domande: antropologiche (quale «progetto uomo» perseguire?), epistemologiche (è valido un sapere circa la natura che non comprende anche quello fornito dalle scienze dell’uomo?), etiche (come trovare un consenso sui valori in una società pluralistica?).

Gli interrogativi antropologici ed etici sono particolarmente acuti nel campo della biologia e della medicina. Il progresso tecnologico ha reso possibili interventi che suscitano perplessità

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e smarrimento. Basti pensare al prolungamento artificiale della vita, alle tecnologie applicate alla riproduzione, alla manipolazione farmacologica del comportamento, all’uso degli individui per la ricerca e la sperimentazione, ai trapianti di organi e al ricorso ad organi artificiali, alle manipolazioni genetiche, alla diagnosi prenatale e agli interventi sulla vita intrauterina. Sempre più esplicita si fa l’esigenza di una riflessione che accompagni le nuove acquisizioni, per non lasciarsi semplicemente aspirare dalla vertigine del possibile. Già prima che questa sviluppasse le potenzialità che conosciamo oggi, le menti più acute avevano visto il verme nascosto nella mela. Oggi non è più possibile chiudere gli occhi di fronte alla possibilità che la tecnologia, sganciata dai limiti che le pongono l’antropologia e l’etica, si risolva in un tradimento dell’uomo.

Si avverte sia un senso del limite, oltre il quale si tradisce l’uomo, sia l’urgenza di fare delle scelte in armonia con la vita umana che auspichiamo.

Il primo compito della riflessione antropologico-etica, nella situazione inedita in cui ci troviamo, è quello della fedeltà: deve stabilire le condizioni alle quali l’uomo resta ancora uomo. Ciò non può avvenire senza un attento ascolto della tradizione sapienziale del passato in tutte le sue articolazioni, tanto religiose che laiche. Rivolta verso il passato, l’etica si presenta col volto della fedeltà; in quanto invece è aperta al futuro, assume l’aspetto della responsabilità. La prima esigenza è ovviamente che, per quanto sta all’uomo, ci sia futuro. Il filosofo Hans Jones ha riformulato l’imperativo kantiano per l’agire morale in questi termini: «Agisci in modo tale che le conseguenze del tuo agire siano conciliabili con la sopravvivenza di una vita veramente umana sulla terra». Oggi siamo in grado di distruggere sia la vita, sia la qualità umana della vita. La richiesta etica si identifica con l’assunzione della propria responsabilità, rinunciando alle deleghe e al ruolo di spettatori marginali del processo storico. Essere soggetto ed essere protagonista nelle scelte sono due esigenze equivalenti.

L’attualità dei problemi bio-etici non è ancora una giustificazione esauriente per chi assume l’iniziativa di scrivere su di essi un libro. La sovrapproduzione di carta stampata dovrebbe costituire uno stimolo per ogni scrittore a domandarsi se l’opera

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a cui si accinge valga le riserve naturali che utilizza e compensi il tempo e le energie che domanda al lettore.

Esistono numerose pubblicazioni specialistiche per chi vuole affrontare l’argomento, compresa una prestigiosa Encyclopedia of Bioethics, in quattro volumi, curata dal «Kennedy Institute for Ethics» della Georgetown University di Washington. Anche in italiano non mancano opere valide a disposizione degli studiosi.

Perché allora questo libro? La sua ambizione è di contribuire a far crescere la consapevolezza dei problemi e a stimolare il gusto per la riflessione etica presso lettori che non avrebbero accesso alle opere specialistiche. Si colloca a un livello intermedio tra gli studi specialistici e la divulgazione di tali problemi fatta dai mass media.

Non per amore di una divulgazione che può facilmente sconfinare in una «volgarizzazione». L’intento è piuttosto quello di fornire quelle conoscenze indispensabili, che permettano agli interessati non solo di farsi vagamente un’idea dei problemi, ma di poter partecipare attivamente alla discussione etica.

Il coinvolgimento nella riflessione è particolarmente urgente per gli operatori sanitari. Tra la competenza scientifico-professionale di un medico o di un infermiere d’oggi e la loro competenza etica, si è scavato un fossato che tende ad allargarsi sempre di più. Non è una buona soluzione quella di dividere i compiti in modo tale che i sanitari siano chiamati esclusivamente a fornire l’opera tecnica, mentre altri (filosofi, moralisti, giuristi) ne elaborerebbero il senso e lo spirito. E corretta solo quella prassi sanitaria che è una prassi riflettuta.

Fa parte integrante della formazione umanistica dei sanitari anche l’acquisizione di una fondamentale competenza etica, in modo che siano in grado di appropriarsi in modo consapevole e meditato del procedimento mediante il quale si giunge a delle decisioni etiche.

Gli interlocutori diretti di questo discorso sono per l’Autore i sanitari che operano nell’Ospedale Fatebenefrateili dell’isola Tiberina, a Roma. Con decisione coraggiosa e innovatrice, l’Ospedale ha deliberato la formazione di un Servizio di Bioetica, nell’ambito del Dipartimento di Scienze Umane. Quest’ultimo è una struttura che coordina le realtà scientifiche e assistenziali che considerano l’uomo malato non solo sotto il profilo

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biologico, ma anche sotto quello psicologico, sociale, etico e spirituale; comprende, oltre al Servizio di Bioetica, anche quelli di psicologia, di assistenza sociale, di assistenza spirituale (servizio pastorale) e l’opera del volontariato. L’azione sanitaria viene cosi ricostruita nella sua integralità, come servizio a tutto l’uomo nella situazione di malattia.

L’etica bio-medica, che stenta ancora in Italia a trovare la sua collocazione all'interno di corsi di laurea in medicina e nelle altre scuole di formazione dei sanitari, all’isola Tiberina si inserisce nel vivo dell’opera sanitaria. È un modello che ci auguriamo possa servire da stimolo per provocare analoghe realizzazioni. Il libro vuol essere uno strumento di lavoro per gli operatori coinvolti in una riflessione critica sulla prassi sanitaria.

I sanitari sono gli interlocutori privilegiati del libro, ma non gli unici. Tutti siamo chiamati a prendere decisioni, talvolta cruciali, relative al nascere e al morire, alle terapie mediche e alla qualità della vita, alla procreazione e alla gestione della propria salute. La spinta culturale contemporanea a «riappropriarsi della salute» comprende anche l’acquisizione delle informazioni e della formazione del giudizio etico, per poter essere protagonisti responsabili dell’avventura della salute.

La finalità del libro ha suggerito il suo taglio. Vuol essere letto, non messo nello scaffale tra i libri da consultare occasionalmente; vuole essere accessibile a tutti, non solo a coloro che abbiano una formazione filosofico-teologica specialistica; vuole stimolare la riflessione e la discussione, non chiudere la ricerca favorendo la ricezione passiva delle norme. L’etica non è un fast food dove si consumano pietanze preconfezionate, sotto quell’urgenza del «mordi e fuggi» che investe tanto le abitudini culinarie quanto quelle culturali; assomiglia piuttosto a una cucina in cui tutti sono sollecitati a mettere le mani in pasta e a confezionare il proprio cibo.

Per coloro ai quali la lettura aumentasse l’appetito, invece di estinguerlo, consigliamo alla fine di ogni capitolo alcune letture di approfondimento, scegliendole esclusivamente tra quelle disponibili in lingua italiana.

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I DOVERI IN CAMPO BIO-MEDICO

1. In nome della professione: la deontologia

La nozione di deontologia

«Deontologia» è un termine altisonante, quasi aulico, il cui significato è colto spesso solo con molta approssimazione. L’etimologia aiuta poco. La parola è costruita sulla radice greca déon, e richiama la necessità, la convenienza. Siccome il sostantivo è accompagnato per lo più dall’aggettivo «professionale», la deontologia evoca la convenienza, o il bisogno, che la professione abbia determinate caratteristiche, che costituiscono lo stile con cui va esercitata. Questa è una prima approssimazione, anche se ancora piuttosto generica, al significato della parola.

Correntemente si parla di deontologia, o «scienza dei doveri», in senso giuridico, come un’articolazione del diritto professionale. In questo senso la deontologia equivale all’insieme codificato degli obblighi che impone ai professionisti l’esercizio della loro professione. Ci si è discostati dal significato che alla parola aveva dato il creatore del termine, il filosofo J. Bentham. Nel 1834 scrisse un trattato: Deontologia o scienza della moralità, per proporre una filosofia morale che prescindesse da ogni appello alla coscienza, al dovere ecc. La morale che suggeriva era la scienza del «conveniente», quello cioè che è appropriato quando ci si decide a seguire la tendenza naturale che ci porta a ricercare il piacere e a fuggire il dolore. «Compito del deontologo ― affermava Bentham ― è quello di insegnare all’uomo come debba dirigere le sue emozioni, in modo che siano subordinate per quanto possibile al proprio benessere».

La deontologia professionale come oggi la concepiamo è completamente diversa da quella progettata da Bentham. Ha conservato

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tuttavia un riferimento di natura utilitaristica: persegue, se non il benessere dell’individuo, almeno il vantaggio della professione nel suo insieme.

Non va confusa con l’etica o morale professionale (sul significato dei due termini «etica» e «morale» torneremo più sotto). La deontologia non è, cioè, un insieme di precetti elaborati per deduzione a partire dai princìpi di un’etica generale o da un determinato sistema morale, ed applicati poi a una professione specifica. Questo approccio ai problemi morali esiste, ed è una guida del comportamento legittima e auspicabile. E chiaro, ad esempio, che a partire dalla morale cristiana si può parlare dei doveri morali che il giornalista o l’imprenditore o il politico incontrano nell’esercizio della loro professione; per non parlare, ovviamente, della morale del medico o dell’infermiere cristiani. Non di questo però si occupa la deontologia. Si tratta piuttosto di un insieme di regole tradizionali che indicano come comportarsi in quanto membri di un corpo sociale determinato; e il senso di tali regole è di provvedere alla «convenienza» o utilità di tale corpo sociale, perché possa meglio conseguire il fine che si propone. Vediamo di portare ricorrendo a un esempio concreto un po’ di chiarezza in questa descrizione piuttosto complicata.

Un comportamento sanitario professionalmente corretto

Il «Comitato Nazionale di Etica per le scienze della vita e della salute», istituito nel 1983 dal presidente della Repubblica francese Mitterrand, è stato sollecitato a dare un suo parere circa una pratica bio-medica che, giunta a conoscenza del pubblico, ha suscitato qualche turbamento, e a proposito della quale i medici stessi sono perplessi. Si tratta del prelievo di tessuti di embrioni o di feti umani morti, a fini terapeutici e di ricerca scientifica. Come deve comportarsi il medico e ricercatore che conosce, da una parte, l’utilità di tali procedure, ma che non ignora dall’altra gli aspetti antropologici ed etici derivanti dalla qualità di persona umana, almeno potenziale, dell’embrione o del feto fin dal suo concepimento? I problemi sorgono ovviamente quando il feto morto che viene utilizzato provenga da un aborto procurato; in caso contrario, ci troviamo di fronte

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alla situazione normalmente ricorrente in medicina di prelievo da un cadavere.

Se la visione etica a cui il medico aderisce, religiosa o laica, lo porta a considerare il feto come persona umana a pieno diritto, avrà delle riserve insuperabili nei confronti di feti che siano frutto di un’interruzione volontaria della gravidanza. In questo caso non potrà che rifiutare la partecipazione, richiamandosi alla propria coscienza.

Il Comitato francese ritiene che, anche quando il medico non rifiuti di intervenire per un motivo di coscienza, debba attenersi a delle condizioni rigorose. L’utilizzazione di tessuti embrionali a scopo terapeutico, ad esempio, deve avere un carattere eccezionale, giustificato dalla rarità delle malattie trattate, e un vantaggio manifesto per colui che ne beneficia; anche la ricerca deve poter essere giustificata da obiettivi importanti che si vogliono ottenere nel progresso dei metodi terapeutici. Queste direttive sono propriamente di natura etica: indicano cioè le condizioni che permettono di considerare l’intervento biomedico come moralmente buono.

Ma il parere del Comitato francese non si ferma qui; alle norme etiche fa seguire delle «direttive deontologiche». Si tratta di indicazioni di comportamento di altra natura rispetto alle considerazioni etiche: il Comitato suggerisce che la decisione e le condizioni dell’interruzione della gravidanza non debbano essere influenzate dall’utilizzazione ulteriore possibile o auspicata dell’embrione o feto; la tecnica di espulsione sia scelta con criteri esclusivamente ostetrici; si garantisca una totale indipendenza tra l’équipe medica che procede all’interruzione volontaria della gravidanza e quella che utilizza gli embrioni per la terapia o ricerca.

Si tratta di clausole apparentemente secondarie e quasi gratuite, che non incidono nella sostanza etica delle procedure in questione. Grazie ad esse, però, possiamo cogliere il senso della deontologia. Questa non si propone di guidare la coscienza degli individui verso il bene morale. Indica piuttosto i comportamenti che è opportuno tenere nell’ambito della professione, o quelli da evitare per impedire che l’immagine sociale della professione stessa venga offuscata. Le regole deontologiche non vengono mutuate da un’etica definita, ma sono elaborate empiricamente per incrementare la dignità della professione. Riflettono lo «spirito» che anima la professione.

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Anche una direttiva come l’indipendenza delle due équipes ha allora una motivazione: vuole tener lontano da queste pratiche il sospetto che la professione medica agisca per scopi utilitaristici, e non per il motivo superiore del bene del paziente.

Quando il sanitario ha deciso quali azioni sono compatibili o incompatibili con i princìpi che segue in coscienza; quando si è posto gli interrogativi etici che stanno a custodia della bontà morale dell’azione, rimangono ancora delle considerazioni di natura deontologica: ciò che è opportuno, in armonia con il senso della professione stessa.

La preoccupazione della deontologia non è, dunque, la qualità morale dell’azione, ma la sua «correttezza», tenendo presente soprattutto il punto di vista del rapporto tra la professione e la società. Lina deontologia esigente è la risposta alle questioni di legittimità che possono essere rivolte ai membri di una professione: «in nome di che cosa fate quel che fate?». È una questione fondante, che viene logicamente prima di qualsiasi legalità e che permane anche dopo che la professione è stata regolamentata nella società.

La deontologia: sì, ma non solo!

La «correttezza», il «senso d’onore» professionale...: sono sufficienti queste indicazioni generiche per delimitare il campo della deontologia? No: la deontologia non ama procedere per concetti astratti. Essa tende a concretizzarsi, ha di mira le situazioni specifiche che si presentano al professionista nella pratica quotidiana. Le prescrizioni deontologiche dànno imperativamente (il professionista «deve», «non deve», «è obbligato»: sono i termini con cui si esprime la deontologia) soluzioni pratiche e precise. Il linguaggio del «dovere» non tragga in inganno: è uguale a quello dell’etica, ma non è un’autorità morale che prescrive i comportamenti. Le norme deontologiche sono stabilite dai professionisti stessi, dopo opportuna riflessione sulla pratica quotidiana, sulla base di ciò che favorisce la professione e ciò che la danneggia.

L’esposizione sistematica delle norme alle quali si deve ispirare il comportamento è fornita dai codici deontologici. La professione medica è stata la prima a sentire la necessità di un tale

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codice, e a dotarsene. Il più antico risale alla metà del secolo scorso, ad opera dei medici americani. Aveva già la struttura che, con poche varianti, ritroviamo in tutti gli altri codici: doveri dei medici verso i loro pazienti e obblighi dei pazienti verso i loro medici; doveri dei medici verso gli altri e verso la professione; doveri della professione verso il pubblico e del pubblico verso la professione. Il codice italiano, approvato nella sua ultima stesura dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici nel 1978, suddivide i doveri del medico in: doveri generali (che prevedono l’indipendenza e la dignità della professione, l’obbligo del segreto, la prescrizione di trattamenti terapeutici, l’aggiornamento professionale); rapporti con il paziente (libera scelta del medico, consenso del paziente, sperimentazione clinica, interruzione della gravidanza, onorari); rapporti con i colleghi (solidarietà tra medici, consulenza, funzioni medico-legali); rapporti con i terzi e con enti pubblici e privati.

Anche altre professioni sanitarie hanno provveduto in alcuni Paesi a redigere un proprio codice deontologico. Ne conosciamo delle infermiere, dei dentisti, dei farmacisti, degli psicologi.

L’Associazione Medica Mondiale ha dato un forte impulso all’elaborazione di norme deontologiche, per uniformare i comportamenti medici di fronte ai problemi provocati dai progressi più recenti in campo bio-medico e ad altre situazioni in cui può venire compromessa la professionalità del medico.

Documenti ufficiali, emanati per lo più in occasione delle periodiche assemblee mondiali, hanno stabilito le linee di condotta da tenere nei confronti dei trapianti di organi, della rianimazione e del trattamento delle malattie terminali, della sperimentazione con soggetti umani, dell’aborto terapeutico, della tortura e altre pene e trattamenti crudeli, della boxe. Faremo occasionalmente riferimento a tali prese di posizione nella trattazione dei singoli problemi.

La deontologia professionale costituisce per i medici un motivo di fierezza. Amano vedervi una specie di blasone nobiliare, una garanzia dell’impegno etico che contraddistingue la loro professione. Non tutti, però, condividono tale entusiasmo; o, quanto meno, pur apprezzandone la funzione, non rinunciano a considerare criticamente i limiti e le possibili distorsioni della deontologia medica. Essa si presenta come l’espressione

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della benevola dedizione del medico al bene del suo paziente e dell’umanità; ma può essere assunta a servizio di cause meno nobili.

Le norme deontologiche, da mezzo per ordinare la condotta dei medici, possono facilmente diventare un mezzo per legittimare privilegi monopolistici della professione nei confronti dello Stato e del pubblico. Tutte le misure volte a indurre nel pubblico la fiducia verso la professione possono rinforzare il rapporto paternalistico col paziente, ostacolando la crescita di questi a soggetto, utente critico e responsabile dei servizi sanitari.

Le formulazioni dei doveri dei medici fatte dai medici stessi, anche le più recenti, inclinano verso il paternalismo: è il medico che determina quale azione sia più conforme agli interessi sia del medico che del paziente. Sorgono, allora, per reazione, le «carte dei diritti del malato», su base rivendicativa: si infrange la fiducia che tutto quello che il medico fa sia sempre a vantaggio del paziente.

La prospettiva dei doveri deontologici, anche se valida, è limitata. È una griglia troppo riduttiva per accogliere le trasformazioni più profonde che stanno avvenendo nell’ambito della sanità. Come situazione tipica, pensiamo a ciò che si verifica nel segmento terminale della vita umana. Le pratiche di rianimazione artificiale e di prolungamento della vita hanno modificato il rapporto tra il medico e il paziente. Per poter morire, questi viene praticamente a dipendere dal medico e dal suo maggior o minore impegno nel ricorrere all’arsenale terapeutico.

Non è sempre ovvio che il prolungamento della vita sia il migliore interesse del paziente. Lo scollamento tra l’orientamento dell’opera medica e l’interesse superiore della persona malata può giungere fino alla rivendicazione, da parte di quest’ultima, di un «diritto a una morte degna». In questa situazione, se il medico si limita a richiamarsi al dovere deontologico di prolungare la vita del paziente e di non agire mai per l’abbreviamento della stessa, adotta un atteggiamento puramente difensivo, e rischia di passare accanto al nocciolo duro dei veri problemi etici, i quali obbligano a rivedere il rapporto tradizionale tra medico e paziente nella mutata situazione culturale del morire.

La prospettiva dei doveri deontologici è valida, ma va integrata con quella etica e con l’ordine dei doveri che derivano dalla

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dimensione religiosa. Il gioco dell’interazione dei diversi piani può avere esiti positivi, ed è assolutamente auspicabile. Molti problemi concreti ci daranno l’opportunità di verificarlo. Per vedersi riconosciuta la sua utilità, la deontologia non ha bisogno di avanzare pretese monopolistiche in tutto l’ambito della normatività che regola il comportamento nelle professioni sanitarie.

2. In nome dell’uomo: l’etica

Una nuova disciplina: la «bio-etica»

Nasce un bambino con un deficit genetico e un ritardo mentale gravissimo. E affetto anche da una malformazione intestinale, che può, però, essere rimossa mediante una semplice operazione chirurgica. È un dovere morale operarlo? Oppure è meglio lasciarlo al suo destino, permettendo alla «natura» di fare il suo corso e di attuare la «selezione naturale»?

Una persona affetta da cancro all’ultimo stadio passa da una crisi all’altra; ogni volta la rianimazione intensiva lo riporta in vita, ma è come se scendesse un girone infernale più in basso: la prospettiva che lo attende è di andare incontro a sempre maggiori dolori e di subire trattamenti medici sempre più devastanti, con la perdita progressiva della coscienza e della capacità di decidere. Può disporre, rivendicando un «diritto a morire con dignità», che, in occasione della prossima crisi, i medici rinuncino a rianimarlo?

Si sta sperimentando un nuovo farmaco. Per una conoscenza scientificamente sicura del suo effetto, è necessario che sia somministrato a un campione di pazienti, e che i risultati siano paragonati a quelli ottenuti con altri trattamenti terapeutici. È un diritto del paziente essere informato che si sta facendo un esperimento su di lui? Per evitare l’interferenza di elementi soggettivi («effetto placebo»), si può sottrarre l’informazione al paziente sulla natura del medicamento che gli viene somministrato? Quanto rischio si può far correre al paziente di fornirgli una cura meno efficace di un’altra, in considerazione del fatto che

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le conoscenze scientifiche acquisite da un esperimento andranno a vantaggio di altri pazienti in futuro?

Perplessità, dilemmi. La medicina moderna è anche questo. Problemi che nascono dal suo straordinario sviluppo, dalle possibilità nuove che si sono aperte da quando l’arte medica del guarire ha preso al suo servizio la tecnologia. Problemi di ordine morale: rispetto a molte pratiche diventate correnti in medicina, ci si interroga se sono buone o cattive, se vanno cioè a vantaggio dell’uomo o lo danneggiano. Solo in pochi casi il dibattito si apre al grande pubblico. Ciò è successo ovviamente a proposito del problema morale dell’interruzione volontaria della gravidanza, e sta avvenendo attualmente intorno all’eutanasia e alla riproduzione col ricorso alla tecnologia (bambini in provetta, locazione dell’utero...). Questi grossi problemi rischiano però di monopolizzare tutto il dibattito, nascondendo la selva di interrogativi e dilemmi etici che attraversano tutto il mondo della sanità, anche in situazioni meno estreme di quelle menzionate.

Per far fronte alla nuova situazione è nato un movimento che cerca di conciliare la medicina con gli interessi etici e umanistici. Qualcuno afferma che quella che si è messa in moto è una rivoluzione nel modo di concepire la medicina: una rivoluzione che, come le rivoluzioni più riuscite, non è solo innovazione, ma anche recupero di valori del passato che erano stati trascurati.

Il momento di maggiore emergenza del movimento è la creazione di una nuova disciplina: la «bio-etica». Luogo di origine della tendenza e della disciplina: gli Stati Uniti. Tempo: non più di vent’anni fa, con una tendenza evidente ad acquistare sempre maggiore spazio e prestigio negli ultimi anni. La bioetica ha ormai i suoi santuari riconosciuti (il Center for Bioethics della Georgetown University di Washington e l’Institute for Society, Ethics, and the Life Sciences a Hastings-on Hudson, New York; in Europa emerge il Centre d’études bioéthiques dell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio); le sue pubblicazioni specialistiche e le sue riviste; una vasta enciclopedia in quattro volumi, l'Encyclopedia of Bioethics, progettata e coordinata da Warren Reich, con contributi di 280 autori e il lavoro di più di 500 persone come consulenti e revisori di ogni parte del mondo. Nella storia della cultura accademica è la prima volta che un’enciclopedia

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appare prima che il campo di conoscenza di cui tratta sia ben definito e ampiamente riconosciuto. L’enciclopedia stessa ha contribuito, con la sua autorevolezza, a modellare l’intero settore fin dal suo sorgere, a cominciare dal nome stesso della disciplina.

Sul nome sono sorte non poche perplessità. È stato coniato nel 1971 dal biologo americano van Rensselaer Potter, per indicare lo studio della moralità dei comportamenti umani nel campo delle scienze della vita. Il neologismo, ottenuto accostando etica a bios, la vita, ad alcuni sembra brutto. È superfluo: non esiste già l’«etica medica», che si occupa degli interrogativi morali che sorgono dalla pratica della medicina? I paladini della bioetica rispondono che l’innovazione terminologica è precisamente rivolta a sottolineare che la riflessione etica non può oggi limitarsi all’ambito delle relazioni interpersonali che costituiscono il rapporto terapeutico. L’azione dell’uomo si estende al biologico in tutta la sua ampiezza. La natura vivente non è solo oggetto di studio, ma anche di intervento: siamo in grado di metterci le mani, con effetti spettacolari, ma anche gravidi di conseguenze per il futuro dell’umanità. Le nostre capacità di manipolazione si estendono fino ai primi mattoni infinitesimali della materia vivente («ingegneria genetica»): le implicazioni etiche di questo potere sono rimaste finora impensate, perché impensabili. La stessa osservazione vale per le capacità di intervento sulla generazione, con procedure che si discostano vistosamente da quelle «naturali» (fecondazione in vitro, gestazione extracorporea, clonazione).

Un altro fatto nuovo è la cresciuta consapevolezza dell’unità della vita sul pianeta, e quindi dell’interdipendenza di tutte le sue forme: umane, animali e vegetali. La mentalità ecologica ci apre a una concezione dell’etica come responsabilità verso l’ambiente e verso le generazioni future: dipende da noi lasciare loro una terra ancora vivibile, oppure degradata e depauperata delle sue risorse.

La bioetica non svaluta i problemi etici delle professioni sanitarie, ma li inserisce in un contesto più ampio. Sul termine stesso si può continuare ad avere delle riserve. Personalmente abbiamo optato per la dizione «etica bio-medica» perché esplicita meglio l’ampiezza del campo di interesse: dalle tradizionali questioni di etica medica a quelle recentissime, emerse dallo sviluppo

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delle scienze biologiche e delle tecnologie bio-mediche. Costituendosi come disciplina, la bioetica ci ha costretto a ripensare l’insieme dei rapporti dell’uomo con la vita da una nuova angolatura: quella della responsabilità per le scelte buone o cattive. L’angolatura dell’etica, appunto.

La medicina rincontra la filosofia

Parlare di etica bio-medica vuole dire accettare che nel campo delle scienze biologiche e della pratica sanitaria entri il discorso filosofico che riflette sul comportamento umano dal punto di vista dei valori. Lo scienziato, il medico come filosofo: è una prospettiva realistica o solo la nostalgica rievocazione di una figura del passato? Vista la distanza cronologica, dovremmo coniugare al «trapassato remoto»... Il medico come philósophos, amico della saggezza, è un modello del mondo greco. Il medico ippocratico è tipicamente filosofo, occupato non solo con questioni di patologia e di terapia, ma anche con interrogativi che riguardano l’uomo e la sua natura. Da tempo il medico-scienziato si è sostituito al filosofo, e anche al filantropo.

La congiuntura favorevole a riaprire gli antichi discorsi filosofici è costituita dalla crisi della fiducia cieca nella scienza, come se tutto quello che viene fatto in suo nome fosse automaticamente un bene e si risolvesse a vantaggio dell’uomo. È giunto il momento del discernimento. Dobbiamo domandarci quale tipo di vita vogliamo; dobbiamo interrogarci anche se tutti i poteri disponibili devono essere messi in opera. Rispuntano così le parole essenziali su cui si è esercitata la riflessione etica dell’umanità: «bene», «male», «giusto», «ingiusto»... Forse anche su questo campo, come su quelli limitrofi del vero-falso, bello-brutto, il pensiero filosofico conta più sconfitte che successi. Non per questo, però, abbiamo cessato di applicare la forza disarmata del pensiero alle questioni fondamentali.

La ricerca di ciò che è secondo l’uomo (antropologia) e dei valori da realizzare (etica), condotta in termini razionali, costituisce una seconda fonte di doveri, accanto a quelli che derivano dalla professionalità. A differenza dei primi, questi non procedono da una decisione assunta autonomamente dai professionisti stessi, ma si impongono in forza della natura umana. O

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almeno così, per principio, dovrebbe essere. Ma dove trovare il consenso in una cultura pluralista, fondata su antropologie e sistemi di valori diversi? Le divergenze si presentano come praticamente insormontabili. Pensiamo, per esempio, al consenso sull'inizio e la fine della vita umana, con le precise ripercussioni concrete sulla pratica dell’aborto e dell’eutanasia; oppure alle procedure per ottenere un figlio con l’ausilio delle tecnologie bio-mediche: come stabilire unanimemente il confine tra il lecito e l’illecito, in base a una concezione di natura umana da tutti condivisa?

Ci sono società meglio equipaggiate per vivere nel pluralismo ideologico ed etico; altre meno. Senza autolesionismo, possiamo affermare che il nostro mondo latino appartiene piuttosto a queste ultime. Siamo eredi delle crociate e delle guerre di religione, di reazioni laiciste a tenaci concezioni teocratiche; ci è più familiare la prevaricazione nei confronti di chi dissente che il rispetto e il dialogo. Due atteggiamenti, in particolare, sono inconciliabili con la ricerca etica: lo scetticismo e il dogmatismo. Quest’ultimo impone la propria verità come unità di misura, il primo rinuncia pregiudizialmente a qualsiasi ricerca.

Un sottile scetticismo si cela spesso dietro i richiami alla coscienza. Con una formula spesso ripetuta in ambiente medico, si dice che il medico deve prendere le decisioni «in scienza e coscienza». La coscienza a cui si fa appello non deve essere però un’istanza evanescente e arbitraria, una linea d’ombra dove i confini del bene e del male si confondono in un grigio uniforme. È vero che la coscienza individuale è insondabile, ma tra un essere umano e l’altro c’è il ponte costituito dalla ragione.

La coscienza, inoltre, va formata. In passato il medico acquisiva, parallelamente alla formazione professionale, la capacità di prendere consapevolmente le decisioni nei conflitti etici emergenti nella pratica sanitaria. Secondo la formula classica, il medico veniva considerato un vir bonus sanandi peritus. La «bontà» di cui è questione non consisteva solo nelle virtù personali, ma ancor più nella capacità di un discernimento morale. Attualmente, tutto il peso della formazione si è spostato sul versante scientifico. La competenza terapeutica e quella etica si sono divaricate: ingigantita la prima, atrofizzata la seconda. Con la conseguenza che il medico tace, smarrito, di fronte ai problemi morali che incontra, esasperati per di più dal progresso della medicina.

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Restituire spazio all’etica non è un’operazione culturale rivolta contro l’operatore sanitario. La prospettiva non è quella di una medicina colonizzata dalla filosofia, in cui magari i filosofi svolgano una riflessione etica a vantaggio e per conto dei medici. Sono piuttosto coloro che operano nella sanità e nel più ampio ambito delle scienze della vita che si riappropriano della capacità di pensare la propria azione anche nell’orizzonte dell’etica. Questa non è un pregiudizio ridicolo, di cui l’uomo di scienza deve sbarazzarsi, ma una tutela dell’umano.

Il pluralismo sarà d’obbligo in una riflessione etica di questo genere: non possiamo illuderci di giungere a conclusioni da tutti unanimemente considerate valide e obbliganti. Non potremo perciò produrre regole che valgano per tutti. Ma sarà già un risultato considerevole sviluppare, tutti insieme, una sensibilità che ci permetta di riconoscere i problemi etici nell’ambito della salute e delle scienze della vita, di risolvere quelli che è possibile risolvere, e di imparare a vivere con quelli che non ammettono soluzioni.

3. In nome di Dio: la morale religiosa

Morale ed etica: la stessa cosa?

Molto prima che l’etica dedicasse la sua attenzione ai problemi della biologia e della medicina, la teologia morale si era seriamente occupata degli aspetti medico-sanitari della vita, costituendo un insegnamento specifico nell’ambito delle istituzioni accademiche e della formazione dei pastori d’anime: la «morale medica».

«Etica»... «morale»: i due termini designano lo stesso tipo di sapere? Conviene procedere subito a una chiarificazione semantica. La storia culturale dei due termini è piuttosto travagliata. Nel corso dell’evoluzione del pensiero filosofico, sono stati usati con significati diversi; ora come sinonimi (l’etimologia nelle due lingue rispettive è identica: «etica» in greco e «morale» in latino fanno riferimento ai costumi; molti studiosi anche oggi parlano di etica e di morale attribuendo alle parole lo

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stesso significato, e utilizzando quindi i due termini in modo intercambiabile), ora invece per differenziare due diversi modi di affrontare la questione del bene e del male nel comportamento umano. Nel pensiero idealistico il termine «morale» è stato usato prevalentemente in riferimento alla problematica dei valori così come è vissuta nell’ambito individuale; l'«etica», invece, serviva a designare la stessa problematica in rapporto all’uomo inteso come società, come Stato.

Una differenziazione più ricorrente nell’uso linguistico quotidiano contrappone l’etica alla morale, riferendo l’una all’approccio razionale, l’altra a quello fideistico del problema del bene e del male: la prima procederebbe unicamente alla luce della ragione, mentre la seconda si farebbe guidare dalla rivelazione divina. Così si usano per lo più i due termini nei Paesi latini, nei quali è anche frequente che la morale venga ulteriormente qualificata come «religiosa».

La connotazione del termine «morale» è in genere piuttosto svalutante e tende a confondersi con il moralismo, vale a dire con l’atteggiamento di chi fa cadere giudizi morali su ogni cosa, senza comprendere le situazioni a cui il giudizio morale va riferito. «Fare la morale» equivale, sempre nel linguaggio corrente, a un comportamento predicatorio, che vuol imporre i propri criteri di bene e di male attraverso la colpevolizzazione dell’altro. È impresa ardua riscattare il termine «morale» dai significati negativi che gravano su di esso; molti, perciò, anche facendo una riflessione di natura teologica, preferiscono parlare di «etica». Questo uso intercambiabile dei termini rischia di confondere il comune lettore.

L’approccio teologico del problema del bene morale ha in comune con quello filosofico il fatto di procedere mediante giudizi di obbligo e di valore. L’azione considerata moralmente ― o eticamente ― buona è quella sulla quale cade un giudizio d’obbligo (o di permesso). Ci si può domandare, in tal senso, se il medico può mentire o deve dire la verità a un morente. Il giudizio di valore riguarda ciò che è buono o cattivo in sé: così, la salute può essere ritenuta un bene, e un procedimento medico per abbreviare la vita un male. Ciò che distingue il giudizio morale religioso è l’orientamento a cercare il criterio di giudizio circa l’obbligo e il valore nella volontà o nell’attività di Dio. Semplificando molto, possiamo dire che, alla domanda che cosa

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sia bene o male, il credente risponde rinviando a Dio: è bene ciò che è conforme alla sua volontà e alla natura della realtà come lui l’ha creata.

Un orientamento teistico molto diffuso è quello che ritiene che Dio abbia stabilito un ordine normativo nel mondo; la risposta umana consiste allora nel percepire tale ordine ― a cui si può accedere o con la semplice attività della ragione, o aprendosi alla rivelazione ― e nel conformarvisi. L’orientamento delle religioni rivelate parte invece dal presupposto che Dio sia intervenuto nella storia per creare una nuova relazione con l’umanità; questa rivelazione diventa per il credente l’evento centrale per interpretare la propria esistenza e per assumere gli impegni corrispondenti. Per il cristiano l’evento storico rivelato è la storia della salvezza che comincia con la vocazione di Abramo e termina con la morte-risurrezione di Gesù. A questa storia il credente si rivolge per conoscere i valori e gli obblighi che ne derivano.

La morale medica cattolica

Già negli anni ’50 la morale medica è stata riconosciuta come una disciplina nell’ambito della teologia; in alcune facoltà teologiche le è stato riservato un insegnamento accademico e ad essa sono stati dedicati libri e riviste specializzate. Il principale fattore dello sviluppo di questa disciplina è stata la preoccupazione pastorale, vale a dire la guida delle coscienze. Il magistero ecclesiastico ha impartito direttive religiose e morali dettagliate ai fedeli, perché avvertissero i nuovi problemi che nascevano dalla pratica della medicina e li risolvessero alla luce della Parola di Dio e in conformità con l’insegnamento morale tradizionale.

Il contesto generale nel quale si è formata la dottrina morale cristiana circa la cura della vita fisica è a priori favorevole alla medicina. Il cristianesimo, pur proponendo una precisa dottrina del soprannaturale, è contrario al soprannaturalismo e al miracolismo. Teologicamente questa tendenza si è espressa mediante la dottrina dell’azione di Dio tramite le «cause seconde». L’azione terapeutica dell’uomo è la causa seconda attraverso cui Dio opera la guarigione. L’azione diretta di Dio tramite

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il miracolo, saltando cioè la catena delle «cause seconde», è stata sempre difesa come possibile e reale, senza però che ciò comportasse la minima svalutazione per l’azione del medico.

Fortemente ancorato sul piano della natura e della razionalità, il cristianesimo ha lottato contro la magìa e la superstizione e ha intrapreso sempre nuovi tentativi di comporre armonicamente fede e scienza (le tensioni sporadiche ― per esempio circa l’uso dei cadaveri per gli studi anatomici ― non hanno mai turbato a lungo il rapporto, sostanzialmente felice, tra la Chiesa e la medicina).

Il rapido sviluppo della morale medica come disciplina teologica è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Un impulso decisivo le hanno dato i discorsi e le allocuzioni di Pio XII a medici e scienziati, con i quali il pontefice ha puntualmente affrontato i nuovi problemi etici che sorgevano dalla pratica della medicina. Praticamente tutti i punti nevralgici della morale medica sono stati toccati da Pio XII: il valore e l’inviolabilità della vita umana con riferimento all’aborto, alla contraccezione e alla sessualità coniugale; l’inseminazione artificiale; la sterilizzazione; i limiti della ricerca e della sperimentazione sull’uomo; la chirurgia in rapporto alle mutilazioni anatomiche e funzionali; la rianimazione e i problemi dell’analgesia; il parto indolore; i problemi etici della neuropsicofarmacologia; i princìpi di morale applicati alla psicoterapia. Le soluzioni morali proposte dal pontefice, benché rivolte di per sé solamente ai fedeli della Chiesa cattolica, hanno spesso trovato accoglienza anche al di là dei confini ecclesiali. Il dialogo con l’etica laica era favorito dal fatto che la sapienza cristiana relativa agli obblighi circa la vita veniva fondata razionalmente sulla «legge naturale», oltre che sulle Sacre Scritture.

È stata una preoccupazione costante della teologia preconciliare quella di armonizzare fede e ragione, Sacra Scrittura e legge naturale. Il riferimento a quest’ultima costituisce un tratto caratteristico della morale medica di quel periodo. Per «legge naturale» si intende la partecipazione della creatura razionale alla legge eterna, vale a dire al piano della sapienza divina che dirige ogni azione verso la meta finale, secondo la natura propria di ogni creatura. Alla ragione viene attribuita la capacità di giungere a formulare i princìpi e le prescrizioni universalmente validi della legge naturale. Per questo i princìpi e le loro

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applicazioni hanno un prevalente carattere statico e astorico. Dal momento che la qualità etica di azioni che attentano alla vita e all’integrità dell’uomo ― quali l’aborto, la contraccezione, la sterilizzazione, l’eutanasia ecc. ― discende, per una deduzione logica, dai princìpi generali, le valutazioni morali rimangono costanti nel tempo, malgrado le trasposizioni culturali e antropologiche che avvengono nella storia. Condanne e prese di posizione su nuovi problemi in questo modello di teologia morale si riducono, per lo più, alla riproposizione dei princìpi generali; il discorso morale equivale praticamente a un’applicazione di questi ultimi ai casi particolari.

Per passare dall’universale alle situazioni singolari e concrete, la morale medica dei manuali ha elaborato una serie di procedimenti mentali. Questi si presentano come dei princìpi, che guidano a individuare quelle azioni in campo sanitario cui appartiene la qualità della bontà morale. A titolo esemplificativo, elenchiamo i princìpi più importanti a cui si ispira la morale medica cattolica: il diritto alla vita, come diritto naturale e inalienabile (di conseguenza, l’uccisione diretta di un innocente, di propria autorità, è sempre male); il principio di totalità (il bene del tutto è il fattore determinante nei confronti delle parti, per cui si può disporre delle parti a vantaggio del tutto; nell’antropologia cristiana bisogna inoltre tener presente la finalità spirituale della persona, per cui il singolo organo è subordinato non solo al bene del corpo, ma al bene della persona); il principio del duplice effetto, nelle azioni che hanno due o più effetti, compreso uno cattivo o indesiderabile (è il principio chiamato in causa per giustificare la possibilità dell’uccisione indiretta, dell’aborto indiretto, o della cooperazione materiale indiretta. Le condizioni requisite sono: che l’atto sia in sé buono o moralmente indifferente; l’intenzione dell’individuo deve essere retta; deve esistere un motivo proporzionalmente grave per porre l’azione). Per quanto riguarda la sessualità e la procreazione, le facoltà sessuali devono essere usate secondo la finalità intesa da Dio creatore e rispecchiate dalla natura. Il fine degli organi e delle funzioni sessuali è duplice: la procreazione e l’unione nell’amore. Ogni loro uso, in cui positivamente i coniugi interferiscono per impedire o frustrare la finalità intrinseca nell’atto, è immorale. Di qui la condanna della contraccezione e della sterilizzazione contraccettiva, come vedremo più dettagliatamente

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nel capitolo apposito. Qui ci limitiamo a mettere in luce la struttura concettuale della morale medica cattolica, così come è stata elaborata dal pensiero teologico tradizionale.

Gli orientamenti postconciliari

Il significato del Concilio Vaticano II nella vita della Chiesa cattolica da qualcuno è minimizzato, da altri troppo enfatizzato. Lo si può vedere solo come un restauro della facciata (abbandono del latino, maggiore partecipazione della base...), oppure come uno sconvolgimento totale di una struttura dottrinale e istituzionale di impianto secolare. La verità sta probabilmente nel mezzo, con la facoltà, lasciata a ognuno, di privilegiare le innovazioni o la continuità. L’osservazione è valida, in particolare, per quanto riguarda la morale medica.

Sui punti fondamentali la morale cattolica della vita fisica non ha subito brusche virate o discontinuità. Basti pensare alla ripetuta condanna dell’aborto, dell’eutanasia e dei comportamenti sessuali contraccettivi, sancita reiteratamente con documenti ufficiali del magistero ecclesiastico anche negli anni seguenti al Concilio. I cambiamenti sono di un ordine più fondamentale, e per questo più difficili da cogliere. Riguardano in primo luogo l’aspetto puramente normativo della morale, che la fa concepire come un insieme di regole calate dall’alto, alle quali l’individuo deve semplicemente adattare il proprio comportamento.

Possiamo applicare alla morale, senza fare un’estensione arbitraria, un’osservazione che il documento conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo fa a proposito dell’ateismo. I credenti sono invitati dal Concilio a fare un’autocritica e a verificare se non abbiano contribuito alla diffusione dell’ateismo, proponendo un’immagine fallace di Dio (cfr. Gaudium et spes, 19). Analogamente, si potrebbe dire, i cristiani devono interrogarsi se non sono in parte responsabili della disaffezione ed ostilità nei confronti della morale, avendo dato di questa una visione distorta. Ciò è avvenuto soprattutto quando le norme sono state poste al di sopra dell’uomo e della coscienza, dimenticando il fondamentale insegnamento evangelico secondo cui «il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (cfr. Mc 2,27).

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A questa luce bisognerebbe rivedere, per esempio, la dottrina così intransigente sull’illiceità dell’interruzione della gravidanza per motivi terapeutici: meglio la morte sia della madre che del bambino ― diceva con fierezza la morale dei manuali ― che la violazione della legge morale che vieta di uccidere... Forse nessun punto della dottrina cattolica ha come questo fatto odiare onestamente la morale, presentandola come una pietra non digeribile dalle viscere dell’uomo.

Da una prospettiva più formale, le innovazioni più rilevanti che si possono notare nella morale medica post-conciliare riguardano il superamento del concetto teorico di «legge naturale» e la disamina critica dell’insegnamento autoritativo del magistero. Sempre meno frequentemente i teologi moralisti cercano di fondare le norme nella legge naturale. Ne beneficia la dottrina morale stessa, che sfugge così al pericolo di confondere l’aspetto morale dell’atto umano con l’aspetto fisico di esso: quasi che la «natura», con le sue leggi, fosse una sorgente autonoma di moralità. E non ne scapita il dialogo con l’etica filosofica. Anzi, la motivazione tipica del linguaggio della fede, che cerca di fondare la moralità nell’azione salvifica di Dio con l’uomo, obbliga a un discorso antropologico allargato, sul quale è possibile trovare una più solida base di consenso. Di conseguenza, il riferimento al soggetto e alla persona umana tende a sostituire il costante richiamo alla natura.

Un altro tratto caratteristico della morale cattolica del nostro tempo è la perdita di quell’aspetto monolitico e indifferenziato, che era garantito dal costante richiamo all’insegnamento autoritativo del magistero ecclesiastico. L’unanimità si è infranta clamorosamente alla fine degli anni ’60, con le reazioni discordi all’enciclica Humanae vitae sulla regolazione delle nascite: ci sono stati teologi che hanno rivendicato il diritto al dissenso rispetto a insegnamenti morali specifici, non garantiti dall’infallibilità magisteriale. Su questioni particolari ― la contraccezione, la sterilizzazione, la masturbazione per analisi seminali, l’inseminazione artificiale ― emerge un pluralismo impensabile per la manualistica preconciliare. Soprattutto si fa strada la consapevolezza che sulle questioni morali la Chiesa non ha un grado di certezza che esclude la possibilità di errore.

Ciò comporta forse per la morale cattolica la perdita dell’identità e l’arenamento nelle secche del relativismo? Tutt’altro!

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Scattante e pugnace, senza complessi di inferiorità, ma anche senza dogmatismi inopportuni, la morale medica cattolica si è trovata in questi ultimi anni in prima linea nelle battaglie per una scienza non dimentica della saggezza e per una medicina umana. La consapevolezza di non avere «la» risposta ai nuovi problemi non ha incrinato la fierezza di una fede che trova nella sequela di Cristo uno stimolo creativo per cercare, insieme agli altri uomini, credenti e no, regole per una condotta fedele all’uomo e responsabile. Ma, proprio per la trascendenza della fede, i credenti possono trovarsi divisi circa i modelli etici concreti da proporre.

Il servizio di guida del Magistero non è meno vigile che in passato. Inclina, però, meno all'«interventismo» (si pensi al silenzio, relativamente lungo, del magistero pontificio circa i problemi etici delle pratiche di riproduzione artificiale) e lascia ampio spazio alla voce delle comunità locali. È notevole, infatti, la qualità di riflessioni etiche dovute a conferenze episcopali nazionali, spesso precedute da un ampio dibattito tra i fedeli. Ritroveremo alcuni di questi documenti nel corso dell’esposizione.

PER APPROFONDIRE

S. Spinsanti (a cura di), Documenti di deontologia e etica medica, Edizioni Paoline 1985.

Il volume raccoglie i più importanti documenti che, dal giuramento di Ippocrate in poi, scandiscono la riflessione etica in medicina. Contiene anche i codici deontologici delle principali professioni sanitarie (medici, infermieri, dentisti, psicologi). I documenti citati nel testo sono per lo più reperibili integralmente nella raccolta. È uno strumento di lavoro per chi desidera un’informazione più completa e l’approfondimento personale dei problemi.

B. HäringEtica medica, Edizioni Paoline 19793.

Uno dei primi volumi in Italia a trattare in modo sistematico, dal punto di vista dell’antropologia e della morale cattolica, i nuovi problemi derivanti dalla pratica bio-medica. Lo stesso P. Häring ha ripreso la materia nella terza parte del manuale, Liberi e fedeli in Cristo, vol. III, Edizioni Paoline 1982 2, con un ampio capitolo dedicato alla «bio-etica».

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G. PericoProblemi di etica sanitaria, Ancora, Milano 1985.

Trattazione esauriente dei principali problemi di etica bio-medica ad opera di un cultore della materia, che da anni pubblica puntualmente sulla rivista Adornamenti sociali. Di ogni problema viene offerta una panoramica di valutazioni e proposte di carattere etico. Il pensiero della morale cattolica ha un posto privilegiato, soprattutto le indicazioni che provengono dal supremo magistero ecclesiastico.

M. FurlanEtica professionale per infermieri, Piccin, Padova 1985.

Corso sistematico di etica, proposto ad allievi delle scuole infermieri. L’attenzione non è limitata solo a situazioni più tipiche in cui l’attività di nursing infermieristico si incontra con problemi etici — segreto professionale, verità al malato, interruzione volontaria di gravidanza, assistenza ai morenti ed eutanasia — ma anche alle questioni di fondo relative all’articolazione tra diritto, morale e deontologia professionale.

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II

L’UOMO E LA NATURA

1. Potere e responsabilità dell’uomo verso l’ambiente

Un’etica da «scialuppa di salvataggio»?

Qualche anno fa un filosofo americano ha proposto una formula per sintetizzare i doveri morali che ci si impongono in quest’epoca di crisi planetaria. L’ha denominata lifeboat ethics, etica da scialuppa di salvataggio. Con questa formula intendeva giustificare il suggerimento di ritirare gli aiuti destinati allo sviluppo dei Paesi poveri; siccome non ci si può salvare tutti, che sopravvivano almeno quelli che hanno più chance!

Al cinismo di questa proposta fa riscontro il diffondersi di comportamenti che si ispirano a un’etica esattamente contraria, che si fonda sul senso della comune solidarietà che lega tutti i viventi e sulla responsabilità non solo nei confronti degli altri esseri umani, ma anche delle piante e degli animali. Lo studio dei sistemi viventi e il diffondersi della mentalità ecologica hanno assicurato consistenza alla nozione di «biosfera», che abbraccia in un’unità inestricabile tutto ciò che partecipa alla vita. Contrariamente a chi pensa che bisognerebbe buttare a mare quanto costituisce una minaccia alla nostra precaria scialuppa di salvataggio, dal punto di vista ecologico la vita, costituendo un’unità, si salva o si perde tutta insieme. Il comportamento responsabile nei confronti della biosfera, in questa accezione globale, è la preoccupazione della bio-etica.

Connessa a questa apertura dell’etica è l’acquisizione della dimensione del futuro. L’azione giusta non è più riferita solo al presente, ma si confronta anche con le responsabilità che abbiamo verso le generazioni future. Riusciremo a consegnare loro una terra abitabile, o lasceremo loro in eredità un pianeta

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spolpato delle sue risorse, coperto di scorie e inquinato, depauperato di larga parte delle specie di piante e di animali che condividono il nostro habitat?

Perché abbia luogo un riorientamento dell’umanità che vive all’insegna della tecnica, deve realizzarsi una profonda trasformazione etica, che comprende la revisione di alcuni miti. Primo tra tutti quello dell’antropocentrismo, che rende l'homo faber prigioniero della torre d’avorio che si è costruito. Soprattutto l’uomo occidentale si è inebriato dell’orgoglio di sentirsi soggetto, dotato esclusivamente di poteri arbitrari sull’oggetto-natura (secondo la formula cartesiana, l’uomo si sente in diritto di considerarsi «signore e padrone della natura»). Quando il suo potere è stato moltiplicato dalla tecnica, si è arrivati precipitosamente alla bancarotta attuale.

La crisi ecologica continuerà ad aggravarsi, se non diventeranno parte costitutiva dell’etica valori positivi che integrino tra loro gli uomini e la natura. Nei confronti della terra l’uomo ha ancora un atteggiamento che potremmo chiamare tolemaico. È necessario che alla «rivoluzione copernicana» di tipo astronomico venga aggiunto un nuovo capitolo, relativo alla biologia: l’uomo cessi di pensarsi immobile al centro, con la terra vivente sotto i piedi. L’uomo e la cultura devono accorgersi che ruotano attorno al sole, cioè alla grande e fragile avventura della vita.

La natura può essere partner per l’uomo. Questa affermazione ha perso la sua evidenza per l’uomo tecnologico. Anzi, egli non ne vede neppure il senso. Il contrario avviene invece per molti popoli considerati sottosviluppati, che hanno conservato un rapporto bilaterale con il cosmo, e quindi una saggezza ecologica. Non potrebbe essere il compito storico dei popoli sottosviluppati quello di civilizzare, da questo punto di vista, i popoli evoluti?

Perché si instauri un rapporto nuovo con la natura, è necessario il rivoluzionamento, oltre che dei comportamenti, anche dei moduli espressivi che ci sono familiari. Basti pensare all’euforia per la «conquista» della luna e al contributo d’occasione al mito prometeico dell’uomo che dà la scalata al cielo. L’accesso alla nuova etica avviene per la porta bassa dell’umiltà. È duro per l’uomo, che si è staccato dalla natura e si è contrapposto ad essa, ammettere di essere uno dei numerosi tentativi

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sperimentali della natura stessa; come esperimento è il più recente, e appartiene certamente ai progetti più rischiosi della natura. Deve temere che, come già numerose specie prima di lui, possa essere espulso dall’evoluzione come tentativo abortito.

Il riaggiustamento del rapporto con la natura a livello etico non è solo una medicina amara che l’umanità deve trangugiare, se vuol guarire dai suoi mali. Trattando la natura come partner, l’uomo beneficerà di una comprensione più profonda della natura stessa. Perché si può capire solo ciò che si prende sul serio. Il guadagno ineguagliabile sarà quella particolare saggezza dell’uomo che vive in simbiosi con la natura: un modello di saggezza antica, di cui esiste una diffusa nostalgia proprio nel cuore della civiltà tecnologica più avanzata.

La saggezza che si può apprendere dalla natura non è solo quella istintiva, rappresentata dall’uomo che vive in contatto con l’ambiente, facendo uso di tutti i suoi cinque sensi non atrofizzati. Oggi è soprattutto attraverso la scienza che l’uomo può apprendere la saggezza della natura. Effetto dello sviluppo della scienza non è solo la tecnologia, ma anche una migliore conoscenza dell’uomo e dell’universo intorno a lui. Il corso degli eventi futuri può essere influenzato in maniera determinante dalla conoscenza del «codice della saggezza» iscritto nella natura stessa, che ci aiuterà a scegliere tra le varie alternative. Per la via sapienziale si stanno mettendo appunto eminenti uomini di scienza. Non sono i più forti, ma i più saggi che sopravviveranno, ha affermato incisivamente lo scienziato Jonas Salk.

L’etica fa posto agli animali

L’atteggiamento antropocentrico ha pesato soprattutto sugli animali. Ad essi la nostra tradizione culturale non ha mai attribuito un valore intrinseco, ma eventualmente un valore utilitaristico. Il pensiero religioso ha regolato la questione animale ordinando gerarchicamente gli animali sotto l’uomo. Il comando biblico di «dominare sui pesci del mare, gli uccelli del cielo e tutti gli animali che strisciano sulla terra» (Gen 1,28) è stato per lo più interpretato come diritto a qualsiasi fruizione utilitaristica o dominio dispotico.

La teorizzazione teologica della natura dell’animale come

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privo di anima immortale ha fornito il supporto a ogni possibile arbitrio. La Bibbia conteneva numerosi altri testi che suggerivano un atteggiamento diverso nei confronti degli animali, a cominciare dal racconto «jahvista» della creazione, in cui all’uomo non è prescritto di «assoggettare la terra», bensì di «coltivarla e custodirla» (Gen 2,15): sulla natura animale e vegetale non ha un dominio assoluto, bensì un compito di amministratore responsabile. Questa prerogativa è stata per lo più disattesa nella lettura della Bibbia, fino a un periodo molto recente.

La sorte degli animali non migliorò quando il pensiero occidentale, secolarizzandosi, tolse Dio dal trono per metterci l’uomo. Il pensiero laico e umanista si è costruito, fin dal Rinascimento, sull’esaltazione della ragione. Anche la celebrazione illuministica dell’intelletto come centro dell’esistenza dell’uomo ha contribuito a scavare un fossato ancor più profondo tra l’uomo e gli animali. Se questi sono privi di ragione, e se il valore e la dignità dipendono unicamente dalla ragione, gli animali non contano nulla. L’anima prima, e la ragione poi, impedirono quindi di riconoscere un qualche legame significativo tra l’uomo e le altre specie.

Una conseguenza vistosa di questa concezione fu l’esclusione del rapporto con gli animali dalla sfera della morale. Il modo di comportarsi verso di loro fu considerato irrilevante e le rivendicazioni a favore degli animali dipendenti da un esasperato sentimentalismo. Il razionalista Spinoza nella sua etica afferma perentoriamente: «La legge che proibisce di ammazzare gli animali è fondata piuttosto sopra una vana superstizione e una femminea compassione, anziché sulla sana ragione. Il dettame della ragione di ricercare il nostro utile prescrive, bensì, di stringere rapporti di amicizia con gli uomini, ma non coi bruti o con le cose la cui natura è diversa dalla natura umana... E tuttavia io non nego che i bruti sentono, ma nego che per questa ragione non sia lecito provvedere alla nostra utilità o servirci di essi a nostro piacere, e trattarli come meglio ci conviene, giacché essi non si accordano per natura con noi, e i loro affetti sono per natura diversi dagli affetti umani».

Spinoza non nutriva dubbi che gli animali sentissero; Cartesio, invece, fondando nel secolo XVII la scienza moderna sul dualismo anima-corpo, peggiorò notevolmente la posizione degli animali. Identificò così totalmente l’anima o coscienza dell’uomo

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con la ragione, da concludere che gli animali non potevano essere consapevoli, ed erano quindi soltanto degli automi. Gli animali vennero quindi degradati a livello di macchine, solo un po’ più complicate di un orologio... La via era così aperta per l’utilizzazione degli animali per fini scientifici. Questo è un argomento che, per la sua rilevanza in bioetica, merita una trattazione a sé stante, nel paragrafo successivo.

Un fatto culturale nuovo, presupposto per una modifica profonda dell’atteggiamento nei confronti degli animali, è avvenuto negli ultimi decenni. Gli impulsi decisivi a dare un posto di rilievo agli animali sono venuti proprio dalla scienza, più precisamente da quella parte della scienza che, rinunciando a studiarli per scopi utilitaristici, si è dedicata ad osservare i comportamenti nell’ambiente naturale. «Per la prima volta nella storia della civiltà, qualcuno interessato agli animali per conoscerli ― e non per nutrirsene, per mettere loro il giogo, cacciarli, imbalsamarli ― è stato in grado di ampliare con i mezzi della scienza le nostre conoscenze, e di trasmetterle in parte ad un’opinione pubblica curiosa. Gli animali sono in qualche misura entrati nella realtà. Con l’aiuto insperato della televisione, Darwin ce l’ha fatta: gli abitanti delle città hanno cominciato ad accorgersi della biosfera» (Mary Midgley).

Se fosse costume degli animali erigere monumenti ai loro benefattori, il più solenne lo dedicherebbero indubbiamente a Konrad Lorenz, l’etologo che è riuscito a spiegare il significato del comportamento degli animali con una trasparenza che ce lo rende ovvio. La scienza etologica di Lorenz ha contribuito, più e meglio di qualsiasi indignazione morale, a demolire il cliché dell’animale-macchina. Mentre in passato eravamo preoccupati di approfondire il più possibile il fossato tra noi e gli animali ― utilizzando a questo fine sia l’anima che la ragione ―, oggi scopriamo con meraviglia che, nonostante le differenze, condividiamo molti comportamenti con le altre creature animali. Tra gli uomini e gli animali emergono elementi significativi di continuità. La vita dell’uomo ha una base animale, vale a dire una struttura sensitivo-emotiva su cui costruiamo quello che è più specificamente umano. La conoscenza degli animali ci fa avvertire un senso di affinità, che produce un coinvolgimento intellettuale, emotivo e pratico insieme.

La denuncia appassionata di Albert Schweitzer, secondo il

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quale un’etica che si occupa esclusivamente degli esseri umani è disumana, può essere ritenuta anacronistica. Il pensiero filosofico ed etico contemporaneo ha cominciato a prendere sul serio gli animali. O quanto meno alcune avanguardie di esso. Ne possiamo avere una riprova nella «Dichiarazione universale dei diritti dell’animale», ad opera dell’Unesco (1978). Si apre con l’affermazione che «tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza» (art. 1), e culmina con proclamazioni altisonanti: «Ogni atto che comporti l’uccisione di un animale senza necessità è un biocidio, cioè un delitto contro la vita» (art. 11); «Ogni atto che comporti l’uccisione di un gran numero di animali selvaggi è un genocidio, cioè un delitto contro la specie» (art. 12). Tra i diritti riconosciuti agli animali: non essere sottoposti a maltrattamenti e ad atti crudeli; non essere usati per il divertimento dell’uomo; non essere abbandonati quando l’uomo li ha scelti per compagni; vivere e crescere secondo il ritmo e le condizioni di vita e di libertà che sono proprie della specie.

Il divario tra le dichiarazioni di principio e la realtà è ancora stridente; ma vanno moltiplicandosi iniziative rivolte a tradurre la nuova sensibilità nella pratica: si pensi alla progettata abolizione di giardini zoologici, all’anagrafe per impedire che cani e gatti vengano abbandonati, alla protezione di specie in via di estinzione.

Il cambiamento di atteggiamento nei confronti degli animali è vistoso anche nell’ambito ecclesiale. Le posizioni zoofile hanno tradizionalmente trovato poca risonanza entro la Chiesa cattolica, a differenza degli ambienti protestanti, soprattutto inglesi. Di recente, invece, si sono registrate delle prese di posizione ufficiali molto autorevoli anche nella Chiesa cattolica. In occasione del Vili centenario di S. Francesco, nel 1982, Giovanni Paolo II ha tenuto ad Assisi un discorso che può essere ritenuto la magna charta dell’ecologismo cattolico. «S. Francesco ― ha detto il pontefice ― sta dinanzi a noi come esempio di inalterabile mitezza e di sincero amore nei confronti degli esseri irragionevoli che fanno parte del creato... Egli guardava il creato con gli occhi di chi sa riconoscere in esso l’opera meravigliosa della mano di Dio... Ad un simile atteggiamento siamo chiamati anche noi. Creati ad immagine di Dio, dobbiamo renderlo presente in mezzo alle creature come “padroni e custodi

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intelligenti e nobili” della natura e non come “sfruttatori e distruttori senza alcun riguardo”». Queste ultime parole sono citate dall’enciclica Redemptor hominis, che ha introdotto una vistosa correzione nella concezione teologica che accentua unilateralmente il compito di «assoggettare la terra» (Gen 1,28), a scapito del comandamento di «coltivarla e custodirla» (Gen 1,25).

Lo stesso pontefice è ritornato sull’argomento in occasione di un messaggio ai partecipanti alla Giornata nazionale dell’ecologia e della zoologia: «La testimonianza di Francesco induca gli uomini di oggi a non comportarsi da “predatori” dissennati nei confronti della natura, ma ad assumersi la responsabilità di essa, avendo cura che il tutto rimanga sano ed integro, cioè tale da offrire un ambiente accogliente e confortevole anche agli uomini che verranno». Un gesto di notevole rilevanza simbolica aveva fatto lo stesso Giovanni Paolo II nel 1979 proclamando, con bolla pontificia, san Francesco d’Assisi «patrono dei cultori dell’ecologia».

2. Sperimentazione e uso bio-medico degli animali

Dalla polemica alla riflessione etica

Gli interrogativi etici sulla liceità della sperimentazione animale esistono da tempo, anche se hanno occupato un posto indubbiamente secondario nell’etica medica. La bioetica contemporanea ha rinvigorito il dibattito, dandogli maggiore ampiezza e un più profondo spessore culturale. Attualmente solo una parte limitata degli esperimenti può essere classificata come medica: proporzionalmente una percentuale molto più rilevante di animali viene usata per fini che niente hanno a che vedere con la medicina. Milioni di animali vengono impiegati per provare cibi, pesticidi, prodotti industriali, armi, cosmetici, coloranti per cibi, senza parlare della ricerca biologica di base. Gli psicologi sperimentali, inoltre, sono più frequentemente dei medici accusati di far ricorso a sperimentazioni animali che esigono il ricorso al dolore: per verificare, ad esempio, teorie sull’apprendimento,

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sugli effetti della punizione o della deprivazione sensoriale.

Il contributo della bioetica va ravvisato, oltre che nell’ampliamento dell’orizzonte problematico, anche nel portare il dibattito su un piano più razionale. In questo, come in altri ambiti della riflessione etica, l’emotività esasperata rischia di offuscare la ragione. Il dibattito sulla sperimentazione animale presenta, a modo suo, un carattere estremo che ne fa un caso esemplare di fallimento della comunicazione tra esponenti di posizioni ideologiche ed etiche diverse. L’incomprensione tra fautori e oppositori della sperimentazione inizia già con la parola con cui la si designa: «vivisezione».

Il termine, di origine secentesca, ha un forte peso emotivo. Lascia intendere che gli animali sui quali vengono condotti degli esperimenti siano torturati. Di fatto, invece, la vivisezione denota sperimentazioni di ogni genere, incluse quelle in cui non si ricorre a un’incisione chirurgica e le cavie vengono anestetizzate per evitare loro il dolore. Le più violente campagne antivivisezionistiche rafforzano l’impatto del termine con qualche foto di effettiva tortura nei confronti di un animale. Si costruisce così un’immagine bieca del ricercatore: viene messo alla gogna come un sadico che si diletta in esperimenti superficiali e inutili, sfogando le sue pulsioni morbose e perseguendo basse ambizioni di carriera.

Dall’altro versante della barricata, gli scienziati guardano agli oppositori della sperimentazione animale con aria di sufficienza, come se le loro richieste fossero dei sentimentalismi isterici, e si barricano dietro la sacralità della scienza. È la posizione inaugurata da Claude Bernard, il fisiologo francese del XIX secolo fondatore della medicina sperimentale. La sua Introduction à l'étude de la médecine expérimentale (1865) viene ancora oggi citata esemplarmente come un trionfo della più lucida razionalità. Ma per quanto riguarda l’uso degli animali, Bernard assunse un atteggiamento chiaramente antirazionale, rifiutando di spiegare la sua sistematica e totale noncuranza per le sofferenze che infliggeva agli animali non anestetizzati. Quello, a suo avviso, era l’atteggiamento proprio di uno scienziato; si rifiutava perciò di discuterne se non con colleghi della sua stessa levatura morale (sembra che la prima associazione in Europa contro la vivisezione sia stata fondata proprio dalla moglie e dalla

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figlia di Bernard, che l’avrebbero sorpreso a sezionare il cane di casa!).

Anche quando riesce a sollevarsi dalla più violenta passionalità, che si limita a gettare il discredito su chi rappresenta la posizione contraria, la polemica intorno alla sperimentazione è solita far ricorso abitualmente più a luoghi comuni che ad oggettive argomentazioni di natura etica. Un esempio spesso citato, sia pro che contro la sperimentazione, è quello del famigerato talidomide, a seguito del quale nacquero migliaia di bambini focomelici. Gli avversari della sperimentazione sugli animali citano l’infortunio come esempio eclatante dell’inutilità della prova dei farmaci sugli animali, date le incognite legate alla differenza di specie. I fautori, invece, rivendicano la necessità di sperimentazioni ancora più accurate e profonde sugli animali, per prevenire simili tragici esiti sugli esseri umani.

L’opposizione alla sperimentazione ha adottato per lo più diverse strategie. Una è la «via etica». Viene messa in discussione l’immoralità del metodo in quanto tale e si rifiutano i benefici scientifici, qualunque sia la loro portata, ottenuti a prezzo della complicità in una pratica brutale e degradante. «Tutti gli esperimenti eseguiti su animali sono da rifiutarsi per motivi etici. Proprio nella medicina non è il fine che giustifica i mezzi»: è il primo punto programmatico dell’Associazione dei Medici Antivivisezionisti. La conclusione a cui giungono è che «bisogna impegnarsi per ottenere la fine di tutti gli esperimenti su animali (abolizione per legge)». Anche in Italia è stata avanzata una legge di iniziativa popolare che vorrebbe vietare la vivisezione e ogni altra sperimentazione su tutto il territorio nazionale.

Una seconda linea di argomenti contro la sperimentazione su animali appunta le sue critiche contro l’inutilità dei risultati conseguiti con questo metodo. È quella che potremmo chiamare la «via epistemologica», ovvero della razionalità scientifica. Contesta l’utilità clinica di risultati ottenuti con la sperimentazione animale, in quanto non potrebbero essere applicati ai pazienti umani.

Questa linea si trova costretta a confrontarsi con una lunga tradizione scientifica, che invece ha utilizzato la sostanziale omogeneità anatomica e fisiologica tra gli esseri umani e gli animali per una fruttuosa applicazione all’uomo delle conoscenze acquisite

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su questi ultimi. Anche l’antichità ha fatto ricorso alla sperimentazione sugli animali per scoprire la struttura interna del corpo. Galeno stesso, punto di riferimento obbligato della medicina antica, sezionò una quantità di cadaveri animali. Ma solo la rivoluzione scientifica dell’epoca moderna adottò sistematicamente la sperimentazione animale per la conoscenza scientifica del corpo umano. Nel 1638 William Harvey pubblicava la sua celebre Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus: la circolazione del sangue, concepita per la prima volta dal punto di vista meccanico, veniva teorizzata e verificata sperimentalmente in ogni suo aspetto su animali diversi. Il suo esempio ispirò una schiera di medici e di filosofi della natura a imitare la sua esposizione logica e i suoi brillanti esperimenti sugli animali. La conoscenza scientifica dell’anatomia e della fisiologia del corpo umano fu fatta, letteralmente, sulla pelle degli animali!

Nella seconda metà del secolo scorso in tutte le nazioni sviluppate la medicina prese programmaticamente la via della sperimentazione. La pratica medica che si ispirava alla ricerca di laboratorio, fatta su animali viventi, divenne il prototipo della professione medica. I medici del Nord America e dell’Europa si organizzarono assumendo con successo lo standard della medicina sperimentale, non solo perché convinti del suo valore, ma anche perché lo potevano usare come cartina al tornasole per misurare la professionalità di chi pretendeva fare opera terapeutica: poteva essere considerato vero medico solo colui che era figlio della medicina sperimentale. Si escludevano così dalla pratica della professione i ciarlatani, ma anche tutti coloro che esercitavano l’arte sanitaria su una base teorica diversa dallo scientismo positivista. Nelle scienze mediche e in quelle naturali si stabilì un sistema molto competitivo. La competenza era stabilita sulla base della ricerca sugli animali.

Dai laboratori di fisiologia la ricerca e la sperimentazione si diffusero nelle scienze della patologia, farmacologia, batteriologia, richiedendo un numero crescente di cavie animali. Gli spettacolari progressi medici, soprattutto con l’avvento dell’immunologia, dimostravano non solo la validità intellettuale, ma anche il beneficio pratico dell’approccio sperimentale. Milioni di vite umane venivano salvate, mentre nessuno si prendeva la briga di contare quelle animali che venivano sacrificate. La scienza

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acquisiva un valore assoluto, tanto più difficile da mettere in discussione, in quanto si presentava come l’unica forza capace di sconfiggere la malattia e di garantire la salute dell’uomo.

Ancora più difficile sembra oggi opporsi alla sperimentazione animale per motivi epistemologici, essendo la ricerca biomedica diventata inaccessibile ai non iniziati. Resta tuttavia abbastanza vivace il dibattito relativo alla psicologia sperimentale e comportamentale (che utilità scientifica può avere il fare esperimenti sui ratti e sulle scimmie, in riferimento al modo in cui l’essere umano apprende, o reagisce alla mancanza di cure materne?).

La regolamentazione della sperimentazione

Sia sul fronte etico che su quello epistemologico il movimento antivivisezionista appare nel complesso perdente. In esso confluiscono ispirazioni ideali disparate ― dall’antiscientismo all’amore evangelico per gli animali ― le quali, pur riunite, non riescono a far breccia nella fiducia incondizionata nella scienza che nutre la maggioranza della popolazione. L’uso di animali per la sperimentazione continua ad essere diffusissimo, anche se non si possono avere cifre sicure (statistiche precise sono disponibili solo in Gran Bretagna, dove è ancora in vigore il «British Cruelity to Animai Act» del 1876, che rende obbligatoria una precisa documentazione degli esperimenti: più di 5 milioni di esperimenti «atti a causare dolore» si realizzano nel Paese su vertebrati vivi, ogni anno).

L’obiettivo della totale abolizione appare più lontano ora di quando si è articolato la prima volta, nella seconda metà del secolo XIX, con l’opposizione della mentalità umanitaria all’atteggiamento degli scienziati. La posizione assolutista è costretta a riconoscere che l’attacco all’utilità medica e scientifica della medicina sperimentale è fallito.

Maggiori chances hanno gli antivivisezionisti moderati. Questi concordano nel riconoscere alcune sperimentazioni molto più giustificabili di altre e si limitano a richiedere che, precedentemente a ogni esperimento, siano valutati i benefici che se ne ricavano in rapporto ai costi (includendo tra questi la sofferenza degli animali). Questo atteggiamento porterebbe a valutare

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vantaggi reali che ci si può ragionevolmente aspettare dalla sperimentazione, confrontando seriamente i valori contrapposti. Si eviterebbe cosi lo scontro frontale tra una fazione che, a giustificazione di tutto ― anche di innegabili atti di crudele barbarie ―, inalbera un ombrello con la scritta «scienza», e la fazione contraria che si richiama all’«etica». I moderati reclamano soprattutto delle riforme, che potrebbero sostituire gli esperimenti in vivo sugli animali con l’uso di colture di tessuti e con altri metodi non vivisezionistici di ricerca biomedica.

Una riforma è necessaria anche nella legislazione. I documenti di etica biomedica sono reticenti o evasivi. Un solo accenno generico troviamo nella «Dichiarazione sulle ricerche biomediche» dell’Associazione Medica Mondiale, Tokyo 1975, nella quale si dice che «il benessere degli animali utilizzati nel corso delle ricerche deve essere salvaguardato». La legge italiana è apparentemente restrittiva; in pratica, invece, permette quasi tutto, a discrezione dei ricercatori. La regolamentazione vigente risale al 1931, con successiva modifica del 1941. Secondo questa normativa, «la vivisezione e tutti gli altri esperimenti sugli animali vertebrati a sangue caldo (mammiferi e uccelli) sono vietati quando non abbiano lo scopo di promuovere il progresso della biologia e della medicina sperimentale e si eseguono negli istituti o laboratori scientifici, sotto la diretta responsabilità dei rispettivi direttori... Gli esperimenti che richiedono la vivisezione, a semplice scopo didattico, sono consentiti soltanto in casi di inderogabile necessità, quando cioè non sia possibile ricorrere ad altri sistemi dimostrativi» (art. 1). È evidente l’ambiguità delle formule restrittive, che in realtà fanno dipendere la valutazione dell’opportunità dell’esperimento unicamente da un giudizio soggettivo dello sperimentatore stesso. Anche la richiesta dell’anestesia per l’animale, contenuta nell’art. 2 della legge, può essere schivata allo stesso modo: «La vivisezione può essere eseguita soltanto previa anestesia generale o locale, che abbia efficacia per tutta la durata dell’operazione, fatta eccezione dei casi in cui l’anestesia sia incompatibile in modo assoluto coi fini dell’esperimento ».

Una modifica delle normative vigenti, per renderle meno contrastanti con la sensibilità morale oggi raggiunta, si impone. Prima però bisogna attuare una revisione del modello razionalista dell’uomo che siamo abituati a coltivare, secondo il

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quale la maturità emotiva comporta l’indifferenza verso il mondo animale e la natura: come se si diventasse uomini allontanandosi il più possibile dall’animalità (la «bestia» continua ad essere usata da alcuni come simbolo oscuro del male, del demoniaco, dell’antiumano...). Oggi siamo provocati a rovesciare questo modello e a riscoprire un canale di comunicazione profonda con la natura. Oltre ad acquisire la capacità di percepire e di rispondere agli stati interiori di animali di altre specie, saremo anche in grado di cogliere il respiro divino in tutto ciò che è creato.

3. La genetica: la nuova frontiera della bio-etica

Le mani dell'uomo nel meccanismo della vita

Nessuna forma di potere che l’uomo ha potuto esercitare in passato sulla natura è paragonabile a quello che è stato reso possibile dalle scoperte avvenute recentemente nel campo della genetica e dalla padronanza di tecnologie che permettono di intervenire nel substrato più profondo della materia vivente. Appena un secolo ci separa dalla prime osservazioni che l’abate Mendel andava facendo sui piselli del suo orto e che dovevano condurlo a scoprire le leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari. In pratica, però, soltanto nell’ultimo decennio è avvenuta l’accelerazione, grazie alla quale la genetica è divenuta una frontiera per l’umanità, fonte di grandi speranze e di altrettanto grandi timori. Proprio come l’energia nucleare. L’accostamento ha fatto la fortuna dell’espressione «bomba biologica», spesso usata per sottolineare i rischi connessi con l’intrusione dell’uomo nel codice che regola la vita.

La scienza dell’ereditarietà, tenuta a battesimo dal paziente ricercatore moravo nella seconda metà del XIX secolo, non ha mostrato subito le potenzialità di cui era dotata. Come quegli alunni considerati sottodotati dagli insegnanti, che sembrano scaldare i banchi per anni, finché un giorno escono dal bozzolo in maniera folgorante. Le scoperte di Mendel, riconosciute come leggi generali dell’ereditarietà solo all’inizio del secolo XX,

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sono apparse portatrici di conseguenze pratiche solo per i fondatori dell’eugenismo. Questo è stato concepito come un progetto per migliorare la razza umana mediante un controllo della procreazione, favorendo la trasmissione dei caratteri ereditari auspicati e impedendo la riproduzione di quelli giudicati negativi. Il dizionario Larousse del XX secolo, pubblicato nel 1928, attribuiva come finalità alla «nuova scienza» dell’eugenismo quella di «eliminare gli indesiderabili e di conservare e perfezionare gli elementi sani e robusti».

Le basi scientifiche dell’eugenetica erano tutt’altro che solide. È bastato, tuttavia, la sola patina di scientificità perché nel periodo tra le due guerre mondiali programmi eugenetici fossero intrapresi dal governo nazista in Germania, che si servì dell’eugenismo per giustificare la sua criminale politica razzista, e altri ne fossero realizzati nei Paesi Scandinavi e negli Stati Uniti (con la stessa inconsistenza scientifica e nullità di risultati quanto al miglioramento della specie, ma con il totalitarismo nazista in meno). Gli errori del passato hanno gettato il discredito sui programmi eugenetici autoritari, inequivocabilmente condannati anche dal punto di vista morale, per la minaccia che costituiscono ai fondamentali diritti della persona.

Se le scoperte di Mendel corrispondono alla preistoria e l’eugenismo alla storia antica della genetica (il miglioramento della razza mediante l’eliminazione dei tarati era, del resto, ciò che si faceva correntemente anche a Sparta. Con risultati molto meno brillanti, a quanto ci dice la storia della civiltà, di quelli ottenuti ad Atene...), la storia moderna della genetica comincia con l’identificazione del modo in cui si trasmettono i cromosomi e la scoperta, realizzata da Watson e Crick nel 1953, della struttura molecolare del Dna. Gli anni seguenti furono segnati dal progressivo paziente studio del modo in cui il «messaggio» ereditario, contenuto nel Dna dei cromosomi sotto forma di una successione di geni, poteva essere tradotto in proteine. Si trattava però ancora di conoscere il processo come avviene in natura, senza mettervi le mani. La «manipolazione» segna l’ultima tappa del progresso della genetica: e siamo così all’attualità, anzi al futuro prossimo già cominciato.

Sono passati poco più di dieci anni ― i primi lavori di questo genere sono del 1973 ― da quando gli scienziati hanno messo a punto una tecnica per introdurre all’interno del patrimonio

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ereditario di una cellula un frammento di Dna estraneo, ottenuto mediante sintesi chimica. Tecnicamente si parla in questo caso di «Dna ricombinato». Si tratta di molecole di Dna costruite al di fuori delle cellule viventi, che vengono congiunte a segmenti di Dna, al fine di farli replicare in una cellula vivente.

Innocui giochetti di laboratorio per scienziati di temperamento faustiano? Il profano ha difficoltà a capire la portata di questo ingresso dell’uomo nel regno, dalle dimensioni infinitesimali, delle strutture fondamentali della vita. Impadronirsi della chiave del meccanismo con cui si trasmettono i caratteri ereditari significa poter smontare la catena del Dna e pilotarne la ricostruzione a volontà. In pratica, l’elica del Dna (quel lunghissimo filamento che contiene le istruzioni di crescita per ogni organismo) viene tagliata per inserire altri frammenti, con informazioni diverse, che modificano lo sviluppo della cellula. È un lavoro di microchirurgia, in cui il bisturi viene sostituito da enzimi che attaccano e incidono il Dna, mentre dei batteri trasportano i geni scelti per la ricombinazione.

Allarmi e interrogativi

Come un bambino entrato in possesso di un gigantesco meccano, lo scienziato si è lanciato in un’audace esplorazione delle infinite possibilità che si aprono. Incroci tra le piante più diverse, nonché tra cellule vegetali e cellule animali; creazione di specie animali giganti o di nuove specie vegetali, come grano capace di crescere nel deserto... L’ingegneria genetica sembra essere l’Eldorado dell’èra tecnologica, la terra promessa stillante latte e miele che risolverà i problemi dell’alimentazione per tutta l’umanità. Oppure, cambiando scenario, può essere la causa di una catastrofe immane. E allora l’ingegneria genetica diventa un incubo: un incubo, in questo caso, creato non dal sonno della ragione, bensì dalla ragione tecnica nel suo esercizio più vigile e nel massimo dell’efficienza.

Subito dopo aver messo a punto i procedimenti descritti, un allarme si è diffuso nell’ambiente degli scienziati. Nel luglio 1974 un gruppo di specialisti lanciava con una lettera aperta un appello all’autoregolazione e gli esperimenti di ingegneria genetica

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venivano congelati da una moratoria. Ma nella conferenza di Asilomar, in California, tenutasi nel 1975, veniva decisa la ripresa dei lavori. In seguito le regolamentazioni e le misure precauzionali prese dai governi si sono succedute con un ritmo discontinuo: a restrizioni e severi controlli hanno fatto seguito edulcorazioni permissive.

Le paure possono essere ricondotte a ciò che succede all’apprendista stregone della favola: mette in moto un processo, che poi non sa più controllare. Il pericolo paventato è che le manipolazioni genetiche portino alla creazione e moltiplicazione di germi patogeni nuovi, come potrebbe essere la produzione di batteri mutanti resistenti agli antibiotici. Dai laboratori di ingegneria genetica potrebbero allora diffondersi malattie nuove, non trattabili con i mezzi farmacologici in nostro possesso, epidemie di cancri, mostruosità di ogni genere... Dall’Eldorado alla discesa agli inferi!

Questi scenari apocalittici irritano profondamente gli scienziati. È vero che sono per lo più parto di fantasia; ma è possibile che sia altrimenti, quando manca un’informazione precisa sul lavoro che gli scienziati stanno facendo nel chiuso dei loro laboratori, e soprattutto in mancanza della possibilità di un controllo pubblico? Può darsi che gli allarmi siano ingiustificati; ma quando la preoccupazione per le minacce incombenti per le manipolazioni dell’energia nucleare ha raggiunto un livello così drammatico, non c’è più la disponibilità ad aprire un nuovo fronte di preoccupazioni.

Per conquistare l’opinione pubblica, l’ingegneria genetica si presenta sotto l’aspetto utilitaristico, promettendo un’efficace risposta alla scarsità di risorse alimentari e alle malattie che affliggono l’umanità. Mentre la risposta al problema della fame è ancora a livello di progetto, più vicina alla realizzazione sembra invece quella che riguarda la salute. Le bio-tecnologie hanno raggiunto, infatti, risultati considerevoli in campo terapeutico. Gli scienziati sono in grado di utilizzare organismi microscopici, come i batteri, per far loro fabbricare sostanze specifiche, dominando e dirigendo la loro capacità di provocare reazioni chimiche tra molecole organiche estremamente complesse. Si possono così produrre sinteticamente vaccini o sostanze come l’insulina, l’interferone, le gonadotropine. La coltura delle «cellule trasformate» costituisce, in teoria, una fonte inesauribile

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di molecole proteiche. La bio-tecnologia si apre qui sulla bio-industria, suscitando comprensibili appetiti nelle case farmaceutiche.

Valutazione etica

Il campo delle manipolazioni genetiche, con le sue applicazioni di bio-tecnologia e di bio-industria, richiede urgentemente una riflessione etica che, partendo realisticamente dai fatti, apporti il contributo della saggezza. In questa formulazione è contenuta l’esigenza di distanziarsi dalle prese di posizione emotive sollecitate da un fanta-biologia. Il fantasma più spesso evocato è la possibilità che le conoscenze genetiche, in mano a un potere totalitario, possano condurre alla fabbricazione di «uomini su misura» (una super-razza dominatrice, corredata magari da una sotto-razza, adatta a lavori monotoni e ripetitivi, a suo servizio...). Questa possibilità, che la si voglia considerare realistica o no, non dipende dalla natura della genetica, ma dall’uso che se ne potrebbe fare. Questo dipende dal contesto sociale in cui la ricerca si realizza. È ovvio che, analogamente a quanto avviene per l’intervento umano nel campo dell’energia nucleare, l’aumento del potere comporta una crescita di responsabilità. Ma sarebbe vano cercar di frenare la spinta verso la conoscenza e l’intervento sulla natura ponendo interdizioni di ordine etico, con la motivazione che si tratta di intrusioni «innaturali».

Il termine «manipolazione», con cui spesso si designano tali interventi, acquista per molti una connotazione decisamente negativa, come trasgressione di limiti imposti all’uomo. A detta di Bernard Häring, la manipolazione è divenuta per alcuni «una parola nuova per dire peccato». Ma la manipolazione, in quanto cambiamento pianificato della natura biologica a servizio dell’uomo, ha un significato accettabile e in linea con tutta la tradizione ebraico-cristiana che sta alla base della scienza moderna. In questa luce si può vedere nel progetto scientifico di conoscere i meccanismi di riproduzione della vita, per intervenire in essi, una forma elaborata di obbedienza al comando biblico di dominare la terra e di sottometterla. Anche secondo la morale cristiana proposta dal Vaticano II, «l’attività umana

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individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo con il quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde alle intenzioni di Dio» (Gaudium et Spes, 34).

Oggi però, come abbiamo visto, sempre più chiaramente si avverte che il compito di dominare la terra non è disgiunto dalla responsabilità di «custodirla». Nel campo della bio-tecnologia ciò vale come un invito alla prudenza. In un primo momento il richiamo prudenziale, arrivato anche alla richiesta di una moratoria, si riferiva ai pericoli connessi con la modifica di ecosistemi stabilitisi con gli adattamenti di una lunghissima evoluzione naturale. Oggi, dissipatisi per lo più quei timori catastrofici, prevale un invito a una sapienza di natura più squisitamente antropologica.

Se gli interventi genetici progettati avranno successo, una volta perfezionata la padronanza tecnologica finora solo abbozzata, l’umanità potrebbe eliminare molte malattie di natura ereditaria. Il prezzo da pagare potrebbe essere però quello di una seria restrizione del pool genetico della razza umana, rendendola meno capace di far fronte a situazioni future in cui l’ambiente fisico e sociale potrebbe essere molto diverso dall’attuale. C’è ragione di prendere sul serio gli appelli al rispetto della biosfera e ai sottili equilibri degli ecosistemi, non introducendo cambiamenti genetici che possono essere irrevocabili.

Un prezzo ancora più pesante sarebbe quello che consistesse in un deprezzamento della vita umana ritenuta sotto lo standard da promuovere. L’umanità ha conosciuto grandi stagioni della sua storia artistica, religiosa e civile, grazie a persone il cui «identikit» genetico non corrisponde al modello ideale ritenuto auspicabile. Senza cadere in una celebrazione morbosa della malattia e dell’handicap, bisogna però difendere la trascendenza spirituale dell’uomo rispetto a ciò che lo coarta e lo sminuisce. Il progetto di migliorare la natura umana è legittimo e rispettabile. I mezzi tuttavia non sono indifferenti. L’intervento sul patrimonio genetico non può sostituire, ma deve piuttosto concertarsi con quello, già ben noto all’umanità, che consiste nell’educazione etica delle persone.

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4. PER APPROFONDIRE

M. MidgleyPerché gli animali, Feltrinelli, Milano 1985.

Un libro sul rapporto tra gli uomini e gli animali, senza sentimentalismo, ma mantenendo il discorso nell’ambito severo della filosofia morale. Nel pensiero occidentale il razionalismo e lo spiritualismo hanno congiurato insieme contro gli animali; ora però si annunciano le premesse per una svolta culturale che porti l’uomo a cambiare atteggiamento verso le altre specie. Un tema maggiore della bioetica contemporanea.

S. Castiglione (a cura di), I diritti degli animali, Il Mulino, Bologna 1985.

Un’antologia di scritti sui diritti degli animali. Il centro di gravitazione è costituito dalla convinzione di Albert Schweitzer, secondo il quale un’etica che non include il rispetto di ciò che non è umano, non è degna dell’uomo. L’antologia traccia un panorama esauriente dello status quaestìonis attuale, sia a livello etico che giuridico.

C. Cirotto - S. Privitera, La sfida dell'ingegneria genetica, Cittadella, Assisi 1985.

Il genetista Cirotto presenta l’ingegneria genetica nel suo aspetto operativo, spiegando l’architettura della vita e le possibilità d’intervento. Il teologo moralista Privitera riflette sull’ingegneria genetica con una preoccupazione soprattutto metodologica: vuol individuare i princìpi che permettono una corretta soluzione morale dei problemi.

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III

LA VITA PRENATALE E LA NASCITA

1. Un nuovo compito dell’umanizzazione: la nascita

La medicina ostetrica sotto accusa

Per convenzione, cominciamo a contare i giorni della nostra vita a partire da quello della nascita. In Cina e in Giappone, prima dell’occidentalizzazione, si pensava che il bambino alla nascita avesse già un anno. Il pensiero scientifico ci aiuta a recuperare questo modo di vedere proprio delle antiche tradizioni. Alla vita di ogni individuo vanno aggiunti i nove mesi della gestazione: un segmento di vita di cui abbiamo cominciato a scoprire che ha un ruolo determinante su ciò che seguirà.

L’utero è diventato trasparente all’investigazione scientifica e la vita prenatale ci sta consegnando a uno a uno i suoi misteri. Quello che sappiamo oggi su tutte le fasi dello sviluppo dell’embrione e del feto era inimmaginabile nelle epoche in cui la vita prima della nascita era accessibile solo al linguaggio della poesia. Alla conoscenza fa riscontro il potere: è aumentata la capacità di intervento sulla vita umana prima della nascita, a suo danno o a suo vantaggio. L’essere umano in gestazione può essere rifiutato: l’interruzione volontaria della gravidanza non è certo un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità; oggi però colpiscono sia l’ampiezza del fenomeno, sia le giustificazioni ideologiche, giuridiche ed etiche che lo sostengono. Ma il nascituro può anche essere meglio protetto e tutelato, e perfino guarito, grazie all’intervento di diagnosi e cure, anche chirurgiche, sul feto.

I nove mesi della vita prenatale sono veramente acquisiti alla vita umana, oppure costituiscono solo un’altra provincia della medicalizzazione intensiva e sistematica? Il dibattito antropologico

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ed etico sulla nascita ha assunto negli ultimi tempi toni particolarmente intensi. Il pathos che fino a poco tempo fa era riservato all’interesse sanitario-politico per la psichiatria sembra essersi spostato sull’ostetricia. Questa tende a diventare sempre più la linea calda dell’umanizzazione in medicina.

La medicina ostetrica e ginecologica è stata messa sotto accusa. Paradossalmente, bisogna dire: perché la sicurezza del parto è uno dei dati più incontrovertibili ottenuti dalla medicina moderna, con uno spettacolare abbassamento statistico della mortalità infantile e materna. «Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento», cantava Leopardi. Attualmente la seconda parte della sua affermazione non corrisponde più a verità. Eppure questi risultati non tranquillizzano. Nei confronti della medicina ostetrica esiste un diffuso malessere, legato all’impressione che l’imperativo prioritario della sicurezza per la madre e il bambino abbia portato a uno sviluppo a senso unico: sono stati privilegiati i progressi tecnologici, e penalizzati invece pesantemente alcuni aspetti essenziali per una nascita umana.

Le punte più polemiche hanno brandito slogan femministi, del tipo «riprendiamoci il parto». Con l’appoggio dell’ideologia di un parto ecologico, ovvero «naturale», sono state proposte pratiche alternative a quella medico-ospedaliera, simbolizzate dall’idillico parto in casa. Queste posizioni hanno alimentato malintesi e diffidenze nel mondo medico; hanno però, d’altra parte, avuto anche il merito di mettere in evidenza l’abisso che frequentemente si apre tra le preoccupazioni del medico e i bisogni delle persone a cui presta i suoi servizi. Il fronte dell’umanizzazione della nascita porta prepotentemente alla ribalta quei bisogni, legati alla soggettività, che rischiano di essere pagati in pedaggio alla medicina tecnologica.

La contrapposizione tra tecnica e umanità è anche qui, come in molte altre situazioni dell’ambito bio-medico, artificiosa. Non si tratta di scegliere in alternativa l’una o l’altra, ma di utilizzare le risorse dell’ostetricia e della ginecologia più avanzate solo nella misura in cui sono necessarie, senza permettere loro che, spinte all’estremo e usate senza discernimento, portino a spersonalizzare l’esperienza della nascita.

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Il parto medicalizzato: una violenza indebita?

Tra i punti qualificanti della nuova etica della nascita che si sta delineando, occupa un posto fondamentale l’attenzione al bambino come soggetto. Se il nascituro ― e nascente ― non è considerato come persona, gli si fa violenza. Questo è il significato antropologico della «nascita senza violenza», proposta da Frédérik Leboyer, il discusso ostetrico francese considerato come il guru del movimento dell’umanizzazione della nascita. La sua voce si è levata molto forte contro la «violenza» di cui sarebbero oggetto i bambini al momento del parto. Le sue accuse non sono rivolte ai casi sporadici ― non poi così rari, purtroppo ― di maltrattamento colposo da parte di sanitari incompetenti o sbrigativi. Il dito di Leboyer si è appuntato contro le madri radiose e gli ostetrici fieri, che si rallegrano per il parto ben condotto a termine. Non si accorgono, nel loro piacimento, che il protagonista principale, il bambino, soffre indicibilmente. Egli dice la sua sofferenza col pianto angoscioso, ma nessuno gli bada; le sue grida sono salutate con soddisfazione, come segno di buona salute. Intanto il neonato, proiettato in un mondo ostile, violentato dalla luce troppo forte, dai rumori della sala parto, dalle manipolazioni rapide e brusche, dalla fiammata improvvisa di ossigeno nei polmoni, subisce il primo trauma che può decidere della sua vita. L’angoscia rimane scolpita nella struttura muscolare e si traduce nel ritmo della respirazione.

Al momento della nascita si deciderebbe, secondo i fautori dell’umanizzazione della nascita, se l’atteggiamento di fondo del nuovo individuo sarà di apertura o di chiusura, un sì o un no alla novità. Quando cominceremo a capire la paura della nascita, quando organizzeremo il parto in modo da proteggere il bambino da questa sofferenza gratuita ― sostiene Leboyer ― faremo fare un salto decisivo alla qualità della vita. La nascita è infatti, insieme alla morte, uno dei due grandi passaggi che scandiscono l’esistenza umana. Per portare equilibrio e armonia alla vita, è necessario agire sull’angoscia profonda che l’accompagna.

La descrizione della violenza della nascita fatta da Leboyer ha suscitato forti reazioni. Rifiutata da alcuni come gratuito esercizio poetico, esaltata da altri come profondo insight sull’angoscia del nascere, ridotta da altri ancora a «metodo» da seguire

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in sala parto, a profitto della nuova moda del «nascere dolce». L’apporto più fecondo dell’opera di Leboyer va cercato nel richiamo a considerare il bambino come persona e a instaurare, perciò, fin dal primo momento, un rapporto adeguato. Si può cogliere una certa affinità con l’antropologia di matrice cristiana, così sensibile ai valori della persona. Basti pensare al pensiero e all’opera di Maria Montessori, la celebre pedagogista di ispirazione cristiana, per la quale l’interesse al bambino va esteso fino dal momento della nascita. Anche nella sua concezione il bambino è un essere attivo, una persona autentica, stimolata nel suo intimo da forze che ne determinano lo sviluppo. Questo principio, portato in sala parto da Leboyer, diventa un’indicazione di comportamento: l’ostetrico deve interferire il meno possibile, perché il bambino sa quello che deve fare! Nascono da queste indicazioni le diverse metodiche di parto «dolce».

La prospettiva del bambino come persona porta a vedere il parto da un’angolatura complementare a quella biologico-medica. Per i medici l’imperativo dominante è la diminuzione del rischio. La loro prima preoccupazione va all’integrità fisica, in particolare al cervello, perché non subisca danni. In nome della sicurezza, non lesinano su nessuna tecnologia. Il parto può risultare meccanizzato; ma è un fatto ― affermano con legittimo orgoglio i medici ― che la mortalità infantile e gli handicap da incidenti di parto sono scesi in picchiata da quando in sala parto sono stati introdotti i nuovi presìdi ostetrici.

La preoccupazione di Leboyer, e di quanti si oppongono alla medicalizzazione a oltranza del parto, è rivolta invece agli aspetti umani e relazionali della nascita. Dopo l’integrità fisica, bisogna cominciare a occuparsi del benessere emotivo. Oltre alla vita del corpo c’è anche una vita simbolica, che si nutre di gesti, parole, sguardi, emozioni. La nascita è un istante, ma un istante privilegiato, dove sono presenti e si intersecano gli aspetti bio-psico-spirituali dell’uomo. Preoccuparsi perché avvenga in modo umano vuol dire prendere a cuore l’influenza che questo istante privilegiato avrà sul destino dell'individuo.

La nascita, evento di famiglia

La prima acquisizione antropologica ― il bambino come persona ― conduce spontaneamente alla seconda: la nascita come

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rete di relazioni interpersonali. L’elemento relazionale, cioè il rapporto genitori-bambino, è attualmente irrilevante nella prospettiva sanitaria; ciò preoccupa chi vuol promuovere una cultura più umana della nascita. Per comodità di funzionamento del servizio medico, infatti, si preferisce isolare il neonato da tutte le persone che vivono l’avvenimento della sua nascita, la madre e il padre in primo luogo. Intorno al bambino si è fatto il vuoto: un ambiente sterile, sia dal punto di vista batteriologico, che affettivo; nell’insieme, con un effetto molto deprimente sui protagonisti della nascita.

Gli psicanalisti sono oggi in prima linea nel rivendicare l’importanza delle relazioni significanti. Non basta occuparsi della vita del corpo: c’è anche una vita simbolica, che si alimenta con la relazione di parola. Esiste un metabolismo dello psichismo, che comincia già dalla vita fetale ed è consustanziale al corpo del bambino. È la carenza di queste relazioni significanti che crea la pazzia. «Ci si è totalmente lanciati, e giustamente ― ha affermato la psicanalista francese Françoise Dolto ― nell’igiene del corpo e la cura del corpo degli esseri umani, come fossero piccoli mammiferi, che si è dimenticato tutto il resto; ed è per questo che c’è una tale quantità di bambini psicotici, superbi dal punto di vista fisico, ma che hanno delle rotture di comunicazione».

Il passo ulteriore che deve fare la medicina, dopo aver garantito l’integrità fisica mediante un’accurata meccanica del parto, è di accogliere la dimensione affettiva e psicologica del bambino. L’insistenza perché questi non venga separato dalla madre, e addirittura che il padre stesso possa entrare in sala parto e partecipare a tutte le fasi della nascita, va in tale senso. Si possono reintrodurre le relazioni significative nelle strutture attuali, senza rinunciare alla sicurezza medica? È possibile che dei luoghi di convivialità, a dimensione umana, siano messi a disposizione delle donne che vengono a «dare la vita», in modo che i bambini che aprono gli occhi al mondo siano accolti amichevolmente? È lecito sognare una civiltà in cui la nascita sia un tempo di festa? Sono gli interrogativi che fondano il progetto di umanizzazione della nascita.

La spinta a cambiare l’organizzazione medica della nascita si è canalizzata, come abbiamo accennato, in una forte richiesta di ritorno a un parto più «naturale». Gli ambienti medici

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più restii al cambiamento reagiscono spesso ridicolizzando tale richiesta, attribuendola a fanatici dell’ecologismo a oltranza che proporrebbero di tornare a partorire nelle caverne e pretenderebbero di nullificare le acquisizioni della medicina moderna. La richiesta di un ritorno alla natura, in realtà, si articola a più livelli, alcuni dei quali perfettamente compatibili sia con le esigenze della medicina scientifica, sia con le istanze dell’umanizzazione della nascita. Contiene anzitutto il rifiuto di considerare la maternità e il parto come una malattia. Questi sono avvenimenti fisiologici normali, che non vanno medicalizzati più del necessario. Ed essendo naturali, si potrebbe dire anche in questo caso, «nature knows best!» («la natura conosce ciò che è meglio!»). Ciò ha portato, per esempio, a rivalutare alcune modalità del parto più tradizionali, come la posizione reclinata della partoriente. Il parto in posizione supina risale appena a un paio di secoli fa; esso è mantenuto per la comodità del medico, ma va a detrimento della partecipazione della donna.

«Partorirai nel dolore»: una maledizione inevitabile?

Il parto naturale, in secondo luogo, non significa rinuncia a ciò che l’ostetricia moderna ha ottenuto sul versante della sicurezza nel parto e del controllo sul dolore. Lo stress e il dolore non sono elementi costitutivi della nascita, ma ne compromettono piuttosto lo svolgimento. Gli equivoci che potevano esistere dal punto di vista della mentalità religiosa sono stati autorevolmente chiariti al tempo della prima diffusione dei metodi per il parto indolore. Pio XII in alcune allocuzioni degli anni ’50 dichiarò che il parto indolore non è in contraddizione con la fede cristiana. La condanna rivolta alla donna contenuta nel versetto biblico di Gen 3,16: «Partorirai nel dolore», non va inteso come un obbligo etico per il credente a non rimuovere o prevenire il dolore. Con l’annuncio delle conseguenze della caduta ― specificò il pontefice ― Dio «non voleva proibire e non ha proibito agli uomini di cercare e utilizzare tutte le ricchezze della creazione, di rendere la vita di questo mondo più sopportabile, di alleviare il lavoro e la fatica, il dolore, la malattia e la morte».

La psicoprofilassi del parto permette alla donna, dominando

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l’angoscia legata al dolore, di integrare le dimensioni affettive della maternità. È proprio un’efficace preparazione che rende possibile lo svolgimento di un parto più «naturale», perché esclude quell’interferenza catastrofica del dolore che impedisce la partecipazione soggettiva della partoriente all’evento. C’è semmai da rammaricarsi che la preparazione al parto non sia ancora così diffusa, o che sia troppo spesso nullificata dall’impatto brutale con certe routines di sala parto. Talvolta ancora vengono proposte interpretazioni riduttive del parto indolore, ridotto al parto anestetizzato in cui la donna non sente niente, perché è in qualche modo la tecnologia moderna che partorisce al posto della donna: in questo caso sarebbe piuttosto appropriato parlare di un’«espropriazione» del parto!

Un ulteriore elemento valorizzato dal modello della nascita «naturale» è il ritorno all’allattamento al seno. Il legame che, grazie ad esso, si stabilisce tra madre e bambino è troppo importante perché possa essere sacrificato con leggerezza. È un legame fatto «d’amore e di latte». Nessuno ha mai messo in dubbio l’importanza dell’amore; il latte, invece, ha subito una specie di eclisse nella pratica sanitaria neonatale. L’allattamento al seno è stato considerato dai pediatri e dalle infermiere ― e di conseguenza dai genitori ― come un comportamento retrogrado, destinato a cedere il passo all’allattamento artificiale. Se si considera, invece, anche la dimensione psicologico-relazionale del rapporto tra madre e bambino, l’allattamento al seno fa parte integrante di una nascita «naturale».

Una buona nascita: fortuna o responsabilità?

Un ultimo valore, infine, va indicato come un’acquisizione indispensabile per umanizzare la nascita. Si tratta della responsabilità individuale e sociale per la buona salute del bambino, con la prevenzione come corollario. La bio-etica, intesa come richiamo a un agire responsabile per migliorare la qualità della vita, trova nell’ambito perinatale un settore privilegiato di applicazione. Ciò si traduce, in concreto, in una politica di prevenzione della prematurità. La nascita prematura, per l’incompleta formazione di certi organi, comporta numerosi rischi per il bambino. Alcuni degli handicap legati alla prematurità (deficit

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motori più o meno marcati, carenze intellettuali ed emotive, dipendenti dalla forzata rottura del rapporto diretto tra la madre e il neonato) non possono più essere totalmente compensati in seguito. Oggi sappiamo che la prematurità è legata a fattori sia medici che sociali. Se per i primi il monitoraggio fetale può costituire la risposta adeguata, i secondi si possono prevenire solo cambiando lo stile di vita della madre.

La gestante deve diminuire la frequenza e l’intensità degli sforzi fisici, riposarsi il più possibile, evitare il fumo, l’alcool, gli stress emotivi. Alcune di queste misure attive di prevenzione per essere introdotte hanno bisogno di un adeguato sostegno sociale (come congedi di maternità più lunghi alle donne che lavorano e miglioramento delle condizioni di lavoro). La risposta in questi casi non viene dall’ipertecnicità, ma da una medicina che esce dall’ospedale e apre gli occhi su cose terra terra, che riguardano la vita quotidiana della partoriente.

Integrando i diversi elementi ― biologico, psichico e sociale ― della nascita, ci rendiamo conto che partorire un bambino sano non è una questione di fortuna, ma una responsabilità. Oltre a un’igiene prenatale, richiede un’attenta assistenza medica, umana, psicologica durante il parto e nei primi tempi della nascita. Umanizzare la nascita non si riduce perciò a cantare poeticamente la vita di un nuovo essere umano, ma implica delle responsabilità che penetrano anche nelle scelte politiche. La politica sanitaria perinatale di oggi diventa una politica sociale per la prossima generazione.

2. La responsabilità verso la vita non nata

L’aborto procurato: un problema sociale antico

La protezione della vita non nata è un problema costante, che si ripresenta invariabilmente nelle diverse società. L’esistenza di leggi volte a sanzionare l’aborto procurato dimostra che il problema è sentito come un interesse pubblico. La più antica è la legislazione babilonese, giuntaci nel famoso codice di Hammurabi, del II secolo a.C.; vi leggiamo: «Se qualcuno avrà percosso

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la figlia di un nobile e l’avrà fatta abortire, pagherà 10 sicli di argento per il feto perduto. Se questa donna morirà, venga uccisa la figlia del colpevole». Nei tempi arcaici l’aborto è stato condannato come delitto contro la proprietà, piuttosto che come delitto contro la persona. Una posizione analoga si riscontra nella legislazione ebraica, contenuta in Esodo 21,22-23.

Oltre alla legge, la deontologia professionale dei medici è stata tradizionalmente investita del ruolo di opposizione sistematica all’aborto procurato: il medico in quanto medico si impegnava a mettere la sua opera a servizio del prolungamento della vita, non della sua interruzione, fosse pure la vita di un embrione. L’educazione morale e religiosa, infine, ha cercato di formare la coscienza in modo da riconoscere il male intrinseco dell’aborto e da rifiutarlo in modo assoluto. La legge, la deontologia e la coscienza costituiscono perciò la triplice barriera alzata contro l’aborto procurato. Consideriamole nell’ordine.

Dal punto di vista legislativo, le misure giuridiche di regolazione dell’aborto in epoca moderna si possono inquadrare secondo tre orientamenti: la repressione, la liberalità e la restrizione ad alcune «indicazioni». Nessuna delle soluzioni approntate, tuttavia, si rivela soddisfacente. È ancora vivo nel ricordo il dibattito che si è acceso in Italia in occasione della modifica del precedente ordinamento legislativo, di carattere repressivo. Contro la repressione si è levata una protesta da più fronti: da parte delle donne, con la rivendicazione di un diritto a controllare la propria fecondità (secondo il brutale slogan femminista: «l’utero è mio e lo gestisco io»); da parte dei medici, per i danni alla salute che comporta l’aborto illegale e selvaggio; da parte di «umanisti» di vario genere, coinvolti con i problemi della giustizia. A questi, infatti, la repressione dell’aborto, oltre che inefficace, appariva ingiusta. Le donne di ambiente sociale privilegiato possono sfuggire facilmente alle sanzioni, recandosi ad abortire in un Paese a legislazione più liberale.

La repressione finisce necessariamente per sanzionare solo alcuni pochi casi, con una severità che fa pensare a una società che purifica simbolicamente in essi la propria ipocrisia. Altre argomentazioni a favore della liberalizzazione dell’aborto si presentano come una preoccupazione per il benessere di chi nasce, rivendicando per ogni bambino il diritto di essere desiderato e amato, un diritto ritenuto superiore al diritto che il feto ha

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di vivere. Al posto dell'immagine della madre «martire», per l’impossibilità di procurarsi l’aborto terapeutico, subentra quella del «bambino martire», come conseguenza dell’impossibilità di abortire.

La nuova normativa in Italia

Le argomentazioni a favore dell’aborto hanno spesso un carattere pretestuoso; in ogni caso, la loro validità è riconosciuta solo da gruppi ristretti di persone. Se tuttavia l’orientamento di liberalizzazione ha finito per prevalere anche in Italia, ciò è dovuto al fatto che l’attuale diffusione dell’aborto tende a farlo accettare come un comportamento socialmente «normale». In un’inchiesta svolta sulla popolazione di Ginevra da Kellerhals e Pasini ― ma facilmente estendibile a ogni espressione della cultura urbanizzata dell’Occidente industrializzato ― il ricorso all’aborto nel caso di una gravidanza indesiderata tende ad avere il carattere di «normalità statistica». Più che un fenomeno strettamente socio-economico, che colpisca le parti più sfavorite della società, il ricorso all’aborto è un fenomeno culturale, legato alla maniera di considerare il bambino in funzione dei propri bisogni e progetti.

Nessun Paese ha tuttavia introdotto una legislazione incentrata sul principio della liberalità assoluta, che lasci indiscriminatamente la decisione sulla vita del bambino alla madre o al medico. L’orientamento prevalente è quello delle «indicazioni» di natura medica o sociale, che consentirebbero il ricorso all’aborto procurato in alcune circostanze. Questa è, almeno formalmente, la scelta della legislazione italiana innovata con la legge n. 194 del 1978: «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza».

La disciplina è nettamente differenziata a seconda che l’interruzione sia praticata entro o dopo i novanta giorni dal concepimento. L’art. 4 della legge ammette l’interruzione della gravidanza entro i primi novanta giorni, quando la donna «accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari o a circostanze

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in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». La prassi prevista dalla legge comprende una certificazione del medico di fiducia o di una struttura socio-sanitaria, che registri la volontà della donna di interrompere la gravidanza. Passato il termine di sette giorni dalla certificazione ― idealmente previsto per un «ripensamento» o più matura valutazione ―, la donna può ottenere l’interruzione della gravidanza presso una delle sedi autorizzate.

Per la donna minore è richiesto l’assenso di colui che esercita su di lei la potestà o del giudice tutelare. Dopo i primi novanta giorni, la legge (art. 6) prevede che possa essere praticata l’interruzione volontaria della gravidanza quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, oppure quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Al di fuori di questi casi, che l’intenzione del legislatore vorrebbe ritenere eccezionali, l’aborto è considerato un crimine, con sanzioni penali che colpiscono la donna e tutti coloro che collaborano, con aggravanti per il personale sanitario. La scelta legale italiana non ha voluto essere, almeno teoricamente, né quella della liberalizzazione, né quella della penalizzazione. Si è voluto piuttosto regolamentare, alla luce del sole, in ambiente pubblico, quei casi in cui la donna avrebbe comunque interrotto la gravidanza, per combattere la piaga dell’aborto clandestino e limitare i danni alla salute. Sull’esito concreto di queste disposizioni legali ci si sta interrogando attualmente, con espressioni critiche sui risultati ottenuti, anche da parte degli stessi fautori della legge.

La tutela della vita ad opera della deontologia medica

Quando viene a cadere la barriera costituita dalla legge repressiva, acquista maggior valore la difesa contro la diffusione dell’aborto fornita dalle norme deontologiche della professione medica. La più antica risale allo stesso giuramento di Ippocrate, nel quale il medico si impegna a «non fornire a una donna un mezzo che causi l’aborto». Questa clausola fa spicco sullo

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sfondo culturale del mondo antico, nel quale, come sappiamo dalle fonti storiche, l’aborto veniva spesso procurato, con l’aiuto di medici o di praticoni. I medici che si ispiravano alla più rigida etica pitagorica si proponevano, invece, di rispettare la vita in tutte le sue forme, e quindi anche quella non nata.

Con l’andare del tempo, l’impiego del medico a non prestare la sua opera per l’interruzione della gravidanza divenne il segno caratteristico del medico che si ispirava all’ethos ippocratico, e in seguito del medico tout court. Suona perciò come una vistosa novità il fatto che i medici italiani nel loro nuovo codice deontologico del 1978, che aggiorna quello precedente che datava dal 1956, abbiano lasciato cadere il tradizionale rifiuto dei medici a partecipare ad interventi abortivi. «L’interruzione della gravidanza è regolamentata con legge dallo Stato», recita l’art. 46 del codice deontologico. Dal momento che la normativa introdotta con la legge 194 prevede, alle condizioni che sopra abbiamo visto, la possibilità di praticare l’interruzione volontaria della gravidanza, il corpo professionale medico rinuncia a porre obblighi deontologici ai suoi membri in quei casi. La legge prevede (art. 9) che il personale sanitario e gli esercenti le attività ausiliarie possano sollevare obiezione di coscienza, venendo così sollevati dall’obbligo di prendere parte alle procedure per l’interruzione della gravidanza. Ma anche il non sollevare obiezioni di coscienza, e partecipare quindi ad interventi abortivi, è compatibile con i princìpi e le norme del codice di deontologia medica. Secondo quest’ultimo, infrazione deontologica («gravissima»), in particolare se fatta a scopo di lucro, è solo la partecipazione ad aborti volontari all’infuori dei casi previsti dalla legge (art. 47). Quando ciò si verifichi, il medico può attendersi, oltre alle pene comminate dal giudice, anche le sanzioni disciplinari dell’Ordine dei medici, fino alla radiazione dall’albo professionale, con la conseguente impossibilità di esercitare legalmente la medicina.

A seconda delle proprie convinzioni in merito all’aborto, si può condividere o biasimare la trasformazione della norma del codice deontologico. È chiaro che solo in tal modo poteva essere resa operativa la legge. La deontologia ha come scopo quello di rendere possibile il buon funzionamento della professione medica, secondo le aspettative della società. La sua funzione è essenziale, ma limitata. La tutela della vita non nata si sposta

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così verso una frontiera più intima, quella della coscienza morale degli individui.

Il cristianesimo e la condanna dell’aborto procurato

La formazione della coscienza morale dell’Occidente a riconoscere nell’aborto un crimine contrario alla legge di Dio è stata assicurata soprattutto dal cristianesimo. Questi aveva già ereditato dal giudaismo una concezione della vita come dono di Dio e l’opposizione a ogni intervento antinatalista. Ma la sua posizione si formulò soprattutto nell’impatto col mondo grecoromano, nel quale l’aborto volontario era diffusissimo. Alla vita prenatale non era attribuita dignità umana; secondo il diritto, infatti, «partus nondum editus homo non recte fuisse dicitur» («il.bambino non ancora nato non è un uomo»). L’aborto veniva sanzionato solo in quanto poteva ledere il diritto del marito sulla moglie e sulla prole come proprietà.

Il cristianesimo, in frontale contrasto con tale concezione, condannò le pratiche abortive. Negli scritti neotestamentari l’aborto è compreso globalmente tra le opere della sarx («carne») che si contrappongono a quelle dello Spirito (i pharmakeía di Gal 5,18-21 e di Apoc 9,21 comprendono il ricorso a pratiche sia magiche che abortive). Ben presto questi comportamenti vengono isolati ed esplicitamente proibiti ai cristiani. Il primo testo cristiano extrabiblico, la Didaché, ammonisce: «Non farai perire il bambino con l’aborto, né l’ucciderai dopo che è nato» (II,2). È il testo delle Costituzioni Apostoliche―, «Non ucciderai tuo figlio con l’aborto, né ammazzerai il nato: invero ogni essere formato, ricevendo l’anima da Dio, se ucciso andrà vendicato, in quanto ingiustamente fatto perire» (7,3,2).

La motivazione razionale della condanna fu fornita dalle categorie antropologiche greche, ben presto adottate dal cristianesimo dell’antichità. Il dualismo corpo/anima servì a rafforzare l’interdetto di distruggere una creatura in cui Dio era intervenuto con l’infusione dell’anima. Questa concezione, in verità, offrì sostegno a una diversa valutazione morale delle pratiche abortive, a seconda dello stadio di vitalità del feto. Fino al secolo scorso si continuò a parlare, in ambito teologico, di una distinzione tra «feto animato» e «feto inanimato». Ma il

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magistero ecclesiastico combatté le posizioni più lassiste e fece prevalere la concezione che sposta l’origine di un essere umano con identità personale all’inizio stesso della fecondazione.

La condanna morale dell’aborto negli ultimi tempi è stata spesso ripetuta dall’autorità magisteriale, con termini che non ammettono eccezioni o possibilità di ripensamenti. Il decreto conciliare Gaudium et Spes chiama l’aborto «abominevole delitto» (n. 51); l’enciclica di Paolo VI Humanae vitae indica, tra le vie illecite per la regolazione della natalità, «l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato, e soprattutto l’aborto direttamente voluto e procurato, anche se per ragioni terapeutiche» (n. 14). Il principio su cui si basa la norma morale che condanna e rifiuta l’aborto procurato è la dignità della vita del soggetto umano indifeso, mentre è ancora nell’utero materno. La Dichiarazione sull’aborto procurato della sacra Congregazione per la dottrina della fede, del 1974, afferma a tale proposito: «Il primo diritto di una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni, e alcuni sono più preziosi, ma quello è fondamentale, condizione di tutti gli altri. Perciò esso deve essere protetto più di ogni altro» (n. 11).

Quando ha inizio la vita umana?

La morale cattolica, che si fonda sul diritto naturale, pretende che il rifiuto dell’aborto non riguardi solo il credente. La norma morale, in quanto fondata sulla ragione, può essere universalizzata a tutti gli uomini ragionevoli. Il documento appena citato afferma categoricamente: «Il rispetto della vita umana non si impone soltanto ai cristiani: è sufficiente la ragione ad esigerlo, basandosi sull’analisi di ciò che è e deve essere una persona» (ivi, n. 8). Ma quando ha inizio la vita umana da proteggere a ogni costo, in quanto dotata dei diritti inalienabili della persona? Su questo punto non c’è unanimità nell’antropologia contemporanea.

Attenendosi ai dati dell’embriologia, non si può individuare un momento che possa essere riconosciuto da tutti, incontrovertibilmente, come quello dell’«ominizzazione». L’embriologia ci presenta piuttosto la formazione di un essere umano come un processo continuo di sviluppo, nel quale sono riconoscibili

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dei momenti critici. Il primo salto di qualità è certamente l’origine del genotipo, al momento della fecondazione ad opera dei due gameti. L’essere che si forma ha un codice genetico proprio e una vita distinta dai due organismi paterno e materno, che gli hanno dato origine; se posto nell’ambiente adeguato, si svilupperà secondo il suo dinamismo innato.

Per quanto fondamentale nella trasmissione della vita umana, la fecondazione non risolve gli interrogativi sull’ominizzazione. Il nuovo complesso genetico che si forma è certamente diverso dai due organismi procreanti, ma non ha ancora la caratteristica essenziale della persona, cioè l’«individualità», intesa anzitutto come «non-divisibilità». La blastula, infatti, dividendosi, può dare origine, con lo stesso genotipo, a due individui. La formazione di gemelli può avvenire fino al 14° giorno dopo la fecondazione. Questo fatto suggerisce una certa cautela nell’affermare l’individualità personale anche delle blastule non interessate in un processo di gemellaggio.

Un altro momento critico nel processo dello sviluppo è quello dell’annidamento della blastula. Da questo momento il nuovo essere, ancorato alla madre ospitante, inizia la vita in simbiosi. L’annidamento rende concreto e visibile il rapporto, che costituisce essenzialmente la persona. Ora, l’osservazione biologica ci informa che una percentuale altissima delle uova fecondate vanno perdute prima dell’annidamento. Una simile prodigalità della natura inclina alcuni a pensare che, prima dell’annidamento, non si possa parlare in senso proprio di vita umana. Si sentono perciò autorizzati a procedere con la stessa disinvoltura nei confronti di uova fecondate in vitro e non impiantate. Ritorneremo su questa prassi quando tratteremo i problemi etici della sperimentazione.

Un’ultima soglia, infine, è costituita dalla formazione della corteccia cerebrale. La sua struttura di base si forma tra il 15° e il 40° giorno dello sviluppo embrionale. La corteccia cerebrale svolge un ruolo determinante perché si possa parlare di uomo, tanto a livello della specie quanto a quello dell’individuo. Solo per analogia, infatti, un bambino che nascesse anencefalico potrebbe essere considerato un essere umano. Per questo motivo, alcuni tendono a spostare il momento decisivo dell’ominizzazione al momento della formazione della struttura encefalica.

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Queste oscillazioni nel definire il momento a partire dal quale si possa parlare con certezza dell’esistenza di un uomo fanno sì che anche il fronte di coloro che pur condividono la convinzione che la vita umana va protetta fin dall’inizio, sia frastagliato. Il pluralismo antropologico si riflette naturalmente sugli orientamenti etici. Mentre alcuni, infatti, considerano aborto procurato qualsiasi intervento nel processo evolutivo dell’embrione, a partire dall’incontro dei gameti, per altri in queste fasi precocissime non si può parlare ancora dell’esistenza di un «uomo». La posizione più fondamentalista equipara all’aborto gli interventi rivolti a impedire l’impianto dell’uovo fecondato (spirale intrauterina), e anche la distruzione di uova fecondate in modo extracorporeo e non impiantate; allo stesso modo, condanna l’utilizzazione contraccettiva della «pillola del giorno dopo». Altri invece, pur contrari all’aborto, sono più permissivi finché non si sia configurata in maniera chiara la presenza nell’utero di un essere umano. Quando si abbandonano le distinzioni chiare, ma spesso arbitrarie, della legge, e si accetta che la vita prima della nascita sia tutelata dalla coscienza individuale, bisogna assumere anche le incertezze antropologiche e i conseguenti orientamenti diversi delle coscienze.

3. Diagnosi prenatale e medicina fetale

La conoscenza previa dello stato di salute del feto

La vita prenatale è acquisita all’esistenza umana non solo perché ne sono riconosciuti gli aspetti biologici e psichici e il diritto ad essere tutelata, ma anche perché è diventata provincia della medicina nella sua finalità terapeutica. Ottenere un figlio sano non è più un’incognita legata alla roulette genetica, o a misteriosi disegni provvidenziali. È frutto di scelte oculate che precedono il concepimento e dipende dal ricorso ai presìdi medici appropriati durante il periodo della gestazione.

La prima tappa è quella della consulenza genetica. Il genetista è in grado di consigliare le famiglie sui rischi genetici a cui è esposta la loro prole. Nel caso di malattie cromosomiche,

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il consiglio genetico può essere dato in maniera precisa. Quanto alle malattie ereditarie propriamente dette, il genetista può essere di utilità quando si tratti di matrimonio tra cugini germani (il rischio genetico in questo caso giustifica le più ampie riserve), oppure di un rischio di ricorrenza dopo la nascita di un primo figlio affetto da una malformazione ereditaria. Un genetista esperto sarà in grado, in questo caso, di chiarire se si tratta di una malattia ereditaria, o piuttosto di una tara congenita non ereditaria dovuta a un’embriopatia. Il genetista, infine, può essere consultato per sapere quale rischio incombe su un soggetto, apparentemente sano, ma imparentato con persone portatrici di tare, di avere egli stesso un figlio affetto da mal― formazione. Può essere, infatti, portatore sano di una tara recessiva.

Un capitolo nuovo si è aperto con la possibilità di ottenere una diagnosi prenatale, e quindi di individuare le caratteristiche del feto: genotipo, sesso, eventuali malformazioni. L’informazione offerta dalla diagnosi prenatale ― ecografia, fetoscopia, amniocentesi ― ha un effetto dirompente nelle decisioni etiche della coppia dei genitori e del medico. È un bene o un male, dal punto di vista etico, l’aumento delle conoscenze oggi disponibili sullo stato del feto? Parliamo delle indagini che sono giustificate dal punto di vista medico, non di quelle fatte per motivi futili (è invalsa oggi una moda dell’ecografia prenatale, della cui innocuità sul feto non siamo assolutamente certi).

Se consideriamo le conseguenze, notiamo subito che tale conoscenza si apre su esiti diversi. Può portare a un aumento di aborti procurati, quando il feto è difettoso; ma una diagnosi prenatale negativa può anche tranquillizzare coppie esposte a rischio genetico, indurle a scartare l’ipotesi di un’interruzione della gravidanza e far loro vivere il periodo dell’attesa senza angoscia, con evidente beneficio per i genitori e per il bambino. La diagnosi prenatale può servire anche, di conseguenza, a salvare molti embrioni che altrimenti sarebbero sacrificati da coppie che non sopporterebbero l’ipotesi di avere un figlio malformato. La possibilità di scoprire i difetti realmente presenti ridurrà il numero di aborti di feti normali sospettati a torto di essere difettosi (come avviene quando la gestante ha contratto la rosolia nel periodo a rischio della gravidanza). La diagnosi precoce, inoltre, può essere anche finalizzata alla terapia precoce. Conoscendo

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il problema clinico del bambino, si può intervenire tempestivamente e con cognizione di causa alla nascita, con farmaci o chirurgicamente. I progressi della chirurgia sono così strepitosi che si ha notizia di bambini operati nell’utero materno!

Il feto malfamato: dilemmi angoscianti

Ma realisticamente bisogna riconoscere che la tendenza predominante è piuttosto quella di depistare le malformazioni per procedere all’interruzione della gravidanza. E questo non solo quando siamo in presenza di malformazioni gravi, addirittura di mostruosità, ma anche quando l’anormalità prevista sarà lieve. Lo scomodo sapere sulle condizioni di salute del feto getta chi deve prendere delle decisioni in braccio a dilemmi torturanti. La possibilità di conoscere in anticipo le anomalie si accompagna, infatti, a un mutato atteggiamento sociale nei confronti dell’aborto in questi casi.

Più precisamente bisognerebbe parlare di una tacita pressione sociale esercitata sui genitori perché procedano all’interruzione della gravidanza. La simpatia e solidarietà che hanno circondato finora i genitori che dovevano sopportare la «prova» di un figlio handicappato si trasformano in indifferenza o in disapprovazione, dal momento che, pur sapendolo, hanno ugualmente «voluto» quel figlio. Da genitori martiri della «fatalità» o chiamati alla vocazione della «croce», rischiano di trasformarsi in incoscienti che mettono al mondo dei candidati all’infelicità e gravano la società di pesi insostenibili. La valutazione sociale tende in questo modo ad attribuire loro il «dovere» di ricorrere all’aborto.

Lina pressione analoga esiste anche sul medico. Un fatto emblematico: un tribunale della Repubblica federale tedesca ha condannato un ginecologo a pagare le spese di mantenimento di un bambino mongoloide. Pur essendo la madre in età fertile avanzata, il medico aveva sconsigliato l’amniocentesi. Se questa fosse stata eseguita, il tribunale avrebbe ovviamente concesso l’autorizzazione all’aborto terapeutico.

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L’aborto terapeutico

La divaricazione delle scelte morali si fa in questo campo drammatica. La posizione della Chiesa cattolica è tutta sul fronte della difesa del diritto alla vita del nascituro, qualunque siano le sue condizioni psicofisiche, e della condanna all’aborto come male intrinseco. Anche nel caso del cosiddetto «aborto terapeutico», previsto per salvare la vita della madre, la dottrina morale cattolica si dichiara contraria. L’enciclica Casti connubii di Pio XI (1930) a questo proposito si richiama esplicitamente al principio etico che non si può fare del male perché ne segua un bene. Quindi l’interruzione della gravidanza di un feto non vitale non può essere considerata una «terapia» lecita per la madre, anche quando sia l’unico intervento che possa impedirne la morte. Va menzionata, tuttavia, la prudente posizione del moralista P. Häring: «Non dovremmo opporci alla legislazione dello Stato pluralistico, che in questi casi lascia liberi i medici e le madri di decidere secondo la loro coscienza... Per quanto le nostre convinzioni possano essere ben fondate, non dovremmo essere intolleranti al punto di provocare una reazione generale contro le posizioni cattoliche».

Dal punto di vista legislativo, la legge italiana prevede che l’interruzione volontaria della gravidanza possa essere praticata, anche dopo i primi novanta giorni: «a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Il dettato della legge riesce con fatica a coprire che ciò che viene presentato come tutela della salute della madre è, in realtà, il riconoscimento del «diritto» ad avere un figlio sano. Nel conflitto irresolvibile tra questo diritto e il diritto del concepito alla vita, l’aborto, con la sua sequela di infelicità e di contraddizioni, è sempre più spesso la scelta che prevale.

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4. PER APPROFONDIRE

F. Leboyer, Per una nascita senza violenza, Bompiani, Milano 1981.

È un libro che, con colpi di maglio, ha aggredito le pratiche ostetriche invalse nella medicina moderna. La nascita è vista «dalla parte del bambino». Punto di riferimento obbligato di tutto il dibattito sull’umanizzazione della nascita.

Id., Natività, Emme, Milano 1982.

Per recuperare l’eccedenza di significato che viene sacrificata quando la venuta al mondo del bambino viene trasposta nell’ottica medica, L. si rivolge alla «natività» come è vista dagli artisti. La nascita si rivela come mistero, la cui natura profonda è religiosa.

G.R.E.N.N., Nascere... E poi?, Emme, Milano 1985.

Studio interdisciplinare — partecipano ostetrici, pediatri, psicologi, sociologi, etologi — sull’accoglienza del bambino e le nuove metodiche del parto. Testimonia, senza tentativi affrettati di conciliazione, i contrasti ideologici e operativi che attraversano il mondo della sanità circa il trattamento più adeguato del neonato.

G.R.E.N.N., Non di solo latte..., Emme, Milano 1981.

Il volume raccoglie studi e discussioni circa l’allattamento e il legame tra il bambino e la madre che si realizza grazie ad esso.

H. Herbinet, M.C. Busnel (a cura), L'alba dei sensi, Emme, Milano 1984.

L’interesse antropologico di questo libro, dedicato allo studio della sensorialità del neonato, sta nel superamento dell’immagine che lo rappresenta come passivo e inerte. La ricerca scientifica è in grado di informarci anche sulla sensorialità prenatale e sul risveglio dei diversi organi di senso del feto. Emerge così, proprio nell’ambito della scienza, una concezione del bambino come «soggetto».

R. G. ForleoFiglio figlia, Feltrinelli, Milano 1984.

Vuol essere una guida a una gravidanza e a un parto felici. Tiene presenti sia i progressi dell’ostetricia, sia i bisogni relazionali ed emotivi del gruppo familiare che vive la nascita.

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R. G. Forleo, Nato per amore, Edizioni Paoline 1985.

Il sottotitolo — «Attesa, nascita, primi giorni di nostro figlio» ― precisa tutto il ventaglio dei problemi considerati. Vuol offrire ai futuri genitori le informazioni necessarie per accogliere il figlio. Le cognizioni tecniche sono fornite in un quadro che, esplicitamente e implicitamente, fa riferimento alla visione antropologica cristiana della nascita e della famiglia.

J. Kellerhals, W. PasiniPerché l’aborto?, Mondadori, Milano 1977.

Nella vasta letteratura sull’interruzione volontaria della gravidanza predominano le pubblicazioni a carattere giuridico, morale e religioso. Questo volume va segnalato come una delle poche ricerche che, partendo da un’indagine sul profilo socio-psicologico delle donne che abortiscono, vuol mettere in luce i moventi della richiesta, talvolta ripetuta, di aborto.

Aa. Vv., Obiezione di coscienza e aborto, Vita e Pensiero, Milano 1978.

Raccolta di diversi contributi che esaminano gli aspetti medici, giuridici ed etici dell’aborto procurato. Particolare attenzione è rivolta all’obiezione di coscienza, che regola il rapporto del sanitario cristiano con le leggi dello Stato che prevedono l’interruzione volontaria della gravidanza.

A. MilunskyConosci i tuoi geni, Piccin, Padova 1982.

Un libro di informazione di base sulla genetica (cromosomi e geni, difetti congeniti, diagnosi prenatale, ereditarietà e malattie), aperto anche alle questioni etiche che sorgono sia quando il feto è diagnosticato anormale, sia quando il neonato presenta gravi malformazioni.

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IV

PROBLEMI ETICI IN PEDIATRIA

1. Curare o non curare i neonati malformati?

Nell’aprile 1982 un caso scosse l’opinione pubblica americana. Una bambina (identificata al pubblico come Baby Doe) era nata con sindrome di Down ― mongolismo ― e con una fistola tra la trachea e l’esofago. I genitori furono informati che il difetto poteva essere corretto chirurgicamente con «normale possibilità di successo; se invece non si fosse intervenuti sulla fistola, questa avrebbe condotto ben presto la bambina alla morte per inanizione o per polmonite. I genitori, che avevano già due bambini sani, decisero di non fornire alla bambina né cibo, né il trattamento chirurgico, «lasciando che la natura facesse il suo corso». La bambina morì sei giorni dopo la nascita, mentre i medici cercavano di ottenere un’autorizzazione a procedere chirurgicamente dal tribunale. I genitori furono incriminati. Un mese più tardi il Dipartimento per la Salute e i Servizi Umani americano inviò una circolare a tutti gli ospedali che ricevono fondi federali per ricordare che «è illegale... non somministrare a un bambino handicappato le sostanze nutritive e il trattamento medico e chirurgico necessario per correggere delle condizioni che minacciano la vita, se: 1) l’astensione è basata sul fatto che il bambino è handicappato; 2) l’handicap non rende il trattamento e la nutrizione controindicate dal punto di vista medico». Il documento concludeva riaffermando il forte impegno del popolo americano e delle sue leggi nel proteggere la vita umana.

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E se salvare la vita fosse un danno?

Il caso di «Baby Doe» ci confronta con uno dei problemi più angoscianti che si presentano oggi nell’etica bio-medica: il trattamento dei bambini che nascono con gravi malformazioni. Il problema confina con le questioni di fondo relative all’aborto e all’eutanasia; ciò che permette di circoscriverlo è il fatto che il nodo dei conflitti si concentra attorno al bambino già nato, la cui vita dipende esclusivamente dall’intervento medico. La protezione e il sostegno della vita sono sempre e assolutamente giustificati? C’è un punto in cui possono rivolgersi contro il migliore interesse di colui a cui sono rivolti, diventando disumani? Il diritto alla vita è anche obbligo alla vita, in qualsiasi condizione? Tra i princìpi etici e gli interessi in conflitto, è possibile trovare un orientamento di soluzione?

È necessario in primo luogo cogliere la novità di questa problematica. Fino a un passato molto recente, la situazione dei bambini che nascevano con gravi malformazioni si risolveva molto rapidamente con la morte. In futuro, siamo autorizzati a credere, i progressi della medicina potranno offrire trattamenti efficaci e risolutivi, addirittura prima che il bambino nasca, con terapie intrauterine. Ma nella fase intermedia, in cui ci troviamo, la presente situazione sanitaria pone dilemmi angosciosi ai genitori, ai medici, alla società civile.

Molti neonati malformati possono, grazie a un’attenzione chirurgica o medica di routine, rimanere in vita. Sopravviveranno magari per lunghi periodi, ma gravemente handicappati nel loro potenziale di soddisfazione umana e di comunicazione. Pensiamo ai casi di malformazioni aperte della colonna vertebrale («spina bifida»), in seguito alle quali i bambini non saranno mai in grado di camminare o di controllare la vescica e l’intestino. Oppure ai neonati che, per lesioni cerebrali da mancata ossigenazione o da emorragia, saranno completamente spastici, incapaci persino di muoversi nel letto. Oppure agli affetti da grave idrocefalìa, con conseguenza di ritardi mentali profondi e cecità. In certi casi è possibile essere assolutamente certi dell’esito infausto; in altri, invece, la prognosi è incerta. Inoltre, coloro che soffrono di menomazioni usufruiranno dei benefici della medicina che prolungheranno loro la vita. È appurato, ad esempio, che tra i bambini mongoloidi affetti da un difetto cardiaco,

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i quali resistono già con gli antibiotici ad affezioni un tempo mortali, uno su tre vedrà il proprio cuore corretto da un bisturi chirurgico.

La morale pubblica ufficiale ― quella rappresentata dalle leggi, dai codici deontologici medici, dalle posizioni morali religiose ― afferma il principio della difesa della vita e inorridisce di fronte all’ipotesi spartana di lasciare morire i non adatti. Ma se si passa da ciò che si predica a ciò che si pratica, la divaricazione è notevole. È vero che sono pochi i casi in cui positivamente si decide di sopprimere un neonato o di lasciarlo morire con un procedimento di eutanasia passiva; tuttavia sempre più raramente l’assunzione del compito di far crescere un handicappato fisico o psichico profondo è considerata un valore. Socialmente prevale un atteggiamento contrassegnato dall’ipocrisia, per cui a una affermazione formale di tutela della vita, in tutte le sue forme, non fa assolutamente riscontro un efficace sostegno alle famiglie che si trovano schiacciate dai problemi dell’assistenza, abbandonate in una società in cui dominano incontrastati i modelli competitivi che non lasciano posto a chi si trova sotto la standard, sprovviste di adeguati sussidi medicopedagogici.

Perché queste gravi decisioni non siano lasciate solo al vortice dell’emotività, l’etica può fornire un utile contributo di riflessione. Un primo passo sarà quello di chiarire i princìpi etici e gli interessi che entrano in conflitto. La prassi medica, abitualmente guidata dal principio della «beneficialità», che si traduce nell’impegno a conservare la vita e a vincere le malattie, si trova confrontata con la possibilità che la sua opera non sia un «beneficio» per l’interessato. Come ai tempi di Ippocrate, anche attualmente la prima regola della condotta medica è di non procurare del male: primum non nocere; ma oggi il «fare un danno» può essere più sottile che in passato; può addirittura passare attraverso il suo apparente contrario, cioè le tecnologie che salvano la vita.

Interessi in conflitto

La scelta etica non può prescindere, a questo punto, da una riflessione antropologica: qual è il meglio, e per chi? Qual è l’interesse

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del bambino, della sua famiglia, della società? Il migliore interesse del bambino sembra includere, a priori, la conservazione della vita. Ma questa certezza comincia a incrinarsi se si considera anche la sua futura qualità della vita, che comprende il benessere fisico, la capacità intellettuale e l’adattamento sociale. Se si vuole prendere in considerazione questa prospettiva, non si può più procedere aprioristicamente; bisogna piuttosto considerare in modo differenziato le diverse categorie di deficit che si presentano alla nascita.

Due sono le principali variabili: la qualità della vita mentale associata all’handicap fisico e la speranza di vita. Completamente diverso appare, per esempio, il profilo di un caso con difetto fisico in condizioni statiche (come cecità, deformità ecc.) associato a intelligenza normale, e quello di condizioni fisiche progressive, non trattabili, associate a ritardo mentale. In questo caso il vigore della lotta contro l’inevitabile morte precoce non può essere paragonabile a quello richiesto da un’affezione fisica non progressiva. E ciò senza mettere in discussione il principio del valore di ogni vita umana.

Parlando degli interessi in conflitto, bisogna tener presenti le diverse parti in causa. Quando si prende una decisione «nell’interesse del paziente» ― in questo caso di un paziente che non è in grado di parlare per sé e di esprimere le sue preferenze ― si fa sempre un’opera di interpretazione. In pratica, equivale a domandarsi: se fosse in grado di esprimersi, il bambino che si trova in quelle condizioni chiederebbe l’impiego di sistemi artificiali di prolungamento della vita? Dicendo che la qualità della vita del bambino sarà tollerabile o intollerabile, noi proiettiamo di fatto la nostra esperienza. Questo processo ci può portare anche molto lontano dalla reale esperienza dell’interessato.

Rimane comunque l’angosciosa situazione di dover prendere delle decisioni che riguardano un’altra persona, quella del bambino, con il rischio che questi troverà la qualità della sua vita assolutamente inaccettabile. Si immagini la situazione che si crea nei casi di poliomielite acuta, quando si salvano mediante il polmone di acciaio bambini i cui muscoli respiratori sono paralizzati, e che quindi per la loro esistenza dipenderanno perpetuamente da una macchina. Oppure l’incontinenza fecale persistente presso una adolescente che fu salvata alla nascita, ma il cui sfintere anale fu perduto nell’operazione di salvataggio... «E se un

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giorno ci maledicesse per averlo fatto vivere?», si domanderanno angosciosamente alcuni genitori.

L’interesse della famiglia è più difficile da esprimere. Ci può essere una vera resistenza ad ammettere che l’impegno ad assistere un bambino gravemente handicappato può essere sentito come un gravissimo peso rispetto agli altri figli, alla vita coniugale, alla situazione economica della famiglia. Dimostrerebbe, comunque, ben poca empatia chi ritenesse che, dal punto di vista dei genitori, non possono esistere seri motivi per negare il trattamento; oppure chi volesse colpevolizzare le famiglie per aver, magari con lo spirito straziato, preso una tale decisione. Un vero dilemma sorge per il medico quando la famiglia, valutando che i propri interessi abbiano maggior peso degli interessi del neonato, abbia optato per il non trattamento.

Anche gli interessi della società non vanno minimizzati. È chiaro che la decisione dei medici e dei genitori sarà fortemente condizionata dalle risorse pubbliche disponibili per l’assistenza e l’educazione dei bambini handicappati. Se la società vede il proprio interesse esclusivamente nel favorire le forme di vita più adattate, secondo un giudizio di valore che privilegia l’efficienza e la produttività, l’interesse affettivo dei genitori a far vivere il proprio bambino, anche se handicappato, si scontrerà con le scelte sociali. Solo gli interessati possono valutare se hanno possibilità di reggere il confronto, o se rischiano di soccombere in un conflitto impari. Con spirito realistico va ricordato che le risorse per l’assistenza a lungo termine sono scarse in tutto il mondo. Di fronte all’alternativa se impiegare somme ingenti nell’assistenza, o impegnarsi nella prevenzione della nascita di bambini malformati, la scelta di qualsiasi politica cadrà sulla seconda ipotesi.

A chi spetta la decisione

Chi deve prendere la decisione se curare o lasciar morire un neonato gravemente malformato? Dal momento che il bambino non può decidere per se stesso, la decisione sulla sua vita spetta ad altri. Il medico ha più informazioni: sa, ad esempio, la qualità di vita che spetta a un bambino affetto da «spina bifida», o il decorso di una malattia a prognosi infausta. Nell’insieme i medici sono piuttosto inclini, per l’ethos professionale

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e per i possibili risvolti penali del non-trattamento, ad attenersi a una linea di intervento ad ogni costo. Dal momento che negare il trattamento è illegale (anche dare consigli o fare raccomandazioni ai genitori può esporre il medico a un processo con imputazione di concorso in omicidio), il medico, nel seguire l’eventuale desiderio dei genitori, non può rinunciare ad applicare misure eccezionali per salvare la vita del figlio anormale.

I genitori sono raramente in grado di decidere serenamente. Lo shock, insieme a sentimenti di colpa, vergogna e collera, li paralizza; tendono ad affidarsi al medico, pur sapendo che le conseguenze maggiori del trattamento o della sua omissione ricadranno su di loro. Nei paesi anglosassoni si fa talvolta ricorso in questi casi ai comitati etici. Senza pretendere che questi costituiscano un’istanza etica superiore, alla quale medici e genitori possano, deresponsabilizzandosi, demandare le decisioni, non si può negare che tale organo possa apportare un punto di vista più imparziale e offrire un servizio a coloro cui spetta il peso della decisione.

Un altro espediente è quello di nominare un difensore che rappresenti gli interessi del bambino nelle discussioni tra genitori e medico. Anche questo sistema può essere utile, purché non comprometta il rapporto tra medico e genitori, che deve basarsi sulla riservatezza e la fiducia. Il ricorso a terzi, tuttavia, dovrebbe avere sempre il carattere di consulenza. In ultima istanza, la decisione deve provenire dalla diade medico-genitori, chiamata a decidere, caso per caso, che cosa si deve fare e che cosa è opportuno omettere.

Qualora la decisione di non sottoporre a trattamento un neonato malformato sembri la più appropriata, subentrano i problemi etici connessi con l’eutanasia. Anche se si valuta il non-trattamento come equivalente a un atto di eutanasia passiva e non attiva, sarò molto difficile giustificare gli sforzi fatti per mantenere in vita un neonato che si è deciso di lasciar morire; porre fine direttamente alla vita, evitando sofferenze inutili, sembrerà facilmente la soluzione più umana all’interno di una scelta che, secondo altri parametri legali ed etici, va considerata disumana: probabilmente, «la scelta migliore fra scelte peggiori». Sapendo, tuttavia, che in questo caso agire come si ritiene corretto secondo coscienza vuol dire andare contro la legge, ed essere esposti ai suoi rigori.

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2. Il bambino in ospedale

Il primo nodo, il più radicale, dei problemi bio-etici dell’infanzia riguarda il diritto alla vita. Lo abbiamo appena analizzato, confrontandoci con il dilemma se trattare o non trattare i neonati con gravi malformazioni. Il secondo nodo ha piuttosto a che fare con la qualità della vita. Si riferisce al dovere di tutti coloro che assistono un bambino malato, di creare le condizioni ottimali perché la sua malattia si risolva in una esperienza umana positiva. La malattia è infatti per il bambino una vicenda esistenziale diversa da quella che può vivere l’adulto. Il bambino vive nel momento presente, è immune da sentimenti di vulnerabilità e precarietà, e fino ai cinque-sei anni non esiste neppure in lui la rappresentazione della morte nel suo aspetto definitivo. Nel bambino, inoltre, è più trasparente il fatto che la malattia dipende, oltre che da fattori somatici, da condizioni psicologiche e da stati emotivi: la malattia può esser un pretesto, un rifugio, una via per risolvere conflitti, un modo indiretto per ottenere attenzione. Ma soprattutto l’ospedalizzazione è per il bambino un’esperienza qualitativamente diversa che per l’adulto. Per il piccolo malato trovarsi in ospedale, soprattutto se per un periodo prolungato, può costituire un evento traumatico. Se i danni provocati dall’ospedalizzazione non sono avvertiti e non si pone ad essi rimedio, le conseguenze possono pesare a lungo nella vita futura.

Come creare una medicina «a misura di bambino»? Negli ultimi anni è cominciata a emergere la consapevolezza di particolari responsabilità nei confronti del bambino malato, che ha portato anche frutti concreti nell’ambito della pediatria. Il primo imperativo è quello di limitare al massimo l’ospedalizzazione. Vanno esclusi i ricoveri non motivati da serie ragioni medico-sanitarie, e la durata della degenza deve essere ridotta allo stretto indispensabile. Famiglia e società vanno parallelamente sensibilizzati al fatto che il «parcheggio» in ospedale (termine abitualmente usato per gli anziani, ma che in non pochi casi è appropriato anche per i bambini) è nocivo per la psiche e l’emotività del bambino; non favorisce la guarigione intesa come processo globale. L’introduzione del day-hospital può ridurre la maggior parte delle ospedalizzazioni inutili.

Quando l’ospedalizzazione sia inevitabile, il sistema più efficace

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per controbilanciare i danni è quello di favorire la presenza della madre accanto al bambino, o almeno affrancare le visite da ogni restrizione. Si tratta di contrastare la tendenza della medicina dei Paesi industrializzati, che ha posto severe limitazioni al contatto tra il bambino ricoverato e la madre. Alcune ordinanze regionali hanno negli ultimi anni sancito il diritto delle famiglie ad essere presenti nelle varie fasi della vita ospedaliera e di partecipare ai programmi terapeutici, dopo essere state informate delle linee diagnostiche emerse. La principale funzione della madre in una situazione ospedaliera è quella di aiutare il bambino a contenere la propria ansia entro limiti tollerabili, attraverso la presenza fisica e le spiegazioni che possono essergli date.

L’intervento legislativo è stato reso necessario dalla resistenza di alcuni pediatri alla presenza delle famiglie in ospedale. Il senso dell’opposizione va ricercato nel fatto che il ricovero del bambino costituisce un momento di incontro-scontro tra due sistemi: la famiglia e il reparto pediatrico. Nei due sistemi vigono spesso regole differenti. Tra la famiglia e lo staff sanitario si possono stabilire delle interrelazioni negative, che pesano emotivamente sul bambino più della stessa separazione dalla madre (specialmente quando questa nutre sfiducia e insoddisfazione verso i sanitari, e rivalità nei confronti delle infermiere). La liberalizzazione della presenza della madre accanto al bambino ospedalizzato non è in sé una panacea. Ha valore soltanto se è concepita come un primo passo per rendere la struttura ospedaliera stessa più «materna».

Questa dimensione sarà raggiunta quando sarà riconosciuto, ad esempio, il «diritto al gioco» del bambino in ospedale (con un forte impegno in questo senso si è mobilitato il Tribunale per i diritti del malato). L’attività ludica è indispensabile per lo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino. Nella situazione ansiogena dell’ospedale, in particolare, il gioco gli permette di ricreare le stesse situazioni che subisce, rivivendole in modo catartico. Un discorso analogo va fatto per la scuola. Anche il bambino ospedalizzato non dovrebbe essere privato della possibilità di proseguire la sua educazione scolastica. Solo un ambiente favorevole può neutralizzare gli effetti devastanti che l’ospedale ha sul piccolo degente, e permettergli di integrare il momento della malattia nella sua crescita.

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3. PER APPROFONDIRE

J. RobertsonBambini in ospedale, Feltrinelli, Milano 1973.

Opera di uno psichiatra sociale inglese, che ha saputo documentare le conseguenze psichiche negative che ha per il bambino l’ospedalizzazione. Propone una serie di ristrutturazioni e modifiche per «umanizzare» la pratica pediatrica e proteggere lo sviluppo sociale ed emotivo dei piccoli pazienti ricoverati.

C. PericchiIl bambino malato, Cittadella, Assisi 1985.

Grazie all’apporto della psicologia clinica, illustra come nel bambino la malattia dia origine a un vissuto emotivo peculiare. Offre spunti concreti a tutti coloro che si devono occupare di bambini malati, perché l’episodio di malattia non traumatizzi il bambino, ma sia piuttosto utilizzato per la crescita personale.

G. HourdinIl dolore innocente, Cittadella, Assisi 1978.

Il libro, come indica il sottotitolo — «Un handicappato nella mia famiglia» —, affronta direttamente il problema dell’accettazione ed educazione di un figlio handicappato (in questo caso una bambina affetta da sindrome di Down, o mongolismo). «L’amore non basta», sostiene Hourdin; per far fronte a queste situazioni ci vuole anche intelligenza e fede.

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V

LA DECISIONE DI PROCREARE

1. LA PROCREAZIONE ASSISTITA

In quanti e quali modi si può fare un bambino...

Come nascono i bambini? L’antica domanda, così carica di mistero e di proibizioni, ha ammaliato a lungo la nostra mente infantile, finché ha ricevuto, prima o poi, una risposta. Questo nostro sapere, che abbiamo magari strappato con notevole fatica al mondo degli adulti, è destinato a impallidire: «quel» modo di nascere è diventato quasi banale di fronte alle possibilità che la tecnologia bio-medica ha reso disponibili alla volontà di procreare. Un vero arsenale di tecnologie procreative viene in soccorso oggi a coloro che, volendo mettere al mondo un bambino, trovano sul loro cammino ostacoli di qualsiasi genere: medici, psicologici o sociali. È stato calcolato che, combinando insieme tutte le possibilità, esistono attualmente ben trentasei modi di nascere, che trascendono i limiti posti dalla biologia o dalla genetica, dal tempo, dallo spazio, dalla distanza tra una generazione e l’altra. Il profano può sentirsi smarrito. A soccorrerlo, ecco un inventario essenziale: è lo «stato dell’arte» ― provvisorio, ben inteso ― della tecnologia applicata alla riproduzione, con la spiegazione dei termini tecnici più spesso ricorrenti.

L’inseminazione artificiale. È una tecnica usata in certe sterilità coniugali, che consiste nella deposizione dello sperma in modo asettico direttamente nella cavità uterina. Se non si ricorre al liquido spermatico del marito (per infertilità assoluta e irreversibile, oppure per tare genetiche trasmissibili) e si pratica l’inseminazione con lo sperma di un donatore anonimo, si parla di inseminazione eterologa, ovvero di Aid (Artificial Insemination

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with Donnor, in inglese). Quella tra i coniugi è chiamata invece inseminazione omologa.

Si sono create «banche dello sperma» per conservare, previo congelamento, il liquido seminale. Tale conservazione può durare a tempo indeterminato. Questo fatto rende possibile l’inseminazione post mortem, dopo che il marito o il donatore anonimo abbiano cessato di vivere.

Fecondazione in vitro. Se esistono ostacoli al processo naturale della fecondazione (il più frequente è l’occlusione delle tube nella donna che impedisce l’incontro dell’ovulo con gli spermatozoi, la migrazione dell’ovocita fecondato e il suo annidamento nell’utero), si ricorre alla fecondazione extracorporea. Si prelevano alcune cellule-uovo nella donna e le si fanno incontrare con gli spermatozoi in una provetta, in modo che abbia luogo la fecondazione. Anche questa fecondazione può essere omologa o eterologa, a seconda che si usi il seme del marito o di un donatore. Uno o due ovuli fecondati, quando l’embrione è ancora a uno stadio molto precoce di divisione cellulare, vengono impiantati nell’utero della donna, debitamente preparato con trattamento ormonale ad accogliere l’embrione. Questa fase riceve il nome di «embryo-transfer». Tutto il processo è noto con la sigla Fiv-Et (fecondazione in vitro-embryo transfer). Una variante, solo di recente introdotta, è la Gift («Gamete intrafallopian transfer»), in cui la fecondazione non avviene in provetta, ma nella tuba stessa, previa deposizione dei gameti. In questo modo non si ha alcuna «manipolazione» e il processo, salvo l’«aiuto alla natura» fornito dal medico, si svolge secondo il procedimento naturale.

Anche gli embrioni congelati possono essere conservati per lungo tempo. In pratica, quando si procede alla fecondazione in vitro non si feconda mai un ovulo alla volta, ma un certo numero (dato che la percentuale di successo dell’impianto è piuttosto limitata, bisogna ripetere l’embryo-transfer più di una volta; a questo fine è più «economico» poter disporre di ovociti già fecondati, piuttosto che ripetere ogni volta tutto il processo). Questa prassi fa sorgere un insieme di problemi giuridici ed etici: questi embrioni nei primissimi stadi dello sviluppo sono già esseri umani? A chi appartengono? Possono essere «donati», per venire impiantati nell’utero di una donna che non può concepire

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lei stessa, ma è in grado, per contro, di condurre a termine una gestazione? Possono questi embrioni essere usati per la ricerca scientifica e poi distrutti?

Madri sostitute. Si distinguono due forme fondamentali in cui una donna può collaborare alla maternità di un’altra donna. La prima è quella delle madri «donatrici»: offrono una propria cellula-uovo a favore di una donna che non è in grado di produrne, per assenza di ovaie, ma che potrà portare a termine la gravidanza. L’ovulo prelevato viene fecondato in vitro (con seme del marito della ricevente o di un donatore: fecondazione, quindi, ancora una volta, omologa o eterologa) e poi impiantato nell’utero della «madre» che lo genererà.

Le sostitute «portatrici», invece, accettano di sottoporsi a un’inseminazione artificiale a beneficio di una donna sterile, con il seme del marito di quest’ultima. La portatrice s'impegna a consegnare il bambino alla coppia dei committenti. È la pratica designata correntemente con l’espressione svalutativa di «uteri in affitto». Si tratta, in sostanza, di una maternità per procura.

Un nuovo ordine giuridico e sociale della procreazione

Da questa sommaria panoramica è legittimo concludere che quello che sta avvenendo nell’ambito della procreazione non ha antecedenti nella storia dell’umanità. La tecnologia applicata alla medicina sconvolge il nostro modo di pensare la maternità-paternità, nonché il legame di figliolanza. Intorno alla procreazione le società hanno posto delle regole morali e delle norme giuridiche, le quali costituiscono come una griglia che protegge la delicata funzione di trasmettere la vita dagli abusi e dall’arbitrio. Le cose non sono sempre andate nel migliore dei modi ― adulteri, procreazioni illegittime, disconoscimento dei figli sono storie vecchie quanto la memoria dell’umanità ma nell’insieme ci si poteva dichiarare soddisfatti. Quell'ordine è invece entrato in situazione di rapido cambiamento.

Le barriere che ai nostri giorni vengono infrante non sono più soltanto quelle del diritto e della morale, bensì quelle che sembravano più inamovibili, perché poste dalla biologia stessa. Per fare un figlio era pur sempre necessario un rapporto sessuale

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tra un uomo e una donna, per quanto clandestino e irregolare potesse essere. Oggi non è più così: il legame tra sessualità, corpo e riproduzione si è sciolto. Le «vicende dell’amore e del caso», tradizionale bersaglio delle farse sul matrimonio, impallidiscono di fronte a ciò che i nuovi metodi di procreazione hanno reso possibile.

Non si tratta solo di farse o di rebus per i giuristi (di chi è figlio il bambino concepito in provetta con l’ovocita di una donna, impiantato nell’utero di un’altra donna portatrice e partorito da questa, per essere consegnato alla committente?). Talvolta purtroppo le commedie sfociano in drammi. Succede, infatti, che il bambino, concepito per inseminazione artificiale ricorrendo al seme di un donatore anonimo, col consenso del marito, venga successivamente disconosciuto come proprio figlio da quest’ultimo: il bambino si troverà così a non avere alcun padre. Ancor peggio, il neonato può venirsi a trovare nella situazione di non avere né un genitore maschile, né uno femminile. È successo in alcuni casi in cui il bambino, «commissionato» a una donna locatrice del proprio utero, è nato malformato ed è stato rifiutato tanto dai committenti, quanto da colei che lo aveva generato. In casi più benevoli il neonato può essere conteso sia dalla committente, sia dalla madre per procura, convertitasi alla maternità durante la gravidanza. Quanto basta, insomma, per convincere della necessità di intervenire con misure legislative in un campo così nuovo, soprattutto a tutela dei diritti dei bambini procreati con i metodi artificiali.

Trovare leggi giuste e sagge, adeguate alla situazione inedita venutasi a creare, è certamente un’urgenza del momento. Ancor più importante appare però l’inizio di una valutazione etica serena delle tecnologie applicate alla riproduzione. Proprio qui incontriamo invece le maggiori difficoltà. Quello che tende a prevalere è un giudizio emotivo agitato da più o meno espliciti fantasmi. Il fantasma dello Splendido mondo nuovo del romanziere Aldous Huxley, tanto per citare il più noto. Già nel 1932 Huxley aveva ipotizzato un mondo costruito su premesse scientifiche. In questo mondo nuovo da incubo i bambini sarebbero stati prodotti artificialmente in bottiglia e condizionati biologicamente ai diversi ruoli cui sarebbero stati adibiti nella società. Il risultato del progresso scientifico nell’utopia negativa di Huxley è un rigido totalitarismo e la completa disumanizzazione.

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È questo il mondo in cui la diffusione delle pratiche di tecnologia, applicata alla riproduzione, ci sta introducendo?

Un figlio ad ogni costo

Giustificate o no che siano le preoccupazioni degli umanisti che si interrogano sul futuro, l’angolatura degli allarmisti che denunciano le manipolazioni del processo riproduttivo rischia di travisare irrimediabilmente le pratiche di procreazione artificiale. La loro demonizzazione, in nome del fantasma del totalitarismo tecnologico, risulta irritante per coloro che sono coinvolti in queste pratiche. Le quali vogliono essere, nella loro stragrande maggioranza, essenzialmente una risposta all’infertilità. Viste da questa prospettiva, le procedure in questione acquistano un diverso rilievo.

Bisogna tentare anzitutto di immaginare la portata di una sofferenza legata all’assenza di un bambino, quando è ardentemente desiderato. Ci sono uomini e donne disposti a tutto, pur di rimediare a questa tragica incapacità di generare. E questa non è solo una caratteristica dei nostri contemporanei: basti pensare alle mogli dei patriarchi biblici. Sara, sterile, ordina ad Abramo di darle un figlio unendosi alla propria schiava Agar: «Vedi, il Signore mi ha impedito di dare alla luce dei figli; va’, ti prego, dalla mia serva, forse potrò avere prole da lei» (Gen 16,1). Dopo due generazioni, la stessa strategia è ripetuta da Rachele. Il dramma intimo della sterilità è per lei ancora più drammatico: «Dammi dei figli ― dice a Giacobbe ― altrimenti ne morirò». E anche lei propone al marito: «Ecco la mia serva Bilha: vieni da lei, essa partorirà sulle mie ginocchia e io pure avrò figli per mezzo di lei» (Gen 30,1-3).

La sofferenza spirituale per l’impossibilità di avere un figlio è dunque la stessa, oggi come ieri. Con in più, per gli uomini e le donne del nostro tempo, il rifiuto di accettare che il proprio desiderio possa essere frustrato, e l’abolizione della parola «rassegnazione» dal vocabolario. Per chi vuole un figlio ad ogni costo, non c’è prezzo che lo trattenga. C’è chi paga un prezzo in lunghi ed estenuanti esami medici, peregrinazioni presso gli specialisti del mondo intero, operazioni chirurgiche ripetute. E c’è chi è disposto a pagare un prezzo in denaro.

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L’aspetto economico di certe maternità per procura è in sé un elemento secondario, che però suscita grande sensazione e rischia di monopolizzare tutto il discorso. L’opinione pubblica è rimasta molto scossa alla notizia che ci sono uomini che offrono il loro liquido seminale per l’inseminazione artificiale dietro compenso; e ancor più che delle donne si lasciano fecondare per conto di una donna sterile e si fanno pagare per portare il bambino fino alla nascita. L’immagine della maternità ridotta a una merce provoca uno shock: là concezione sacrale della madre, che fa parte del nostro retaggio culturale, viene brutalmente modificata. In un mondo dove tutto si compra e si vende, si vorrebbe che almeno la generazione dei figli rimanesse immune dal denaro. L’atteggiamento di rifiuto della transazione economica, in particolare per rimunerare la madre sostituta, ha indubbiamente una parte di verità istintiva. Tuttavia non è il denaro il cuore del problema; anzi, gli aspetti economici rischiano di diventare fuorvianti rispetto alla vera posta in gioco.

Nella maternità per procura una donna si autorizza ad avere una gravidanza, una gestazione e un parto, senza accettare di essere madre dopo il parto. Finora la maternità era un tutto composto di diversi elementi concatenati: produrre una cellula-uovo, essere fecondata, portare il feto per i nove mesi della gestazione e partorirlo, allevare infine il bambino. Ora è possibile scindere la sequenza che tradizionalmente costituiva il «fare un figlio». Donne diverse possono intervenire in ciascuna delle diverse fasi sequenziali; l’aspetto biologico della maternità può essere isolato da quello volitivo-affettivo-spirituale. È questo il centro nevralgico del problema, che modifica il modo tradizionale di concepire la maternità.

Le maternità sostitutive dietro pagamento non fanno che rendere più esplicito un fenomeno che è già ampiamente presente nella nostra società: la disponibilità di alcune persone a passare sopra alla paternità-maternità biologiche, a favore di quella adottiva, educativa, affettiva. È un atteggiamento al quale viene attribuito un carattere di nobiltà, quando si esprime attraverso l’adozione, oppure di turpitudine, quando ricorre all’acquisto illegale di un bambino da rendere proprio figlio. La compravendita dei neonati è un fenomeno sommerso, ma tutt’altro che raro. Diminuite o rese più difficili giuridicamente le possibilità di adozione, la volontà di avere un figlio ad ogni

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costo non recede neppure di fronte a pratiche condannate dalla legge e dalla sensibilità morale comune. La società, chiamata a decidere se dare o no diritto legale di cittadinanza alle nuove tecnologie riproduttive, si trova confrontata in primo luogo non tanto con l’avidità e il cinismo dei mercanti, quanto con il desiderio esasperato di maternità-paternità, disposto a ignorare i legami che una volta si dicevano della carne e del sangue, e che oggi si chiamano genetici, a favore dei legami del cuore.

Che la generazione spirituale sia possibile lo dimostrano gli innumerevoli casi di adozione felicemente riuscita. E non saranno certo i cristiani a dimenticarlo, che hanno in Gesù e nella «Sacra Famiglia» la più clamorosa trasgressione alla concezione biologica della generazione! Le nuove pratiche ci inducono a riflettere più profondamente sull’adozione che è implicita in ogni processo generativo. Prima di tutto perché un padre e una madre che mettono in comune la metà del patrimonio cromosomico per avere un figlio, non ottengono mai un bambino come copia autentica di se stessi, ma ciò che viene generato è il risultato di una «roulette» genetica. Questo bambino, in parte simile e in parte diverso ― a cominciare dal sesso, che è anch’esso frutto di questo gioco delle probabilità ― , dovranno poi in qualche modo «adottarlo», perché diventi loro figlio. Ma affinché il processo della generazione riesca e sia completo, l’«adozione» è necessaria anche dall’altra parte. Il figlio, che non ha potuto nascendo scegliere i propri genitori, dovrà «adottarli»; e perché questo avvenga, i genitori dovranno dimostrarsene degni.

Questa dimensione affettiva e spirituale fa parte integrante della trasmissione della vita umana: proprio perché umana, trascende la semplice trasmissione del patrimonio genetico. La separazione dell’aspetto biologico da quello relazionale, resa possibile dalle nuove tecnologie, ci aiuta a ricordarlo. Ma in quanto umanità siamo così evoluti da poter impunemente sganciare la generazione spirituale da quella biologica? Siamo talmente «figli del Regno» da poter considerare nostri padri-madri-fratelli-sorelle coloro che fanno la volontà di Dio (cfr. Mc 3,31-35), piuttosto che quelli con i quali condividiamo una manciata di cromosomi? La litigiosità meschina tra genitori che, stando alle cronache, si sviluppa intorno a tanti bambini nati con l’aiuto della tecnologia, ci avverte che questo traguardo spirituale l’umanità non l’ha ancora conseguito.

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Un documento dei vescovi francesi (Vita e morte su richiesta, novembre 1984) ci aiuta a tracciare le tappe della crescita antropologica e spirituale necessaria per sottrarsi alle insidie delle nuove tecnologie bio-mediche applicate alla riproduzione. Un primo ostacolo è individuato dal documento nella «logica del sentimento». Una donna che voglia a ogni costo un bambino, ha oggi i mezzi tecnici per realizzare la sua attesa: perché dovrebbe rinunciarci? «Si accetta sempre meno ― affermano i vescovi francesi ― un principio regolatore del desiderio: non gli si riconosce altra regola che esso stesso. Per liberarci di questa logica del sentimento, ci è necessario, con fatica, prendere della distanza per riconoscere ciò che è realmente buono e costruttivo per l’uomo e la comunità umana, al di là del desiderio apparente e, se necessario, anche contro di esso».

Un altro ostacolo a una valutazione etica equilibrata dei problemi sollevati dalla paternità e maternità sganciate dal processo biologico naturale è costituito, sempre secondo il documento, dalla «logica tecnica». «La scienza e la tecnica, secondo la loro logica, tendono a spingersi all’estremo. Se possiamo realizzare un tale esperimento, in nome di che cosa impedirci di farlo? Non è questo un riflesso di paura? L’uomo domina a poco a poco la natura: perché non la propria natura? In realtà c’è un equivoco nel concetto di dominio. E ci vuole una lucidità e un coraggio singolari per superare la tentazione tecnocratica. Per fortuna molti specialisti ne sono diventati consapevoli: vogliono essere dei tecnici e non dei tecnocrati. La riflessione comune dei biologi, psicologi, medici, filosofi e di tutti gli uomini di buona volontà deve permettere di distinguere meglio tra l’uso e l’abuso. Ma ci vuole una grande circospezione. Spesso, infatti, la qualifica morale (cioè la vera portata umana) d’un comportamento non appare subito chiaramente. Solo esaminando le ripercussioni sugli altri e le conseguenze a lungo termine se ne scopre la fondatezza o, al contrario, gli effetti perversi. È necessaria anche una grande libertà di spirito, perché non ci si libera facilmente della duplice logica del sentimento e della tecnica».

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Orientamenti dell’etica

Tutti questi aspetti sociali e antropologici della procreazione assistita convergono, prima o poi, sulla questione etica formale: è bene o è male, dal punto di vista morale, ricorrere alle risorse che la tecnologia mette a servizio della medicina, per ottenere esiti di riproduzione così lontani dalle modalità naturali? Qualunque sia l’orientamento ideologico della persona a cui si rivolga la domanda, non si faticherà molto a ottenere una risposta, sotto forma di una accettazione o di una condanna. L’interpellazione delle nuove pratiche è forte, e difficilmente si rinuncia a inquadrare un fenomeno così vistoso nel proprio universo di valori. Non v’è certo penuria di giudizi etici a proposito della tecnologia a servizio della riproduzione. Quando questi problemi, attraverso la cassa di risonanza dei mass media, sono arrivati all’opinione pubblica ― magari per il tramite del giornalista in funzione di moralista ― si è assistito a un moltiplicarsi di giudizi etici, provenienti da diverse istanze: «sì», «no», «sì... ma»... Tuttavia è opportuno ricordare che un giudizio etico non è la stessa cosa di un ragionamento etico; e che la conquista di una visione etica matura e saldamente stabilita è particolarmente difficile in questo campo. Succede frequentemente che, dietro l’apparenza di un giudizio etico, si debba riscontrare in realtà nient’altro che una presa di posizione emotiva, sorretta dalla propria Weltanschauung. I diversi modelli antropologici veicolano implicitamente dei giudizi etici. Non sarà superflua qualche esemplificazione.

Ai due poli estremi possiamo trovare, da una parte, una «fede» nella scienza, considerata come l’unica risposta efficace a tutte le miserie umane; una fede che sconfina volentieri nell’entusiasmo acritico. Ogni nuova realizzazione viene salutata come un «miracolo della medicina», che fa indietreggiare ulteriormente la barriera dell’impossibile. Una tale fede implicita è rintracciabile anche sotto la patina di freddezza con cui amano presentarsi gli scienziati. All’altro estremo troviamo la diffidenza astiosa verso l’intrusione degli uomini di scienza nell’ambito della «natura». Per rafforzare Pintoccabilità della natura e dei suoi processi, la si riveste talvolta del carattere di sacralità, correlandola con la «volontà di Dio creatore». Tanto le posizioni più violente di rifiuto, quanto quelle di accettazione incondizionata

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di ogni nuova tecnologia, lasciano trasparire in filigrana una «mistica» implicita: quella della natura e della biologia come limite che non si può valicare senza peccare di «hybris», da una parte, la mistica del Grande Progresso Illimitato, di cui parla Erich Fromm, dall’altra.

Un diverso atteggiamento di fondo si rispecchia anche nella funzione che viene attribuita alle regole morali applicate alle tecnologie riproduttive. Da esse ci si può aspettare che fungano da diga contro l’irrompere dell’arbitrio e l’agire irresponsabile; oppure che diano esse stesse impulsi positivi alla ricerca e alla sperimentazione, promovendo l’opera di umanizzazione implicita nella scienza stessa. La «facies» dell’etica cambia sostanzialmente, quando si attribuisce alle regole morali una finalità di contenimento, oppure di promozione dell’opera dello scienziato. Nel primo caso tenderà a prevalere un’impostazione casistica, che vorrà entrare nei dettagli per porre freno con precisi dettati comportamentali ai veri o presunti straripamenti della scienza; nel secondo, l’accento cadrà di preferenza sui valori da promuovere, lasciando all’uomo di scienza l’autonomia e la responsabilità per le sue scelte comportamentali.

Dei giudizi etici impliciti si nascondono, oltre che nelle concezioni antropologiche ― la qualità umana dell’uomo, il suo rapporto con la natura, la funzione delle norme etiche per l’individuo e per la comunità ―, anche nei termini con cui le nuove pratiche vengono designate. La semantica è un veicolo privilegiato di giudizi etici che si sottraggono al confronto con argomentazioni razionali. Tra tutti i termini con cui gli interventi bio-medici nella riproduzione vengono designati, «manipolazione» è quello più carico di connotazioni etiche negative. Se si chiamano manipolazioni questi interventi bio-medici nel campo della riproduzione, li si colora a priori di un sospetto di illiceità morale.

Al contrario, la designazione di «terapie dell’infertilità» copre tali metodiche col mantello di Esculapio, facendo ricadere su di esse l’aura di accettabilità morale riservata a tutto ciò che è finalizzato alla guarigione. La formalità terapeutica permette di considerare in una luce diversa taluni aspetti pratici dei procedimenti bio-medici. Così, ad esempio, le riserve dei moralisti cattolici sulla modalità di raccolta dello sperma tendono a estinguersi quando l’atto masturbatorio è considerato all’interno di

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un progetto terapeutico globale. Le pratiche finalizzate alla procreazione artificiale sottolineano con vigore i medici e i biologi che vi sono coinvolti, non sono arbitrarie manipolazioni della natura, bensì interventi terapeutici sotto forma di «aiuto alla natura».

Spesso i protagonisti rispondono con irritazione a coloro che condannano moralmente tali pratiche, agitando fantasmi di totalitarismo tecnologico. Per quanto stravaganti possano apparire al senso comune, gli interventi bio-medici vogliono essere essenzialmente una risposta all’infertilità. Quando i medici rivendicano a queste procedure la qualifica di «terapia dell’infertilità», implicitamente richiedono una valutazione etica positiva del loro operato, quella stessa valutazione che accompagna ogni azione finalizzata alla salute e al benessere. In tal senso orienta anche la designazione di «procreazione assistita».

Ma il beneficio della «terapia» può essere esteso a tutto l’arsenale oggi disponibile di tecnologie riproduttive? In alcuni casi si tratta chiaramente della realizzazione di un desiderio, quando non addirittura di un capriccio (donne che vogliono un figlio senza avere un rapporto sessuale con un uomo; oppure si illudono di generare un genio facendosi inseminare con i gameti di un premio Nobel...; per non parlare di chi fa ricorso a «uteri in affitto» per futili motivi, e non per ovviare all’impossibilità biologica della gestazione).

Anche il fatto di considerare la sterilità una «malattia», e il rimedio all’infertilità un’opera terapeutica, solleva alcuni problemi dal punto di vista antropologico. Se la medicina si proponesse di rispondere a tutti i desideri e le convenienze della popolazione, le conseguenze sarebbero di enorme portata, tanto sul piano della politica sanitaria, quanto su quello della deontologia medica. Una medicina sociale dovrebbe rendere accessibili a tutti le costose pratiche della procreazione artificiale. Nella concezione liberale della sanità, invece, il medico, trasformato in prestatore di servizi, si troverebbe inevitabilmente preso nell’ingranaggio commerciale che regola la domanda e l’offerta, perdendo la facoltà di discernere tra le richieste, come richiede una corretta deontologia professionale.

Una terza categoria generale, usata per riferirsi a questa vasta gamma di interventi bio-medici, è quella di «tecnologie riproduttive». Anche questa designazione veicola implicitamente un

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giudizio etico, e precisamente quello soggiacente alla nozione stessa di tecnologia. Nell’ambito culturale dell’Occidente, profondamente compenetrato dell’umanesimo greco della téchne e della spiritualità biblica del «dominate e soggiogate la terra», le azioni riconducibili alla tecnologia godono, a priori, di una considerazione positiva. In seno al cristianesimo ecclesiale, da questo punto di vista, non sono mai stati coltivati atteggiamenti sospettosi verso la scienza medica, come invece troviamo in alcuni gruppi settari, quali i Testimoni di Geova. La nozione filosofico-teologica di «natura» quale criterio etico («è buono ciò che è conforme alla natura e alla naturalità dell’atto») non ha escluso l’intervento correttivo sulla natura stessa. Oggi, tuttavia, la valenza etica positiva di ciò che è espressione di tecnologia si è incrinata. O piuttosto: siamo diventati più consapevoli dell’ambivalenza della tecnologia, che può anche rivolgersi contro l’uomo. L'homo faber, maggiorato in homo technologicus, sente più fortemente che la tentazione di «giocare a fare Dio» è carica di minacce per l’umanità. Preferiscono parlare di tecnologie riproduttive coloro che vogliono evitare designazioni condizionate da connotazioni rigide, a vantaggio di quel processo di discernimento critico che è costitutivo dell’etica.

L’esame dettagliato della terminologia ci aiuta a diventare consapevoli della pregnanza semantica dei termini che si usano, nonché delle valutazioni morali implicite che essi contengono. Ai medici e agli scienziati questo lavoro filosofico può forse venire a noia; ma tutto lascia credere che un buona filosofia sia il sale che impedisce alla tecnica di corrompersi.

Un ripiego di comodo è quello di invocare per il medico un ruolo solo tecnico, che lo tenga lontano dai dilemmi morali. Il medico si esenta dal coinvolgimento nei problemi umani ed etici, col risultato che questi vengono gestiti da istanze separate dalla medicina, quali sono appunto la filosofia, o il diritto, o la teologia. La prassi . iene allora a scontrarsi con l’etica nel suo aspetto più duro, cioè come normatività che cade quasi dall’alto. Se invece la prassi medica accetta di riflettere su se stessa, producendo man mano le norme che si rendono necessarie per salvaguardare i valori che il sanitario vuol promuovere, l’etica medica crescerà dal basso, invece di cadere dall’alto.

Il cattolico che cercasse un orientamento etico nella dottrina della Chiesa ha delle indicazioni di principio e autorevoli prese

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di posizione delle chiese locali (conferenze episcopali australiana, inglese, canadese, francese), ma ancora nessun documento del magistero pontificio rivolto esplicitamente a lumeggiare i problemi morali posti dalle tecniche bio-mediche di procreazione. Nell’orientamento prevalente il giudizio morale è differenziato, a seconda dei diversi modi di procreazione artificiale. Nei metodi che non prevedono l’intervento di un terzo al di fuori della coppia ― sia inseminazione artificiale omologa che Fiv―Et ― non sembrano sussistere difficoltà morali insormontabili per l’etica cristiana. Ovviamente sono privilegiate le modalità che rispettano di più lo svolgimento naturale del processo procreativo. Il Gift, perciò, quando sia realizzabile, sarà preferito alla Fiv-Et.

Nella prospettiva cristiana la riproduzione è riservata ai soli coniugi. Per questa ragione il ricorso a un «donatore», tanto di sperma quanto di ovociti, non è considerato accettabile. A più forte ragione è esclusa la maternità di sostituzione, nella quale il rischio di strumentalizzare il bambino al desiderio dei committenti è incombente. Il figlio, apparentemente considerato valore sommo, è di fatto svalorizzato, perché messo a servizio dei genitori. L’etica cristiana si trova su questo punto in perfetta consonanza con quella che si ispira al principio razionalista kantiano: là dove l’essere umano è considerato come un mezzo, non come un fine, si infrange il rispetto dovuto alla dignità della persona umana.

Scelte politico-legislative e deontologiche

Se la crescita morale domanda tempo, affinché tutti gli aspetti umani del problema possano emergere ed essere valutati obiettivamente, si possono presentare situazioni in cui non si può rimandare l’azione. L’opinione pubblica di diversi Paesi è sufficientemente allarmata dal diffondersi delle pratiche di riproduzione artificiale, perché le autorità possano rinunciare a intervenire con i mezzi che sono loro propri. In Francia, ad esempio, ha preso posizione il «Comitato etico nazionale per le scienze biologiche e della salute». In un parere, reso pubblico nel novembre 1984, il Comitato ritiene che, applicando la legge attualmente in vigore, le pratiche delle madri per procura (o donatrici)

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sono illecite: sia perché i compensi proposti possono essere assimilati al commercio dei bambini, sia perché in questi casi c’è sempre l’incitazione all’abbandono del bambino; ambedue i reati sono puniti dalla legge francese. Il motivo per cui il Comitato ritiene illecito questo modo di rispondere all’infecondità è che esso «contiene in potenza l’insicurezza per il bambino, per i genitori che desiderano una nascita, per la donna che mette al mondo un bambino e per le persone che intervengono in queste operazioni».

La più drastica in materia è stata la liberale Svezia. Ha varato una legge che obbliga a schedare e identificare il donatore di sperma per l’inseminazione eterologa, in modo che possa essere rintracciato quando il bambino nato col suo contributo avrà raggiunto il diciottesimo anno di età. È ovvio che questa misura è destinata a stroncare definitivamente la pratica: chi vorrebbe, infatti, trovarsi improvvisamente padre di un numero imprecisato di figli?

In Italia una circolare del ministro della Sanità («Limiti e condizioni di legittimità dei servizi per l’inseminazione artificiale nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale»; marzo 1985) ha ristretto la pratica dell’inseminazione artificiale negli ospedali e strutture pubbliche ai soli coniugi e conviventi; viene perciò esclusa l’inseminazione con donatore esterno alla coppia. Una commissione è nel frattempo al lavoro per preparare una legge che tuteli la dignità della persona umana e la salute psico-fisica del nascituro nei confronti di situazioni di paternità-maternità ignota o incerta.

La funzione principale della legge è di sottrarre il bambino al gioco sinistro di appropriazione che può scoppiare tra i genitori e impedire che, per eccesso opposto, nessuno voglia il bambino, e quindi questi resti sprovvisto di una tutela genitoriale. Il compito della riflessione etica che accompagna le nuove pratiche della riproduzione artificiale è invece più ampio: deve ricordare che non è tanto il contenuto materiale dell’atto ciò che conta, quanto piuttosto i valori che lo sottendono. Deve anche favorire l’azione responsabile, che è quella in cui, prima di agire, si valuta quali beni e quali mali quell’atto procurerà a tutte le persone che vi sono interessate. Tra la legge e la norma etica si apre il campo della deontologia professionale.

In alcuni Paesi, in assenza di una normativa specifica, si è

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diffusa la tendenza a banalizzare la portata delle nuove tecnologie applicate alla riproduzione, come se non competesse loro nessuno spessore etico. Inseminazione artificiale, Fiv-Et, maternità sostitutive, vengono dai medici semplicemente praticate su richiesta, dietro compenso economico; l’organizzazione di banche dello sperma necessarie all’inseminazione eterologa viene condotta come un business. Non tutti i professionisti della sanità hanno però rinunciato a elaborare delle regole di comportamento a cui attenersi, non per ossequio alla legge, e neppure in obbedienza a un determinato orientamento morale, bensì a protezione della finalità intrinseca della pratica medica, che è propriamente quella terapeutica.

A titolo esemplare, citiamo la rete dei centri Cecos (Centre d’étude et de conservation du sperme humain), in Francia, attivi già da più di quindici anni. A tali centri si rivolgono donne potenzialmente feconde per avere le dosi di sperma necessario per l’inseminazione artificiale eterologa. A differenza delle banche di sperma che accettano indiscriminatamente qualsiasi indicazione ― specialmente le organizzazioni a dichiarato fine di lucro ―, i centri Cecos pongono delle condizioni, che vengono a costituire una specie di filtro della richiesta. Praticamente, i Cecos limitano l’assistenza tecnologica a una sola condizione: la sterilità maschile; quest’ultima, per di più, deve essere riconosciuta come irreversibile allo stato attuale delle possibilità terapeutiche. I Cecos rifiutano anche l’indicazione del rischio genetico paterno, che pur è presa in considerazione da équipes molto esigenti dal punto di vista etico. A più forte ragione rimangono escluse indicazioni sulle quali cade il sospetto di stravaganza o di morbosità.

La scelta di un donatore per una coppia tiene conto dei caratteri morfologici e dei gruppi sanguigni. Il principio non è tanto quello di cercare un’omologia con il marito, quanto di evitare l’introduzione di un carattere ereditario che non esiste in nessuno dei coniugi. In ciò ci si distanzia rigorosamente da coloro che ricorrono alle tecnologie riproduttive con finalità eugenetiche, o addirittura estetiche! Ma ciò che costituisce il nucleo centrale e caratterizzante dei centri Cecos sono i due princìpi seguenti: il dono dello sperma non può essere che gratuito; il dono avviene da coppia a coppia. La non retribuzione costituisce un’innovazione rispetto alla prassi attuale delle banche di sperma.

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La commercializzazione, che già suscita forti riserve quando si tratta del sangue o di organi del corpo, è del tutto inappropriata nel caso dello sperma. La gratuità è destinata a sottolineare il valore singolare di questo prodotto umano. Non si tratta di rinverdire concezioni mitologiche; basta la biologia a dirci che in esso, più essenzialmente che in qualsiasi organo, è inscritta la storia dell’individuo. Offrire lo sperma è un gesto che supera la portata di qualsiasi dono d’organo; significa ― letteralmente ― «dare la vita».

Se escludiamo il guadagno, quale può essere il motivo che spinge un uomo a una prestazione così anomala? Non ci si espone a dipendere da individui psichicamente contorti o malsani? Invece di abbassare lo standard della motivazione dei donatori, la deontologia dei Cecos lo innalza ulteriormente mediante il secondo principio. Esige che il dono dello sperma sia fatto da un uomo sposato, con il consenso della moglie; e che questa coppia abbia già dei figli. Diverse ragioni militano a favore di questa condizione, destinata a ridurre ulteriormente il numero dei donatori. Lo sperma non viene considerato come proprietà esclusiva dell’uomo, bensì come il bene comune della coppia. Domandare l’accordo della coppia per il dono vuol dire ottenere la garanzia per una riflessione comune e uno scambio all’interno della coppia, prima di una riflessione che non deve essere presa alla leggera; vuol dire avere la garanzia che il punto di vista considerato non sarà solo quello maschile. La condizione, poi, che la coppia donatrice debba avere già dei figli propri vuol garantire, pragmaticamente, la fecondità dello sperma e, idealmente, conferire all’atto della donazione una motivazione etica che lo depuri da ogni ambiguità. Idealmente, infatti, il dono dello sperma diventa il dono di una coppia che ha la felicità di avere dei figli a una coppia privata di questa felicità. Il dono deriverebbe dalla generosità di una coppia appagata, cosciente della parte che hanno i figli nella loro felicità. Questa situazione può avere inoltre un riflesso psicologico importante per la coppia ricevente. La transazione da coppia a coppia, a un livello così elevato di motivazioni, attenua sostanzialmente il sottofondo di adulterio che si profila all’orizzonte dell’Aid, come pure della Fiv-Et eterologa.

Riferendo i criteri di selezione della domanda ai quali si attengono i Cecos, non intendiamo proporre un modello universalmente

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valido di soluzione dei problemi etici che pone l’intervento della tecnologia medica nei processi riproduttivi. Se c’è un’esemplarità, questa consiste nel fatto di proporre un avvicinamento all’etica passando per la deontologia. La deontologia professionale viene a porsi come il presupposto per gli interrogativi specificamente etici. La coscienza professionale dell’operatore sanitario non si sostituisce alla coscienza morale di chi fa ricorso alla sua prestazione. Costui resta l’unico responsabile della qualità morale delle proprie azioni. Le norme deontologiche stabiliscono uno standard operativo che si riflette a favore tanto del medico che del cliente. Il medico, ponendo delle condizioni imprescindibili, salvaguarda la propria credibilità e fidatezza professionale. Il cliente, a sua volta, è sospinto dalle esigenze deontologiche del medico a una verifica critica delle proprie motivazioni, a una considerazione dei rischi, a una ricerca di alternative: in una parola, a una crescita della qualità etica del suo gesto.

Un positivo riscontro della funzione educativa sulla popolazione svolta dalle norme deontologiche seguite dai Cecos francesi si ha nel recente sondaggio Sofres promosso da Le Monde e France-Inter (cfr. Le Monde, 25 luglio 1985). Le risposte si accordano largamente con le principali regole che si è data la federazione nazionale dei Cecos, operante da più di dieci anni. Ciò vale sia per la gratuità del dono dello sperma, sia per l’autorizzazione al ricorso a queste tecniche per le sole coppie sposate, sia soprattutto per la salvaguardia del loro carattere terapeutico (se due francesi su tre giudicano positive le nuove tecniche di riproduzione artificiale, tre su quattro ritengono che debbano essere riservate a scopi terapeutici). Secondo l’opinione pubblica, infine, spetta ai medici, e non al parlamento, di fissare, caso per caso, le regole applicabili a queste pratiche. Affidate a sanitari che non rinunciano a dare al loro operato un’ispirazione ideale, le tecnologie riproduttive si riscattano dal sospetto di pratiche veterinarie applicate all’uomo; contribuiscono, anzi, a mettere in luce il mondo dei valori implicito nella decisione di fare un figlio.

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2. La sterilizzazione

Per il bene della persona e della specie

Mentre le tecnologie applicate alla riproduzione intendono stabilire dei rimedi alle varie forme di sterilità, la sterilizzazione è finalizzata a provocare direttamente l’incapacità di generare. All’opposto di chi vuole «un figlio ad ogni costo», chi si lascia sterilizzare ritiene di avere buoni motivi per non volere un figlio: a nessun costo! I motivi possono essere di ordine clinico, in quanto il mantenimento della facoltà riproduttiva e della attività ormonale connessa può incidere negativamente sulla salute. Si parla in questo caso di sterilizzazione terapeutica.

L’etica medica si è da tempo occupata della liceità morale di questo tipo di interventi. Considerando la sterilizzazione in questi casi come una forma di mutilazione, l’ha ritenuta lecita alle stesse condizioni in cui un individuo può legittimamente procedere a far rimuovere una parte del suo corpo. I princìpi che regolano questa casistica sono, anzitutto, quello della «totalità»: si può rimuovere un organo per salvare la vita, ovvero a vantaggio di tutto l’organismo. Secondariamente, il principio secondo cui gli organi della generazione esistono per il bene della specie. Quando perciò si presenta un’infermità grave e definitiva, e l’intervento sterilizzante sia considerato come l’unico rimedio efficace, l’individuo può rinunciare alla propria capacità generativa, lasciandosi sterilizzare.

È legittimo procedere alla sterilizzazione quando non esista una malattia in atto che minaccia la persona, ma c’è una probabilità più o meno alta che i figli nascano con handicap? Questa domanda ci introduce nel campo della sterilizzazione eugenetica. Subito si associa il fantasma della sterilizzazione coatta adottata dal regime nazista in Germania, a servizio dei deliri razzisti degli «ariani». Questo triste precedente storico ha determinato una squalifica morale definitiva della sterilizzazione a scopi eugenetici. Tuttavia è possibile ascoltare anche oggi proposte di un ricorso alla sterilizzazione per difendere la società dai portatori di tare ereditarie. Si vorrebbe ampliare ulteriormente il principio di «totalità», invocando il bene della società nel suo insieme per giustificare il sacrificio della libertà individuale. Gli

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avvocati di questo tipo di interventi sono però poco numerosi e godono di scarsa autorevolezza.

La mancanza di base scientifica ha gettato il discredito sugli argomenti addotti per sostenere la sterilizzazione eugenetica. Dal punto di vista etico, c’è unanimità nel rifiutare la sterilizzazione obbligatoria, in quanto violazione dei diritti della persona e precedente pericoloso dal punto di vista sociale. Alcuni studiosi di etica ipotizzano però qualche eccezione. Tale può essere considerata la sterilizzazione di una ragazza ritardata mentale, che potrebbe rimanere incinta nel caso che qualcuno abusi di lei. La sterilizzazione in questo caso potrebbe acquistare il valore di estrema risorsa a tutela della persona.

Un nuovo paragrafo della sterilizzazione eugenetica è stato aperto di recente dalla possibilità di avere informazioni genetiche precise mediante la diagnosi prenatale. La consulenza genetica ha rivoluzionato l’atteggiamento tradizionale dei genitori nei confronti dei bambini non nati. La fiduciosa attesa e la disponibilità ad accettare il figlio ― considerato dono di Dio o, più laicamente, «dono che la vita fa a se stessa» (Kalhil Gibran) ― hanno ceduto il posto alla volontà di sapere. La prima generazione di genitori della storia che può disporre della conoscenza di malattie genetiche mediante diagnosi prenatale si trova messa di fronte a decisioni cruciali.

Lo stato di acuta sofferenza in cui li getta la diagnosi infausta rischia di impedire che la decisione venga presa con saggezza, dopo una adeguata ponderazione degli aspetti oltre che medici, anche morali, della situazione. L’evenienza più frequente nelle coppie a cui sia stata fornita una diagnosi di disordini genetici nel feto è che ricorrano all’aborto e che richiedano contemporaneamente la sterilizzazione: preferiscono rinunciare alla propria capacità di generare, piuttosto che essere esposti alla possibilità di un altro bambino malformato. In questi casi è difficile, anche per il medico meglio intenzionato, indurre i genitori a frapporre quella pausa di riflessione che evita le decisioni irreversibili.

La sterilizzazione contraccettiva: permessa o no dalla legge?

La pratica della sterilizzazione che suscita i problemi più rilevanti dal punto di vista etico è quella a scopo contraccettivo.

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Sempre più numerose sono le persone che vi fanno ricorso per evitare il rischio di concepimenti indesiderati. I fautori della sterilizzazione amano addurre come argomento che si tratta del metodo di controllo delle nascite più usato nel mondo. In alcuni Paesi europei, come la Gran Bretagna e la Scandinavia, la sterilizzazione è assicurata dal servizio sanitario nazionale; in numerose altre nazioni viene autorizzata di volta in volta. Le cifre aumentano vertiginosamente quando ci spostiamo in altri continenti. Soltanto una decina di anni fa si contavano nel mondo più di 80 milioni di coppie sterilizzate. Alcune politiche di controllo demografico l’hanno adottata come metodo da privilegiare. In occidente continua ad essere promossa con argomentazioni favorevoli in linea di principio e con vere e proprie campagne promozionali.

La sterilizzazione è stata nobilitata in tutti i modi: per la sua sicurezza e praticità (è il metodo anticoncezionale «più sicuro ed innocuo», si continua a ripetere), per il senso di responsabilità che dimostrano coloro che vi si sottopongono, per la sua «modernità» (con foto sui giornali di illustri «sterilizzati volontari», che offrono sorridendo un modello di identificazione). Mentre l’opposizione alla sterilizzazione obbligatoria è sempre viva, aumenta la pressione culturale verso la sterilizzazione volontaria. La rivendicazione del diritto, conclamato dalle femministe e da altri movimenti, a disporre autonomamente del proprio corpo, spiana la strada a interventi distruttivi della propria capacità generativa.

Anche in Italia c’è stato di recente un momento di particolare fervore verso la sterilizzazione. La congiuntura è stata offerta dalla nuova situazione giuridica venutasi a creare con l’abrogazione delle norme che la vietavano. L’opera di promozione non è indietreggiata neppure di fronte alle forme più volgari del lancio pubblicitario: ci sono stati dei centri di sterilizzazione che hanno offerto l’intervento gratis ai primi dieci iscritti...

Il dibattito sulla sterilizzazione è stato occasionato in Italia da un vuoto legislativo creatosi improvvisamente con l’abrogazione delPart. 552 del codice penale. L’articolo prevedeva pene per «chiunque compie, su persona dell’uno o dell’altro sesso, col consenso di questa, atti diretti a renderla impotente alla procreazione». Faceva parte di quel gruppo di «delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe», puniti dal fascismo perché

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contrari alla politica espansionistica del regime. L’abrogazione è stata prevista e attuata dalla legge 192, che regola l’interruzione volontaria della gravidanza. AH’indomani dell’entrata in vigore della legge, nel maggio 1978, i giuristi cominciarono a dibattere se, a seguito dell’abrogazione, la sterilizzazione fosse diventata giuridicamente irrilevante. Non si è ancora giunti a tutt’oggi a un parere unanime.

Alcuni opinano che l’abrogazione della norma che puniva la sterilizzazione come reato autonomo abbia sottratto la pratica dalla competenza del codice penale, e che quindi non debba più essere considerata reato; altri ritengono invece che, caduta la norma speciale, la sterilizzazione rientri nella disciplina penale comune. Nella fattispecie, la sterilizzazione resterebbe compresa tra gli artt. che puniscono le lesioni penali dolose. Si tratta dell’art. 582 (che colpisce «chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo e nella mente») e 583, che considera la lesione personale «gravissima» qualora dal fatto derivi la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare. Tra i giuristi non c’è consenso sull’estendibilità alla sterilizzazione delle norme che puniscono le lesioni personali dolose. Si avverte l’esigenza di uscire da questo stato di incertezza con una normativa chiara, che definisca senza ambiguità lo stato della sterilizzazione contraccettiva nei confronti della legge.

È già stato presentato una prima volta un progetto di legge per la cancellazione definitiva dal nostro ordinamento del reato di sterilizzazione. Ma una legge che la permetta è costituzionalmente legittima? Il parere di alcuni giuristi è negativo. Si fa valere il principio costituzionale della tutela della integrità fisica contro ogni forma di menomazione permanente, anche consensuale. Viene invocato l’art. 5 del codice civile: «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica». Il principio su cui si basa tale norma è la salvaguardia del bene dell’integrità fisica, anche contro gli atti con cui l’individuo stesso potrebbe comprometterla.

Il diritto all’integrità non è, come quello alla vita, «assolutamente indisponibile»: è solo «relativamente indisponibile». Di conseguenza, l’individuo non può disporre del proprio corpo quando ciò comporti l’autoinvalidazione permanente, a meno

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che ciò non sia richiesto da una causa sanitaria (rientriamo in tal caso nell’ambito delle sterilizzazioni terapeutiche, per le quali non sussistono né proibizioni giuridiche, né riserve morali). Dal momento che la legge parla esplicitamente di una diminuzione «permanente», rimane giuridicamente lecita una sterilizzazione consensuale reversibile. Questo dettaglio della normativa vigente ha avuto quanto meno l’effetto positivo di stimolare la chirurgia a mettere a punto metodiche meno demolitrici, in vista di una sterilizzazione efficace, ma reversibile.

giuristi più severi sono contrari a una legge che introduca la sterilizzazione, perché temono che si apra una breccia nella difesa rigorosa dei beni primari della vita e dell’integrità fisica. In periodo di crisi di valori, sentono piuttosto la necessità di rafforzare i princìpi personalistici, senza creare deroghe. Tuttavia non è difficile convenire che applicare nel caso della sterilizzazione le sanzioni previste dall’art. 583, che puniscono la lesione personale «gravissima» con la reclusione da 6 a 12 anni, è una rigidità eccessiva. È auspicabile, perciò, una nuova norma del codice penale.

Problemi professionali per il medico

Il diffondersi della domanda di sterilizzazione ha posto i medici di fronte a delicati problemi, dal punto di vista professionale e morale. Questa pratica, presentata da chi la promuove come la più innocua misura anticoncezionale, comporta serie conseguenze, che nessun medico consapevole può ignorare. Più che le complicazioni cliniche, ciò che preoccupa il medico coscienzioso sono i risvolti psicologici della sterilizzazione. Avviene con una certa frequenza che uomini o donne, una volta lasciatisi sterilizzare, entrino in crisi personale gravissima. Analizzando in profondità, si trovano spesso equivoci o ambivalenze emotive nei confronti dell’intervento cui si sono sottoposti. Anche se la sterilizzazione non è una castrazione, tuttavia psicologicamente può essere vissuta come tale da alcuni soggetti. Inoltre l’atteggiamento psicodinamico profondo verso la rinuncia alla fertilità può non corrispondere a quello conscio: di qui conflitti e squilibri psichici.

Se vuol evitare di incrementare i meccanismi autodistruttivi,

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il medico si trova costretto a vagliare le richieste di sterilizzazione per scoprire le controindicazioni. La sterilizzazione è sempre controindicata quando è guidata da motivazioni psicopatologiche. C’è gente che si offre al bisturi nell’illusione di risolvere problemi che invece il bisturi non risolve: dopo l’intervento il problema resta, e per lo più se ne aggiunge un altro, derivante dalla menomazione. Nessuna sterilizzazione può risolvere, per esempio, quelle forme di ansia nevrotica connessa con la responsabilità del procreare.

Non basta l’analisi della personalità di colui che chiede la sterilizzazione: è necessaria un’analisi della coppia. Qual è il coniuge che vuole la sterilizzazione? Come si situa nel rapporto di coppia rispetto all’altro coniuge? C’è pericolo di plagio, o quanto meno di pressione emotiva, che limita la libertà di scelta? Negli Stati Uniti, dove la pratica della sterilizzazione è molto diffusa, i medici hanno sentito la necessità di una difesa in termini giuridici contro possibili rivendicazioni. Seguendo una prescrizione del «Dipartimento di Stato per la Salute, l’Educazione e la Previdenza Sociale», i medici fanno sottoscrivere ai richiedenti un documento di assenso, in cui sono anche indicati i rischi e si informa che la pratica è irreversibile.

Più difficile è premunirsi contro la responsabilità morale nei confronti di scelte in cui la libertà esiste formalmente, ma non psicologicamente. Questo è il caso che può presentarsi quando una donna, dopo i nove mesi di una gravidanza difficile, in stato di esasperazione, domanda di essere sterilizzata in occasione del parto. È molto probabile che più tardi rimpianga la decisione, che l’ha resa irreversibilmente incapace di generare.

Le generiche raccomandazioni a procedere con prudenza non bastano. Dovendo tener conto delle possibili ripercussioni negative e delle controindicazioni di ordine psicologico, il medico si trova di fronte a un compito che va al di là delle sue competenze professionali. Si rende necessaria la stretta collaborazione con esperti della psiche, assistenti sociali, professionisti della relazione d’aiuto. La sterilizzazione cessa così di essere un intervento strettamente medico per diventare un problema umano, nel senso più estensivo della parola.

Nella dimensione più ampia del problema umano è compreso l’aspetto propriamente etico. In alcuni contesti culturali questo tende ad essere negato. Ciò avviene là dove si ritiene che

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l’esplosione demografica sia il problema prioritario, da risolvere con qualsiasi mezzo, anche a prezzo dei valori della libertà e della dignità. Il ricordo va alla vasta campagna di sterilizzazione lanciata in India da Indirà Gandhi, naufragata contro il rifiuto opposto dalla popolazione a lasciarsi defraudare della prolificità, considerata come l’unico bene dei poveri.

Nell’area del mondo occidentale, dove la secolarizzazione e l’edonismo consumista hanno da tempo spento ogni mistica della propagazione della vita, la sterilizzazione viene spesso presentata come un banale intervento chirurgico per eliminare una fecondità non desiderata. La realtà antropologica è invece diversa. In quanto connessa con la generatività, la sterilizzazione interseca l’universo di valori, simboli e aspirazioni che ruota intorno alla paternità-maternità.

La morale cattolica ha tenuto una linea costante di netto rifiuto nei confronti della sterilizzazione a fini contraccettivi. Le dichiarazioni magisteriali vanno dalla condanna del Sant’Uffizio del 1940, alle prese di posizione di Pio XII, fino alla Humanae vitae di Paolo VI («È parimenti da escludere, come il Magistero della Chiesa ha più volte dichiarato, la sterilizzazione diretta, sia perpetua che temporanea, tanto dell’uomo che della donna»). L’ultimo intervento ufficiale, in ordine di tempo, è un documento inviato dalla Congregazione per la Dottrina della fede ai vescovi degli Stati Uniti nel 1976. Vi si ribadisce che la sterilizzazione, il cui unico effetto immediato sia quella di rendere la facoltà generativa incapace di procreare, «rimane assolutamente proibita, secondo la dottrina della fede».

La riflessione dei moralisti cattolici ha esplicitato le ragioni antropologiche e teologiche di questo costante «no» alla via della sterilizzazione, riconducendole ai princìpi personalistici che sottendono la morale cattolica, relativa alla vita fisica. Come afferma esplicitamente la Humanae vitae, la considerazione della persona è il motivo che guida la Chiesa nel difendere la morale coniugale nella sua integrità; lo scopo è quello di contribuire alla instaurazione di una civiltà veramente umana, dove l’uomo non abdichi alla propria responsabilità per consegnarsi a dei mezzi tecnici che impoveriscono il patrimonio delle sue forze fisiche e morali. La norma etica, con la sua intransigenza, viene a svolgere, in definitiva, una funzione di argine protettivo a vantaggio dell’uomo, contro quanto di fatto lo mutila e lo coarta,

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anche se si presenta sotto l’aspetto seducente della permissività.

3. LA REGOLAZIONE DELLE NASCITE

Un problema di etica bio-medica?

La decisione di procreare o di astenersene, del numero di figli da avere, ed eventualmente dei metodi da adottare per avere dei rapporti sessuali infecondi, non è mai stato un tema maggiore dell’etica. Della morale religiosa, invece, sì, specialmente nella tradizione cattolica. Già nel mondo antico la filosofia e la medicina greco-romana non hanno dimostrato praticamente interesse per gli aspetti morali della contraccezione. Il cristianesimo, al contrario, ha proposto una rigida etica sessuale, di cui faceva parte la condanna delle pratiche rivolte a frustrare la procreazione. La comunità delle origini si è opposta alle tendenze culturali dell’epoca, distanziandosi da quell’insieme di pratiche, chiamate globalmente pharmakeia, che avevano finalità abortive-contraccettive-magiche, difficilmente isolabili e riconducibili alle nostre classificazioni.

La morale cattolica si è trovata di nuovo in posizione di antagonista dell’opinione dominante quando i problemi demografici hanno prodotto una mentalità antinatalista, con conseguente promozione delle misure contraccettive. Per lungo tempo, nonostante il vivace dibattito provocato da Th. Malthus sulle prospettive demografiche dell’umanità fin dall’inizio del secolo scorso, l’opinione pubblica e la mentalità medica rimasero ostili alla contraccezione. Ma anche quando questa ottenne l’appoggio dell’etica umanista dell’occidente, l’atteggiamento della Chiesa cattolica non mutò. Una trasformazione vistosa si verificò invece nelle Chiese protestanti. A cominciare dalla confessione anglicana (conferenza di Lambeth del 1930), i pastori e i teologi delle diverse Chiese accettarono il principio del controllo della natalità da parte dei cristiani mediante il ricorso a metodi contraccettivi.

La regolazione delle nascite è entrata nell’etica moderna attraverso

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il richiamo alla responsabilità. Siamo invitati a renderci conto che la fedeltà non illuminata al comando biblico: «siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra...» (cfr. Gen 1,28) può diventare, da garanzia di sopravvivenza per l’umanità, la formula sicura per un disastro demografico.

Continenti che scoppiano per la sovrappopolazione e altri che intristiscono per il calo demografico e l’invecchiamento; proiezioni allarmanti sul rapporto popolazione-beni di consumo e trasformazioni culturali che tendono a scindere il legame tra comunicazione sessuale e riproduzione: tutto ciò ha contribuito a indirizzare l’attenzione della bio-etica sulla regolazione delle nascite. In quanto disciplina interessata a riflettere sulle condizioni perché la vita sulla terra continui ed abbia una qualità umana, non può ignorare ciò che assicura alla procreazione un carattere di responsabilità o irresponsabilità.

Una novità culturale rilevante è costituita dal coinvolgimento della medicina nei problemi della regolazione delle nascite. Per motivi che considereremo più dettagliatamente nel capitolo seguente, i medici in passato si sono tenuti lontani dall’ambito della sessualità e della riproduzione. Lo sviluppo delle tecniche contraccettive moderne li ha costretti, invece, a prestare la loro opera professionale in un campo che tradizionalmente non faceva parte della loro competenza. Il controllo delle nascite non si limita all’accordo che, in un ambito tanto privato che può addirittura dirsi segreto, si stabilisce tra i due partners.

Per una contraccezione sicura ed efficace è richiesto oggi l’intervento del medico. I metodi più antichi e diffusi ― il coito interrotto e il preservativo maschile ―, che non hanno bisogno di nessuna partecipazione del sanitario, sono squalificati come insicuro, il primo, e come arcaico, il secondo. La contraccezione moderna è medicalizzata. La nuova epoca è stata inaugurata dalla pillola anticoncezionale, che va prescritta dal medico e assunta sotto controllo, a causa delle controindicazioni e dei possibili effetti secondari negativi. Anche i diaframmi e i dispositivi intrauterini (spirali) hanno bisogno dell’intervento specialistico del ginecologo. La sterilizzazione e l’interruzione volontaria della gravidanza non sono di per sé procedure contraccettive, ancorché ampiamente usate a questo fine.

Con il diffondersi della contraccezione moderna ― in particolare pillole anticoncezionali, diaframmi e spirali ― gli studi

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medici dei ginecologi si sono affollati con richieste precise ed esigenti. L’aumento della domanda è avvenuto parallelamente a cambiamenti profondi nei costumi e nella valutazione etica dei comportamenti sessuali. Nel giro di poco più di una generazione l’esercizio della sessualità prematrimoniale nei giovani, da interdetto diventava socialmente tollerato; l’infecondità ― o fecondità limitata al massimo ― nelle coppie veniva considerata un valore e promossa a modello di modernità e di responsabilità; lo stesso pensiero teologico registrava sviluppi carichi di conseguenze relativamente al matrimonio e alla fecondità.

In seno al cattolicesimo la lunga diffidenza nei confronti della sessualità in generale, compresa anche quella coniugale ― nella visione che risale a S. Agostino praticamente era riscattata solo dal fine procreativo ― ha ceduto il posto a una considerazione positiva del rapporto sessuale in sé, a prescindere dalla sua finalità procreativa. Questa prospettiva era implicita nella concezione canonistica del «debito coniugale», anche se espressa con un linguaggio giuridico antiquato e sgradevole, che svilisce la dignità della persona umana. La nuova teologia morale della sessualità coniugale è stata assunta dal Concilio Vaticano II, ricevendo dal supremo magistero dottrinale della Chiesa cattolica un’autorevole consacrazione: «Il matrimonio non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma il carattere stesso di patto indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità» (Gaudium et spes, 50). Per la stessa teologia cattolica,., dunque, il rapporto sessuale nel matrimonio non mira solo al concepimento di una nuova vita, ma anche a manifestare e a promuovere l’amore coniugale.

Sotto il segno dell’edonismo e della società consumistica, ma anche per la maturazione antropologica avvenuta tra coloro che si ispirano a una concezione spirituale della vita, spinte culturali diverse ma convergenti hanno portato a una richiesta accresciuta di una contraccezione facilmente praticabile, medicalmente sicura e compatibile con i gusti e le preferenze personali.

La scelta dei metodi

La teologia morale cattolica ha sviluppato una linea di discernimento tra i diversi metodi con cui viene praticata la contraccezione,

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ritenendo che il metodo abbia una rilevanza dal punto di vista etico. Mentre le chiese protestanti demandano la valutazione e la scelta del metodo alla coscienza individuale ― o piuttosto a una considerazione comune della coppia, nel rispetto delle esigenze rispettive ―, la dottrina cattolica, invece, prescrive dei comportamenti precisi ai fedeli in fatto di regolazione delle nascite. Non si limita all’esigenza di fondo che la decisione di procreare o non procreare abbia la qualità morale della responsabilità (il linguaggio dei documenti ecclesiastici parla, a questo proposito, di «paternità responsabile». Il senso di responsabilità può domandare sia una promozione della natalità, sia una contrazione della stessa, a seconda delle concrete condizioni sociali e umane in cui la coppia si trova inserita. La regolazione della nascite non è di per sé contro l’ordine morale, bensì è richiesta dall’ordine morale stesso). Per la morale cattolica è necessario, perché la regolazione delle nascite sia moralmente buona, che rispetti anche la «naturalità» dell’atto sessuale.

La dottrina cattolica in merito è stata formulata dall’enciclica Humanae vitae di Paolo VI (1968), in continuità con gli insegnamenti magisteriali precedenti, ed è stata riaffermata da quelli seguenti. «La Chiesa insegna ― afferma l’enciclica ― che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita»; di conseguenza, è una via non lecita di regolazione delle nascite «ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale o nel suo compimento o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga come scopo o come mezzo di rendere impossibile la procreazione» (cfr. Humanae vitae, 12-15). Oltre alla sterilizzazione e ai metodi meccanici, rimane esclusa anche la contraccezione ormonale, cioè la «pillola». Sono invece permessi i «metodi naturali».

Si intendono con questa dizione i metodi che si fondano sul ricorso ai periodi infecondi che ricorrono nel ciclo femminile. Già negli anni ’50 Pio XII aveva preso posizione favorevole nei confronti dell’unico metodo naturale allora noto, quello di Ogino-Knaus. La scarsa attendibilità di questo metodo ha fatto cadere un’ombra di sospetto su tutti i metodi naturali, anche se i più moderni ― come quelli che mirano a riconoscere il momento dell’ovulazione, ricorrendo al controllo della temperatura basale o all’analisi del muco cervicale ― sembrano essere molto più affidabili. La Humanae vitae ha rinnovato l’indicazione

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dei periodi infecondi, e dei metodi che su di essi si basano, come Tunica via percorribile per i fedeli cattolici.

La Chiesa cattolica non è isolata nel promuovere e raccomandare i metodi naturali di regolazione della fertilità. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità dedica un crescente interesse ai metodi che si propongono di determinare il periodo fertile, in vista di una regolazione della natalità con metodi naturali. Alcuni motivi antropologici li fanno preferire ad altri metodi: quelli naturali, infatti, favoriscono il dialogo tra coniugi, domandano la responsabilizzazione dei due partners, non presentano controindicazioni dal punto di vista igienico ed ecologico, e incrementano la conoscenza del proprio corpo da parte della donna.

Le reazioni del mondo medico alla richiesta sempre più frequente di assistenza per la pratica della contraccezione non sono state omogenee. Divergenti soprattutto gli atteggiamenti per quanto riguarda le implicazioni etiche dei metodi contraccettivi. Una parte notevole di sanitari ha preferito trincerarsi dietro il ruolo tecnico, dimostrando indifferenza verso ogni valutazione morale dei metodi stessi, lasciata a colui che richiede l’assistenza del medico. È un atteggiamento possibile solo nei casi ― e sono la minoranza ― in cui colui che si rivolge al medico abbia già le informazioni necessarie, abbia fatto la scelta del metodo e chieda al medico solo la sua opera per mettere in atto il metodo. È il caso, per esempio, di una donna che abbia scelto la spirale e vada dal ginecologo esclusivamente per la procedura dell’inserimento del dispositivo.

Una frangia minoritaria di medici ha adottato un atteggiamento più definito, fino a diventare apostoli appassionati di un determinato metodo, schierandosi magari con uguale passione contro gli altri. È quanto è avvenuto con la contraccezione ormonale, di cui singoli sanitari o istituzioni ― come consultori allineati ideologicamente ― si sono fatti avvocati difensori e propagatori: la considerazione del metodo rischia in questi casi di prender il sopravvento sul discernimento dei bisogni delle persone. Una cosa analoga possiamo osservare tra coloro che promuovono esclusivamente i metodi naturali.

È comprensibile che il medico non possa e non voglia mettere tra parentesi le sue convinzioni personali, compreso il proprio orientamento morale, in un’interazione così delicata come

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quella che ha luogo con chi gli chiede consulenza e aiuto per realizzare il proprio progetto di regolazione della fecondità. Ma affinché la propria concezione etica non diventi una prevaricazione, è opportuno che non lo abbandoni mai un preciso orientamento deontologico: la sua professione lo destina a provvedere alla salute delle persone che ricorrono al suo aiuto. In caso di conflitto tra diversi metodi, il criterio del «più sano» ― comprendendo la sicurezza e la mancanza di effetti negativi collaterali ― deve avere la preferenza. Anche se spesso al medico potrà essere chiesto un consiglio in merito alla metodica da adottare, la sua azione dovrebbe essere orientata a favorire l’autonomia di decisione nella persona o nella coppia che pratica il controllo delle nascite. Non c’è metodo contraccettivo, allo stato attuale della medicina, che non comporti qualche inconveniente: fisico, psicologico, estetico o morale. È la coppia che deve scegliere responsabilmente il metodo che sembra salvaguardare il maggior numero di valori nella propria situazione concreta.

Resta sempre la possibilità che il medico, per motivi della sua coscienza, si dichiari non disponibile per l’una o l’altra procedura. L’obiezione di coscienza che la legge prevede esplicitamente per l’aborto, può essere estesa ad altre pratiche. Così, numerosi ginecologi si rifiutano di applicare la spirale a donne che lo richiedono, perché ritengono che questo metodo contraccettivo, che impedisce l’annidamento dell’ovulo fecondato nell’utero, equivalga praticamente a un aborto. Nessun medico, però, che sia consapevole dei doveri professionali e umani che incombono su di lui in forza dell’arte sanitaria che esercita, abbandonerà semplicemente un paziente in difficoltà. Anche se non è personalmente disponibile ad aiutarlo a mettere in atto il metodo contraccettivo che questi ha scelto, potrà sempre inviarlo a un collega o a un’altra struttura sanitaria di diverso orientamento.

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4. Per approfondire

D. TettamanziBambini fabbricati, fertilizzazione in vitro embryo transfer, Piemme, Casale Monferrato 1985.

Dopo una presentazione essenziale degli aspetti biologico-clinici dell’inseminazione artificiale e della FIV-ET, l’opera del teologo Tettamanzi analizza gli aspetti antropologici, legali e morali delle nuove tecnologie applicate alla riproduzione. Particolarmente utile al lettore che desidera documentarsi sulle posizioni della morale cristiana è l’appendice, nella quale vengono raccolti tutti i testi del magistero della Chiesa, sia pontificio che episcopale.

Aa. Vv., Il problema della sterilizzazione volontaria, Franco Angeli, Milano 1983.

Opera in collaborazione di consulenti del Centro Internazionale Studi Famiglia. La sterilizzazione è presa in considerazione sotto tutti i punti di vista: storico-sociale, filosofico, psicologico ed etico. Vuol servire come orientamento alla riflessione, soprattutto per gli operatori sociali dei consultori.

E. Billings - A. WestmoreIl metodo Billings, Mondadori, Segrate 1983.

Presentazione del metodo di controllo naturale della fertilità che attualmente raccoglie più consensi e incoraggiamenti da parte della gerarchia ecclesiastica. La conoscenza precisa del momento dell’ovulazione può essere finalizzata, sostengono i fautori del metodo, tanto al controllo delle nascite, quanto a favorire un più sicuro concepimento presso le coppie che hanno difficoltà riproduttive. Oltre alla presentazione tecnica del metodo, il libro illustra i presupposti antropologici su cui si basano i metodi naturali.

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LA SESSUALITÀ UMANA

1. Sessualità sana e malata: un problema medico?

Medicina tradizionale e sessualità

In medicina esiste una specialità che si occupa della vita sessuale degli uomini e delle donne: la «sessuologia medica». Prima di accedere a discutere gli interrogativi etici che sorgono in questo campo, non è superfluo premettere una considerazione: l’aprirsi della medicina alla sessualità umana è relativamente recente e comporta implicazioni antropologiche di grande rilievo. Nella storia della medicina occidentale si registra una certa riluttanza a occuparsi di questo aspetto della vita. Il sesso in medicina è insieme vicino e lontano. La vicinanza è assicurata dal fatto che il medico si occupa della vita biologica considerata nella naturalità dei suoi processi, compresi quelli dell’accoppiamento e della riproduzione. Egli ha accesso immediato al corpo, senza veli né segreti. Il corpo offerto allo sguardo medico nella sua nudità sfuma simbolicamente nella nudità dell’incontro erotico.

Allo stesso tempo il sesso in medicina è lontano; anzi, allontanato. Per precauzione, innanzi tutto. Già nel giuramento di Ippocrate, che possiamo considerare come la più antica formulazione di quello che diventerà in seguito il codice deontologico del medico, troviamo espressa la preoccupazione di erigere una barriera tra l’opera del medico e la sfera dell’attività sessuale. «In qualsiasi casa entrerò ― giurava il medico su Apollo, Esculapio, Igea e Panacea ― lo farò solo per la guarigione dei malati, evitando ogni ingiustizia e danno coscienti, e specialmente ogni azione sessuale contro donne e anche contro uomini, liberi e schiavi». Gli impegni di tipo deontologico hanno

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la funzione di creare attorno al medico un’atmosfera di affidatezza, in cui si possano incontrare una «fiducia» da una parte, e una «coscienza» dall’altra. L’impegno specifico a non avvalersi per un vantaggio sessuale dell’esposizione del corpo e della fragilità del paziente, incline come in nessun’altra situazione alla dipendenza dal medico, non è ripetuto nei moderni codici deontologici, ma solo perché è entrato nei costumi e ritenuto ovvio.

Ma non è solo per garantire la correttezza professionale che la medicina ha preso le distanze dalla vita sessuale dei pazienti. Esiste probabilmente anche un motivo più profondo e non sempre cosciente, connesso con la finalità stessa dell’attività medica. Il medico si sente infatti riferito al dolore e alla malattia, mentre la sessualità lo indirizza verso il piacere. Questo aspetto della vita umana è rimasto perciò abitualmente estraneo alla formazione medica tradizionale.

Nella medicina antica i medici hanno occasionalmente messo in guardia dagli effetti nefasti di un’attività sessuale eccessiva o sfrenata, richiamando alla prudenza e alla pacatezza. Ciò perché i medici, come i filosofi, si sentivano impegnati a indicare una linea di condotta da seguire per chi volesse improntare la sua esistenza alla Salute, alla Verità, al Bene. Ma non pretendevano di avere, in quanto medici, una competenza relativamente al buon esercizio della sessualità. Di più: fino al secolo XIX, si può dire che non esistesse la «sessualità» come oggetto di conoscenza scientifica. Esistevano, ovviamente, le attività umane che designiamo con tale termine; ma in quanto «amore», erano la provincia dei poeti e, in quanto «concupiscenza», quella dei moralisti. La regolazione dell’amore umano e della procreazione è stata assicurata, lungo la storia, da autorità religiose, morali, politiche e legali.

Ai medici spettava un ruolo ausiliario solo in problemi secondari, come le malattie veneree e le difficoltà ostetriche. Al termine del processo evolutivo troviamo, invece, che la professione medica è diventata l’arbitrio finale in un’area in cui in precedenza non era mai stata considerata particolarmente competente. Ora i medici hanno acquistato una posizione di potere nell’ambito della sessualità, combinando i ruoli di terapeuta, consigliere spirituale e legislatore. Come è avvenuta l’evoluzione verso questa «medicalizzazione» della sessualità?

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La conoscenza scientifica della sessualità umana

La sessualità umana non è entrata nell’area del discorso scientifico attraverso la medicina. Vi è stata introdotta, da un lato dalla psicanalisi, dall’altra dalle scienze del comportamento. La prima ha messo a soqquadro la sensibilità borghese sul finire del secolo scorso, svelando il contenuto sessuale rimosso di malattie apparentemente soltanto «mentali», come la nevrosi. A differenza del suo collega Breur, Freud non si è tirato indietro, in una posizione di sicurezza, quando ha avvertito la natura sessuale dell’isteria di Anna O.; ma per trattare le pulsioni senza esserne travolto, ha preso delle precauzioni. Queste misure condizionano ancor oggi il trattamento analitico ortodosso. In esso il corpo è rigidamente escluso, sottratto addirittura dal campo visivo. Il «setting» analitico è così severo proprio perché ha a che fare con la sessualità, anche se a livello simbolico. Nella psicanalisi la dialettica vicino-lontano, che abbiamo riscontrato nella medicina rispetto alla sessualità, viene portata all’estremo: tanto più ci si avvicina alla pulsione, tanto più ci si premunisce di neutralizzarla.

L’altro canale attraverso il quale la sessualità si è costituita come discorso scientifico è quello della ricerca sul comportamento. Tra la fine del XIX secolo e le prime decadi del XX si è costituita una «sessuologia» ad opera di studiosi come Havelock Ellis, Iwan Bloch e Wilhelm Reich. L’intenzione della «scienza sessuologica» (Sexualwissenschaft, Bloch) era di considerare la vita amorosa nella sua totalità e di descrivere tutti i suoi aspetti dal punto di vista centrale, che è quello del sessuologo. Era tuttavia una sessuologia molto ideologizzata, che non risparmiava le critiche ai rapporti tra sesso e organizzazione socio-economica (Reich). Ebbe comunque vita breve, perché fu contrastata e distrutta dai regimi fascisti.

La sessuologia risorse in America, dopo la seconda guerra mondiale. Il punto di riferimento obbligato sono le inchieste di Kinsey sul comportamento sessuale degli uomini (1948) e delle donne (1953). Le sue indagini hanno assunto un valore simbolico, tanto da continuare ad essere citate come l’inizio di un nuovo sguardo sulla sessualità umana. Non che, prima che Kinsey cominciasse a intervistare la gente sui loro comportamenti sessuali, esistessero solo conoscenze speculative e aprioristiche sul

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sesso. Benché i clinici non discutessero volentieri di problemi sessuali tra di loro e con i pazienti, c’era una ricerca di base sulla fisiologia e sugli aspetti comportamentali della riproduzione, nonché osservazioni sul comportamento sessuale umano. Tuttavia è innegabile che con i rapporti Kinsey si è aperta una nuova epoca: lo studio empirico di comportamenti ha cominciato ad essere considerato come l’unico capace di contrastare l’ignoranza che si traveste da dogmatismo.

È lecita la ricerca sui comportamenti sessuali?

Più di recente il ruolo pilota nella ricerca sulla sessualità è stato assunto dall’approccio di Masters e Johnson. Il loro interesse si è concentrato direttamente sui cambiamenti anatomici e fisiologici che sopravvengono nella risposta agli stimoli sessuali, nonché sulla dinamica esatta dell’atto sessuale, sul suo decorso normale e sulle sue insufficienze. Superate le ultime esitazioni, la ricerca sulla sessualità umana ha preso la via dell’osservazione diretta e dell’esperimento: non più questionari, ma elettrodi e sofisticate apparecchiature di registrazione durante l’atto sessuale stesso. Passando dal questionario sui comportamenti all’osservazione fisiologica dell’atto, agli occhi di molti si è infranta l’ultima barriera che inibiva la ricerca scientifica sulla sessualità. Questa ha cominciato ad essere considerata una funzione fisiologica come le altre, senza alcuna particolare aura di sacralità.

Le questioni etiche relative alla ricerca sessuale sono alcune di natura generale, altre più specifiche. La ricerca avviata da Kinsey e dai suoi collaboratori suscitò una forte resistenza presso quanti ritenevano che la sessualità non potesse essere considerata un campo di ricerca neutro. Nel rifiuto influiva la persistenza di antichi tabù, ma anche la volontà di proteggere un settore della vita umana molto carico di emozioni.

Attualmente la ricerca sessuale in genere è considerata socialmente e moralmente accettabile dalla maggior parte della comunità scientifica, e anche dal pubblico non specialistico. Riserve invece continuano a persistere circa l’osservazione di coppie impegnate in attività sessuali. Un’altra resistenza di fondo circa la promozione della ricerca sessuale è quella legata ai problemi

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della giustizia sociale: essendo le risorse per la ricerca così scarse in tutti i Paesi, è giusto destinarle alla sessualità, sottraendole magari alla ricerca sul cancro o alla prevenzione delle malattie? In particolare, si tende unanimemente a condannare le ricerche in cui viene osservato o indagato il comportamento sessuale di qualcuno, senza che questi se ne accorga. Questa prassi, infatti, viola la regola della ricerca che esige il consenso informato e infrange il diritto alla «privacy».

Sesso fa rima con amore

Una obiezione di fondo, di carattere più antropologico che etico, va rivolta contro il «riduzionismo», sul quale implicitamente si fonda la sessuologia medica. Perché si possa costituire un sapere specialistico, la medicina applica anche alla sessualità il procedimento che consiste nel mettere tra parentesi la persona e considerare soltanto i sintomi organici. La genitalità viene cosi sganciata dai vissuti personali; la sessuologia medica si costituisce come un’impresa riparativa di disfunzioni.

È un fatto incontrovertibile che la domanda di aiuto per difficoltà sessuali è cresciuta vertiginosamente nel breve volgere di anni. Il fenomeno va inserito nella domanda globale di salute, considerata come uno dei diritti fondamentali del cittadino. La salute sessuale (definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come «l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, in modo da pervenire a un arricchimento della personalità umana, della comunicazione d’amore») è un aspetto del benessere che ognuno si sente autorizzato a perseguire, e anche a pretendere.

Nella pratica medica corrente, tuttavia, i termini reali della domanda di aiuto si rivolgono quasi esclusivamente all’abolizione dei sintomi. I sintomi da eliminare sono le disfunzioni sessuali più invalidanti: impotenza ed eiaculazione precoce nell’uomo, anorgasmicità e vaginismo per la donna. Quante di queste malattie del sesso, però, sono indotte dalla stessa medicina sessuale? Proprio l’impoverimento della vita erotica ― che include componenti psicologiche, sociali e affettive, primo tra tutti il legame amoroso ― porta alla «sessualità disfunzionale». La sessuologia medica si appresta così a curare la sintomatologia

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che essa stessa ha contribuito a creare, diffondendo una conoscenza meccanica della sessualità.

La sessuologia medica deve essere aiutata a non percorrere sentieri ambigui, a non impoverire la sessualità umana, sotto la spinta del «mercato terapeutico» o di una scienza ispirata da una antropologia mutilata, dimentica che l’uomo è un’unità bio-psico-spirituale. Coloro che condividono una visione spiritualizzata dell’uomo devono dare il loro apporto perché la sessuologia esca da una piattaforma antropologica così angusta e si evolva in senso umanistico. Ciò comprende, certo, una giusta valutazione del corpo: nessuna riserva sulle conoscenze fisiologiche che possono aiutare a sbloccare l’esercizio della sessualità inceppato. Ma bisogna anche ricordare alla nostra cultura, non ancora libera dal mito del materialismo meccanicista, che l’elemento decisivo per la sessualità umana è il giusto rapporto del cuore e delle emozioni con se stessi e con gli altri. Non basta la padronanza delle tecniche sessuali per liberare la vita amorosa degli uomini e delle donne del nostro tempo dal malessere che la soffoca. Imparare a fare l’amore comincia con l’imparare ad amarsi!

2. Norma e devianza: le terapie sessuali

Chi stabilisce che cosa è normale o anormale?

L’acquisizione di un sapere scientifico sulla vita sessuale fu finalizzato fin dall’inizio ad ottenere un controllo su di essa. Non si voleva solo spiegarla in termini medici, ma agire su di essa per «guarirla». Ciò presuppone che colui che nel suo comportamento sessuale si discosta dallo standard proposto dalla morale comune e sancito dalle leggi, debba essere ricondotto entro la norma per opera terapeutica della sessuologia medica.

Il cambiamento è della massima importanza. Il «deviante» non viene più considerato come un peccatore che deve essere salvato, né come un criminale da punire, ma come un malato da curare. Virtù e vizio non sono concetti equivalenti a salute e malattia; con il passaggio da un linguaggio all’altro, si è modificato

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radicalmente il modo di considerare i comportamenti sessuali abnormi. Non si parla più in termini moralistici («Tu sei cattivo»), ma come lontananza da una norma che implica un grado di imperfezione («Tu sei deviante»). Chi non realizza la perfezione di un tipo ideale, è un malato; ed essere malato vuol dire essere difettoso, piuttosto che malvagio.

Ma esiste una sessualità «normale»? Tanto le credenze e le opinioni del buon senso comune, improntate a un biologismo ingenuo, quanto le riflessioni basate sulla «legge naturale», concordano nell’identificare la normalità nell’esistenza di due sessi, come tipi biologici polarmente opposti, dotati di attributi psicologici diversi e di stereotipi comportamentali distinti e complementari. Ognuno dei due sessi prova «naturalmente» attrazione per il sesso «opposto». La finalità a cui tende l’attrazione è che i due individui abbiano un rapporto sessuale soggettivamente legato alla riproduzione o al soddisfacimento di altri bisogni.

La sessuologia medica fin dal suo inizio esplorò tutto il vasto campo delle variazioni nel comportamento sessuale (esemplari sono le classificazioni di Kraft-Ebing nella sua Psychopathia sexualis); tuttavia rimase fondamentalmente legata alla nozione di un basilare comportamento sessuale «corretto», che può corrompersi, e perciò richiede una terapia. Nella psicanalisi di Freud il concetto stesso di stadi di sviluppo psicosessuale tendeva a proporre un modello di sviluppo sano; praticamente veniva a coincidere con la sessualità genitale eterosessuale. Per i comportamenti devianti Freud conservò il termine di «perversione», carico di risonanze morali.

Il riferimento a una norma ideale continua ad essere implicito nello sviluppo recente delle terapie sessuali. Il potere di stabilire norme è passato dai moralisti ai medici, e le norme stesse sono state ribaltate; ma la richiesta rivolta all’individuo di conformarsi a uno standard continua ad essere la stessa. L’esempio più eloquente è quello della masturbazione. La cultura vittoriana, che la condannava per motivi morali, trovò un valido alleato nella medicina stessa. Questa la descrisse come una sindrome patologica particolare, ritenendola responsabile delle più catastrofiche decadenze fisiche e psichiche. Medici si allearono a pedagogisti per inventare strumenti di contenzione, che impedissero ai giovinetti di masturbarsi, anche inconsapevolmente,

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durante il sonno. Per i masturbatori ossessivi un secolo fa si arrivava a raccomandare la castrazione. Capovolta la norma ideale, secondo la sessuologia di mercato attuale la masturbazione è non solo normale, ma addirittura benefica. «Deviante», e quindi da curare, è piuttosto considerato chi non la pratica.

Ancora più evidente l’intrusione del modello ideale nella sessualità femminile. L’orgasmo è diventato l’imperativo, creando automaticamente una quantità di donne «malate», o dalla «sessualità disfunzionale», perché non si adeguano al modello. L’«anorgasmicità» è una nuova malattia, suscitata dall’impresa medica rivolta ad assicurare il benessere sessuale delle persone. In una civiltà che ha introdotto l’ideale consumistico all’interno della vita sessuale, l’«inadeguato desiderio sessuale» diventa la principale disfunzione. Ma non è l’individuo che giudica se il suo desiderio sia adeguato o no, bensì la norma medica. Questa pretenderà pure, mediante le terapie sessuali alla Masters e Johnson, di insegnargli il modo «corretto» di fare l’amore, identificato per lo più con un sesso meccanizzato. La diffusione di standard di alta performance ha creato nel grande pubblico una diffusa ansietà, che spinge a cercare sempre più spesso l’aiuto presso terapeuti sessuali, con la conseguente proliferazione di ciarlatani e di terapeuti improvvisati.

Nel modello efficientistico della sessualità va perduta la possibilità di rinunciare al suo esercizio, per motivi ascetici o spirituali. La svalutazione del modello della sublimazione delle energie sessuali va imputata più alla sessuologia medica che alla psicanalisi. Questa ha indubbiamente attaccato la sublimazione quale causa di alcuni sviluppi nevrotici (nella divulgazione del pensiero freudiano, spesso approssimativa, si è fatta equivalere la nevrosi alla repressione sessuale). Ma la psicanalisi non ha negato aprioristicamente la possibilità e l’utilità di una sublimazione non patologica. Ciò è avvenuto, invece, col diffondersi della concezione consumistica della sessualità. La castità per scelta volontaria diventa, in questo contesto, un comportamento «deviante», che andrebbe ricondotto alla «normalità». Questa valutazione contrasta con la pratica coltivata, non solo in seno al cristianesimo, ma in molte altre tradizioni spirituali (si pensi all’ideale di continenza proposto e praticato da Gandhi).

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Quando il sesso va curato: interrogativi etici

La prima questione etica connessa con le terapie sessuali è quella della loro necessità. Il bisogno di ricorrere a una terapia è soggettivo. Ci sono persone che non intendono modificare i propri comportamenti sessuali, che pur possono essere considerati da altri come abnormi o indesiderabili. Molti, per esempio, sono perfettamente a loro agio con la propria omosessualità, e mai la considererebbero come un sintomo di malattia da curare. Per altri il bisogno di terapia sessuale può essere indotto dalla forte pressione sociale ad adeguarsi a un comportamento ritenuto come «sano» e desiderabile. Ciò spinge molte persone, come abbiamo visto, a considerarsi «malate» dal punto di vista sessuale, anche se, secondo altri criteri, non c’è motivo di considerare i loro comportamenti come patologici. Solo l’individuo può giudicare se il suo sintomo sia dentro o fuori la soglia della tollerabilità.

Quando la persona che vuol liberarsi della sofferenza o del disagio connesso con un comportamento sessuale indesiderato si rivolge a tal fine a uno specialista in sessuologia, questi procede a una terapia sessuale. L’obiettivo del benessere sessuale può essere perseguito a qualsiasi prezzo? I mezzi in etica non sono indifferenti. Fortissime riserve suscita l’uso in certe terapie sessuali comportamentali di «partners surrogati». Con questo termine eufemistico vengono designati degli uomini e delle donne che si prestano, dietro pagamento, ad avere rapporti sessuali con il paziente o la paziente al fine di correggerne, sotto il controllo del sessuologo, i comportamenti «disfunzionali».

Una disapprovazione ancora più energica cade sull’intimità sessuale tra terapeuta e paziente. Dal punto di vista della terapia analitica, un tale rapporto è una trappola deleteria per il paziente e controproducente per la terapia. Ma anche dal punto di vista deontologico una simile intimità va condannata, perché alimenta lo scandalismo e getta il discredito sulla professione. I terapeuti sessuali, d’altronde, sono per lo più d’accordo che l’intimità sessuale nell’ambito della terapia vada bandita. E se tra terapeuta e paziente sorgesse un vero amore? Ebbene, in questo caso la correttezza professionale esige che si ponga fine alla terapia!

In modo drammatico si pone il problema etico della «normalità»

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sessuale nel caso di transessuali. Si tratta di persone, per lo più uomini, presso cui l’identità di genere (cioè la consapevolezza individuale della persona di appartenere al genere maschile o femminile) discorda con il sesso biologico. Soggettivamente si sentono donne, alle quali la sorte ha attribuito, con intenzione maligna o ironica, un corpo di uomo.

Lo studio clinico e sperimentale delle anomalie dello sviluppo psicosessuale ci ha portato a una conoscenza dell’identità sessuale notevolmente diversa rispetto alla concezione ingenua più corrente. L’identità sessuale, cioè il sentirsi uomo o donna e comportarsi come tali, non la si riceve in dotazione alla nascita, ma si costruisce mediante un lungo percorso che comincia al momento stesso della fecondazione e termina con lo sviluppo puberale. È un cammino lungo e insidioso, nel corso del quale possono intervenire deviazioni dello sviluppo di vario genere.

Le turbe dell’identità sessuale possono essere radicate tanto nella differenziazione che ha luogo nella vita intrauterina, quanto nella nascita e nella vita post-natale. La responsabilità risale, rispettivamente, a difetti genetici (anomalie cromosomiche); a un’alterata produzione di ormoni durante i periodi critici dello sviluppo fetale (quando si ha ermafroditismo, si verificano incongruenze anatomiche nella morfologia dei genitali esterni); a un’errata attribuzione di sesso alla nascita; o, più semplicemente, all’educazione. Per queste persone la conquista della propria identità sessuale diventa un problema arduo, con strascichi di molta sofferenza. Tanto più precoce è l’allontanamento dal modulo normale dello sviluppo, nelle tappe decisive della differenziazione, tanto più gravi e irreversibili sono le conseguenze.

Nell’insieme della popolazione sono comparativamente pochi gli individui che mostrano una discordanza significativa tra il sesso biologico, la loro identità sessuale e l’orientamento del desiderio. Le turbe principali possono essere ricondotte al transessualismo, al travestitismo (che si manifesta nella tendenza coatta a identificarsi col sesso opposto e a vestirne gli abiti) e all’omosessualità; le diverse forme di parafilia (le cosiddette «perversioni») costituiscono variazioni morbose nella scelta dell’oggetto sessuale.

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Il medico e la richiesta di cambiamento di sesso

Il caso che ha più probabilità di giungere al medico, ponendogli dei conflitti di ordine etico, è quello del transessuale che domandi il cambiamento di sesso. Mentre nelle altre turbe, infatti, l’individuo trova con maggiore o minore difficoltà un adattamento, il transessuale mal si rassegna alla trappola di un corpo «sbagliato». Sempre più numerosi sono i transessuali che intraprendono il viaggio che li faccia approdare al sesso che sentono come la loro «vera natura». Dopo il trattamento ormonale, che modifica i caratteri sessuali secondari, alcuni si spingono fino ad alterare chirurgicamente la propria anatomia per risolvere radicalmente l’incongruenza. L’operazione è solo l’elemento più spettacolare del cambiamento di sesso; di fatto, per armonizzare la discordanza tra biologia e identità di genere sono necessarie una quantità di trasformazioni, che riguardano anche gli stereotipi comportamentali dell’uno e dell’altro sesso.

È lecito cambiare sesso, come pervengono a conseguire i transessuali? Questa formulazione riflette da vicino il modo in cui il problema dei transessuali è visto dall’opinione pubblica. Sulla loro vicenda grava il sospetto di un intervento capriccioso, quasi una sfida alla natura e alla società, nonché l’insinuazione che il passaggio da un sesso all’altro sia, in definitiva, a servizio della prostituzione. La scelta è vista in funzione del piacere, senza considerare la sofferenza lacerante che spesso accompagna il transessuale nella ricerca della propria identità. Il transessuale, da parte sua, vive la sua decisione non come un cambiamento arbitrario, bensì come l’adeguamento del corpo al profilo psicosessuale che sente come proprio: un cambiamento a cui ritiene di avere diritto.

La richiesta di intervento medico per la riassegnazione del sesso ― con l’aiuto della terapia ormonale e, come ultima tappa, mediante intervento chirurgico ― solleva per il sanitario problemi deontologici ed etici. L’opera medica in questo caso travalica l’ambito terapeutico tradizionale. Il medico non può limitarsi semplicemente ad assecondare la richiesta, senza sottoporla a un certo vaglio per appurare la qualità della motivazione; deve anche considerare le conseguenze sanitarie e psicologiche dell’intervento. Benché la legislazione italiana, con la legge n. 164 del 14 aprile 1982, non consideri più tali interventi

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chirurgici come mutilazione perseguibile penalmente, i medici sono per lo più ostili, perché privilegiano la sessualità morfologico-ormonale, a danno delle altre componenti che pur entrano nella costituzione dell’identità sessuale. L’opinione pubblica, da parte sua, seguita a condannare come aberrazioni o eccentricità i cambiamenti di sesso. In tale contesto, i transessuali continuano ad essere rinviati al sottobosco della medicina abusiva (e abborracciata: con gravi danni, perciò, all’organismo) e della speculazione.

Ciò che rimane acquisito dalle conoscenze scientifiche relative a queste anomalie è che, quando ci sia una discrepanza tra l’identità sessuale e il sesso biologico, l’incongruenza può essere livellata solo operando sul versante somatico. Una volta che l’identità si sia stabilita ― e oggi sappiamo con relativa certezza che il processo è completo con l’acquisizione del linguaggio: quindi, entro i due o tre anni di età ―, la psiche oppone al cambiamento una resistenza maggiore del corpo. Cadute le barriere legali nei confronti degli interventi chirurgici di cambiamento di sesso, ne possono tuttavia sussistere altre di diversa natura: medica, sociale o psicologica. In questi casi, quando tali barriere non possono essere abbattute, l’unica via per dotare di senso l’insuperabile frustrazione rimane quella della sublimazione. Nello spirito della preghiera attribuita a S. Francesco: «Dammi, Signore, di cambiare le cose che possono essere cambiate, e di accettare quelle che non possono esserlo».

3. Per approfondire

J. Money - H. Musaph (a cura), Sessuologia, Borla, Torino 1968, 3 voll.

In questo manuale la sessualità umana è affrontata in modo empirico, con attenzione soprattutto alle sue basi comportamentali. L’impostazione pluridisciplinare lascia che emergano tutte le componenti della sessualità. La biologia e la fisiologia hanno uno spazio rispettabile, ma non meno della psicologia e dell’antropologia culturale, dell’etologia e della sociologia, e anche dell’etica e della teologia.

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J. Money - P. TuckerEssere uomo, essere donna, Feltrinelli, Milano 1980.

Partendo dalle conoscenze cliniche di uomini e donne che soffrono di turbe dell’identità sessuale, viene tracciato il cammino che porta all’acquisizione della coscienza di appartenere a un determinato sesso. Lo sviluppo sessuale si presenta come un intreccio di elementi biologici, storici, culturali e biografici. Fornisce i presupposti antropologici per le questioni etiche relative al trattamento delle turbe dell’identità sessuale.

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VII

LA SALUTE MENTALE

1. Problemi etici della pratica psichiatrica

Il «caso Tarasoff»

Un caso giudiziario, discusso presso la Corte Suprema della California, può darci lo spunto, al di là dell’interesse propriamente giuridico del fatto, per delle considerazioni che ci introducano nel vivo dei problemi etici in psichiatria. Un medico psichiatra è stato querelato dai genitori di Tatiana Tarasoff, una ragazza rimasta vittima di uno psicopatico. Questi aveva confidato allo psichiatra, presso cui era in trattamento, la sua intenzione di uccidere la ragazza, quando questa fosse tornata da un viaggio. Il medico aveva fatto internare il suo paziente in un ospedale psichiatrico; dopo un periodo di osservazione, tuttavia, il futuro omicida era stato dimesso. Lo psichiatra si era astenuto dall’avvertire i genitori di Tatiana del pericolo che la ragazza correva. In tribunale la giuria si divise su due posizioni contrastanti. Quella di maggioranza dichiarò lo psichiatra colpevole di negligenza professionale, anche se Tatiana non era sua paziente. «Quando un terapeuta stabilisce ― si legge nella sentenza ― o, secondo il livello di competenza richiesto dalla professione, dovrebbe essere in grado di stabilire, che un suo paziente presenta un serio pericolo di violenza nei confronti di un altro, è obbligato a proteggere la vittima da tale pericolo»: per esempio comunicandolo alla polizia. Pur riconoscendo che, per il pubblico interesse, bisogna salvaguardare il carattere confidenziale della comunicazione terapeutica, in quanto questo protegge il diritto del paziente alla «privacy» e contribuisce all’efficacia della cura delle malattie mentali, tuttavia nel caso specifico la confidenzialità era scavalcata dal pubblico interesse per la sicurezza dall’aggressione violenta.

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L’opinione della minoranza, invece, difendeva l’operato dello psichiatra. Questi aveva tutelato i diritti del paziente, non violando la regola della confidenzialità. Non solo: così facendo, aveva contribuito al bene pubblico. Se infatti la regola della riservatezza di ciò che il paziente dice al suo psichiatra venisse infranta, il trattamento psichiatrico sarebbe frustrato e i pazienti perderebbero la fiducia incondizionata nel medico. Il pericolo di aggressioni violente aumenterebbe, invece di diminuire, perché molte persone sarebbero dissuase dal cercare l’aiuto psichiatrico. Anche se si internassero tutte le persone che fanno minacce, la società risulterebbe danneggiata: coloro che presentano effettivamente un rischio di violenza sono pochi, mentre la maggioranza innocua, una volta internata, non potrebbe avere i benefici psicoterapeutici del trattamento basato sulla fiducia.

Il caso Tarasoff ha il vantaggio di introdurci in modo diretto nei problemi etici connessi con la cura delle malattie mentali. Grazie ad esso, il dilemma etico perde il suo carattere astratto: trovarsi in un dilemma significa dover scegliere, pur sapendo che nessuna azione sarà perfetta. Forti ragioni morali e fondate considerazioni deontologiche sostengono le argomentazioni opposte dei giudici, che rappresentano rispettivamente la maggioranza e la minoranza. Ambedue le parti avanzano correttamente dei princìpi morali a sostegno delle differenti conclusioni a cui giungono. La maggioranza, disapprovando l’operato dello psichiatra, si rifà al principio della «beneficialità» (curare la salute, incrementare la qualità della vita, non nuocere ad alcuno) che ispira la condotta del medico; l’opinione di minoranza considera, a giustificazione dello psichiatra, che ha agito coerentemente con il principio della autonomia del soggetto e in accordo con la regola della confidenzialità, così importante nel rapporto terapeutico rivolto a curare le malattie mentali. Né l’una né l’altra parte ha ragioni che possano dimostrarsi incontrovertibilmente giuste: alcune evidenze mostrano che il comportamento dello psichiatra è moralmente giusto, altre che è moralmente sbagliato.

Questa situazione si presenta spesso nella soggettività dell’agente, il quale sente che per ragioni morali contemporaneamente dovrebbe e non dovrebbe compiere certi atti ed ometterne certi altri. Questa condizione si aggrava in una società pluralista, dove ci sono più fonti di valori; ne consegue un pluralismo

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di punti di vista morali su diversi problemi. Una particolare tensione si fa sentire nella psichiatria, per il fatto di trovarsi a cerniera tra l’interesse terapeutico dell’individuo e quello di sicurezza ed ordine che riguarda la società. Anche il dibattito sull’aspetto terapeutico o repressivo della psichiatria si fonda, in ultima analisi, sulla pluralità dei valori etici.

La psichiatria è a servizio della repressione?

La pratica psichiatrica è stata nel mirino della discussione politico-etica degli ultimi due decenni. Per alcuni aspetti la medicina che si occupa delle malattie mentali rientra nella più ampia sfera dei problemi bioetici; per altri invece occupa un posto a sé. Già la presentazione del caso Tarasoff ci ha fatto intravvedere che la psichiatria si apre su due versanti: quello medico, inteso a favorire la salute e il benessere dell’individuo, e quello sociale, rivolto a reprimere i comportamenti devianti dannosi per il bene pubblico. Il suo esercizio avviene secondo due modalità distinte: la pratica medica di un libero professionista, al quale il paziente si rivolge di propria iniziativa per avere aiuto, e gli aspetti coattivi di un ospedale o clinica psichiatrica, in cui il malato mentale può essere indirizzato e obbligato a essere curato, anche contro la sua volontà.

Il dibattito suscitato dal movimento dell’«antipsichiatria» ha messo sotto accusa alcune forme di questo secondo aspetto. Le istituzioni per l’internamento dei «malati mentali» sono state indicate come luoghi di emarginazione e repressione dei comportamenti socialmente indesiderati. Il criterio per l’internamento, costituito dalla pericolosità «per sé e per gli altri», è stato spesso esteso all’indesiderabilità: per esempio ai propri familiari. Talvolta il semplice non conformismo sociale poteva giustificare l’ospedalizzazione forzata. Conseguente a questa era il trattamento terapeutico, anche malgrado l’opposizione del paziente. L’argomentazione soggiacente può essere così articolata: la malattia mentale, a differenza di qualsiasi altra forma morbosa, influenza proprio la capacità dell’individuo di riconoscere il proprio bisogno di terapia. Per il suo bene, dunque, questa gli viene fornita, anche contro la sua volontà. Ne deriva uno «zelo terapeutico», giustificato in modo paternalistico, che può dar adito a gravi abusi e violazioni della libertà individuale.

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Il controllo degli individui per il bene del gruppo non è illegale. La società lo esercita in forme diverse, ma contemporaneamente lo limita e lo disciplina accuratamente. Il controllo e la repressione possono essere esercitati solo da persone autorizzate, e agli individui la legge riconosce il diritto legale di difendersi. Questa tutela diventa impossibile quando il controllo è esercitato dalle istituzioni psichiatriche, sotto la motivazione della terapia, o da altre «istituzioni totali» (prigioni, esercito...), con giustificazione psichiatrica.

La denuncia del rapporto implacabile che esiste fra violenza sociale e debolezza dell’identità individuale non è nuova. L’ha già espressa all’inizio del secolo lo scrittore austriaco Karl Kraus, imbastendo una feroce satira della psichiatria giudiziaria. Lo spunto gli era stato offerto dal processo relativo alla principessa Luisa di Sassonia che, colpevole di adulterio, era stata internata in un manicomio, per iniziativa del marito, e dichiarata inferma di mente dai più illustri clinici psichiatri di Vienna. Analizzando le argomentazioni, Kraus smascherava il sofisma: veniva considerato come sintomo di malattia mentale il fatto che la principessa, rivelando una deplorevole carenza del principio di realtà, insistesse a proclamarsi sana di mente e ritenesse un sopruso il suo ricovero coatto in manicomio. Dunque, deduce Kraus, la principessa per essere sana dovrebbe riconoscere di essere pazza. Di qui la definizione sferzante dello scrittore: l’uomo finisce con lo psichiatra (in risposta al detto di uno statista austriaco, secondo il quale l’uomo incomincia dal barone...)!

La stessa inattaccabile violenza repressiva delle istituzioni psichiatriche si può trovare oggi presso i clinici che considerano un fenomeno «psicopatologico» la paura dei pazienti per un trattamento elettroconvulsivo. Se questi rifiutano il trattamento per motivi che allo psichiatra appaiono sproporzionati e irragionevoli, e quindi sintomo di disturbo mentale, possono essere soggetti a ulteriori manipolazioni coercitive, sempre per motivi «terapeutici». La persona, insomma, può essere etichettata come «malato mentale» per il fatto che rifiuta un trattamento che lo psichiatra prescriverebbe a un «malato mentale». Il film di Milos Forman Qualcuno volò sul nido del cuculo ha portato a livello di massa la consapevolezza del pericolo repressivo insito nelle moderne tecniche terapeutiche della psichiatria. Il protagonista, internato in una istituzione psichiatrica a causa di comportamenti

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socialmente molesti, non si adegua alle regole interne dell’istituzione viene perciò sottoposto a «terapie» sempre più dure ― passa successivamente attraverso la psicoterapia di gruppo, gli psicofarmaci, l’elettroshock e la lobotomia, scendendo tutti i gironi dell’inferno psichiatrico ―, fino ad essere ridotto ad una innocua larva umana.

Il movimento dell’antipsichiatria si è nettamente demarcato dalla psichiatria medica, per riportare i comportamenti etichettati come «malattia mentale» nell’ambito delle scienze umane e dei problemi sociali. Con la discussa legge 180 (approvata il 13 maggio 1978) otteneva di tradurre il dibattito teorico sulla psichiatria in una nuova politica sanitaria della salute mentale. Questa prevedeva la chiusura degli ospedali psichiatrici, denunciati come luoghi di segregazione e di degradazione, nonché il reinserimento e l’assistenza dei malati mentali «nel territorio».

Il bilancio di questa decisione è, per ammissione unanime, negativo. L’indignazione morale tradotta in legge ha prodotto mali peggiori di quelli che intendeva sanare. Lo smantellamento degli ospedali psichiatrici potè essere fatto con un colpo di penna; il reinserimento dei dimessi nella società, invece, non è avvenuto, creando un ulteriore degrado della condizione del malato mentale. I malati psichiatrici, messi «nella» comunità senza essere «della» comunità, hanno conosciuto nuove forme di abbandono. Queste sono esibite agli occhi di tutti, per la strada. Se un senso si vuol trovare a queste nuove sofferenze, non può essere altro che quello di rendere pubblico il problema, tenendo aperta la richiesta di una risposta umanizzata alla malattia mentale, in cui confluiscano giustizia sociale, sapere terapeutico e valori etici.

Controllo del comportamento e consenso

Nel groviglio di problemi di ogni ordine ― politici, sociali, epistemologici, legali ― che caratterizzano l’attuale situazione psichiatrica, vogliamo isolare, come questione che concerne principalmente l’etica, il problema del consenso alle terapie psichiatriche. A prima vista, nell’ambito della salute mentale il consenso sembra presentarsi in modo completamente diverso rispetto alla salute fisica. Le differenze ovviamente esistono, ma è necessario

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integrare la prima impressione con il riconoscimento di un fondo di sostanziale analogia. Per toccare subito la differenza più evidente, è vero che la cura psichiatrica può, per disposizione della legge, essere imposta d’autorità, anche contro la volontà del paziente. Ma questa è una evenienza che si realizza anche nell’ambito della medicina somatica, quando si vuol tutelare il bene della salute, che è sociale, oltre che privato. Si pensi, ad esempio, al caso delle vaccinazioni obbligatorie.

Un’altra differenza riguarda il concetto stesso di «salute mentale»: i professionisti psichiatri possono avere una loro concezione di salute e malattia, che diverge dalla valutazione autonoma degli interessati. Nel caso degli psicotici, che non hanno mai avuto o hanno perso il contatto con la realtà, la divaricazione tra salute mentale e percezione dei propri problemi può diventare drammatica. Si rende necessaria allora l’imposizione coatta di terapie, senza riguardo per la volontà autonoma dei pazienti, i quali ritengono di non averne bisogno. Tuttavia, anche nel caso della medicina fisica, il concetto di «salute» non è esente da una considerazione di valore. Sempre più ci rendiamo conto che la medicina moderna è totalitaria nell’imporre i suoi parametri di salute e malattia, nel «medicalizzare» situazioni fisiologiche (ad esempio la donna incinta o partoriente considerata come «malata») e nell’intervenire arbitrariamente per il bene presunto della persona. La questione del consenso informato si pone quindi tanto nella cura della salute fisica, quanto in quella della salute mentale, con differenze più di grado che sostanziali.

La giustificazione morale per la cura non consensuale delle malattie mentali si fonda per lo più sulla possibile divergenza tra il desiderio conscio e quello inconscio di essere curato. L’esemplificazione più chiara ci è fornita da certi casi di tentato suicidio. La persona che è scampata alla morte può dichiarare di rifiutare qualsiasi trattamento e di volere che la si lasci morire. Tra le parole e i fatti, tuttavia, si può rilevare una notevole divergenza. Le parole rifiutano l’aiuto, mentre i fatti ― il tentato suicidio come richiamo di attenzione, il contributo inconscio a far sì che il suicidio fallisca ― lo invocano.

Se il sanitario si attenesse solo alla richiesta consapevole ed esplicita, verrebbe meno ― oltre ovviamente agli obblighi di ordine legale ― all’alleanza terapeutica che lo lega al paziente come

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persona, quindi anche alla sua realtà inconscia. Ci muoviamo qui sul terreno scivoloso dell’interpretazione, che potrebbe dar adito anche alle peggiori prevaricazioni. Un caso estremo di questo genere è l’uso della psichiatria per «normalizzare» i dissidenti politici nei regimi totalitari. L’ideologia determina in questo caso sanità e malattia mentale; le strutture di potere utilizzano l’arsenale delle terapie psichiatriche per «guarire», vale a dire per eliminare pensieri e comportamenti in constrasto con le direttive ideologiche del partito.

L’Associazione Psichiatrica Mondiale ha elaborato delle norme etiche, con valore di codice deontologico, a cui devono ispirarsi gli psichiatri di ogni Paese. Per quanto riguarda il consenso, il testo, noto come «Dichiarazione delle Hawaii» (1977) prevede: «Non si deve intraprendere alcuna procedura, né fornire alcun trattamento, contro o indipendentemente dalla volontà del paziente, a meno che il paziente non abbia la capacità di esprimere i propri desideri o, a seguito della malattia psichiatrica, non sia in grado di vedere qual è il proprio miglior interesse oppure, per le stesse ragioni, costituisca una grave minaccia per gli altri. In questi casi si può e si deve procedere a un trattamento coercitivo, purché sia fatto nell’interesse del paziente e in un periodo ragionevole di tempo si possa presumere un consenso informato retroattivo e, quando è possibile, si ottenga il consenso di qualche familiare del paziente».

Il problema del consenso informato in psichiatria non permette una soluzione per principio; tanto più importanti appaiono perciò le indicazioni pratiche che possono evitare il pericolo di abusi. Una di queste, indicata dall’Associazione Psichiatrica Mondiale, è la limitazione temporanea del trattamento coercitivo, perché, passata l’emergenza, il paziente stesso possa assumere o respingere la terapia. Un’altra indicazione, connessa alla precedente, è il rifiuto di trattamenti che abbiano effetti irreversibili, e che quindi il paziente non sarà più in grado di ratificare. Il discorso si sposta così sui metodi stessi, alcuni dei quali sollevano perplessità e riserve dal punto di vista etico.

Alcune terapie psichiatriche

Gli interrogativi circa l’uso repressivo della psichiatria e il consenso informato si addensano in particolare attorno a tre pratiche

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psichiatriche: l’uso di farmaci psicotropi, le terapie elettroconvulsive e la psicochirurgia. Quanto ai primi, è stato più volte ripetuto che la grande svolta della psichiatria contemporanea è dovuta alla disponibilità di farmaci psicoattivi, con la capacità cioè di influenzare le funzioni intellettuali e l’umore.

La psicofarmacologia ha permesso di rinunciare ai mezzi coercitivi brutali del passato e di svuotare gli ospedali psichiatrici. Grazie agli psicofarmaci, i sintomi del comportamento psicotico possono essere controllati, facilitando così il reinserimento del malato nella comunità. Ma se si considera la qualità della vita di questi pazienti dimessi, le prospettive sono meno idilliche. Sovraccarichi di farmaci, in uno stato mentale spento od offuscato, ridotto spesso a reazioni lente e meccaniche, come di automi, ci si domanda se per questi pazienti l’essere dimessi dall’ospedale sia un progresso qualitativo. Tuttavia, finché non saranno sviluppati nuovi farmaci che siano effettivamente in grado di «curare» le psicosi, o finché non si svilupperanno nella comunità le risorse umane adeguate per «prendersi cura» di tali pazienti, il ricorso alla psicofarmacologia attuale sembra obbligato, almeno come male minore.

Riserve più marcate cadono sulle terapie che ricorrono alla stimolazione elettrica del cervello (elettroshock). Era osservazione di antica data che alcuni malati mentali miglioravano temporaneamente, dopo un attacco spontaneo. Il passo decisivo fu l’induzione deliberata di convulsioni, ricorrendo alla corrente alternata, a iniezioni intravenose o ad altre sostanze. A seguito del trattamento convulsivo, il paziente resta per alcuni minuti senza coscienza e piuttosto confuso; accusa anche una sensibile perdita della memoria. Ma gli psichiatri ritengono che i vantaggi nel sollievo dai sintomi siano superiori ai danni arrecati, e che perciò queste procedure vadano considerate come una vera e propria terapia. Originariamente il trattamento elettroconvulsivo fu introdotto per la schizofrenia; ora è riconosciuto più efficace per il trattamento dei disordini emotivi, particolarmente per la depressione. Viene riconosciuto come particolarmente indicato quando si ha una imminente probabilità di suicidio.

Una tempesta di controversie ha accompagnato fin dall’inizio l’uso delle terapie elettroconvulsive. Mancando conoscenze assodate sulla modalità di funzionamento fisiologico di questo tipo di interventi, si tratta di una cura empirica, di cui non siamo

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ancora in grado di stabilire le conseguenze a lunga scadenza sul funzionamento del sistema nervoso. Quanto conosciamo degli effetti immediati è già preoccupante: molti clinici hanno l’impressione che dopo frequenti applicazioni di elettroshock la personalità del malato sia spenta. Forti riserve cadono anche sulla possibilità di un consenso informato da parte del paziente, il quale non è messo in grado di poter giudicare con cognizione di causa ciò che gli viene presentato autorevolmente come una «cura», e quindi come intervento terapeutico intrapreso a suo beneficio, per quanto doloroso e invalidante.

Un ulteriore sviluppo delle terapie elettroconvulsive è una stimolazione elettrica del cervello ad opera di elettrodi impiantati in profondità nel cervello stesso. Dal livello della ricerca si è passati rapidamente a quello delle applicazioni cliniche, con riferimento alla inibizione di attacchi epilettici e al trattamento di alcuni tipi di psicopatologia. Il carattere sperimentale di questa terapia è ancora più marcato che per l’elettroshock. Di conseguenza, più radicali sono i dubbi sulla liceità morale di questo intervento. La modifica del cervello, infatti, tocca la personalità più di qualsiasi altro tipo di manipolazione. In questo caso mediante la stimolazione elettrica del cervello si controlla il comportamento di un’altra persona. Anche se ciò avviene per proteggere la società (si pensi al caso di uomini che siano stati protagonisti recidivi di violenze sessuali a bambini e che in tal modo siano impediti di soggiacere ancora ai loro impulsi incontrollati), la negazione della libertà e della dignità di una persona sottoposta a tale trattamento è un prezzo che l’etica vieta di pagare.

Veniamo a considerare da ultimo la psicochirurgia. Il trattamento di malattie psichiatriche mediante interventi chirurgici sul cervello è stato già sviluppato negli anni ’30 e conosciuto col nome di «lobotomia». Prima dell’introduzione dei farmaci psicoattivi, negli anni ’50, era considerato l’unico procedimento per venire a capo di disturbi psichiatrici irriducibili. La pratica attuale è più mirata e si limita a intervenire su due regioni del cervello: sui lobi frontali, per le forti depressioni, schizofrenia, stati d’ansia e nevrosi ossessive; sui lobi temporali e sull’ipotalamo, per il comportamento estremamente aggressivo e violento, in particolare per le violenze sessuali.

Quando tra gli anni ’60 e ’70 la psichiatria diventò uno dei

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più discussi temi di politica, la psicochirurgia figurò tra i principali capi di imputazione. I problemi che essa solleva sono di diverso ordine: medico (che cosa produce esattamente l’intervento chirurgico sul cervello? si può qualificare come terapia un procedimento che ha tuttora un carattere empirico-sperimentale e i cui effetti sono irreversibili?); antropologico (siamo di fronte a un’irresponsabile intrusione nel santuario più intimo della persona umana? Modificare il cervello equivale a un «assassinio dell’anima»?); sociale (la psicochirurgia è inevitabilmente usata come sistema di controllo sociale, per modificare il comportamento di chi esercita un’aggressione contro altri; i medici in questo caso vengono a svolgere un ruolo di agenti controllori della società, che etichetta come patologico il comportamento non gradito, piuttosto che di terapeuti alleati del paziente); etico, infine. Ci si domanda, da quest’ultima prospettiva, se la pratica di questi interventi possa essere filtrata in modo da prevenire abusi e da permettere solo quelli che abbiano una esplicita finalità terapeutica.

Realisticamente bisogna riconoscere che il giudizio terapeutico è spesso inquinato da altri elementi. Nella diagnosi, infatti, interferiscono i disturbi sociali. I candidati alla psicochirurgia sono in primo luogo persone che si comportano in modo offensivo verso la società e i propri familiari. La finalità terapeutica e quella punitiva sono così imbricate, che risulta difficile districarle. Anche quando si riesca a mantenersi nell’ambito della terapia, la concezione dell’uomo interferisce nella valutazione del rapporto costi-benefici. La promessa di togliere una grande sofferenza psichica deve essere confrontata col rischio di spegnere la personalità, di danneggiare la memoria, di diminuire la creatività. In una visione spirituale dell’uomo questi elementi sono così importanti che l’intervento psicochirurgico va considerato solo un'extrema ratio, non un procedimento di routine.

Uso e abuso di farmaci e droghe

Un fenomeno maggiore dello scenario psichiatrico contemporaneo è la diffusione crescente dell’uso di farmaci per combattere gli stati di malessere globalmente designati come ansia, depressione, tensione ecc. Sta avvenendo una medicalizzazione

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generalizzata del male di vivere. Le tristezze, i lutti, le difficoltà e le fatiche della vita quotidiana sono etichettati come «depressione»; ogni dolore e inquietudine connessi con l’esistenza stessa ricevono una risposta medica sotto forma di farmaco.

Probabilmente l’inflazione di psichiatri non è irrilevante nella psichiatrizzazione dei mali esistenziali. Si realizza in pratica una collusione tra la mancanza di tolleranza del dolore psichico e morale ― che ha prodotto nell’uomo contemporaneo un «diritto» ad essere immuni da sintomi quali tristezza depressiva, senso di colpa, insonnia ― e la tendenza degli psichiatri a prescrivere pillole per risolvere i problemi personali. L’abitante tipico delle metropoli post-industriali riesce a far fronte alla vita quotidiana solo grazie a un cocktail di farmaci, quali antidepressivi, ansiolitici, sonniferi, stimolanti (anfetaminici) per controbilanciare...

Il fenomeno a cui assistiamo equivale a un vero e proprio camuffamento chimico del dolore, del lutto, della inquietudine. Sembra quasi realizzata la visione anticipatrice di A. Huxley, il quale nel romanzo Splendido mondo nuovo (1932) aveva descritto l’uso di una droga, il «soma», una specie di pillola della felicità che permetteva di attraversare la vita dalla nascita alla morte senza conoscere le tensioni e i dispiaceri dell’esistenza. Sorge a questo proposito una domanda di natura antropologica: la cognizione del dolore è una condizione necessaria per accedere a una superiore qualità umana, che comprenda lo sviluppo di virtù personali, empatia, saggezza, conoscenza dei limiti, senso di responsabilità? Oppure è un’inutile zavorra, da cui conviene liberarsi nel modo più radicale?

Una risposta a tale questione antropologica precede il giudizio morale da portare sull’uso generalizzato dei farmaci per eliminare i malesseri psichici ed emotivi. Chi ritiene che il pathos sia una dimensione essenziale della vita umana, non può che considerare con preoccupazione il diffondersi dell’uso di ingerire pillole per liberarsi di pensieri ed emozioni sgradevoli. Il modello ha necessariamente un’azione demoralizzante sui bambini, ai quali viene proposto un comportamento da cui è escluso il ricorso alle capacità spirituali per resistere al dolore, interrogarlo e trasformarlo. Questa appare la migliore premessa per la cultura della droga, di cui con voce unanime si lamentano i danni tra i giovani.

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A ben vedere, il linguaggio della droga, quale via d’uscita per eludere i problemi personali, pervade già il mondo dei mass media, quando reclamizzano prodotti per alleviare sintomi minori legati allo stress emotivo. L’etica della gratificazione «qui ed ora» fa corpo con l’uso ricreativo ed edonistico delle droghe. Ogni repressione dello smercio e del consumo si è già clamorosamente rivelata inutile, se viene lasciato inalterato il modello antropologico ed etico di fondo.

2. La professione dello psicoterapeuta

Curare con la parola

Rivelatasi illusoria la Grande Promessa illuministica di una umanità liberata dal male nelle sue diverse forme (malattie del corpo e della psiche, peccato, senso di colpa), la richiesta che il Padre Nostro ci fa rivolgere a Dio: «Liberaci dal male», non ha perso nulla della sua attualità. Quello che la caratterizza oggi è una specializzazione delle competenze: si sono creati diversi servizi professionistici di «liberazione dal male», che poco o nulla conservano del legame originario, quando la «guarigione-salvezza» era un processo globale che investiva l’uomo nella sua interezza e veniva gestita dalle istituzioni religiose. Mentre l’emancipazione della medicina e la sua costituzione come scienza sono di antica data, la psicoterapia come professione si è formata solo di recente. I suoi inizi risalgono a nemmeno un secolo fa, quando la psicologia del profondo di Freud creava una nuova modalità di intervento terapeutico.

Con la psicanalisi una nuova provincia veniva acquisita dalla medicina: quella dei disturbi legati ai processi mentali ed emotivi. Tali disturbi si presentano sotto forma di una molteplice fenomenologia, che comprende sintomi psichici, psicosomatici o puramente somatici (come nei casi tipici di «conversione organica» studiati da Freud). Ciò che caratterizza l’azione psico-terapeutica non è dunque la scelta delle patologie sulle quali intervenire, quanto piuttosto il modo di farlo.

La psicoterapia ha elevato ad arte terapeutica l’utilizzazione

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delle potenzialità di guarigione della parola. Nel setting psicanalitico classico è dato il massimo rilievo al fatto che l’unico strumento di comunicazione tra il terapeuta e il paziente è la parola, che passa dall’uno all’altro. La psicoterapia viene così a costituirsi come una «medicina della parola», differenziandosi dalla «medicina della mano» (anche le più sofisticate apparecchiature moderne possono essere considerate come un potenziamento dello strumento fondamentale del terapeuta, che è il proprio corpo).

Malgrado il suo carattere medico, la psicoterapia tradisce inevitabilmente un legame con analoghe pratiche di cura mediante la parola, che ogni cultura ha elaborato: prima di tutte, le pratiche religiose. I problemi etici più delicati della psicoterapia sono legati appunto alle sue interferenze con i valori spirituali. Possiamo globalmente ricondurli a una domanda fondamentale: si può applicare il modello medico alla vita spirituale dell’uomo? All’inizio la psicanalisi fece dichiarazioni molto battagliere nei confronti della religione e della morale. Essa aspirava a turbare il sonno del mondo. Freud, sbarcando in America per un giro di conferenze insieme a Jung, era convinto di introdurre la «peste» nel continente. Quel che è avvenuto, piuttosto, ad alcuni decenni di distanza da quegli inizi, è che la cura psicoterapeutica si è trasformata nello status symbol della persona affermata e progressista. Questo è lo sviluppo verificatosi soprattutto negli Stati Uniti d’America, diventati incontestabilmente la patria d’elezione della psicoterapia.

Invece di essere destabilizzata dalla psicoterapia, la cultura moderna l’ha assimilata, facendola diventare parte integrante di un sistema di valori che privilegia il cambiamento, piuttosto che la stabilità. Cambiare professione, o abitazione, o partner, o stato di vita, sono considerati come passaggi verso una migliore realizzazione di sé. Le trasformazioni deliberate del proprio quadro di vita sono guardate con indulgente benevolenza, spesso incoraggiate. Una diffusa suggestione si incarica di convincere le persone che il loro destino riposa nelle proprie mani ― ognuno può essere il protagonista dei cambiamenti significativi di cui ha bisogno. Non è, di per sé, un cosa nuova che le persone desiderino cambiare i loro sentimenti, il loro modo di vivere e di pensare. Nuova è solo la fisionomia secolarizzata del fenomeno.

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Nelle culture tradizionali tanto dell’Oriente che dell’Occidente, i cambiamenti di questo genere erano ottenuti all’interno di una esperienza religiosa. Il cambiamento fondamentale, da cui derivavano eventualmente gli altri, era quello del rapporto con Dio; i competenti umani del cambiamento ― i suoi «facilitatori» ― erano i sacerdoti. Oggi è cambiato il quadro di riferimento: la principale agenzia di cambiamento non è considerata la religione, bensì la psicoterapia; e gli psicoterapeuti hanno preso il posto dei confessori, dei predicatori, dei padri spirituali, come guide verso la nuova nascita. La relazione di aiuto è diventata una professione. Nei momenti cruciali di crisi dell’esistenza, quando le traversie della vita rompono un equilibrio precedente e fanno riemergere i conflitti non risolti, è ad essi che si fa ricorso.

Più di recente la psicoterapia ha esteso l’ambito del suo intervento oltre il campo della psicopatologia, rivendicando la necessità di un aiuto tecnico per facilitare i processi di crescita delle persone considerate «normali» o «sane». Promotrice dell’allargamento dell’indicazione terapeutica è stata soprattutto quella tendenza della psicologia nota soprattutto come «movimento del potenziale umano» (Human-potential Movement), che ha raccolto le istanze emerse nell’area della psicologia umanistico-esistenziale. Il motivo per cui la psicoterapia è chiamata in causa non è più soltanto l’intervento autoritario con cui una società, anche contro la volontà dell’individuo, invia i soggetti dai comportamenti devianti («sociopatici» in genere) nelle istituzioni adibite al loro contenimento, mediante cura e riabilitazione; né la decisione personale dell’individuo che cerca presso lo specialista un sollievo dai sintomi della sofferenza psichica. Nella prospettiva della «autorealizzazione», allo psicoterapeuta ricorre chiunque avverta una situazione di deficienza nella propria vita o voglia dare più piena attualizzazione alle proprie potenzialità.

Le terapie autorealizzate si diversificano dalla psicoterapia in senso clinico perché si rivolgono a persone che non hanno problemi o deficienze identificabili: sono terapie per «sani»! Coloro che vi ricorrono sono in genere integrati nella società e non hanno comportamenti etichettabili come patologici: hanno solo bisogno di esperienze intense, attraverso le quali accedere a uno stato confusamente sentito come di pienezza, di autonomia,

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di completo significato. L’«autorealizzazione» evoca, negativamente, un sé imprigionato, che ha bisogno di un aiuto per raggiungere la sua piena libertà. Ancora una volta è la parola che, all’interno di una relazione psicoterapeutica, libera questa potenzialità, aprendo una via non solo dalla malattia alla salute psichica, ma anche dalla salute alla pienezza dell’essere.

La psicoterapia: avversaria o alleata della religione?

È nota la lunga storia di sospetti e opposizioni tra la psicologia del profondo e le istituzioni religiose. I corifei della psicanalisi ― soprattutto Freud ― ritenevano che la religione, in particolar modo nel suo aspetto tradizionale, avesse un effetto patogeno sulla psiche. La qualifica della religione come «nevrosi ossessiva» era vissuta dai credenti come una frustata in pieno viso, che ostacolava l’inizio di qualunque dialogo con chi squalificava in modo così radicale l’esperienza altrui. La Chiesa istituzionale, a sua volta, non ha lesinato ammonizioni ai suoi fedeli perché stessero in guardia dal trattamento psicanalitico, per i suoi possibili effetti devastanti sulla fede e sulla morale.

La presa di posizione più dura fu quella del S. Uffizio, in un monito emanato nel 1961, che proibiva l’esercizio della psicanalisi ai chierici e ai religiosi. Altri autorevoli rappresentanti del mondo cattolico, come P. Gemelli, arrivavano a ritenere incompatibile con la fede cattolica l’adesione alle dottrine psicanalitiche e il sottomettersi al trattamento terapeutico. I principali capi di imputazione si riversavano sulla dottrina di Freud, accusata di essere materialista e di diffondere il «pansessualismo».

Pio XII, intervenuto più di una volta per mettere in guardia dagli aspetti della psicanalisi contrari alla morale cattolica, ha parlato di un «metodo pansessuale di un certa scuola di psicanalisi» e ha proposto dei limiti morali all’impiego del metodo psicanalitico nel campo della sessualità: «Non si può considerare senz’altro lecita ― ha affermato tra l’altro in un discorso del 1952 ― l’evocazione alla coscienza di tutte le rappresentazioni, emozioni, esperienze sessuali che erano sopite nella memoria e nell’inconscio, e che si attualizzano così nello psichismo». Un altro motivo di perplessità per il pontefice nei confronti della

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pratica psicanalitica era la possibilità che i segreti personali venissero violati, in particolare i segreti acquisiti attraverso la confessione.

Molte delle riserve provenienti dalla morale medica cattolica nei confronti della psicanalisi si sono basate più su una conoscenza approssimativa, filtrata attraverso un rigido atteggiamento difensivo, che su un dialogo. L’apologetica ha preso il sopravvento, con la tendenza a screditare l’«avversario» e a metterlo in cattiva luce. Un forte peso giocano le rappresentazioni che ci si fa, rispettivamente, della religione e della psicoterapia. Secondo un cliché superficiale, ma purtroppo molto diffuso, il ruolo dello psicoterapeuta è visto come contrapposto a quello del sacerdote: mentre questi tenderebbe a suscitare e a intrattenere il senso di colpa, lo psicoterapeuta finalizzerebbe la sua opera all’abolizione di esso.

Non tutto è abusivo in questo cliché. Oggi c’è una maggiore consapevolezza che l’annuncio cristiano è stato storicamente, e in parte continua ad essere, uno strumento di colpevolizzazione, con effetti deleteri sull’equilibrio emotivo e sulla salute mentale di alcune persone. Soprattutto in epoca post-medievale, la Chiesa si è opposta al mondo moderno che si emancipava, cercando di riconquistare la società mediante ciò che lo storico Jean Delumeau ha chiamato una «pastorale della paura». L’insegnamento cristiano è venuto così a costituire un grande sistema di intimidazione e di repressione, poggiato su tre capisaldi: la paura ossessiva del peccato (soprattutto dell’impurità sessuale), della morte e dell’inferno.

La paura si nutriva delle immagini terrificanti delle prediche e dei catechismi: l’abbandono del peccatore a Satana, i terribili supplizi dell’inferno e del purgatorio, il piccolo numero degli eletti, l’idea di un Dio vendicativo. Per molti la confessione si è trasformata, da strumento di liberazione, in tribunale del terrore. Il peccato personale e quello originale vengono messi al centro di un sistema integrato di cultura religiosa. La malattia degli scrupoli non fa che evidenziare un meccanismo in atto anche nei credenti «sani». Senza questo entroterra storico-culturale non è possibile capire la repressione e le nevrosi che hanno pesato sull’Occidente fino al XX secolo, fornendo un materiale così abbondante alla psicanalisi. Non c’è liberazione dal passato senza intelligenza del presente come prodotto di quel passato.

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La psicanalisi, a sua volta, ha offerto un apporto decisivo per la comprensione del processo e dei meccanismi di colpevolizzazione. Nell’ambito del pensiero psicologico-psicanalitico ha avuto luogo una riflessione sul senso di colpa la cui importanza trascende la dimensione propriamente pratico-operativa della terapia. La colpevolezza, grazie a questo lavoro di scavo teorico, appare come una categoria fondamentale dello spirito umano. È talmente incuneata nelle pieghe dell’inconscio, che non è bastato rifiutare il cristianesimo per produrre una liberazione dall’universo morboso della colpa. Il senso di colpa è onnipresente, tanto da farsi facilmente riconoscere anche sotto le più frenetiche proteste di non colpevolezza.

Il dibattito antropologico ha ruotato a lungo intorno alla duplice ipotesi della sociogenesi o della endogenesi del senso di colpa. Il freudo-marxismo di H. Marcuse ha diffuso una concezione esogena del senso di colpa, attribuendo la sua origine alle repressioni del desiderio da parte delle nostre società industriali, barricate nella difesa dei princìpi della realtà e della produttività. Gli sviluppi più recenti dell’antropologia a matrice psicanalitica hanno invece rivalutato la psicogenesi del senso di colpa, radicandolo nell’ordine simbolico che struttura la comunicazione intersoggettiva: interdizione e senso di colpa accompagnano ontologicamente il desiderio, come la sua ombra.

Sul piano della psicoterapia come business di massa, prevale la ricerca della personalità «sana», identificata in quella che ha evacuato ogni residuo senso di colpa. Secondo le concezioni più divulgate, la psicoterapia mirerebbe a creare la persona che si sente OK, autorealizzata, libera da «zone erronee», e che quindi non conosce più il senso di colpa. In una riflessione più approfondita, in cui confluiscono tanto la visione teologica dell’uomo quanto quella psicodinamica, una condizione umana senza senso di colpa appare impossibile. E neppure auspicabile come utopia. Ciò che importa è invece l’uso che si fa del senso di colpa: lo si può impiegare per una crescita di consapevolezza e di coscienza personale, in una lotta sempre rinnovata con la morbosità, in uno scambio in cui si realizza la reciprocità delle coscienze; addirittura il senso di colpa, che accompagna la persona a tutti i livelli della sua autorealizzazione, può diventare lo strumento della crescita nella dimensione della spiritualità.

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Autorealizzazione e valori spirituali

Psicoterapia e religione, pur conservando la propria identità specifica, possono agire in modo sinergico, a beneficio dell’uomo totale. Ciò implica anche una feconda critica reciproca. La psicoterapia deve vigilare sulle degenerazioni morbose a cui è soggetta la religiosità (corruptio optimi pessima...!). La teologia può e deve, da parte sua, denunciare come antiumana una psicoterapia che voglia realizzare un progetto antropologico mutilato dell’apertura alla trascendenza.

Una rivendicazione in tal senso è stata fatta dal pastore Pfister, il quale si è opposto a Freud nella sua concezione della religione come realtà patogena e patologica. Tra i due si è svolto un dialogo di alta qualità etica, oltre che intellettuale. La fermezza e il rigore di Pfister, il suo rifiuto di conciliare in un sincretismo dubbioso ermeneutica cristiana ed ermeneutica psicanalitica, si sono imposti a Freud. Il quale è giunto ad ammettere che, se egli ha usato il metodo psicanalitico per combattere la religione, è lecito ai difensori di questa servirsi della psicanalisi per apprezzare, secondo il suo giusto valore, l’importanza affettiva della vita religiosa. L’analisi appare così come uno strumento indipendente dalla Weltanschauung, uno strumento neutro, che può essere utilizzato tanto in prospettiva laica quanto religiosa, purché sia unicamente a servizio della liberazione degli esseri sofferenti.

Il clima culturale oggi è cambiato, e il fronte su cui si deve esercitare la vigilanza critica della teologia è piuttosto quello opposto. Grazie agli apporti di E. Fromm, V. Frankl, R. May, e in generale delle correnti della psicologia umanistica e transpersonale, l’atteggiamento verso la religione è cambiato. Invece di denunciare il comportamento religioso come nevrosi, si tende a individuare nella repressione della dimensione spirituale una causa di malessere, che si ripercuote anche sulla salute mentale (le «nevrosi noogene» di Frankl).

Ma un’ambiguità fondamentale si rivela nello scarto tra la pretesa di spiritualità nell’ambito della psicoterapia (la quale giunge a proporre la rigenerazione della persona) e i risultati dell’autorealizzazione, riconducibili per lo più a una celebrazione dei fasti dell’individualismo. La carenza è duplice: antropologica ed etica. L’uomo nuovo che si vuol far uscire dalla prigione

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della repressione è troppo simile, nel fondo, a quello vecchio, che è figlio della civiltà della tecnica: centrato su se stesso ed edonista.

Un interrogativo di ordine etico che la riflessione teologica in primo luogo deve tener aperto è quello della gerarchia dei valori: la salute mentale è il primo scopo della vita, a cui tutti gli altri vanno subordinati? Decisivo per la risposta è il concetto di salute mentale che adottiamo.

Il grado minimo di salute mentale, equivalente all’assenza di patologia grossolana, è certamente necessario per qualsiasi altro godimento di beni. Ma la salute mentale perde il suo primato assoluto quando si adotta una concezione dell’uomo non chiuso essenzialmente su se stesso, bensì aperto, sia in senso orizzontale (oblatività verso gli altri esseri umani), sia in senso verticale (trascendimento dei limiti dell’ego, sviluppando le potenzialità mistiche che ci attirano verso il «Tutto»). Ora, proprio il conseguimento di questo scopo primario dell’essere umano richiede di fare un passo oltre l’egoismo morale ― in cui l’unico orizzonte è quello della propria felicità e benessere ―, dimenticando se stesso. Questa crescita spirituale autentica, che comprende anche la dimensione etica dell’amore altruistico, è l’unica terapia per quella elefantiasi dell’ego che produce personalità prigioniere del proprio narcisismo, e costituisce la forma di patologia psicologica oggi più diffusa.

3. Per approfondire

Indagine Censis-Ciseff sull’attuazione della riforma psichiatrica, Edizioni Paoline, 1982.

Un discorso non ideologico sugli aspetti sociali e umani della riforma psichiatrica. Al posto delle prese di posizione aprioristiche, un’indagine realizzata da due istituti di ricerca, che ha per oggetto l’applicazione della legge 180 in alcune aree e il destino dei malati dimessi dagli ospedali psichiatrici. La legge, nell’insieme, risulta opportuna e valida, purché venga applicata.

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Aa. Vv., In cammino oltre il senso di colpa, Cittadella, Assisi 1984.

Psicoterapeuti e pastori a confronto sull’aiuto da offrire a coloro che soffrono di sensi di colpa. Questi possono essere patologici, nel qual caso si deve favorire il processo terapeutico di liberazione. Ma possono essere anche il riflesso di una colpa morale o di un tradimento nei confronti di se stesso, in quanto essere chiamato allo sviluppo di tutto il proprio potenziale umano. In questo caso il senso di colpa va accolto come un compagno di cammino e uno stimolo al cambiamento. Gli Autori pongono in piena evidenza il problema etico dell’intervento sull’altro essere umano nella sua dimensione psichico-spirituale.

Aa. Vv., Droga, morale e medicina, Vita e Pensiero, Milano 1981.

Raccolta di saggi pluridisciplinari, che considerano il fenomeno della tossicodipendenza dal punto di vista medico, psicologico e sociale. Le diverse trattazioni convergono in particolare nel valutare nella prospettiva della morale cattolica la produzione e l’uso di droghe, nonché la cura dei tossicodipendenti.

F. Bruno - F. MaselliPer paura di vivere, Città Nuova, Roma 1.984.

Da parte di due specialisti della terapia dei tossicodipendenti, valide indicazioni per guarire dalla «tossicomania come malattia». L’aspetto medico della terapia viene correlato alla dimensione esistenziale ed etica del comportamento del tossicomane. Le indicazioni del cammino terapeutico da percorrere sono infatti diverse, a seconda che la risposta alla domanda: «perché ti droghi?» sia: «perché mi piace», oppure «perché mi serve».

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VIII

RICERCA E SPERIMENTAZIONE CON GLI ESSERI UMANI

1. La coscienza del problema

Nel ricordo dell’orrore

L’osservazione e l’esperimento sono le due gambe con le quali cammina la conoscenza nell’ambito delle scienze naturali. Anche il sapere che riguarda il corpo umano, sano o malato, e il progresso nei procedimenti sia chirurgici che farmacologici rivolti a ristabilire la salute procedono dalle stesse fonti. L’esperimento nelle scienze bio-mediche è perciò un insostituibile canale di conoscenza, a meno che non si voglia contestare i presupposti razionali della conoscenza scientifica (ciò avviene, come fenomeno sociale marginale, solo in certi gruppi «fondamentalisti», come la Christian Science, o nei raggruppamenti in cui l’orientamento carismatico sfuma nel fanatismo).

La società nel suo insieme ha accettato il procedimento scientifico, e quindi sperimentale, in medicina. È disposta a sostenere la ricerca con ingenti stanziamenti di fondi, tanto pubblici che privati (vedi i progetti di ricerca sul cancro e, più di recente, sull’Aids). Tuttavia ci sono dei prezzi che non possono essere pagati: sono quelli che riguardano la dignità e la libertà umana. A questo proposito, nubi di preoccupazione si sono venute addensando nei tempi moderni nei confronti della ricerca bio-medica.

I primi seri interrogativi risalgono al trauma avvenuto nell’opinione pubblica quando si è venuti a conoscenza, all’indomani della seconda guerra mondiale, delle sperimentazioni ciniche e insensate, espressione di sadismo più che di amore per la conoscenza, eseguite da medici nazisti su prigionieri nei lager.

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La fiducia incondizionata nell’ethos professionale dei medici, come garante contro la possibilità di abusi, è stata messa a dura prova. Sull’onda dell’emozione si è fatta strada la necessità di una severa regolamentazione in questo campo. Frutto di questa presa di coscienza è stato il cosiddetto «codice di Norimberga», elaborato nel 1946: un documento in dieci punti inteso a limitare le possibili sperimentazioni mediche su soggetti umani.

Come condizioni necessarie per giustificare un esperimento con esseri umani, il documento prevede l'utilità ― «L’esperimento dovrà essere tale da fornire risultati utili al bene della società, e non altrimenti ricavabili con mezzi o metodi di studio; la natura dell’esperimento non dovrà essere né casuale né senza scopo» ―; l'innocuità ― «Non si dovranno condurre esperimenti ove vi sia già a priori ragione di credere che possa sopravvenire la morte o un’infermità invalidante, eccetto forse quegli esperimenti in cui il medico sperimentatore si presta come soggetto» ―; l'autodecisione del soggetto sperimentale ― «Nel corso dell’esperimento il soggetto umano dovrà avere la libera facoltà di porre fine ad esso, se ha raggiunto uno stato fisico o mentale per cui gli sembra impossibile continuarlo».

Negli anni seguenti, dissipatosi il fantasma dello sperimentatore a servizio di uno Stato totalitario, cominciò a prendere corpo il timore dello scienziato che si serve della tecnologia per un progetto di manipolazione totale dell’uomo. Secondo il termine efficace coniato da G. Leach, si parla ora dei «biocrati», ovvero dei tecnocrati della biologia e della medicina, che progettano un miglioramento della realtà umana sacrificando valori che la nostra civiltà ha abitualmente coniugato con il termine «uomo». Gli incubi degli utopisti negativi ― quelli espressi in opere di fantasia ormai classiche, come Splendido mondo nuovo di A. Huxley e 1984 di G. Orwell ― rischiano di diventare realtà. La manipolazione totale, comprendente la trasformazione del corpo, del cervello e del comportamento, è denunciata come il futuro già iniziato. Sullo sfondo di queste preoccupazioni, possiamo comprendere alcune iniziative ufficiali, allo stesso tempo indice del malessere e tentativo di darvi risposta.

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Quando i responsabili nella società si preoccupano

L’Associazione Medica Mondiale, al fine di tutelare l’immagine sociale dei medici e di fornire loro direttive deontologiche che diano uniformità al loro comportamento, si è occupata a più riprese di una «Dichiarazione sulle ricerche bio-mediche». Il primo elenco di norme a cui i medici devono attenersi nella conduzione di esperimenti su soggetti umani fu approvato nel 1962, sottoposto a modifiche a Helsinki nel 1964, e nuovamente revisionato a Tokyo nel 1975. Il principio della revisione periodica è esplicitamente menzionato nella dichiarazione stessa. Si avverte sempre più chiaramente, infatti, che il cammino verso l’avvenire dell’umanità procede per un labirinto di strade possibili che non possono essere stabilite una volta per tutte, ma devono essere costantemente sottoposte al vigile controllo della coscienza morale. Rispetto al «Codice di Norimberga», emergono problemi nuovi: come le precauzioni speciali che devono essere prese nel condurre le ricerche che possono danneggiare l’ambiente, o la preoccupazione per il benessere degli animali utilizzati. Ma soprattutto si fa evidente ai medici che il centro nevralgico delle sperimentazioni da loro condotte è il consenso informato dei soggetti sperimentali.

Oltre alla responsabilità penale e civile a cui i medici possono essere soggetti secondo le leggi dei diversi Paesi, c’è anche un ethos a cui i medici devono attenersi. Questo si è tradizionalmente orientato verso la regola della non nocività («primum non nocere»; oppure: «salus aegrotorum suprema lex»). Questa preoccupazione obbliga i medici a provvedere che dalla sperimentazione non derivino dei danni ai soggetti. Ma la questione del libero assenso è ugualmente essenziale per tutelare la professione medica. Se i pazienti nutrissero dei dubbi sulla natura dei trattamenti che ricevono e avessero il sospetto di essere trattati come cavie, sarebbe compromesso il rapporto di fiducia su cui si fonda l’alleanza terapeutica. Sulle regole che l’Associazione Medica Mondiale propone come obbliganti per la «coscienza dei medici del mondo intero» torneremo più sotto, trattando sistematicametne i princìpi etici a cui deve ispirarsi la ricerca che utilizza soggetti umani.

Un’iniziativa dalle vaste proporzioni è stata intrapresa negli Stati Uniti. L’opinione pubblica era stata sensibilizzata dalla

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diffusione di notizie dalle quali appariva che alcuni fondamentali diritti umani venivano violati in nome della ricerca scientifica. Alcuni progetti di ricerca apparivano chiaramente discutibili: come l’iniezione di cellule cancerogene a pazienti anziani, a loro insaputa; l’infezione di bambini con il siero dell’epatite in una istituzione per ritardati mentali; la somministrazione di «placebo» a donne che credevano di ricevere pillole anticoncezionali; utilizzazione di prigionieri per lo studio della tossicità di alcuni prodotti. Particolare sensazione suscitò una notizia in cui erano mescolati degli elementi razziali: ad alcuni soggetti negri, affetti da sifilide, il trattamento efficace divenuto disponibile non veniva somministrato, per poter studiare gli effetti a lunga scadenza dei farmaci con cui venivano trattati da tempo. Tanto bastava, in un Paese sensibile al rispetto dei diritti umani e della libertà, perché si decidesse di procedere alla creazione di una Commissione nazionale apposita (National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research). Fu incaricata di elaborare i princìpi di etica che devono reggere la ricerca che utilizza soggetti umani, ivi compresi i soggetti a statuto particolare, come i feti, i prigionieri, i bambini e i ritardati mentali.

La Commissione ha svolto i suoi lavori dal 1974 al 1978, conducendo un insieme considerevole di studi empirici e teorici, visitando i centri di ricerca e tenendo assemblee pubbliche. Le attività della Commissione hanno condotto alla pubblicazione di resoconti e a un insieme di raccomandazioni rivolte a controllare le attività di ricerca: alcune di queste raccomandazioni sono già state messe in pratica, altre sono ancora allo studio del governo. In ogni caso, le raccomandazioni della Commissione hanno segnato un punto di partenza e hanno molto influenzato l’elaborazione di una politica di controllo.

Un’iniziativa di analogo livello di ufficialità è stata presa in Francia. Il «Comitato consultivo nazionale per l’etica delle scienze della vita e della salute» è stato sollecitato a esprimere il suo parere sui problemi etici della sperimentazione dei farmaci sull’uomo. Il documento, pubblicato nell’ottobre 1984, nei suoi contenuti non si discosta dai princìpi essenziali stabiliti dall’Associazione Medica Mondiale: una sperimentazione dei farmaci sull’uomo, per rispondere alle esigenze dell’etica, deve essere preceduta da ricerche di laboratorio, in vitro e su animali;

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il bilancio dei rischi/benefici deve essere considerato accettabile dal soggetto; il paziente deve fornire un consenso libero e informato; non si possono tentare nuovi metodi terapeutici su un paziente, se questi non garantiscono un beneficio almeno equivalente alle tecniche già provate.

La novità più rilevante proposta dal Comitato consultivo francese va ravvisata in una proposta operativa: l’istituzione di una rete di «comitati etici», distribuiti su tutto il territorio nazionale, ai quali vanno sottomessi obbligatoriamente tutti i protocolli di ricerca con utilizzazione di soggetti umani. Tali comitati dovranno esaminare tutti i problemi morali sollevati dalla ricerca nell’ambito della biologia, della medicina e della salute. Anche la Dichiarazione dell’Associazione Medica Mondiale prevede che «il progetto e l’esecuzione di ogni fase della sperimentazione riguardante l’uomo devono essere chiaramente definiti in un protocollo sperimentale, che deve essere sottoposto a un Comitato indipendente nominato appositamente a tale scopo, per parere e consigli».

L’innovazione dei comitati etici ha la potenzialità di diventare, più che un organo di controllo e di repressione degli abusi, un aiuto positivo per il singolo ricercatore. Potrà assisterlo nei problemi etici che deve affrontare, in modo che le decisioni abbiano un carattere di collegialità e si instauri il costume della condivisione delle responsabilità. Questo aspetto partecipativo condizionerà fortemente il volto che potrà assumere la medicina di domani.

La giustificazione etica della ricerca

La diffusione di notizie allarmanti ― alcune anche francamente allarmistiche ― intorno alla ricerca bio-medica, ha reso necessario rifondare una proposizione che fino a poco tempo fa sarebbe sembrata ovvia: che promuovere la ricerca medica è nel pubblico interesse. «Il progresso della medicina è basato sulla ricerca, che in definitiva deve avvalersi della sperimentazione inerente all’uomo... È risultato indispensabile per il progresso della scienza e per il bene dell’umanità sofferente applicare

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i risultati degli esperimenti di laboratorio all’uomo»: in termini così perentori parla ancora la Dichiarazione sulle ricerche biomediche dell’Associazione Medica Mondiale, nell’introdurre le norme deontologiche che dovrebbero servire di guida a tutti i medici. La convinzione che la medicina agisca per il bene dell’umanità, e che la ricerca le sia necessaria, non è ancora sul punto di essere rimessa in discussione radicalmente. Tuttavia non si è più disposti ad avallare, sotto il titolo nobiliare di ricerca scientifica, qualsiasi tipo di sperimentazione. La ricerca ha acquistato un interlocutore con il quale è obbligata a confrontarsi: l’etica.

A vantaggio della chiarezza del discorso etico, bisogna distinguere diverse categorie di ricerca su soggetti umani. Come ricerca terapeutica si intende quella intrapresa primariamente a beneficio del paziente che vi si sottopone. Questo tipo di ricerca, rivolta rigorosamente a superare lo stato morboso invincibile con i mezzi terapeutici già collaudati, non pone gravi problemi etici. Il rischio connesso è consapevolmente assunto, sia dal sanitario che dal paziente stesso, alla ricerca disperata di una «chance» di salvezza. È anche ovvio che i risultati del trattamento potranno essere applicati ad altri contesti o ad altri soggetti (si pensi allo studio comparativo di due medicine simili, somministrate a due gruppi diversi di pazienti cancerosi). Considerazioni diverse bisogna invece fare nel caso della ricerca non terapeutica, o di base, il cui obiettivo essenziale è quello di acquisire nuove conoscenze scientifiche, senza finalità diagnostica o terapeutica diretta nei riguardi di colui sul quale viene esercitata. Questi può essere anche una persona sana, quindi manifestamente non beneficiaria della ricerca.

La giustificazione scientifica di questo tipo di ricerca non è difficile: le conoscenze biomediche di base sono assolutamente necessarie per il progresso della medicina. Anche se ci guardiamo dal conferire al progresso un significato mitico o ideologico, ci rendiamo conto che senza una vigorosa ricerca biomedica, condotta sistematicamente, non saremmo in grado di discernere, tra i sistemi terapeutici in uso, quelli effettivamente curativi da quelli inutili o addirittura dannosi. Forse alcune delle nostre attuali terapie sono come la pratica dei salassi nel XVIII secolo: un’evidenza «terapeutica», basata su cecità e ignoranza. Solo la ricerca ci potrà liberare dai danni alla salute che, per essere indotti dalla medicina stessa, sono detti «iatrogenetici».

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Più che le ragioni scientifiche e sociali che reggono la ricerca non direttamente curativa, a noi interessa la sua giustificazione morale. Non essendo finalizzata al bene dell’organismo, quali motivi possono renderla lecita? Una linea di pensiero etico è quella che valorizza il dovere di giustizia: è in forza della giustizia che il singolo contribuisce con la ricerca effettuata sulla sua pelle al bene degli altri cittadini e della società considerata come organismo totale. Tanto più che oggi noi beneficiamo delle ricerche fatte in passato su coloro che ci hanno preceduto.

Uno scoglio per questa argomentazione è costituito dal principio dell’autonomia della persona. Nei termini dell’etica kantiana: la persona va considerata come fine e mai usata come mezzo. L’individuo appare come una realtà primaria inviolabile, se l’intervento non è inteso a produrre un effetto benefico in lui stesso. L'impasse si può superare solo se, per giudicare la moralità della ricerca, introduciamo il concetto di persona. La persona è qualcosa di più di un’autonomia individuale chiusa in se stessa. In quanto persona, l’uomo è una realtà sociale, che si definisce attraverso la relazione; la persona si coglie sempre in quanto inserita in una comunità che la trascende.

La prospettiva dell’uomo in quanto persona che si realizza nell’incontro con i suoi simili, in un’interdipendenza reciproca, può legittimare una ricerca anche non direttamente terapeutica, senza che questa cada automaticamente sotto l’interdizione che colpisce le violazioni dell’autonomia individuale. Questa giustificazione etica della ricerca sugli esseri umani non equivale però a una firma apposta in calce a un assegno in bianco! Il discorso etico procede con la formulazione delle regole a cui la ricerca deve attenersi, per essere legittima.

3. Le regole morali per guidare la ricerca

Le carte in regola secondo la scienza

Una prima regola fondamentale è intriseca alla ricerca stessa: deve avere il carattere di una vera ricerca scientifica. Questa affermazione è in armonia con il principio di base previsto

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dall’Associazione Medica Mondiale: «La ricerca bio-medica inerente agli esseri umani deve essere in conformità ai principi scientifici generalmente riconosciuti e deve essere basata sia su esami eseguiti in laboratorio o su animali in modo adeguato, sia su una conoscenza appropriata della letteratura scientifica». Viene cosi esclusa una quantità di sperimentazioni semplicemente irrivelanti o inutili, per la buona ragione che sono già state fatte da altri. Purtroppo molte ricerche sono condotte senza obbedire a un progetto razionale, ma semplicemente in ossequio alla legge che vige nel mondo accademico: to publish or to perish. Per accumulare pubblicazioni, ai fini di carriera, si fanno ricerche che implicano disagi, sofferenze inutili e rischi per la salute di altri esseri umani.

Per obbedire alla razionalità scientifica, la ricerca sull’uomo deve essere costruita su un’economia gerarchica, in cui precedono gli studi di laboratorio e sugli animali. Molte resistenze alle sperimentazioni cadrebbero, se tale gerarchia venisse rigidamente rispettata. Ivi comprese le opposizioni all’uso degli animali nella sperimentazione: non certo le opposizioni aprioristiche e assolute, motivate con il rifiuto del diritto dell’uomo di disporre degli animali ai propri fini, ma almeno quelle riferite alle ecatombi inutili, semplicemente perché non viene rispettata l’economia gerarchica della ricerca.

Dopo la regola del controllo scientifico, la seconda da tener presente riguarda il rapporto danni-benefici. In linea teorica, i benefici di una ricerca sull’uomo devono essere proporzionati al rischio del danno che può essere inflitto. Il Codice di Norimberga esplicita il livello massimo di danno: nessun esperimento deve essere condotto quando possa sopravvenire la morte o un’infermità invalidante. Ma anche il beneficio che ci si aspetta dalla sperimentazione pone dei limiti: non si dovrebbero fare esperimenti sull’uomo, il cui risultato prevedibile sia così piccolo da risultare banale. Sullo stesso tema del rapporto rischi/benefici l’Associazione Medica Mondiale aggiunge due altre utili indicazioni: «gli interessi del soggetto devono sempre prevalere su quelli della scienza o della società»; e «il medico non deve intraprendere un progetto di ricerca, se non è possibile prevederne i rischi potenziali».

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Il consenso informato

La terza regola costituisce il punto nevralgico di tutta l’etica della sperimentazione umana: riguarda il consenso di chi si sottopone alla sperimentazione. Il Codice di Norimberga, essendo nato da una reazione alle sperimentazioni effettuate su prigionieri, mette fortemente l’accento sulla condizione del consenso. Si apre infatti con la dichiarazione: «il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale»; specifica poi tale volontarietà come capacità legale di dare il consenso e assenza di «elementi coercitivi, inganno, costrizione, falsità o altre forme di imposizione o violenza». In seguito la riflessione etica mise maggiormente in evidenza la necessità di comunicare tutti i fatti importanti al soggetto sperimentale, affinché questi possa prendere una decisione libera. Si venne così a parlare correntemente di consenso informato. L’Associazione Medica Mondiale formula con tutta chiarezza tale esigenza: «Al momento di ogni ricerca sull’uomo, l’eventuale soggetto sarà informato in modo adeguato sugli obiettivi, metodi, benefici scontati e sui rischi potenziali e svantaggi che potrebbero derivargliene. Egli (ella) dovrà essere informato (a) che è libero (a) di disimpegnarsi in qualsiasi momento. Il medico dovrà ottenere il consenso libero e cosciente del soggetto, preferibilmente per iscritto».

Il principio del consenso informato è proclamato come una barriera invalicabile, contro coloro che vorrebbero giustificare qualsiasi ricerca condotta sull’uomo su una base puramente utilitaristica. Ma tale principio può essere realisticamente tradotto in pratica? Talvolta la sottrazione dell’informazione è essenziale alla ricerca. Ci possono essere ragioni scientifiche che impongono la reticenza: per esempio l’influenza dell’autosuggestione, mediante le funzioni regolate dal sistema nervoso autonomo, sui risultati che si vogliono controllare. La buona metodologia scientifica richiede spesso che il paziente sia tenuto nell’ignoranza sulle medicine che gli vengono somministrate in via sperimentale («esperimento cieco»). Talvolta può essere addirittura consigliabile che le ricerche siano condotte «a doppio cieco», senza cioè che né il medico né il paziente sappiano se il medicamento assunto è la sostanza nuova che si deve provare, il prodotto di riferimento classico, o fors’anche una sostanza inattiva (placebo).

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Nei test clinici «randomizzati», i pazienti sono assegnati a caso a due o più alternative di trattamento. Si pongono qui degli inevitabili problemi etici: il paziente deve essere informato che il trattamento è assegnato a caso? È lecito sottrarre a una parte dei partecipanti all’esperimento le migliori «chances» di successo terapeutico? Se l’informazione non potesse essere legittimamente ridotta, tutti questi esperimenti dovrebbero essere messi al bando. Ma anche un’informazione non completa può essere moralmente accettabile: purché il paziente sappia che si sta sperimentando un farmaco e che si intende scrupolosamente evitare ogni rischio serio.

In alcuni casi è l’interesse stesso del paziente che sembra suggerire un’informazione incompleta. Ciò avviene quando la spiegazione di un trattamento sperimentale potrebbe rivelare al paziente la natura del male di cui soffre, e di cui non è ancora pronto a riconoscere la gravità. Un’esigenza etica imprescindibile, infine, è che anche in questo tipo di sperimentazione non venga sottratto al paziente un mezzo terapeutico sicuro, e che si sia disposti a interrompere la ricerca, qualora si appurasse che esiste un altro mezzo sicuramente efficace per la guarigione.

4. Alcuni campi speciali di ricerca

La ricerca non terapeutica mi bambini

Le regole etiche annunciate hanno piena validità quando i soggetti umani della ricerca siano adulti con capacità mentali normali; per donne incinte, persone private della libertà o in disperata necessità economica, intervengono altre considerazioni, che li escludono dalla possibilità di essere soggetti a una sperimentazione che non abbia un valore direttamente terapeutico. Il dibattito etico recente si è concentrato soprattutto su due situazioni particolari: la ricerca che coinvolge i bambini e quella che ha per oggetto embrioni e feti.

Qualora si tratti di ricerca terapeutica, non sorgono particolari problemi etici: non potendo il bambino dare il «consenso informato», supplirà quello dei genitori. Questi ultimi, però,

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possono dare il loro consenso al posto di quello del bambino quando si tratti semplicemente di ricerca scientifica, non rivolta al vantaggio del bambino stesso? Poniamo il caso che in un ospedale si voglia fare una ricerca sistematica prelevando del sangue ad alcuni bambini che sono immuni da alcune malattie (con l’intenzione, magari, a lungo termine, di utilizzare quelle conoscenze per produrre in futuro un vaccino anti-polmonite). In questo caso, è lecito ai genitori dare il loro consenso al prelievo del sangue al posto dei figli? La risposta sarà diversa, a seconda che si ponga l’accento sull’inviolabilità della persona o sulla sua dimensione sociale-comunitaria. Nel primo caso, l’incapacità del bambino di dare un consenso informato gli toglierebbe la possibilità che ha un adulto di dare il suo assenso a una ricerca non terapeutica. Nella prospettiva comunitaria, invece, anche i bambini sono soggetti all’obbligo di partecipare al bene di tutti, magari dando un po’ di sangue per una ricerca.

I genitori non farebbero che esprimere, col loro consenso, quello presunto del bambino.

Embrioni e feti

La valutazione etica della sperimentazione con embrioni e feti è legata alla questione antropologica dell’inizio della vita umana. Assumendo come termine cronologico di riferimento l’incontro di due gameti nella fecondazione, c’è un consenso assoluto sul fatto che prima di tale incontro non si ha un essere umano. Ciò implica che la ricerca e sperimentazione con le cellule germinali maschili e femminili non cade sotto l’interdizione che vigila sulla sacralità della persona. I gameti sono materiale biologico umano, ma prima della fusione non li si può considerare «esseri umani» (come faceva l’antropologia medievale, che vedeva un homunculus nello sperma).

Le conoscenze bio-mediche hanno contribuito a desacralizzare i meccanismi e gli elementi della riproduzione umana. L’approccio medico è operativo, e prescinde da qualsiasi considerazione simbolica o sociale. Anche i gameti sono stati investiti dallo stesso freddo sguardo scientifico che ha portato il latte materno e il sangue umano nell’ambito delle cose profane, sulle quali si può esercitare la volontà di sapere dell’uomo. Non c’è

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un’opposizione etica al fatto che i gameti umani prima della fecondazione siano oggetto di ricerca ― per risolvere problemi clinici legati all’infertilità, per esempio ― o anche di manipolazioni genetiche sperimentali. Anche senza essere utilizzati, questi elementi biologici devono essere tuttavia trattati con il rispetto che la medicina nel suo insieme è tenuta ad avere verso tutto ciò che ha carattere umano.

Riguardo alle ricerche sugli embrioni, si è sviluppato di recente uno dei dibattiti più accesi nel campo della bio-etica. Le nuove pratiche bio-mediche prevedono un ricorso diffuso agli embrioni: per motivi terapeutici (prelievo di cellule e tessuti in embrioni morti per trattamenti di alcune malattie: ne parliamo nel capitolo seguente, nell’ambito dei trapianti di organo); per motivi di ricerca (nella pratica della fecondazione extracorporea si utilizzano le uova fecondate «eccedenti» per osservare i primi stadi di sviluppo embrionale); per motivi commerciali, anche. La sensazione suscitata dalla notizia della vendita di embrioni morti a ditte farmaceutiche per la fabbricazione di prodotti di bellezza è stato il detonatore che ha indotto a confrontare con le esigenze dell’etica le pratiche bio-mediche relative a embrioni o feti umani morti.

In Francia il «Comitato consultivo nazionale di etica per le scienze della vita e della salute» ha preso posizione in merito con uno dei suoi pareri (maggio 1984). In un documento preparatorio il Comitato prendeva atto del pluralismo delle opinioni antropologiche, che si ripercuote sul piano degli indirizzi etici. Per coloro che ritengono l’embrione un essere umano fin dal momento della fecondazione ― e la Chiesa cattolica si colloca in questa linea: nei numerosi testi contro la pratica dell’aborto papa e vescovi parlano sempre del rispetto dovuto al bambino «fin dal suo concepimento»; la maggior parte degli studiosi cattolici intendono per concepimento dell’essere umano il momento della fusione dei gameti ― ogni utilizzazione di embrione, in qualsiasi fase dello sviluppo, che implichi la sua disfruzione equivale a un attentato all’inviolabilità della persona umana. Chi invece sposta la soglia dell’ominizzazione a una fase più tarda dello sviluppo, non vede delle controindicazioni etiche a ricerche e sperimentazioni che mirano, in ultima analisi, a migliorare la vita umana.

Il parere del Comitato francese si fonda su una base minima

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di consenso, individuata nel riconoscimento non equivoco del «carattere umano» dell’embrione. Di conseguenza, l’embrione, anche morto, non è un prodotto neutro di laboratorio: è, o è stato, una persona umana almeno potenziale. Le direttive etiche che il comitato si sente autorizzato a dedurre da questa base sono un’esplicitazione del rispetto dovuto all’embrione o feto per tale «carattere umano». Mentre l’utilizzazione a fini diagnostici (ricerche sulle cause di un’interruzione spontanea della gravidanza, conferma delle diagnosi fatte in utero) è legittima, la stessa utilizzazione a scopo terapeutico deve avere un carattere eccezionale, giustificato da un beneficio manifesto per colui che riceverà il trattamento. L’uso di tessuti embrionali e fetali a scopo di ricerca deve avere una giustificazione scientifica ed essere approvato, come anche l’uso terapeutico, da un «comitato etico».

Per coloro che, partendo da una base antropologica più esigente, hanno delle difficoltà morali a collaborare a prelievi di tessuti da feti provenienti da un’interruzione volontaria della gravidanza, non resta che una via: rifiutare la propria partecipazione, sollevando l’obiezione di coscienza. L’unico modo per vivere non conflittualmente in una società pluralista è di lasciar spazio alla diversità di opinione e al dissenso, di cui l’obiezione di coscienza è lo strumento privilegiato.

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IX

DONO E TRAPIANTO DI ORGANI

1. Nuovi traguardi, nuovi problemi

Chi concepisce lo sviluppo della medicina come un itinerario in progressione continua, dove gli ostacoli apparentemente insormontabili vengono abbattuti l’uno dopo l’altro, con realizzazioni sempre più audaci e spettacolari, trova nella storia dei trapianti d’organo una illustrazione particolarmente adatta alla tesi. Fino al 1959, ad esempio, il trapianto tra gemelli identici sembrava l’unico possibile nell’uomo. Tutti i trapianti allogenici di rene precedenti a quella data erano terminati con un insuccesso, a causa della reazione immunologica del ricevente nota come «rigetto». Nel 1959 furono realizzati due trapianti di reni tra falsi gemelli, uno a Boston, l’altro a Parigi. L’altra data fatidica è il 1967, quando un oscuro chirurgo di un ospedale sudafricano, Christian Barnard, realizzava il primo trapianto cardiaco.

L’esito precario dei primi tentativi non impedì che il fenomeno dei trapianti assumesse fin dall’inizio le caratteristiche che dovevano poi accompagnarlo anche in seguito: risonanze emotive profonde e vasta ripercussione nell’opinione pubblica; dibattito appassionato, all’interno dell’ampio spettro delle opinioni, sulla liceità morale e sulle risonanze sociali ed economiche delle pratiche; «vedettismo» esasperato dei protagonisti ― chirurghi, malati, familiari ―, presi nell’ingranaggio sensazionalistico dei mass media.

Lo schema del progresso medico lineare è particolarmente adatto a suscitare rifiuti o adesioni aprioristiche, a seconda del diverso atteggiamento nei confronti dell’ideologia del progresso. Chi si aspetta da quest’ultimo, inteso come un susseguirsi di nuove conoscenze scientifiche e capacità tecniche, la risposta

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ai mali dell’umanità, avrà una reazione diversa da chi guarda al progresso con diffidenza, considerandolo una minaccia alla sapienza rispecchiata dalla tradizione. «Sono convinto ― scriveva Keith Reemtsma all’inizio delle violente polemiche sui trapianti ― che il primo uomo delle caverne ad aver trapanato un cranio fu violentemente criticato per il suo tentativo di operazione inedita senza sperimentazioni animali previe e concludenti, e accusato di aver abbandonato il trattamento medico abituale di piume di gufo polverizzate, d’aver goduto di una troppo ampia pubblicità e dilapidato i fondi pubblici rifiutando di adottare il trattamento di collane di denti di tigre, di essersi immischiato nei disegni misteriosi del Grande Spirito, e soprattutto, è ovvio, d’aver prolungato la vita di un individuo inadatto, e con ciò d’aver messo a repentaglio l’avvenire della razza Cro-Magnon». Sotto la deformazione della satira, sono riconoscibili i principali problemi dibattuti a ogni svolta della vicenda dei trapianti.

Il rischio medico, in primo luogo. Anche se l’introduzione della ciclosporina nel trattamento ha reso possibile il controllo del fenomeno del rigetto, i successi continuano a essere pagati con un’alta quota di fallimenti. La questione della liceità morale del trapianto in condizioni di rischio è ovviamente acuta quando si tratta del dono d’un organo da parte di un vivente, inesistente invece nell’impianto di un organo tratto da un cadavere.

Per alcuni l’interrogativo della liceità si pone anche nel caso del trapianto da un animale in un essere umano. Il dibattito è divampato per «Baby Fae», la bambina neonata il cui cuore è stato sostituito con quello di un babbuino. La morte del «donatore», in questo caso necessaria e procurata, non è apparsa eticamente giustificabile a quanti hanno maturato nei confronti degli animali un atteggiamento diverso da quello dell’uso sovrano, a indiscriminato servizio dell’uomo. Le riserve, in particolare, erano acuite dal fatto che in trapianti di questo genere il carattere sperimentale predomina su quello clinico.

In ambito medico l’assunzione del rischio e l’audacia dell’intervento non sono incompatibili con l’ethos del sanitario. Se si fosse atteso che il problema della tolleranza degli innesti fosse stato preliminarmente risolto, non saremmo pervenuti alle conoscenze attuali, superiori a quelle acquisibili per mezzo della ricerca biologica fondamentale. Il corretto procedimento

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richiede che il malato sia informato dei rischi e delle chances. Di fronte alla prospettiva di una morte imminente e certa, molti malati acconsentono a un trattamento sperimentale, anzi lo sollecitano. Il loro consenso ha il carattere di un’ultima mossa nella partita a scacchi contro la morte, con la speranza che, anche se risulterà perdente, le conoscenze acquisite andranno a beneficio di altri malati.

Il problema dei costi è stato puntualmente sollevato a ogni tappa dello sviluppo della pratica dei trapianti. L’accento messo dai mass media sull’aspetto umanitario dell’intervento non riesce a tacitare chi si ostina a chiedere i conti. Una politica sanitaria responsabile deve affrontare una programmazione che sappia scegliere tra medicina di punta e investimenti sulla prevenzione. È una questione dalle molteplici risonanze etiche, che affrontiamo esplicitamente nel capitolo dedicato alla distribuzione delle risorse sanitarie limitate.

Non va dimenticata, infine, la dimensione antropologica del dibattito. La pratica dei trapianti ha investito in senso demitizzante organi dotati di alta valenza simbolica. Il cuore, ad esempio, da simbolo dell’affettività e della dimensione di profondità della persona è stato ridotto alla funzione di pompa che va sostituita quando è difettosa: come un pezzo di ricambio di un qualsiasi elettrodomestico. Una forte reazione alla febbre dei trapianti è alimentata dal timore di vedere l’essere umano ridotto a una macchina che si può smontare e rimontare a piacere. Oltre ai trapianti di organo ― cuore, reni, fegato, pancreas, midollo e altri tessuti ― la tecnologia biomedica ha reso disponibile una quantità di organi artificiali: dal cristallino di plastica per i malati di cataratta al cuore metallico a batteria, dagli arti elettronici alla pelle di poliuretano.

Gli interrogativi più inquietanti sorgono proprio nella prospettiva che la pratica dei trapianti e degli organi artificiali di sostituzione debba avere successo e diffondersi a percentuali sempre più rilevanti della popolazione. Potremo ipotizzare un giorno in cui l’umanità sia costituita da una maggioranza di persone con organi trapiantati o artificiali, a sostituzione dei propri, malati o usurati, ma con il cervello senile. Oltre alla questione dei mezzi finanziari per sostenere una tale impresa, sorge un interrogativo più fondamentale: è desiderabile un tale obiettivo per l’umanità stessa? La battaglia contro la morte condurrebbe

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a una vittoria molto discutibile, in quanto il prodotto di rappezzamenti sarebbe piuttosto simile a una caricatura di essere umano. Il rapporto costi/benefici dovrebbe essere denunciato come sbilanciato, più che in senso economico, in senso antropologico.

2. Cultura del dono

Il dibattito intorno ai trapianti di organo ha avuto il merito di portare in piena evidenza i valori positivi sottesi a questa pratica. L’incapacità dell’etica medica tradizionale di giustificare, con i suoi princìpi, il prelievo di un organo da donatore vivente ha provocato un ampliamento di orizzonte. L’intervento chirurgico era ipotizzato in passato solo a favore di colui che lo affrontava, e giustificato in ragione del vantaggio per la salute che ne riceveva. Sempre in questa prospettiva, era considerata lecita anche una mutilazione, purché ne risultasse un beneficio per l’individuo come totalità psico-organica. In questo caso non è più considerato un arbitrario atto dispositivo del proprio corpo, ma acquista un valore terapeutico.

Che valenza terapeutica può avere l’espianto di un proprio rene sano, a beneficio di un congiunto che ha i propri irrimediabilmente malati? L’esitazione dei moralisti ad accettare la legittimità del dono da un vivente di un organo doppio ― quella di un organo dispari, essenziale per la vita o per la salute, non è stata mai presa in considerazione, perché presupporrebbe il suicidio del donatore ―, non è senza fondamento. Per l’etica medica tradizionale, la cura dell’integrità della propria vita fisica impone che non si disponga del proprio corredo biologico in modo autolesionistico, provocando un danno grave o una deformazione indelebile al proprio corpo (riserve di questo genere non esistono ovviamente per il dono del sangue, che si rigenera). Perché la rinuncia a un organo prezioso come il rene, implicante una limitazione irreversibile in colui che se ne priva, possa essere giustificata, bisogna andare oltre il principio dell’integrità personale e accedere a una dimensione in cui l’orientamento al bene dell’altro determina la moralità dell’azione. In

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questo caso al principio della difesa della propria integrità si sostituisce il principio di carità, come ispiratore di un comportamento nobile e altruista.

Affinché il trapianto di organi avvenga in un contesto di alta ispirazione ideale, bisogna che la pratica sia preservata da ciò che può inquinarne la nobiltà; è necessario inoltre, positivamente, che sia promossa una cultura del dono. Riguardo al primo aspetto, l’imperativo fondamentale è quello di evitare ogni commercializzazione degli organi. È un problema che non si pone nel nostro Paese, dove la legge vieta una tale compravendita. La legge n. 458 del 1967, relativa ai trapianti di rene da vivente, cita esplicitamente come condizione che avvenga «a titolo gratuito». In altri Paesi, come negli Stati Uniti, in assenza di una norma legislativa di questo tenore, avvengono domande e offerte relative a organi da trapiantare, nonché al sangue per le trasfusioni. Un commercio di questo genere appare turpe alla nostra sensibilità, in quanto necessariamente fondato sullo sfruttamento della miseria abbinata alla disperazione.

La clausola della gratuità è moralmente obbligante anche nel caso di trapianto da cadavere. Le associazioni finalizzate a promuovere una cultura della donazione ― prima tra tutte in Italia l’Aido: Associazione italiana donatori d’organi ― mettono esplicitamente in evidenza il senso di solidarietà a favore dei malati che hanno bisogno di organi da cadavere per poter sopravvivere. Debitamente informate ed educate, molte persone si rendono conto dell’utilità del proprio organismo, o di sue parti, anche dopo la morte. Anche genitori straziati per la morte di un figlio trovano una qualche consolazione nella prospettiva che almeno un suo organo sia determinante per la vita di un’altra persona; possono addirittura accarezzare la confortante illusione che il loro congiunto continui in parte a vivere.

Nella prospettiva della cultura del dono, una vivace polemica è sorta in margine al progetto legislativo di un nuovo assetto della disciplina dei trapianti. A differenza della legge 644 del 1975, secondo la quale erano praticamente i parenti più stretti a decidere sulla sorte del corpo del loro defunto, nel nuovo ordinamento si prevede che «tutti i cittadini a partire dal sedicesimo anno di età sono tenuti a manifestare l’assenso o il dissenso, sempre revocabili, alla donazione di organi o tessuti del proprio corpo successivamente al decesso, per prelievi a scopo di

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trapianto terapeutico»; «la mancata dichiarazione di volontà ― prevede ancora il progetto legislativo ― costituisce assenso alla donazione di organi o tessuti». Soprattutto questa disposizione suscita forti resistenze. Di ordine giuridico, anzitutto: il consenso presunto non è accettato in nessuna controversia civile. C’è poi un’avversione alla concezione antropologica implicita, secondo la quale gli organi dei defunti sembrano essere considerati come un bene della collettività, quindi non più appartenenti dopo il decesso alla persona e ai suoi familiari.

Un’obiezione, infine, di ordine pedagogico: imponendo ai cittadini la solidarietà, si potrà forse avere una maggiore disponibilità di organi per il trapianto, ma la generalizzazione delle donazioni andrebbe a scapito della motivazione. Una prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che i problemi di trapianto di organi, trovandosi alla confluenza del diritto, della deontologia e dell’etica, sono di delicata soluzione e destinati a suscitare posizioni divergenti.

3. Norme deontologiche a tutela dei trapianti

Alcune norme deontologiche che accompagnano la pratica dei trapianti meritano una segnalazione. Indichiamo in primo luogo quella contenuta nel documento dell’Associazione Medica Mondiale dedicato alla determinazione del momento della morte (Sydney 1968): «Qualora il trapianto di organi sia possibile, la decisione che la morte è presente dovrà essere presa da due o più medici, e costoro non dovranno essere gli stessi medici che eseguiranno l’operazione di trapianto». La finalità di questa indicazione comportamentale è, sia di tutelare l’emotività del medico, sia di salvaguardare la reputazione sociale dei trapianti. Se il chirurgo che effettua il trapianto fosse lo stesso che partecipa alla decisione di staccare il respiratore, sarebbe esposto a un notevole stress emotivo; ma soprattutto gli nuocerebbe l’inevitabile immagine di «avvoltoio» che si aggira attorno al donatore moribondo, auspicando, o magari anticipando, il momento di poter entrare in azione... Un’immagine frutto di fantasie malate, certamente; ma compito delle misure deontologiche è quello

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di reagire non solo agli abusi attuali e possibili nel corso della pratica medica, ma anche a quelli immaginati, sottraendo la materia da cui prendono corpo i fantasmi. La divisione delle due équipes non è dunque una formalità a servizio dell’ipocrisia, ma una misura prudenziale e protettiva.

Una pratica dei trapianti condotta con senso di responsabilità professionale porrà la debita attenzione al problema del consenso, tanto al prelievo quanto all’impianto dell’organo. Non solo per una correttezza formale, che evita di incappare nella legge, ma ancor più per assicurare l’esito globale del delicato procedimento. La decisione di un trapianto di organo o dell’innesto di un organo artificiale deve essere presa insieme dal medico e dal paziente. Si può ipotizzare che questi rifiuti con tutta lucidità l’intervento proposto, perché a suo giudizio i costi, compresi quelli psicologici ed emotivi, eccedono i benefici. In questo caso la decisione va ratificata e sostenuta da parte del medico, senza che il rifiuto di un intervento così straordinario sia fatto equivalere a un suicidio.

Altri malati hanno bisogno di tempo per maturare la loro decisione. Già la proposta del trapianto può essere in sé uno shock, in quanto fa prendere loro coscienza per la prima volta della gravità della malattia. Avranno bisogno di essere illuminati gradualmente sui rischi e benefici, sulle limitazioni alla libertà e la qualità della vita che si possono aspettare, perché il loro consenso sia veramente informato. Altrimenti il medico può cadere sotto il sospetto di imporre con la violenza al malato la propria decisione, non collimante però con quanto questi ritiene essere il proprio bene.

Una norma deontologica, infine, non ancora introdotta ma vivamente auspicata da molti, è quella della copertura della pratica dei trapianti con il segreto professionale. I proiettori dei mass media puntati sui donatori e sui loro familiari, sui riceventi, sui chirurghi e su quanti partecipano in qualche modo ai trapianti, hanno un effetto devastante per lo stile che dovrebbe accompagnare un’attività medica. È indicativo, come segno dell’estremo a cui può giungere il malcostume, che i malati americani che stanno per essere sottoposti a un trapianto cardiaco sono invitati a sottoscrivere una dichiarazione in cui dicono di essere a conoscenza che tra i rischi a cui vanno incontro, oltre alle complicazioni possibili di tipo clinico, c’è anche quello di

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«essere perseguitati dalla stampa per il resto della loro vita».

Alcune volte è possibile intravedere come i chirurghi che si offrono al sensazionalismo dei mass media lo facciano non esclusivamente a servizio del proprio narcisismo, ma come mezzo di pressione politico-sociale, per ottenere le misure legislative ed economiche necessarie per la promozione di questo tipo di medicina. Tuttavia resta l’impressione di una stridente dissonanza con la norma deontologica del segreto medico, una norma pensata a vantaggio sia del paziente che della professione medica stessa.

4. Princìpi etici nel campo dei trapianti

Da un punto di vista più formale, il riferimento a princìpi etici ha un duplice effetto nel complesso settore dei trapianti d’organo: indica, negativamente, i limiti che non devono essere valicati, e positivamente i valori a cui ispirarsi nel prendere le decisioni. Dei confini netti vanno tracciati laddove si ipotizzi il trapianto di organi che condizionano sostanzialmente l’identità personale del ricevente. Tale potrebbe essere, come estremo limite ipotetico, il trapianto del cervello. Siamo ancora lontani dalla possibilità tecnica di eseguire tali trapianti (una pratica diversa è il trapianto di cellule «nel» cervello. In numerosi laboratori ferve la ricerca relativa all’impianto di nuove cellule nell’encefalo. Gli unici interventi di rigenerazione cerebrale finora tentati sono quelli relativi a malati del morbo di Parkinson). Il trapianto del cervello è una pratica che possiamo prendere in considerazione solo ipoteticamente, per additarvi una frontiera eticamente invalicabile. La persona umana è strutturalmente condizionata dalla materia cerebrale, organo base per le funzioni superiori. Un trapianto relativo a questa regione dell’organismo comporterebbe un’alterazione sostanziale dell’identità personale.

Come ogni altro procedimento terapeutico, il trapianto d’organo si deve positivamente ispirare al principio della beneficialità. Ciò implica una considerazione globale delle condizioni di vita che vengono rese possibili al malato tramite l’intervento.

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Se la morte viene semplicemente scambiata con un’esistenza tronca, che rischia di diventare una fonte di sofferenza, se non un vero e proprio calvario per l’interessato, i dubbi sul carattere beneficiale di tale intervento si impongono. Ci si è interrogati in tal senso soprattutto di fronte al primo impianto di cuore artificiale. Finché la fonte di energia non sarà miniaturizzata, la qualità di vita della persona che si trova a dipendere dalla macchina può essere così povera da fargli successivamente preferire la morte a una vita larvale.

Anche il principio della giustizia è rilevante nel caso dei trapianti. Esso diventa operativo quando il sanitario si trova a dover scegliere tra diversi candidati al trapianto, in presenza di un numero limitatissimo di organi da trapiantare. Esauriti i criteri clinici di selezione, validi soprattutto per l’esclusione dei candidati non adatti dal punto di vista medico, rimangono gli altri criteri. Tra questi non si possono trascurare le indicazioni di ordine psicologico. La stabilità e maturità affettiva, la volontà di fare tutto il possibile per la riuscita del trattamento, sono criteri essenziali. Se le persone non offrono delle prospettive attendibili di adattarsi alla nuova situazione o all’organo artificiale, la giustizia richiede che si destinino le risorse a fini migliori

Il principio dell’autonomia, infine, esige il consenso tanto del donatore quanto del ricevente. La considerazione etica si aggiunge, in questo caso, a quelle di ordine giuridico e deontologico che abbiamo già fatto. Un caso particolare è costituito dal prelievo, ai fini di ricerca o di terapia, da embrioni o feti umani deceduti. La possibilità di curare alcune malattie ― come i deficit immunitari acuti ― con innesti di tessuti prelevati da feti, rende urgente stabilire una condotta che rispetti tanto le esigenze legali che quelle etiche. La protezione di ogni essere umano fin dal suo concepimento esclude che si possa trattare un embrione o un feto come materiale biologico liberamente disponibile, soprattutto con velleità commerciali. Tuttavia non si può escludere che anche da essi si possa effettuare un prelievo, come da qualsiasi altro cadavere umano, se finalizzato a uno scopo che deriva dall’ideale di solidarietà. Il consenso, in questi casi, deve essere espresso dai genitori.

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5. per approfondire

Aa. Vv., Trapianto di cuore e di cervello, Orizzonte medico, 1983.

Opera collettiva, che raccoglie diversi contributi presentati in occasione di un convegno di studio organizzato per analizzare le questioni di confine tra la medicina e la morale. Oltre a una puntualizzazione sulle possibilità tecniche dei trapianti, viene dedicato il massimo interesse ai limiti che la concezione personalista dell’uomo pone alla febbre dei trapianti.

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X

IL TERMINE DELLA VITA

1. Nell’ora della nostra morte

La linea di confine tra la vita e la morte non è sempre facile da tracciare. Fino a non molto tempo fa la morte veniva determinata in modo empirico, in base alla cessazione del battito cardiaco e all’arresto della respirazione. Anche se il riconoscimento della morte spettava al medico, per gli adempimenti medicolegali, chiunque era in grado, passando uno specchio davanti alla bocca e alle narici del deceduto, di verificare se c’erano o no «segni di vita»: se lo specchio non si appannava, o se la fiamma della candela non tremolava, si poteva concludere che la vita era cessata.

Nel giro di un paio di generazioni questi risultati per stabilire il decesso sono diventati preistorici. L’elemento determinante è stato lo sviluppo in medicina delle tecnologie di rianimazione. La respirazione e circolazione sanguigna artificiali suppliscono l’autoregolazione dell’organismo umano quando la persona è in coma; una quantità di vite umane possono essere salvate in questo modo. La frontiera tra la vita e la morte si è spostata: non risiede più nella capacità di respirare autonomamente, ma nell’assenza di danni cerebrali irreversibili, che annullano la possibilità di vita sensitiva e cognitiva. Lo strumento per rilevare se il cervello è morto o vivo è l’elettroencefalogramma, che misura l’attività delle cellule cerebrali. Se l’elettroencefalogramma è «piatto» ― vale a dire, le cellule cerebrali non esercitano più la loro attività elettrica ― e questa situazione si prolunga per un certo periodo di tempo, il coma sarà irreversibile: la persona in coma, cioè, non tornerà più a uno stato di coscienza e a una vita di relazione.

È legittimo a questo punto comportarsi come se la persona

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avesse superato la soglia che divide i vivi dai morti? L’interrogativo apre una serie di questioni. Antropologiche, in primo luogo: si può far coincidere la vita umana con la vita vegetativa? Si può continuare a considerare come un essere umano un organismo sprofondato irreversibilmente nel buio che fa seguito alla distruzione del sistema nervoso? I vescovi francesi sono stati i primi, nell’ambito delle autorità morali che si richiamano a una visione cristiana dell’uomo, a prendere una posizione esplicita: «La vita umana ― hanno dichiarato in un loro documento dedicato ai problemi etici della morte e del morire ― è più della vita vegetativa. È legittimo affermare che il soggetto umano è caratterizzato dalla coscienza e dalla capacità di entrare in relazione con altri, e che non c’è più vita umana quando ogni possibilità di coscienza e di relazione è definitivamente scomparsa: allora non c’è più un essere umano, un soggetto umano. Una tale affermazione rimette in discussione i criteri della morte attualmente riconosciuti, perché porta a dichiarare morto l’uomo in stato di coma irreversibile». Pur riconoscendo il carattere problematico di tale affermazione, in quanto non è semplice stabilire, dal punto di vista medico, quando il coma sia effettivamente irreversibile, i vescovi francesi osano farla, per opporsi a una concezione puramente biologica della vita umana.

Un’altra forte spinta a ridefinire il momento della morte viene dalla medicina stessa, più precisamente dalla pratica dei trapianti di organo. Dal momento che gli organi da utilizzare devono essere prelevati dal cadavere in un tempo non troppo lontano dalla morte, è importante decidere quando la persona sia già morta, malgrado il proseguimento di qualche forma di vita vegetativa.

Un parere autorevole è stato espresso di recente da un qualificato gruppo di scienziati, partecipanti a un convegno promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze. Stabilito che «una persona è morta quanto ha subito la perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di coordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo», gli scienziati hanno analizzato i diversi metodi clinici e strumentali che permettono di stabilire l’arresto irreversibile delle funzioni cerebrali. L’indicazione operativa dell’Accademia è molto precisa: due elettroencefalogrammi piatti, misurati a distanza di sei ore l’uno dall’altro, stabiliscono con sicurezza la morte dell’individuo, i cui organi a questo punto possono essere utilizzati per i trapianti.

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La determinazione del momento della morte clinica non è importante solo in vista dei trapianti: serve anche a salvaguardare il diritto di ciascuno a morire con dignità. Oggi, infatti, il prolungamento artificiale della vita rende possibili situazioni in cui l’apparato della tecnologia medica si frappone tra l’individuo e la propria mente, rendendogliela impossibile. Nei secoli XVIII e XIX, secondo la ricostruzione dello storico della morte Philippe Ariès, la grande paura era quella della morte apparente: un panico generale si era impadronito della gente all’idea di essere sepolti vivi e di svegliarsi in fondo a una tomba. La paura predominante dei nostri contemporanei è un’altra: quella di essere trasformati in un «vegetale», che langue per un tempo indefinito in quella terra di nessuno che la terapia intensiva ha creato tra la vita e la morte (e magari di essere utilizzato in quello stato per esperimenti scientifici: grande scalpore ha suscitato recentemente in Francia la notizia, diffusa dai medici stessi, che una persona in coma da tre anni era stata usata a fini di sperimentazione...). La definizione della morte clinica, fatta con riferimento alla perdita irreparabile della funzionalità del sistema nervoso centrale, va anche a beneficio dell’individuo, proteggendolo da un interventismo terapeutico a oltranza che lo blocca sulla linea di confine. Poter infine essere dichiarato clinicamente morto equivale a una liberazione!

La morte clinica, tuttavia, non ci autorizza a pretendere di sapere che cosa avviene negli estremi momenti di vita di un individuo. I racconti di persone che si sono risvegliate da un coma profondo bastano a inquietarci, in quanto testimoniano la permanenza di una sensibilità e di un vissuto di immagini e di emozioni, quando tutti attorno a loro li consideravano morti. Non sappiamo che cosa comporta, nella profondità della psiche, e soprattutto nella dimensione spirituale dell’essere umano, il processo del morire. Il sapere scientifico deve dichiarare il suo limite; ci soccorre, invece, la sapienza delle tradizioni religiose, che domandano un rispetto del morente nella morte e oltre. Anche il cadavere, infatti, continua a partecipare alla qualità umana della persona a cui ha appartenuto.

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2. Il prolungamento medico della vita

La morte come problema bio-etico

Il termine della vita è diventato un’area scottante, dove confluiscono sfide antropologiche tra le più radicali. Ciò obbliga l’etica bio-medica contemporanea a ripensare, in considerazione del bene stesso dell’uomo, le norme morali che in passato hanno validamente regolato questo ambito. L’intervento massiccio delle nuove tecniche ha cambiato volto alla morte. Questa ha perso la sua «naturalezza»: nelle aree industrializzate e urbanizzate il trapasso avviene ormai quasi esclusivamente in un contesto medico, per lo più in ospedale, sotto terapia intensiva di rianimazione. Grazie a questa disciplina medicochirurgica, tanto spettacolare quanto efficace, la durata della vita ha potuto essere notevolmente prolungata. Ma il tenere in scacco la morte si è rivelato quanto meno una benedizione ambigua: lo abbiamo visto considerando l’importanza di un criterio per decidere quando ha termine la vita umana.

La possibilità di rendere la vita vegetativa indipendente dai livelli superiori della coscienza diventa, almeno in alcuni casi, un dono malefico. Si può assistere allora alla paradossale rivendicazione del diritto di essere dichiarati morti! La vicenda dell’americana Karen Ann Quinlan ha assunto in questo ambito il ruolo di caso emblematico, di quelli che hanno il merito di portare un problema etico a livello della coscienza popolare. La ragazza era caduta in coma profondo, con lesioni cerebrali irreversibili, che non le avrebbero permesso di tornare indietro da una sopravvivenza puramente vegetativa. I genitori chiesero ai medici di lasciarla morire in pace; questi invece, in nome dell’etica professionale che impone loro di fare di tutto per prolungare la vita, rifiutarono, e le applicarono un polmone di acciaio. I Quinlan chiesero allora all’autorità giudiziaria l’autorizzazione al distacco dal respiratore artificiale. Ne seguì un processo a più riprese, che vide schieramenti appassionati prò e contro il desiderio dei genitori. Questi ottennero infine dalla Corte suprema del New Jersey la sospensione delle misure di rianimazione, anche se la povera Karen Ann doveva ancora «vegetare» per anni, prima di spegnersi naturalmente.

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Il caso, tuttavia, aveva ormai posto di fronte all’opinione pubblica il problema: ci sono situazioni in cui la morte sembra che la si debba conquistare lottando contro l’apparato medico! I medici intraprendono il prolungamento della vita con buona coscienza, richiamandosi ai princìpi etici che ispirano la professione. Se le norme del passato, in un mutato contesto culturale, portano a pratiche disumane, è forse giunto il momento di ripensare le norme stesse.

Il moltiplicarsi dei trapianti di organo è in parte responsabile delle misure di prolungamento artificiale della vita. Per avere organi disponibili per il momento opportuno al trapianto, le équipes di rianimazione mantengono la vita vegetativa di persone altrimenti considerate morte. Anche se il fine è nobile, queste pratiche suscitano perplessità dal punto di vista morale: non ci si può sottrarre all’impressione che il processo del morire venga strumentalizzato per uno scopo utilitaristico.

Un’altra questione etica, legata anch’essa al successo della medicina, è quella delle terapie che salvano la vita a neonati malformati. Molti di essi in passato sarebbero stati destinati dalla natura a una morte a breve termine, mentre oggi possono essere salvati. Ma è opportuno rendere possibile una vita che sarà considerata una maledizione da chi la subirà? È un interrogativo a cui abbiamo dato più ampia risonanza nel capitolo dedicato ai problemi etici in pediatria.

Un altro modo ancora di manipolare il processo di morire è quello che ha origine dalla lotta contro il dolore. È diventata una pratica abbastanza diffusa quella di somministrare analgesici («cocktails litici»), che sprofondano il malato nell’incoscienza. Non riuscendo a controllare il dolore, si «deconnette» la coscienza. Il malato non viene propriamente ucciso; tuttavia spegnere in modo irreversibile la consapevolezza equivale a una morte parziale, inferta alla parte che definisce essenzialmente l’essere umano. Anche da questo fronte della medicina giunge, dunque, un appello all’etica, perché si inizi una riflessione sulla morale professionale dei sanitari di fronte ai morenti, partendo da queste nuove concrete modalità del morire.

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I medici cambiano le loro regole deontologiche?

Lo scenario del morire si trasforma: ciò è vero non solo per il morente, ma anche per chi si occupa di lui dal punto di vista sanitario. I medici, in particolare, sembrano rimettere in discussione uno dei princìpi deontologici a cui tradizionalmente si sono ispirati: il rifiuto a usare la propria arte per abbreviare in qualsiasi modo la vita del paziente. Un fatto sensazionale, che può valere come un campanello di allarme, è avvenuto ad opera di Julius Hackethal, un medico che per le sue pubblicazioni gode di una certa notorietà in Germania. In occasione di un congresso di chirurgia a Monaco di Baviera, nell’aprile 1984, raccontò di aver fornito a una sua malata anziana, divorata da un cancro al viso, la pozione di cianuro che le aveva permesso di porre fine alle sue sofferenze, come lei stessa gli chiedeva con insistenza. Per dare alla sua rivelazione un maggior impatto, Hackethal mostrò ai colleghi un filmato che riprendeva le fasi salienti del gesto della donna, al quale egli stesso aveva attivamente collaborato. La notizia e il filmato rimbalzavano immediatamente al di fuori dell’aula congressuale; la televisione e i giornali fecero a gara per riproporre l’immagine provocatoria di un medico disponibile di fronte a un malato che chiede il suo aiuto non per guarire, ma per morire.

Un altro evento capace di arrivare al grande pubblico, attraverso la mediazione della stampa, ha avuto luogo nell’autunno dello stesso anno. Un affollato congresso internazionale si è tenuto a Nizza; raggruppava i rappresentanti di 26 associazioni, che si propongono come scopo di favorire la «morte con dignità». Nel contesto del congresso è stato possibile ascoltare il professor Christian Barnard dichiarare: «Non possiamo e non dobbiamo domandare al malato di scegliere il momento preciso della sua morte: sarebbe disumano. Sono i medici, e solo essi, che possono decidere quando è giunto per il malato il momento di morire. Perché sono i soli ad avere una formazione che permette loro di fare una diagnosi clinica esatta». Già da anni Barnard, dopo essere stato una vedette della medicina per i trapianti cardiaci, aveva assunto una posizione pilota nella campagna a favore del diritto a scegliere la propria morte. La posizione di cui si è fatto portavoce nel congresso di Nizza propone un sovvertimento pubblico e ufficiale del ruolo tradizionalmente attribuito al medico.

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Somministrare la «morte per pietà» non è più, se si assume questa prospettiva, il gesto inconsulto con cui qualcuno cerca disperatamente di rispondere alla sfida estrema di una situazione eccezionale. Diventa, piuttosto, un preciso dovere del medico, il quale solamente può giudicare quando è giunto il momento di mettere la parola «fine» alla vita di un uomo. Questa concezione sconvolge ogni riferimento religioso e sapienziale tradizionale. La posta in gioco è così alta, che la Commissione della famiglia dell’episcopato francese in un documento recente sull’argomento (Vita e morte su ordinazione, del novembre 1984), cita esplicitamente la rivendicazione di Barnard, additandola come una porta aperta su ogni genere di totalitarismi: se si accetta questa posizione, «l’uomo non è più un soggetto, ma un oggetto».

Paradossalmente, mentre sempre più forte si va facendo il movimento di opinione che contesta non solo all’individuo ma anche allo Stato il diritto di disporre della vita di un uomo ― premendo affinché, di conseguenza, la pena di morte sia bandita dalla legislazione di tutti gli Stati civili ―, ora qualcuno osa rivendicare un simile diritto per il medico. Si scardina così uno dei punti fissi della deontologia professionale alla quale tradizionalmente i medici si sono ispirati.

Fin dall’antichità, quando i medici con il giuramento di Ippocrate hanno formulato esplicitamente gli impegni che si assumevano nei confronti del paziente, si sono obbligati a non dare la morte, neppure a chi la richiedesse: «Giammai ― giurava il medico ― mosso dalle preghiere insistenti di qualcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere». Che cosa succederebbe se questo pilastro dell’etica medica venisse a cadere? «L’ambiguità si rifletterebbe su tutta la pratica medica. Dal momento che il gesto medico può essere mortale, se è giustificato dai buoni sentimenti, la fiducia è intaccata. Il malato si domanderà ormai se l’iniezione che gli viene praticata è per curarlo o per ucciderlo. Si può immaginare l’angoscia che regnerà in certi reparti». A esprimersi in questi termini è il documento francese sopra citato che, già dal titolo stesso, prende posizione contro la pretesa di rendersi padroni della vita e della morte.

Anche la «Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici» giustifica la proibizione di praticare l’eutanasia

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con l’argomento della fiducia che deve poter essere posta nei sanitari: «Ricorrere a un medico vuol dire in primo luogo affidarsi a lui. Tale azione, che domina tutta l’etica medica, proibisce, di conseguenza, alcune azioni ad essa contrarie. Così il medico non può procedere all’eutanasia. Deve sforzarsi di placare le sofferenze del suo malato, ma non ha diritto di provocarne deliberatamente la morte... Questa regola, conosciuta da tutti e rispettata dal corpo medico, deve essere la ragione e la giustificazione della fiducia posta in lui. Nessun malato, handicappato, infermo o senile, alla vista del medico, chiamato al suo capezzale, deve avere dubbi a questo riguardo».

I motivi addotti a difesa del comportamento tradizionale dei medici suonano plausibili. Ma colpisce il fatto che allo stesso argomento della fiducia del paziente nei confronti del medico facciano ricorso anche coloro che sollecitano una modifica delle norme della deontologia medica. La fiducia del malato ― sostengono ― è accresciuta, se questi sa che può contare sul medico non solo per guarire, ma anche per morire. L’angoscia più profonda del morente dei nostri giorni è quella di essere abbandonato, nel momento in cui, secondo la scienza medica, «non c’è più niente da fare». In nome di un contratto morale implicito nell’alleanza terapeutica, il malato vuol poter contare sul medico fino all’ultimo, anche per poter finire i suoi giorni.

C’è un aspetto di ipocrisia ― incalzano i critici ― in certi alti proclami della medicina come servizio alla vita: prima la medicina stessa crea delle situazioni disumane, poi rifiuta di assumerne le responsabilità, trincerandosi dietro i princìpi deontologici! Troppo spesso il medico, richiamandosi ai «valori ippocratici», di fatto abbandona il malato, perché la morte non è di sua competenza. Come in tutte le situazioni in cui predomina l’ideologia, i sublimi ideali sono uno schermo dietro a cui si nasconde una realtà piuttosto meschina...

Questi attacchi alla deontologia tradizionale, per quanto provocatori ed eversivi, non sono necessariamente insensati. Il loro risvolto positivo sta nel richiedere che si rifletta, nei termini concreti della pratica medica attuale, sulla finalità della professione medica. La medicina curativa, per tradizione, non si occupava della morte, e quindi neppure dei moribondi. Per questo poteva dichiararsi compattamente schierata sul fronte della vita. Ma le nuove condizioni del morire obbligano i sanitari a

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occuparsi anche della morte dell’uomo. Sarebbe abusivo derivare da questo orientamento una legittimazione a priori di interventi rivolti ad abbreviare la vita di un paziente; ma non è neppure più legittimo appellarsi ai princìpi ippocratici come alibi per evitare di affrontare le questioni scomode che solleva il morire nel nostro tempo.

Vuol dire, dunque, che nella cittadella della medicina si sta creando una breccia, attraverso la quale entrerà l’eutanasia? L’appassionato confronto su questo tema, che è uno dei punti più delicati dell’etica bio-medica contemporanea, si nutre abbondantemente di equivoci. In primo luogo di fraintendimenti semantici, cioè sul significato delle parole, che inquinano la comunicazione tra persone pur animate da un retto intendimento. Non potendo dipanare pienamente la matassa, cerchiamo almeno di definirne i contorni.

Gli equivoci del dibattito sull’eutanasia

Il principale responsabile dei malintesi che si addensano intorno ai comportamenti da tenere nei confronti della vita a termine è la parola stessa: «eutanasia». Di fatto il dibattito si svolge più attorno a questa parola che a specifici comportamenti: sì o no all’eutanasia? Bisogna introdurre delle disposizioni legislative che permettano l’eutanasia? È giusto che i medici smobilitino un antico fronte, rendendosi disponibili all’eutanasia? Nei dibattiti di questo genere si crede di parlare della stessa realtà, ma l’intesa è illusoria, in quanto gli interlocutori hanno in mente situazioni completamente diverse. Il termine «eutanasia» è una tipica «parola-attaccapanni», alla quale ciascuno attribuisce un particolare significato. Nel documento Problemi etici della morte e del morire i vescovi francesi richiamavano l’attenzione sull’ambiguità della parola e sulla necessità di tenere separati i diversi problemi per i quali si ricorre al termine eutanasia.

Il documento indica almeno sei ambiti diversi:

― l’«addolcimento» degli ultimi momenti della vita del malato (secondo il significato etimologico della parola, eutanasia viene qui a significare una morte armoniosa, senza strazio);

― la lotta contro la sofferenza, che può comportare il ricorso ad analgesici che fanno perdere coscienza al malato, ovvero,

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come effetto secondario, possono anche abbreviare la vita, in quanto deprimono la funzione respiratoria;

― il prolungamento della vita ad ogni costo, correlato al problema dell’astensione terapeutica (è il «lasciar morire», che alcuni preferiscono chiamare eutanasia passiva);

― la soppressione dei «tarati» per ragioni eugeniche, come è stata teorizzata e praticata in Germania durante il Terzo Reich (da questo precedente storico l’eutanasia ha conservato un significato sinistro, che rende quasi impossibile riabilitare la parola);

― la constatazione della morte secondo i criteri clinici, malgrado il perdurare di apparenze di vita;

― infine, il porre termine deliberatamente alla vita di una persona, su richiesta esplicita o presunta di quest’ultima, in nome della compassione per chi sta soffrendo in una condizione ritenuta ormai disumana.

Il dibattito acquisterebbe il pregio della chiarezza se si parlasse di eutanasia non indiscriminatamente per tutte le situazioni sopra citate, ma in senso specifico e delimitato: per esempio, solo nell’ultimo caso preso in considerazione.

Quand’anche si giungesse a quest’uso ristretto del termine, i problemi semantici dell’eutanasia non sarebbero terminati. Anche dietro la domanda esplicita, infatti, ci può essere un’altra richiesta. Lo afferma Cecily Saunders, la fondatrice del St. Christopher’s Hospice e una delle maggiori autorità nella cura dei malati in fase terminale. A suo avviso, la domanda «fatemi morire» contiene implicitamente un altro tipo di richiesta, che va decodificato come «occupatevi di me e alleviate il mio dolore». Tant’è vero che, quando questo aiuto viene effettivamente dato, la domanda di eutanasia non è più avanzata. La richiesta di eutanasia nasconde un grido di aiuto; questo appello, e non la volontà di morire, è quindi il vero contenuto della domanda. Interpretare quello che il malato sta in realtà chiedendo è un momento particolare dell’arte ermeneutica, necessaria in tutti i rapporti interpersonali.

Se questa è la situazione linguistica dell’eutanasia dal punto di vista della denotazione, ancor più delicati sono i problemi connessi col suo significato connotativo. Ogni parola, infatti, suscita tutto un insieme di idee e sentimenti correlati, una costellazione di significati difficili da definire con esattezza e fortemente

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colorati dalle esperienze individuali: è questo il significato connotativo di un termine. Possiamo anche parlare dei fantasmi che una parola suscita, al solo essere pronunciata.

Il fantasma più frequentemente evocato dall’eutanasia è quello della diga che si rompe. La diga è un’immagine che sta a rappresentare la barriera costituita dalla legge e dalla morale contro lo scatenamento degli istinti e la disgregazione sociale. Dopo l’accettazione dell’aborto ― temono molti ― la prossima falla nella diga sarà la legislazione dell’eutanasia! Una società centrata sui valori efficientistici e produttivi trova sempre maggiori difficoltà a giustificare investimenti che non siano compensati da benefici. L’assistenza fornita alle legioni crescenti di vecchi, in una popolazione in rapida senescenza, fa parte delle perdite secche. E se, dopo una certa età, la medicina si limitasse alle cure palliative, rinunciando a impiegare il suo vasto ― e costoso! ― armamentario per prolungare delle vite diventate infruttuose? La questione comincia ad essere sollevata, per ora come un semplice ballon d’essai. Sullo sfondo si delinea, con il profilo dei forni crematori, il programma eugenico nazista di eliminare le «vite non degne di essere vissute». Per rafforzare la diga contro i tempi di ferro incombenti, alcuni ritengono che sia urgente ribadire, in nome dell’etica, il «no» all’eutanasia, un «no» energico e assoluto, su tutta la lunghezza del fronte della vita giunta al termine.

Un secondo fantasma che turba il dibattito sull’eutanasia è la paura di diventare vittima dell’ostinazione medica. È entrato nell’uso parlare a tale proposito di «accanimento terapeutico». La parola «accanimento» si rivela inappropriata per un duplice motivo. Nel suo significato peggiorativo (ancora una questione semantica sul nostro cammino...), evoca l’infierire sadico su di una vittima inerme. Con ragione i sanitari si ribellano al discredito che tale termine riversa sulla loro azione. D’altra parte, una certa forma di accanimento può positivamente essere richiesto e giustificato dalle esigenze terapeutiche: la vittoria sulla malattia domanda talvolta una lotta indefessa, con tutte le energie dell’intelligenza e della volontà. Forse è opportuno distinguere l’accanimento dall’ostinazione terapeutica, da considerare invece una deformazione del sano accanirsi a voler guarire.

Il medico che soggiace all’ostinazione considera come suo

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dovere esclusivamente quello di prolungare il più possibile il funzionamento dell’organismo del paziente, in qualsiasi condizione ciò avvenga, e ignorando ogni altra dimensione della vita umana che non sia quella biologica; trascurando soprattutto la qualità della vita che in tal modo ottiene e la volontà, esplicita o presunta, del paziente. Nei casi di ostinazione terapeutica, tenere in vita per qualche giorno o per qualche ora in più un paziente terminale diventa per il medico quasi un punto di onore. Il prezzo dell’ostinazione è una somma inenarrabile di sofferenze gratuite, tanto per il morente quanto per i suoi familiari. Questa situazione nuova del morire ha indotto a coniare un neologismo per qualificarla: «distanasia», cioè una deformazione violenta e strutturale del processo naturale del morire, una volta che sia stato intensivamente medicalizzato.

Il fantasma del medico ostinato a prolungare la vita vegetativa induce alcuni a contrapporgli la rivendicazione di un «diritto a morire», che viene spesso interpretato come rivendicazione di un procedimento di eutanasia. Il dibattito sull’eutanasia non può che uscirne ulteriormente carico di equivoci. Il diritto a morire è in realtà una barriera frapposta al medico che soggiace alla «libido sanandi» e che non accetta la morte del paziente, in quanto vi vede la smentita delle sue fantasie inconsce di onnipotenza. Se non vogliamo trovarci costretti a difenderci dai medici, bisogna che venga assimilato il principio che l’accresciuta disponibilità di mezzi terapeutici non crea con ciò stesso l’obbligo morale di utilizzarli.

Non sempre in medicina è lecito fare tutto quello che si è in grado di fare. Il ricorso all’etica si giustifica precisamente come una ricerca di aiuto per stabilire dei criteri di discernimento tra le diverse azioni possibili. Per cominciare dalla questione più fondamentale: affinché l’azione del sanitario sia moralmente buona, in quale considerazione deve tenere il desiderio soggettivo del paziente?

La volontà di morire

Cercando di aprirci un sentiero tra gli equivoci terminologici e i fantasmi collegati all’eutanasia, ci imbattiamo nell’inequivocabile problema etico maggiore della vita a termine: la volontà

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di morire. Non sempre infatti ― lo abbiamo visto ― la volontà intende ciò che le parole esprimono. Sollecitare la morte può significare un rimprovero rivolto a familiari e sanitari, o un disperato richiamo ad aspetti della propria situazione, come dolore fisico persistente o solitudine, che vengono disattesi. Ma non possiamo escludere che la volontà di morire possa essere anche una ricerca determinata di porre fine alla propria vita, che si manifesta nel modo più chiaro nella volontà di suicidarsi.

L’etica bio-medica è chiamata in causa per chiarire l’obbligo di prevenire il suicidio. Esiste il dovere morale di salvare la vita di un altro essere umano contro la sua volontà? In questo caso entrano in conflitto due specie di obblighi: quello di difendere la vita e quello di rispettare la libertà, secondo il principio dell’autonomia personale; mentre il primo giustifica l’intervento, il secondo richiede la non interferenza (nel caso in cui si sia moralmente certi che la decisione suicidiaria è stata presa in effettiva libertà, e non sotto costrizione). Pensiamo, in concreto, al conflitto in cui viene a trovarsi un medico chiamato a fornire l’alimentazione forzata a un detenuto politico che abbia deciso lo sciopero della fame a oltranza, facendo così fallire la deliberata intenzione del suo gesto.

Solo poche voci isolate propongono il rispetto assoluto della volontà di commettere il suicidio come condizione per salvaguardare la dignità umana. Più generalmente, l’Occidente ha dato la preferenza all’obbligo di salvare la vita del suicida: in passato ricorrendo per lo più alle argomentazioni religiose che riferiscono il comandamento «non uccidere» anche alla vita del soggetto stesso; oggi prevalentemente con motivazioni secolari, ivi compreso il principio giuridico secondo cui il diritto alla vita va inteso come un diritto «assolutamente indisponibile», tutelato dallo Stato anche contro la volontà dell’individuo.

Con particolare mitezza si tende oggi a valutare i tentativi di porre fine alla propria vita da parte di persone che intendono sfuggire ai dolori intollerabili e ai trattamenti disumani nella fase terminale della malattia. Anche in questi casi non sussiste, almeno dal punto di vista dell’etica cristiana, alcun valido motivo per riformulare il giudizio morale che ritiene illecito ogni attentato contro la propria vita. Ma non dovremmo sentirci dispensati dal riflettere sul significato profondo di tali gesti suicidi, nei quali molto spesso si riversa una vibrata protesta contro

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le condizioni di vita a cui sono costretti i malati terminali. La prevenzione del suicidio non può ridursi allora alle misure coercitive. Deve estendersi piuttosto alla modifica di quelle forme più generali di malessere, le cui radici vanno fatte risalire all’organizzazione sanitaria del morire. Quando una persona giudica la propria vita come invivibile, non basta impedirgli di porvi fine: bisogna offrirgli l’aiuto necessario perché la sua vita ritrovi la qualità umana.

Appurato che si tratti di un vera volontà di morire, un’altra opera di discernimento è affidata all’etica: la distinzione tra la volontà sana e quella patologica. Non tutti accettano che possa esistere una sana volontà di morire. Per lungo tempo qualsiasi progetto autodistruttivo nei confronti della propria vita è stato etichettato come moralmente perverso. I comportamenti sociali verso i suicidi, comprendenti persino il rifiuto di esequie religiose, avevano una funzione prevalente di deterrente, affinché non si innescasse il fenomeno dell’imitazione; la valutazione morale era, in ogni caso, di condanna. A questo atteggiamento ha fatto seguito l’epoca dell’indulgenza, ma solo perché al gesto di chi si toglie la vita è stato conferito un carattere patologico. La conoscenza delle radici socio-psicologiche del comportamento suicida ha aperto la strada a un atteggiamento di maggior comprensione. Peccato... pazzia...: la volontà di morire non può essere coniugata anche con la salute, sia morale che mentale?

L’istinto naturale per la vita e l’obbligo morale di preservarla sono indubbiamente il punto di partenza dell’etica della vita fisica. Ma la volontà di morire non può essere esclusa in assoluto dal progetto di vita umano. Essa può esprimere la positiva accettazione della propria umanità, come essenzialmente limitata nel tempo. La fantasia dell’immortalità è legata all’io; talvolta ne esprime l’ipertrofia: in questo caso, è la fantasia di immortalità, non la volontà di morire, ad avere carattere patologico. Quando l’individuo lascia che si sviluppi anche la dimensione transpersonale, che trascende l’orizzonte dell’io, l’abbarbicamento alla vita corporea viene superato. A un certo livello di autorealizzazione la persona si apre a un’aspirazione mistico-unitiva con il Tutto, anche al di fuori dell’esperienza formalmente religiosa.

La volontà di morire può avere anche un risvolto di ribellione all’idolatria della vita, caratteristica della cultura immanentista

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nella quale siamo immersi. Quando la vita fisica è considerata il bene sommo e assoluto, al di sopra della libertà e della dignità, l’amore naturale per la vita si tramuta appunto in idolatria. La medicina implicitamente promuove tale culto, organizzando la fase terminale come una lotta a oltranza contro la morte. Ribellarsi a tale organizzazione ― che per lo più espropria il malato di ogni autonomia, sottoponendolo ai rituali chirurgici e rianimatori dell’ostinazione terapeutica ― può essere anche un gesto di disobbedienza, mentalmente e moralmente sano. Dovremmo aspettarcelo soprattutto dal credente, che la fede ha reso libero dai miti (l’immortalità) e dagli idoli (la vita corporea sopra ogni altro valore).

L’etica della vita terminale: un «tvork in progress»

Dall’etica ci aspettiamo un aiuto molteplice. Oltre a indicare i valori a cui ispirare l’azione, deve anche offrire un orientamento concreto nelle situazioni nelle quali bisogna prendere delle decisioni, fornendo norme e regole di comportamento che risolvano, o almeno attenuino, i conflitti. Il capitolo dell’etica bio-medica relativo alla fine della vita è un esempio particolarmente eloquente di come la riflessione etica possa servire a fare un po’ di chiarezza in un settore in cui le confusioni abbondano, e a ridurre, sul piano morale, il margine di incertezza circa le gravi scelte che si è costretti a fare.

Il capitolo stesso ci si presenta come un grande cantiere, dove la riflessione si svolge all’insegna della provvisorietà. Parallelamente al progresso tecnologico e al modificarsi culturale e sociale del morire, è stato fatto un grande sforzo per discriminare tra i diversi comportamenti, stabilire proibizioni, porre dei limiti. Sono state elaborate soprattutto delle distinzioni, utili a delimitare zone di abuso e di ingiustizia, e a esplorare dilemmi complessi. Alcune di queste categorie sono storicamente superate o non più adeguate; ma un problema irrisolto diventa spesso il punto di partenza di più vaste esplorazioni. Passiamo in rassegna almeno le principali tra queste categorie, frutto della riflessione etica.

Le distinzioni più classiche sono quelle di eutanasia attiva e passiva, diretta e indiretta. L’eutanasia attiva si ha quando

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si produce la morte; in quella passiva, invece, la morte sopravviene perché si omettono misure indispensabili per salvare la vita. Dal punto di vista morale, non ha grande rilevanza se l’azione con cui si pone fine a una vita sia una omissione o una commissione. La «Dichiarazione sull’eutanasia» emanata dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede (maggio 1980) specifica che va considerata eutanasia «tanto un’azione quanto un’omissione che di natura sua procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore».

Alcuni moralisti vorrebbero che la distinzione scomparisse dall’uso, in quanto serve solo a creare equivoci. Il problema non è tanto quello della modalità, attiva o passiva, con cui viene portato a esecuzione il progetto di sopprimere una persona. Oggi ci domandiamo piuttosto: ci sono situazioni in cui, pur avendo la capacità di prolungare la vita, è moralmente giustificato omettere l’azione sanitaria? L’omissione è legittima quando in tal modo si lascia che il paziente entri naturalmente nel processo del morire, rinunciando a quell’irrigidimento che abbiamo chiamato ostinazione terapeutica. Ma non si crea, appunto, una confusione, quanto il «lasciar morire» viene qualificato come «eutanasia passiva»?

La distinzione tra azione diretta e indiretta è anch’essa tradizionale nella filosofia morale. Nel caso dell’eutanasia indiretta, l’azione produce la morte, ma l’intenzione di colui che agisce non è la soppressione. L’esempio più chiaro è quello della overdose di sedativi, data per alleviare i dolori del paziente, non per ucciderlo. Pio XII ha applicato esplicitamente la distinzione, che si basa sul principio del duplice effetto, alla terapia del dolore: «Se la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita, è lecita». Aggiungeva, però, che bisogna ancora considerare se tra i due effetti vi sia una proporzione ragionevole, e se i vantaggi dell’uno compensano gli inconvenienti dell’altro.

Questa distinzione ha il vantaggio di sottolineare il significato della retta intenzione, fondamentale nell’azione morale; ma non fornisce regole precise, utili per prendere una decisione in situazioni di conflitto. Un’indicazione in tale senso è stata offerta dalla distinzione tra mezzi ordinari e straordinari. Secondo tale criterio, gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare

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l’esistenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno un carattere di straordinarietà.

Anche questa distinzione risale al magistero di Pio XII nell’ambito della morale medica. Ha avuto molto successo ed è stata ampiamente adottata anche dalla cultura laica. La distinzione mira a individuare gli interventi medici ritenuti obbligatori ― identificati con quelli ordinari ―, distinguendoli da quelli che possono essere tralasciati senza colpa morale. Nella pratica sanitaria, il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione, a meno che non sia abbinato a qualche altro criterio; per esempio: se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Anche nel caso in cui la vita sia di fatto prolungata di qualche tempo, non si può ignorare la prospettiva del paziente. Questi potrebbe considerare sproporzionato l’utile del prolungamento della vita: qualche settimana o qualche mese in più, ottenuti al prezzo di grandi dolori o di spese rovinose per la famiglia, possono essere un ben misero guadagno!

La «straordinarietà» non è intrinseca ai mezzi stessi, ma dipende dalla valutazione soggettiva del paziente. Inoltre, un mezzo del tutto ordinario può risultare inappropriato, se si considera la situazione concreta. Gli antibiotici, ad esempio, sono un presidio farmaceutico standard per curare una polmonite; ma non potrebbe essere considerata una procedura ordinaria somministrarli a un paziente in coma irreversibile, prossimo a morire, che abbia contratto una polmonite. Per queste imprecisioni intrinseche alla distinzione tra mezzi «ordinari» e «straordinari», nel cantiere dell’etica ha cominciato a manifestarsi una certa insofferenza verso questa terminologia, a vantaggio di un’altra: la distinzione tra mezzi «proporzionati» e «sproporzionati».

La stessa «Dichiarazione sull’eutanasia» della Congregazione della dottrina della fede, sopra citata, ha sancito la transizione da una terminologia all’altra. Domandandosi se in tutte le circostanze si deve ricorrere a ogni rimedio possibile, indicava il punto di vista della morale cattolica in questi termini: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”! Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e

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“sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali».

La distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati ha il vantaggio di introdurre come criterio una valutazione soggettiva della vita e della sua qualità. Una ragionevole amministrazione della propria vita può indurre a rinunciare a un trattamento che salverebbe la vita o prolungherebbe l’esistenza, se ciò risulta proporzionato rispetto al proprio progetto di vita. La valutazione costi/benefici, insomma, non va fatta solo in senso economico, ma umano, in una prospettiva più ampia, che include i valori in base ai quali l’individuo orienta la propria vita.

L’etica, accettando il criterio della qualità della vita, ricorda alla medicina che essa deve essere a servizio non della vita, ma della persona. Se il prolungamento della vita fisica non offre più alla persona alcun beneficio, perché questa non riesce più a dargli un senso o deve pagare la vita fisica a un prezzo che ritiene troppo alto ― a prezzo della dignità, per esempio, o della libertà ―, diventa sproporzionato ogni mezzo rivolto a questo fine.

La prospettiva della qualità della vita corregge e integra quella della «santità della vita», unilateralmente proposta dalla morale religiosa e adottata dalla deontologia medica. Un atteggiamento globale a protezione della vita è giusto, e più che mai necessario nella nostra società, propensa a valutare tutto col metro dell’utilità. Ma, senza dimenticare la sua qualità: ciò preserva la proclamazione della santità della vita dal diventare una retorica celebrazione di condizioni di vita subumane o addirittura disumane.

3. L’accompagnamento dei morenti

Un nuovo compito dell’etica della vita terminale

Dalla morte in pubblico, a casa propria e circondato dai propri cari, in un quadro ritualizzato ― la «cerimonia degli addii» ―

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alla morte impersonale in una fredda camera d’ospedale: non cambia solo lo scenario della morte, ma quel rapporto di fondo del morente con il suo ambiente che conferisce al morire una qualità umana. La frustrazione della morte in una desolata solitudine è oggi l’evenienza più frequente, proprio in questi santuari della tecnologia che sono diventati gli ospedali moderni.

Chi muore ha bisogno di avere, sul punto di affrontare il momento angosciante del distacco dall’esistenza corporea, la vicinanza rassicurante di qualcuno. Questo ruolo di conforto, assicurato soprattutto da coloro con cui il morente è più legato affettivamente, nella nostra società è minacciato dal costume di nascondere in modo sistematico al morente la sua condizione. La presenza stessa dei propri cari non conforta più, perché è impregnata di menzogna. La maggior parte dei malati gravi sa che sta per morire. Il malato lo avverte dai segnali che gli vengono dal corpo; qualora questi facessero difetto, l’intuisce dai mutamenti dell’attenzione che gli viene rivolta, dal modo nuovo e diverso con cui la gente lo avvicina, dalle voci abbassate o dal fatto che il personale dell’ospedale tende a evitarlo ― è stato spesso rilevato che i medici tendono a diradare le visite al malato per cui «non c’è più niente da fare» ―, dal volto in lacrime di un parente o dal sorriso sforzato di un familiare che si sforza di nascondere i suoi sentimenti.

La comunicazione non verbale talvolta trasmette più di quella verbale. Se le due comunicazioni divergono radicalmente, il rapporto di fiducia con i familiari si infrange. Magari il morente preferirà adattarsi al ruolo che si richiede da lui e fingerà di avvicinarsi all’ora fatale senza rendersi conto di niente, pur di conservare una qualsiasi parvenza di rapporto con chi lo attornia. Ma si sentirà murato nella sua solitudine, senza possibilità di esprimere le sue emozioni, o incapace di liberarsi dall’angoscia che gli causa la prospettiva della fine imminente.

Sembra oggi che sia andata irrimediabilmente perduta l’arte, così coltivata in passato, di aiutare il prossimo a fare una «buona morte». O si abbandona il morente a se stesso, privandolo di comunicazione proprio nel momento supremo e più difficile della vita, oppure lo si stordisce con promesse falsamente rassicuranti e soffocandolo con le cure inutili dell’ostinazione terapeutica. Riapprendere l’arte di accompagnare i morenti, insieme alla creazione di strutture sanitarie propizie a un morire

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umano, appare come una priorità dell’etica bio-medica contemporanea.

Anche i responsabili politici per i problemi sociali e sanitari si esprimono in tal senso. Lo ha fatto autorevolmente l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa mediante una «Raccomandazione relativa ai diritti dei malati e dei morenti» (1976). Rivolgendosi ai governi degli stati membri, la Raccomandazione chiede loro che «si assicurino che tutti i malati abbiano la possibilità di prepararsi psicologicamente alla morte e prevedano l’assistenza necessaria a questo fine facendo richiesta sia al personale curante ― come medici, infermieri e ausiliari ―, che dovrà ricevere una formazione di base per poter discutere di questi problemi con le persone vicine alla propria fine; sia agli psichiatri, ministri del culto o assistenti sociali specializzati, addetti agli ospedali».

Conoscere il morente

Là dove si è cominciato a reagire all’abbandono del morente, troviamo oggi al suo fianco, nello spazio che una volta era occupato dal ministro della religione, psicologi e psichiatri. La tendenza a «psichiatrizzare» la morte si è messa in moto negli Stati Uniti. È stato intrapreso con ardore lo studio della psicologia della morte. Il movente non è solo la curiosità scientifica, ma anche un chiaro intento umanitario: contribuire a rendere meno desolata la morte dell’uomo dell’era tecnologica. Da questo punto di vista gli obiettivi delle scienze umane rivolte al processo del morire coincidono con quelli dell’etica. Le conoscenze che da esse derivano costituiscono, più precisamente, un presupposto indispensabile per un’azione adeguata.

La conoscenza del morente ha ricevuto un impulso decisivo dall’opera della psichiatra Elisabeth Kübler Ross. Particolare diffusione ha avuto lo schema delle cinque fasi che costituirebbero il processo del morire. Il processo ha inizio con la reazione del rifiuto ad accettare l’approssimarsi della propria morte. Istintivamente, di fronte alla malattia mortale, si erige la difesa dell’incredulità: «No, non è possibile. Non io. Non ancora». Le difese sono necessarie, perché l’annuncio della morte è una ferita brutale inferta a quel narcisismo psicologico che ci

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fa credere immortali. Il rifiuto è una difesa attuata con un mezzo grossolano; per lo più in seguito esso cede il posto a difese di altro genere. Dopo un certo tempo si smette di correre da un medico all’altro, nella speranza che la diagnosi sia sbagliata, o si cessa di illudersi che sia avvenuto uno scambio di referti in laboratorio...; il realismo prende il sopravvento e si comincia a considerare la propria morte come una reale possibilità. Non è da escludersi, però, che alcuni malati, non riconoscendosi la forza di guardare in faccia la morte, tengano in piedi il rifiuto sino alla fine.

Il più sovente alla prima fase fa seguito la seconda, quella della rivolta: «Perché proprio io?». I sentimenti che l’accompagnano sono quelli della collera, dell’invidia e del risentimento verso tutti coloro che resteranno in vita dopo la propria morte. Nella rivolta i sentimenti rabbiosi vengono proiettati in tutte le direzioni: Dio, la propria famiglia, il personale curante. Gli esiti di questa esplosione rischiano di essere tragici. Il morente in rivolta rifiuta gli altri e viene a sua volta rifiutato. Si può uscire dal circolo vizioso solo se coloro che sono vittime degli scoppi di aggressività del morente si rendono conto che il vero bersaglio non sono loro personalmente. Essi hanno l’unico torto di rappresentare la salute e la vita, i beni che il morente sta per perdere per sempre. Un malato rispettato e compreso, cui si dedichi attenzione e tempo, di cui si tolleri la collera, supererà lo stadio della rivolta.

Entrerà allora probabilmente nella fase del patteggiamento. Questo è una specie di compromesso mediante il quale il malato, che si sa condannato, cerca di strappare dal destino una dilazione. Per differire l’inevitabile evento, il malato cerca un accordo con colui che rappresenta l’onnipotenza: il medico e Dio, e talvolta tutt’e due. Pazienti difficili diventano improvvisamente sottomessi; persone religiosamente indifferenti od ostili riscoprono un senso elementare del sacro e moltiplicano preghiere, voti e devozioni (alternando talvolta la comunione eucaristica, le reliquie dei santi e le pratiche contro il malocchio...).

Quando il malato incurabile non può più negare la sua malattia e ha sperimentato l’inanità della rivolta e del patteggiamento, verosimilmente si abbandonerà alla depressione. Con questo stato d’animo il morente si orienta al distacco e si prepara ad esso. La sua depressione assomiglia a un mesto ritiro

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dei remi in barca. Il morente manifesta la fase culminante della sua depressione mediante il disinteresse alle cure che gli vengono prestate e alle persone che lo circondano. La presenza del visitatore che cerca di distrarlo dai pensieri tetri lo infastidisce.

La depressione sembra essergli necessaria per entrare nell’ultimo stadio del morire, quello dell’accettazione. A questo punto le emozioni si rarefanno e il morente fluttua in una specie di vuoto dei sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita e sia venuto il tempo per «il riposo finale prima del lungo viaggio», come diceva un malato alla dott.ssa Kübler Ross. Nella fase finale i morenti sembrano scivolare in uno stato che non conosce più né la paura, né la disperazione, e in cui la coscienza dell’ambiente circostante svanisce nell’oscurità. Un progressivo distacco sostituisce la comunicazione bilaterale. In questa fase suprema la presenza al morente può assumere solo l’essenzialità ieratica dell’unico gesto possibile: tenere in silenzio la mano di colui che stacca gli ormeggi e si abbandona alla deriva. In quel momento i due destini, di colui che muore e di colui che resta, necessariamente si separano. Colui che resta ha però, a questo punto, veramente fatto «tutto il possibile»!

Queste fasi del morire non devono essere intese come un itinerario obbligatorio e a senso unico. Non tutti i morenti attraversano tutte le fasi; alcuni si fissano a uno stadio psicologico del processo del morire, altri possono regredire a uno anteriore. La descrizione dei diversi stadi offre tuttavia un buon sussidio per capire il morente. È una comprensione indispensabile, se si vuol essere presenti in modo autentico ed efficace a chi è sul punto di staccarsi dalla vita.

La conoscenza dei bisogni psicologici, emotivi e relazionali del morente è una tappa importante dell’umanizzazione del morire. Su di essa si basano i tentativi più affidabili di elaborare metodologie di accompagnamento dei morenti. Il pericolo a cui è però esposta la «psichiatrizzazione» del morire è la creazione di una nuova categoria di specialisti, ai quali sarebbe demandata l’opera di accompagnamento. Questa verrebbe così sottratta alla competenza del medico.

L’etica bio-medica deve impegnarsi per scongiurare questa possibile evoluzione, che si tradurrebbe in un impoverimento della professionalità del sanitario. La sua professione lo riferisce

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non solo al recupero della salute e della vita, ma a tutta la vicenda biologica dell’uomo, compresa la sua conclusione nella morte.

4. Per approfondire

N. EliasLa solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1985.

Elias analizza, da sociologo, il processo di civilizzazione in cui siamo inseriti e la sua tendenza a relegare dietro le quinte della società la morte e l’agonia, circondandole con un senso di imbarazzo fisico e verbale. Lo studio suggerisce che la morte sarà meno disumana, se cesseremo di rimuoverla e l’accetteremo come parte integrante della vita.

E. BeckerIl rifiuto della morte, Edizioni Paoline, 1983.

Per procedere oltre Freud, l’autore si rifà a Kierkegaard... Come questi ha insegnato, il rifiuto della morte è un’impresa non solo vana, ma anti-umana in assoluto. Il libro è una riflessione antropologica esigente, maturata alla lettura di filosofi, teologi e psicologi.

E. Kübler-RossLa morte e il morire, Cittadella, Assisi 1984.

È un classico della psicologia del morente. Analizza la comunicazione che si instaura con il malato a termine nell’ambiente ospedaliero e le varie fasi che costituiscono il processo psicologico del morire. Fornisce una summa di conoscenze utilissime, per non dire indispensabili, per tutti coloro che assistono — come sanitari, familiari o volontari — altri esseri umani nel momento del trapasso.

S. Spinsanti (a cura), Umanizzare la malattia e la morte, Edizioni Paoline, 19842.

Il volume raccoglie e commenta due documenti ecclesiali, uno dell’episcopato francese e uno dei vescovi tedeschi, dedicati alla morte nella società contemporanea. I documenti tengono presenti tutti gli aspetti problematici del morire: sociali, antropologici, psicologici, etici e spirituali. Indicano una nuova frontiera per la comunità cristiana: rendersi presente là dove si è creato un vuoto drammatico attorno all’uomo in necessità.

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P. VerspierenEutanasia? Dall'accanimento terapeutico all’accompagnamento dei morenti, Edizioni Paoline, 1985.

Una trattazione esauriente e profonda dei problemi etici della vita terminale. Il compito dell’etica non viene limitato al rifiuto dei comportamenti inconciliabili con la dignità della persona umana (eutanasia, accanimento terapeutico), ma è esteso all’umanizzazione del morire. Pagine illuminanti vengono dedicate anche agli aspetti etici della terapia del dolore.

C. JomainVivere l'ultimo istante, Edizioni Paoline, 1985.

Un’infermiera, responsabile di un reparto per lungodegenti, riferisce come è stato possibile trasformare una specie di «moritorio» in un ambiente favorevole per una morte dignitosa e nella tenerezza. Di particolare interesse per coloro che, lavorando nelle strutture ospedaliere, cercano soluzioni creative, da contrapporre a quelle impersonali e degradanti oggi prevalenti.

R. e V. ZorzaUn modo di morire, Edizioni Paoline, 19832.

Nella testimonianza diretta dei genitori, l’esperienza vissuta di un modo diverso di morire di una giovane donna. La diversità consiste essenzialmente nel rispetto dei bisogni della persona, nel dialogo onesto, nella presenza di sanitari attenti non solo agli aspetti biologici della malattia e della morte, ma anche a quelli della comunicazione interpersonale. L’ambiente in cui si svolge questo modo diverso di morire è un «hospice», la struttura creata appositamente nei paesi anglosassoni per assistere i malati a termine.

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XI

LA COMUNICAZIONE NEL PROCESSO TERAPEUTICO

1. Modelli di comunicazione medico-paziente

La relazione che guarisce

Malgrado gli enormi progressi fatti dalla medicina più recente, i malati sono sempre più insoddisfatti e rivendicativi, e i medici delusi e inaspriti. Che cos’è che non funziona nella sanità? La tendenza oggi prevalente è quella di gettare la colpa delle disfunzioni addosso ai politici. Additata la causa, la formula di risanamento diventa: «Via i politici della sanità!». Molto più spesso, tuttavia, come capri espiatori vengono designati i sanitari, in particolare i medici. È un luogo comune tra i più ripetuti: se la medicina non è più quella che era, lo si deve ai medici; sono loro i principali imputati della «mala sanità». Li si accusa di aver lasciato cadere l’ideale di dedizione altruistica e filantropica al benessere del malato, per trasformarsi da missionari della salute in mercanti, o in freddi e impersonali burocrati.

Qualcuno fa anche appello all’etica medica, con l’intento di «far la morale» ai medici... Anche in ambito religioso la riproposta di medici santi, il cui comportamento è stato tutto ispirato alla carità e al servizio del prossimo sofferente, non è esente da qualche malinteso. Nessun dubbio sulla legittimità di indicare all’ammirazione e all’imitazione dei modelli sublimi di dedizione professionale. Ma ciò non dovrebbe essere fatto con l’intento di colpevolizzare nessuno, né tantomeno di insinuare implicitamente l’idea che le cose nella sanità vanno male perché i medici non si comportano come il tale o il talaltro santo... Un limite intrinseco di tali posizioni predicatorie è che semplificano eccessivamente i problemi del rapporto tra medico e paziente,

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riconducendoli unicamente all’esigenza di virtù personali (che sono pur necessarie, tanto da parte del medico, come del malato!). L’indicazione è giusta, ma formulata in termini moralistici è denigratoria per i medici, e non rispecchia la comprensione più profonda che oggi abbiamo dei rapporti interpersonali in ambito sanitario.

Uno degli apporti più rilevanti della psicologia medica, a cui si comincia a dare spazio anche in ambito universitario, nella formazione dei medici, è stato quello di aver messo in luce la centralità del rapporto medico-paziente nel processo terapeutico, e allo stesso tempo la sua complessità. Non si può descrivere la relazione tra chi presta le cure e chi le riceve riferendosi a un unico modello. La comunicazione sanitaria ha bisogno, piuttosto, di un arsenale di diversi moduli di rapporto, da usarsi secondo le opportunità che emergono dalle indicazioni di tempo, di luogo, di diversità della patologia e di bisogni personali.

La medicina più «umana» sarà, in tal senso, non quella dotata di un maggior numero di buoni sentimenti, ma quella che rispetta di più le molteplici esigenze dell’uomo, perché è più ricca e differenziata in senso antropologico. Essendo l’essere umano una complessa realtà bio-psico-socio-spirituale, le modalità di entrare in rapporto tra sanitario e malato sono correlate ai diversi livelli. Ecco, schematicamente, un ventaglio di tali possibili rapporti.

Rapporto medico-paziente: al plurale

Poniamo a un estremo la relazione di tipo «scienze della natura». È diventata prevalente, da quando la medicina si è trasferita nei laboratori, con l’impiego gigantesco di mezzi diagnostici e terapeutici che dipendono dalle macchine. In essa il medico si pone dinanzi al paziente come qualsiasi scienziato di fronte all’oggetto del suo studio. Ciò che lo muove è soprattutto il desiderio di sapere, che può diventare una vera e propria passione di sciogliere i problemi diagnostici. Il medico-scienziato si entusiasma per il «bel caso», ignorando gli aspetti umani della malattia che sta curando. Quando ascoltiamo primari di cliniche universitarie lamentarsi che i loro reparti sono affollati di malati ordinari, invece che di casi interessanti, siamo tipicamente

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di fronte a questo clima scientifico, caratteristico della medicina di punta. Astenendoci da valutazioni moraleggianti, teniamo presente che da questa volontà di sapere la medicina ha attinto in ogni epoca gli impulsi più decisivi al progresso. Ma siamo anche consapevoli che questo tipo di rapporto, se generalizzato, crea le maggiori frustrazioni per il malato e snatura il volto stesso della medicina.

Imparentata alla relazione scientifica è quella che potremmo chiamare di «servizio di riparazione». Anche qui il medico non stabilisce col malato un contatto affettivo, né considera la malattia come un fatto globale del soggetto, da capire tenendo presente tanto la psiche quanto il soma, senza dimenticare il suo inserimento sociale. Quando stabilisce questo tipo di rapporto, il medico prende in considerazione solo l’organo malato, oppure il fatto acuto che domanda un’azione efficace (un intervento chirurgico, un trattamento farmacologico o irradiante, una terapia di urgenza). Mentre nella relazione scientifica l’interesse del medico è rivolto al segreto che l’oggetto del suo studio detiene, in nome di una verità scientifica da scoprire, qui il medico si sente coinvolto e responsabile dell’«oggetto» da riparare. Terminato il suo servizio, restituisce l’organo (il corpo) al suo possessore, con soddisfazione reciproca.

Diversa è la relazione che si instaura con i malati cronici. Continuando a rimanere nell’ambito metaforico dei servizi che offre il meccanico, possiamo parlare in questi casi di un «servizio di manutenzione». I diabetici, i cardiopatici, le persone affette da disturbi funzionali resistenti a qualsiasi terapia (emicranie, dolori addominali, ecc.) hanno bisogno di un aiuto per imparare a vivere con il proprio male. Gli aspetti psicologici qui non possono essere ignorati: il malato cronico ha bisogno di essere preso a carico totalmente, nella malattia e al di fuori di essa, corpo e spirito. È una relazione essenzialmente ripetitiva e monotona, nella quale gli utenti possono diventare a loro volta specialisti nel trattamento del proprio male, imparando come e quando domandare l’aiuto del «meccanico».

Il coinvolgimento del sanitario è maggiore quando la sua azione si struttura come «relazione di aiuto». In questo caso la terapia, come suggerisce l’etimologia stessa della parola, è concepita come un servizio (therapeúein, in greco, significa servire) rivolto alla persona. Il malato riceve un aiuto che comprende,

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da parte dell’aiutante, oltre alla competenza diagnostica e terapeutica, anche una sorta di tutela. Il medico si impegna a fare il bene del malato: è il principio della «beneficialità» dell’azione sanitaria (anche nel giuramento ippocratico il medico si impegna a fornire la terapia più adeguata, nella misura delle sue cognizioni, e a difendere i malati «da ogni cosa ingiusta e dannosa»). Questo tipo di aiuto ha profonde attinenze con il «paternalismo», nel suo aspetto di protezione e supplenza paterna, ma anche nei suoi possibili risvolti di abuso di autorità e di infantilizzazione dell’altro.

Un aspetto particolare della relazione di aiuto è la dimensione pedagogica. Il medico è «dottore» (da docere, cioè insegnare!), in quanto esercita una funzione educativa nei confronti del paziente. Come ogni relazione pedagogica, parte da una disparità e da una asimmetria ― chi ha delle conoscenze particolari le comunica a chi non le ha ― per tendere all’autonomia nell’uguaglianza.

Più limitata della relazione di aiuto è quella di sostegno. Qui il medico non si sostituisce interamente al paziente, per prendersi cura di lui, ma supplisce solo parzialmente le sue facoltà. Il sostegno valorizza le difese abituali che la personalità edifica nei suoi rapporti con gli altri e non favorisce la dipendenza. Quando il paziente è capace di effettuare da solo ciò che è necessario per risolvere le proprie difficoltà, la relazione di sostegno si interrompe.

Un ultimo modello di relazione è quella che potremmo chiamare «interpersonale soggettiva». Medico e paziente si trovano di fronte come due persone, nel profondo intreccio di invalicabile diversità e di comunicazione, nell’unicità di valori e di scelte che rende il destino di ognuno irripetibile. Questa relazione, breve e intensa come un lampo, può nascere e sparire nel corso di un solo incontro, magari anche durante il primo. È questo tipo di relazione che caratterizza la modalità terapeutica della psicoterapia: si tratta essenzialmente di una guarigione che passa, al di là dei diversi modelli teorici di riferimento e delle tecniche impiegate, attraverso il rapporto interpersonale. Anche se la medicina somatica sembra essersi alienata questa modalità, riservandola agli psicoterapeuti, ogni medico consapevole di ciò che avviene tra lui e il paziente saprà riconoscerne almeno qualche traccia nella propria prassi.

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L’insieme di queste relazioni costituisce l’arsenale che il medico ha a propria disposizione. Ognuna ha degli aspetti positivi e una particolare «indicazione». Si tratta per il sanitario di saper passare dall’una all’altra senza troppa difficoltà. Ovviamente nessuno può maneggiare tutti i modelli della relazione medico-paziente: è necessario limitare la propria scelta, a seconda della disposizione personale e della specialità medica che si coltiva. Tuttavia la padronanza di più modelli è indispensabile al medico per acquisire una personalità professionale adeguata alle attuali esigenze. Senza questa competenza comunicativa difficilmente potrà essere un «buon» medico, per quanto alto sia il livello delle sue virtù personali.

La comunicazione all'interno dell’ospedale

Il processo della guarigione avviene all’interno di una relazione. In ogni cultura il trattamento della malattia è sempre inserito in un contesto relazionale; le modalità, però, possono cambiare. Lo spostamento delle attività diagnostiche e terapeutiche nell’ambito dell’ospedale è uno dei fatti maggiori che ha modificato il volto dell’assistenza sanitaria nei Paesi a sviluppo industriale. L’ospedale è diventato il santuario della salute, dove confluisce tutto ciò che la società giudica patologico, per essere curato.

Nel disegno della riforma sanitaria del nostro Paese all’istituzione ospedaliera vengono attribuiti compiti anche di assistenza (per es. nei confronti dei malati mentali e dei tossicodipendenti, oltre all’assistenza ai malati cronici e geriatrici, ormai di routine). L’ospedale è diventato anche il luogo deputato dove si realizzano gli eventi fondamentali dell’esistenza corporea, dopo essere stati «medicalizzati»: in ospedale, infatti, si nasce e si muore.

La comunicazione tra medico e paziente, spostandosi all’interno dell’istituzione ospedaliera, subisce un sostanziale condizionamento. Il quale non va interpretato univocamente in senso negativo. È vero che l’organizzazione ospedaliera ha la sua buona parte di responsabilità nelle disfunzioni che affliggono l’assistenza sanitaria. È un monotono ritornello, tanto spesso ripetuto: la struttura ospedaliera è fredda, impersonale, fonte

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di sistematica frustrazione, in quanto, anche quando è efficiente, è senz’anima. Nella maggior parte dei casi queste accuse sono fondate, ed è difficile controbatterle. Ma, vedendo solo gli effetti negativi nel contesto organizzato, si rischia di non coglierne e valorizzarne anche le potenzialità positive. A cominciare dalla più fondamentale: l’istituzione, che può rendere impersonali i rapporti umani, è però già in se stessa comunicazione! L’ospedale è un sistema, costituito di parti non semplicemente aggregate e giustapposte, ma integrate. Il reparto, la corsia ecc., possono essere considerati come dei sotto-sistemi.

Nella struttura sistemica a ogni singolo componente compete un ruolo e una funzione, ma il funzionamento dipende dall’integrazione delle parti. E, come in tutti i sistemi, il tutto è più che la somma delle parti. Così avviene anche nella struttura ospedaliera. In essa individuiamo i medici, con la loro struttura gerarchica interna alla categoria, il cui ruolo è fortemente carico di elementi carismatici; il personale infermieristico, che nei confronti dei medici ha per lo più un atteggiamento ambivalente, fatto di ammirazione e di rivalità; spesso studenti di medicina o giovani medici frequentatori e tirocinanti; personale ospedaliero non sanitario, come i tecnici; gli amministratori.

L’aspetto positivo della struttura sistemica sta proprio nella gerarchizzazione dei compiti. Il paziente che entra in ospedale sa di poter contare su questa suddivisione dei ruoli. L’istituzione gli fornisce la garanzia che è stato immesso in una struttura preordinata; ciò ha un benefico effetto sull’ansia, in quanto permette al paziente di affidarsi. La struttura gerarchica dell’ospedale non va dunque a priori demonizzata, ma usata piuttosto a fini terapeutici. Si può avere un riscontro della sua efficacia nel fatto che certe cure non hanno effetto a domicilio, ma solo in ospedale. L’istituzione, come amplifica l’effetto terapeutico, così può pure comprometterlo. Anche in questo caso negativo, gli effetti sono ingigantiti.

progetti di umanizzazione dell’ospedale che puntano solo sulle disposizioni interiori delle persone, trascurando l’analisi della modalità di funzionamento istituzionale, sono destinati al fallimento. Creano stati d’animo basati sulla colpevolizzazione (sentirsi «buoni» o «cattivi»...), e aumentano il senso di impotenza e frustrazione nei sanitari.

È importante che l’etica non si limiti all’ambito individuale,

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ma includa un piano di intervento programmato che passi per la realtà istituzionale. A tale fine, dopo la presentazione del classico capitolo dell’etica medica relativo alla comunicazione della verità al malato, centrato sul rapporto interpersonale, proporremo un esempio concreto di trasformazione istituzionale, dove non solo il rapporto personale, ma la struttura ospedaliera stessa è utilizzata affinché il malato diventi protagonista di quell’avventura umana che è il suo incontro con la malattia. Un esempio proposto non come modello da copiare, ma come stimolo alla creatività.

2. Il segreto professionale e la verità al malato

«Tacerò come cosa sacra...»

Sullo sfondo della complessa trama di rapporti che lega il sanitario al paziente che ricorre al suo aiuto, consideriamo due obblighi, a prima vista antitetici, che fanno parte tradizionalmente dei doveri connessi con la professione sanitaria: l’obbligo di tacere e quello di parlare; vale a dire: il segreto medico e la verità al malato.

Il primo accompagna tutte le formulazioni di deontologia ed etica medica, a partire dall’illustre prototipo costituito dal giuramento di Ippocrate («Tutto quello che durante la cura ed anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa sacra»). Nel codice italiano di deontologia medica al segreto professionale è dedicato un ampio capitolo tra i doveri generali del medico (artt. 10-15). L’obbligo del segreto professionale passa anche ai collaboratori del medico, in quanto questi si impegna a far sì che siano a conoscenza dell’obbligo e vi si conformino (art. 11). Nei codici deontologici delle infermiere viene infatti esplicitamente menzionato. Nel codice etico delle infermiere americane viene dedicato al segreto tutto il secondo capitolo, che si apre con l’affermazione programmatica: «L’infermiera tutela il diritto del cliente all’intimità, proteggendo scrupolosamente informazioni di natura confidenziale».

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Sulle ragioni del segreto è molto esplicita la «Guida europea di etica e di comportamento professionale dei medici». Il principale motivo viene indicato nella fiducia dei malati: «È importante che non si possa dubitare di alcun medico e che si sappia bene che ogni essere umano che ha bisogno di soccorso si può rivolgere a un membro del corpo medico, senza rischiare di essere tradito o denunciato». Come tutte le fondamentali obbligazioni deontologiche, il segreto professionale è un comportamento a cui il sanitario si impegna unilateralmente, in considerazione delle esigenze della professione. Esso equivale a un’implicita promessa di non utilizzare le informazioni, acquisite attraverso il rapporto sanitario, a proprio vantaggio, e tanto meno a divulgarle con danno del paziente.

In forza di questo impegno, il paziente acquisisce il diritto alla confidenzialità di ciò che comunica al medico o che questi giunge comunque a conoscere mediante l’esercizio della professione. L’aspetto utilitaristico del segreto professionale va individuato nel fatto che esso permette al paziente di affidarsi, non sottraendo al medico nessuna informazione utile alla diagnosi e alla terapia. L’impegno generalizzato di tutti i medici alla sua osservanza permette il funzionamento sociale della professione; qualsiasi violazione, perciò, danneggia non solo il singolo, i cui segreti vengono divulgati, ma tutti i potenziali fruitori del servizio medico, perché genera sfiducia nella riservatezza dei professionisti.

La linearità di questa impostazione del segreto medico è turbata dal fatto che il sanitario non ha solo un obbligo verso colui che lo consulta, ma anche verso la società in genere. Il bene pubblico può entrare in conflitto con l’interesse privato del paziente. Il medico può trovarsi così in una situazione in cui è costretto a scegliere.

Il codice deontologico italiano prevede già alcune deroghe all’obbligo del segreto. La rivelazione di un’informazione confidenziale è infatti consentita al medico: a) se imposta dalla legge per «giusta causa» (referti, denunce obbligatorie, ecc.); b) se autorizzata dall’ammalato; c) se richiesta dai genitori dei minorenni non emancipati, nell’interesse del minore (art. 10). Queste indicazioni possono essere di aiuto al medico per risolvere alcune situazioni conflittuali; in altre, invece, dove non lo soccorrono né la legge, né le norme deontologiche, può essere difficile

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tracciare la linea di confine tra il rispetto della confidenzialità e l’obbligo morale verso altre persone o la società in genere.

Un caso di conflitto particolarmente drammatico è stato illustrato nel capitolo relativo alla salute mentale (caso Tarasoff). I dilemmi si possono presentare nella pratica medica a ogni piè sospinto. Il medico d’ufficio di un’impresa può essere combattuto tra la confidenzialità di ciò che rileva e gli obblighi morali che ha verso la committenza (se rende nota una malattia, un dipendente non sarà assunto; ma, se tace, il difetto potrebbe avere un’incidenza sul lavoro o addirittura costituire una minaccia per altri...). Regola d’oro del tradizionale rapporto che lega chi esercita una professione liberale a colui che ricorre ai suoi servizi, il segreto medico traballa invece nelle istituzioni di solidarietà sociale che introducono un terzo garante nei rapporti medico-paziente (visite fiscali, assicurazioni, medicina sociale, in cui i costi dei servizi ricadono su tutta la comunità).

Soprattutto la concezione plurisecolare del medico-confidente e custode del segreto si rivela inadeguata nel contesto della medicina preventiva, che nasce da una conoscenza accurata dell’epidemiologia. Questa si serve in modo sempre più massiccio di tecniche informatiche, per raccogliere dati relativi ad alcune affezioni di maggior impatto sociale: cancro, per esempio, o malattie cardiovascolari, aberrazioni cromosomiche e malformazioni congenite, malattie sessuali trasmissibili ecc. Affinché questi dati possano essere utilizzati a fini medici (ricerca sull’origine di certe malattie, strategie terapeutiche più appropriate da adottare), devono essere nominativi. Ciò viene a interferire gravemente sia con il diritto alla confidenzialità, sia con la libertà individuale delle persone, che si trovano legate alle informazioni su di esse raccolte. D’altra parte, non si può immaginare una vera ricerca epidemiologica senza registri informatizzati legati all’identità personale dei malati.

Il Comitato etico nazionale francese, sollecitato da un parere in merito, non ha raccolto incondizionatamente il desiderio espresso da numerosi epidemiologi, che vorrebbero vedere abolita la norma del segreto medico; tuttavia si è pronunciato a favore di una modifica della nozione del segreto stesso, che dovrebbe essere inteso in un senso meno stretto. Le informazioni dovrebbero essere trasmesse dai medici curanti agli epidemiologi, tenuti essi stessi al segreto. Il Comitato francese pone

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come condizione indispensabile a questo allargamento il consenso del malato all’informatizzazione dei dati medici che lo riguardano. La condizione onora la concezione tradizionale di segreto medico, ma fa naufragare il progetto di ricerca epidemiologica sistematica. Un 'impasse insuperabile, dunque? Piuttosto un compromesso necessario, se non si vuol rinunciare a un tratto qualificante dell’etica medica consegnataci dalla tradizione.

Parlare? Tacere? Mentire?

«Dottore, è grave?». La domanda, in cui si riversa la più profonda preoccupazione di chi si sente minacciato dalla malattia, è uno dei punti nevralgici del rapporto medico-paziente. Pronunciata in modo pacato o con animo visibilmente angosciato, provoca sempre un turbamento nel sanitario sollecitato a rispondere. Dal terreno delle certezze ― relative, ma pur sempre affidabili ― della scienza medica, si trova proiettato in quello insidioso di un rapporto interpersonale, in cui tanto il tacere la verità quanto il comunicarla possono produrre un imprevedibile danno nel paziente. Il sapere in questo campo non è soltanto quello dei riscontri oggettivi e verificabili, ma è soggettivo, ambiguo, e passa attraverso il delicato processo dell’interpretazione.

Spesso il medico si trova paralizzato in un conflitto, da cui non sa come uscire. È consapevole degli inconvenienti del silenzio: sottrae in tal modo al paziente le informazioni di cui questi ha bisogno per prendere le decisioni sulla propria vita; si assume le responsabilità di decidere al posto di un altro; rischia comportamenti ipocriti con il paziente, il quale, costretto ad adeguarsi al gioco della simulazione, perde la possibilità di ogni vero contatto con il suo ambiente.

Ma anche il comunicare la verità, evidentemente nei casi di prognosi infausta o mortale, può comportare seri inconvenienti. Lo shock della notizia può avere esiti antiterapeutici: il malato può cadere in una profonda depressione, smettere di mobilitare le proprie forze per sopravvivere, e addirittura potrebbe anche giungere a procurarsi la morte col suicidio. Sempre più numerosi sono oggi i professionisti della sanità che sentono come una gratuita crudeltà verso il malato comunicargli la prognosi infausta. Tacere, quindi, ed essere reticenti? E, qualora

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ciò non sia possibile, mentire? Oppure attestarsi sul fronte della verità, sempre e a tutti?

In pochi altri ambiti del comportamento medico una condotta stereotipata è tanto nociva come in questo. Al medico si domanda di tener conto della personalità del malato, di interpretare la sua richiesta, di essere attento a come si modifica nel tempo la sua domanda e quali sono gli atteggiamenti emotivi che l’accompagnano. Ciò è possibile solo all’interno di un rapporto che si sintonizzi sulla gamma «relazione d’aiuto ― relazione interpersonale», in cui emerge ciò che rende unica ogni persona. In questo ambito le ricette generali («dire sempre la verità... non dirla mai») non sono di alcuna utilità. Compito dell’etica è di elaborare delle indicazioni, intermedie tra il comportamento stereotipato e l’unicità del caso individuale, che orientino il comportamento del medico.

Partendo dalle più generiche indicazioni di tendenza, dobbiamo osservare che oggi il problema della verità al malato si pone in un contesto diverso rispetto al passato. La prospettiva tradizionale partiva dagli obblighi del medico verso il paziente. Era ritenuto dovere del medico informare il paziente, in quanto l’informazione faceva parte del bene che il medico era tenuto a procurare al malato. In un’ottica religiosa, questo dovere era rinforzato dall’obbligo di provvedere al bene spirituale del malato, inducendolo, con la comunicazione della gravità del suo male, a occuparsi dell’anima e della salvezza eterna.

La sensibilità odierna valuta questo atteggiamento, ancorato sul senso d’obbligo del sanitario verso il paziente, come viziato di paternalismo. La prospettiva che oggi prevale è quella che parte dai diritti del paziente. Viene considerato un diritto fondamentale della persona conoscere la verità e ricevere l’adeguata informazione necessaria per prendere le decisioni terapeutiche ed esistenziali che lo riguardano. Senza una conoscenza del proprio stato di salute e della prognosi, non si può dare un consenso libero e informato alla terapia proposta; eventualmente rifiutarla; in ogni caso, rimanere arbitri del proprio destino. La forte spinta verso il riconoscimento del diritto del malato alla verità ha indotto i medici italiani a introdurre nell’ultima revisione del loro Codice deontologico (1978) la regola generale di comunicare la prognosi, almeno ai familiari («Una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato, ma

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non alla famiglia. In ogni caso la volontà del paziente, liberamente espressa, deve rappresentare per il medico un elemento al quale egli ispirerà il suo comportamento», art. 30).

Il dovere della verità, corrispettivo al diritto da parte del malato, non è assoluto; ammette perciò delle deroghe. Anche se la presunzione generale è a favore della trasparenza, circostanze particolari possono indurre a nascondere in tutto o in parte la verità. Il dovere di informare non va inteso come un «accanimento» a far sapere la verità a ogni costo. Il paziente può anche esprimere la volontà di non sapere: sia esplicitamente (« Se ho un cancro o se sono condannato, preferisco non sapere»), sia implicitamente (per esempio «dimenticando» ciò che in precedenza sapeva...). Anche questa volontà deve essere rispettata.

La clausola deontologica della comunicazione della diagnosi alla famiglia esprime la presa di coscienza della professione medica che l’opzione a favore della trasparenza e della verità va a vantaggio del rapporto terapeutico nel suo insieme, anche se il bene del malato può richiedere che questi sia tenuto all’oscuro. Ciò non dovrebbe equivalere, però, a un’alleanza del medico con i familiari, alle spalle del malato.

Conflitti molto acuti si possono stabilire quando la famiglia si oppone a qualsiasi comunicazione della verità del malato, costituendo attorno a lui come una barriera di reticenze e di menzogne. Il dovere del medico in questi casi non è quello di attenersi in tutto e per tutto alla volontà dei familiari. Il sanitario cercherà soprattutto di capire i motivi della famiglia. I quali possono essere giusti e nobili, in quanto i congiunti si preoccupano di proteggere il malato da traumi psichici che ritengono pregiudizievoli per il suo equilibrio psichico ed emotivo; ma possono essere anche discutibili, e non è escluso che possano essere perfino abbietti.

I familiari, in ogni caso, non hanno diritto di proprietà sulla persona del paziente. Devono essere coinvolti, nella misura del possibile, nel processo di comunicazione col paziente. Idealmente sono essi i mediatori privilegiati. Ma il medico non dimentichi che, in caso di conflitto di interessi, la sua alleanza originaria e fondamentale è con la persona del malato.

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3. Un modello alternativo

Il reparto di psicosomatica clinica di Ulm

Il grave malessere che regna nel campo dell’assistenza sanitaria, con particolare riferimento ai problemi del rapporto terapeutico e della comunicazione, può subire un’inversione di tendenza? Un esperimento onesto e credibile per rimediare all’alienazione crescente che minaccia chi capita nei luoghi di cura è offerto dal reparto di psicosomatica clinica di Ulm (Repubblica federale tedesca). La conoscenza di questo esperimento porta all’etica, che si nutre di fatti oltre che di idee, lo stimolo delle realizzazioni concrete, più convincenti delle migliori teorie.

È opportuno, presentando questo modello esemplare, specificare in primo luogo in che senso i protagonisti dell’esperimento intendono la medicina psicosomatica. Questa è molto spesso concepita come un’ulteriore disciplina specialistica, all’interno di una scienza medica che tende alla frammentazione e alla specializzazione. Di sua competenza sono ritenuti i casi in cui il disordine organico può essere fatto risalire a una causa psichica (dalle nevrosi organiche fino all’asma bronchiale, alle affezioni dermatologiche, alle ulcere gastriche...). Il trattamento psicosomatico assume allora la fisionomia di un servizio di consulenza nel corso del quale alcuni specialisti ― i medici clinici ― ricorrono all’aiuto di altri specialisti: medici psicosomatici, psichiatri, psicoterapeuti. Al medico competente nei processi organici è affiancato quello addetto alla psiche e ai suoi conflitti.

La sensibilità per la dimensione psichica del processo morboso costituisce un progresso nei confronti di una medicina che non vuol conoscere altro che l’organo malato; tuttavia, in questa concezione della psicosomatica l’immagine sostanzialmente dualista dell’uomo non viene superata. Addizionando uno specialista agli altri, non si perviene a un trattamento orientato alla persona del malato; né si realizzano le trasformazioni istituzionali necessarie perché tutti i membri dell’équipe sanitaria partecipino, scambiandosi informazioni e collaborazione, al processo terapeutico.

La concezione a cui si è ispirato il policlinico universitario

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di Ulm nella creazione del suo reparto speciale di psicosomatica clinica è profondamente diversa. Non si è voluto isolare un particolare gruppo di malattie, ma proporre una struttura che renda visibili e controllabili i numerosi fattori psicosociali che intervengono in qualsiasi fatto morboso, e trarne le debite conseguenze nel processo di terapia.

La psicosomatica clinica a cui il progetto si ispira estende il suo interesse a tutta la complessa interrelazione tra il malato e il suo ambiente. Analiticamente, un approccio psicosomatico alla malattia comprende:

a) la ricerca sulla patogenesi. In questo ambito gli influssi dell’ambiente includono anche le relazioni umane, che hanno un’importanza decisiva suH’origine e il decorso della malattia;

b) il processo d’adattamento, che porta la persona colpita a reagire ai problemi psichici e sociali che la malattia gli pone. L’arco dei problemi qui si estende da quelli intrapsichici (per es. ansia e depressione nei cardiopatici, «elaborazione del lutto» nei colpiti da malattie mortali) a quelli familiari (cambiamento di ruoli) e professionali (riabilitazione);

c) comportamento del malato in rapporto alle esigenze e alle trasformazioni della sua vita provocate dalla cura della malattia. Un aspetto particolare è costituito dalla qualità del legame terapeutico, da cui dipende se il malato si comporta attivamente o passivamente. L’informazione del paziente è un ulteriore problema di competenza della psicosomatica clinica.

Se la psicosomatica clinica assume questa ampiezza, diventa adatta al trattamento di qualsiasi malato, non solo di quelli che rientrano nel quadro morboso delle cosiddette «malattie psicosomatiche». I pazienti che occupano i letti del reparto psico-somatico di Ulm sono dei malati gravi dal punto di vista internistico, in generale. Statisticamente risulta che le malattie organiche rappresentano il 76% dei ricoverati in un anno, mentre le cosiddette «malattie psicosomatiche» appena il 10%.

La psicosomatica clinica mira a rendere il paziente protagonista attivo del processo terapeutico, partner dell’équipe curante. La terapia è strutturalmente centrata sul paziente, più che sulla malattia. Proprio perché la malattia non acquista senso e rilievo se non quando tutte le sue dimensioni in quanto fenomeno umano sono messe in luce, bisogna che il malato prenda

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la parola. I suoi vissuti e impressioni soggettivi sono altrettanto rilevanti scientificamente quanto i dati «oggettivi» delle analisi fisiche e chimiche.

La malattia è un frammento di storia personale; è necessario, pertanto, che colui che l’ha scritta se ne riappropri per gestirla con responsabilità: ciò è essenziale anzitutto per l’efficacia stessa del trattamento terapeutico. Ad Ulm il diritto alla parola viene esteso a tutti i malati, comprese quelle categorie che nella prassi corrente sono costrette al mutismo. Anche i limiti delle possibilità terapeutiche e l’incombere della fine vengono comunicati ai pazienti che vogliono essere informati sulla propria condizione.

Il trattamento centrato sul paziente comporta inoltre un ripensamento della distribuzione abituale dei ruoli nell’ambiente ospedaliero. Alla diade medico-paziente ad Ulm si è sostituita una complessa rete di rapporti, il cui filone centrale è costituito dall’équipe sanitaria. Non si tratta solo di un allargamento numerico dell’organico, che ha portato ad aggiungere al personale medico e infermieristico abitualmente in pianta organica nel reparto psicosomatico uno psicologo, un’assistente sociale, una fisioterapista e un cappellano. È avvenuta anche una ristrutturazione dei ruoli.

Una funzione di primo piano è stata riconosciuta alle infermiere, che tra tutto il personale curante sono le più vicine ai bisogni tanto emotivi che corporei del paziente. Incontriamo così la figura della «infermiera psicosomatica», alla cui formazione si è dedicato ad Ulm la cura principale. Nel corso dell’elaborazione del progetto è emerso che una terapia psicosomatica centrata sul paziente non poteva realizzarsi senza la cooperazione tra i medici e il settore infermieristico. A quest’ultimo spetta un ruolo decisivo nella percezione del paziente come individuo, in ordine all’introduzione dei suoi speciali bisogni nel piano diagnostico-terapeutico.

Nel reparto psicosomatico di Ulm l’infermiera fa parte integrante dell’équipe, insieme all’altro personale specialistico. I compiti delle infermiere non si limitano più alla funzione intermediaria di eseguire le prescrizioni del medico e di trasmettere a questi informazioni sullo stato del paziente. L’interazione tra infermiera e malato diventa un momento centrale nel processo terapeutico. A questo fine è necessario occuparsi della formazione

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del personale, senza trascurare di introdursi nell’arduo campo dei conflitti consci e inconsci che possono derivare dai rapporti personali.

Ciò che nella prassi ospedaliera si richiede solitamente dall’infermiera è una benevolenza a getto continuo. Il ruolo che le attribuisce invece un approccio psicosomatico, mettendola a contatto personale diretto col malato, non può essere svolto senza un coinvolgimento emotivo più complesso, che comporta l’espressione e l’elaborazione di sentimenti di ogni genere. La revisione dei ruoli non può fare a meno di nuove forme organizzative, che si distanzino dalla rigida strutturazione gerarchica tradizionale nell’ambiente ospedaliero.

Nuove forme di cooperazione e comunicazione

Gli orientamenti di fondo si sono tradotti in alcune innovazioni nel decorso abituale della vita in ospedale. Una delle più tipiche è il colloquio che ha luogo quando il malato viene assunto nel reparto. Non si tratta delPanamnesi medica, che di solito viene raccolta con l’aiuto di un formulario, ma di un vero colloquio informale condotto da un’infermiera. Il nuovo venuto nel reparto è accolto come persona, non semplicemente registrato come oggetto destinato a ricevere un trattamento medico. Mentre di solito l’infermiera si dà subito da fare misurando la temperatura o la pressione, ad Ulm invece prende tempo per cercare di vedere la situazione con gli occhi del paziente, per lo più smarrito in una situazione insolita, e informarsi sui suoi bisogni.

Gli argomenti di questo primo colloquio tendono a far emergere le impressioni soggettive del paziente: da dove sente di essere malato; che cosa significa per lui l’essere uscito dalla sua vita abituale; che cosa si aspetta dall’ospedale. Un particolare interesse viene rivolto alle rappresentazioni e fantasie del paziente circa le trasformazioni fisiche prodotte dalla malattia («anatomia e fisiologia soggettive»): anche se oggettivamente false, possono essere della più grande importanza per capire il vissuto emotivo del paziente.

Il risultato del primo colloquio viene riferito dall’infermiera nell’incontro mattutino con cui comincia il lavoro giornaliero

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dell’équipe. Nell’incontro, che dura circa mezz’ora, vengono formulate le prime ipotesi provvisorie sui problemi psicosociali dei nuovi pazienti e si discutono eventuali problemi attuali di altri pazienti del reparto. Poi ha luogo la visita, per la durata di un paio d’ore.

La visita quotidiana al letto del malato, a cui partecipa tutta l’équipe, è il momento principale della giornata in reparto. Ad Ulm lo sforzo innovativo ha avuto un esito particolarmente felice quando si è applicato a dare un volto nuovo alla visita. Di solito negli ospedali quasi tutto il tempo viene dedicato alla visita in senso clinico, mentre il paziente in quanto persona è completamente trascurato. I medici parlano tra di loro, come esperti, sul malato, non al malato. Nel reparto psicosomatico, invece, la visita è diretta principalmente al malato in quanto persona. Allora diventa «terapeutica» anche in senso psicologico, in quanto offre al paziente l’opportunità di formulare le sue domande, di esprimere le sue aspettative e di partecipare attivamente al processo diagnostico e terapeutico.

Attraverso una visita di questo tipo il medico può accostare il malato negli atteggiamenti emotivi che egli sviluppa in risposta alla malattia: ansia, depressione, rabbia, delusione; in particolare, può partecipare alP«elaborazione del lutto» del malato grave. Questa funzione di comunicazione verbale non è riservata ad Ulm ad uno «specialista della psiche», ma è assicurata dal medico che si occupa del trattamento somatico. Durante la visita è lui che, seduto sulla sponda del letto, dialoga col malato, mentre gli altri membri dell’équipe presenti nella camera rimangono piuttosto sullo sfondo. Lo scambio di informazioni all’interno dell’équipe avviene fuori della porta della camera del malato, in un breve colloquio prima e dopo la visita. La visita stessa risulta così strutturalmente divisa in tre parti.

Uno spazio per lo spirito

Un’altra innovazione degna di nota è la riunione di reparto che si tiene una volta per settimana per discutere un caso singolo, scelto tra i pazienti particolarmente problematici. Questa prassi è analoga a quella elaborata da Balint per i gruppi che portano il suo nome. Il punto di partenza è costituito dalla discussione

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della propria esperienza emotiva nel rapporto col malato: ognuno si comporta diversamente, e quindi percepisce anche diversamente il malato. La riunione settimanale serve inoltre a confrontarsi con le tensioni che sorgono all’interno dell’équipe e a favorire una più intensa comunicazione tra tutti i collaboratori. Grazie a questo tipo di riunioni, prende forma a poco a poco un linguaggio comune in cui tutti, dai medici alle infermiere, possano intendersi. Questa, secondo l’esperienza del gruppo di Ulm, è una delle difficoltà maggiori incontrate nel dar vita a un reparto di psicosomatica clinica.

Un accenno, infine, all’integrazione del lavoro pastorale nel trattamento centrato sul paziente. La possibilità che medico e cappellano lavorino l’uno contro l’altro ― o quanto meno l’uno accanto all’altro, senza rapporto reciproco, il «conforto» del cappellano facendo seguito alla visita del medico ―, non è molto remota nella normale vita ospedaliera. Nel reparto psicosomatico di Ulm non c’è, invece, né guerra fredda, né condizione di buon vicinato; al contrario: il cappellano è stato integrato a pieno diritto nell’équipe. Ne è risultata una cooperazione utile tanto per il trattamento terapeutico che per la pastorale stessa; ma soprattutto vantaggiosa per il malato, ancora una volta considerato nell’integrità dei suoi bisogni.

La dimensione spirituale non è un accessorio facoltativo, ma una prospettiva essenziale, quando il malato venga considerato come soggetto. «La vita non vissuta è attiva», afferma Viktor von Weizsäcker, il fondatore della corrente nota come «medicina antropologica»; questa vita non vissuta fa pressione ed emerge nelle crisi esistenziali, specialmente nelle malattie. La malattia si nutre quindi dei conflitti psicosociali e biografici dell’individuo, compresi quelli che hanno radici nella sfera etica e religiosa. La dialettica tra vita vissuta e non vissuta si acuisce quando emergono all’orizzonte i sensi di colpa, la questione della realizzazione o del fallimento nel senso che si voleva dare alla propria vita, il confronto dell’uomo con la morte e con la trascendenza: insomma, la dimensione spirituale dell’esistenza. Quando nella situazione terapeutica si introduce un quadro antropologico più ampio, in cui anche questi problemi umani possano venire alla luce, la cooperazione tra medicina e pastorale per la soluzione dei conflitti vitali diventa ovvia. Per far posto alla pastorale, la medicina non ha bisogno di mutarsi in un confessionale:

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basta che combatta contro la reificazione dell’uomo, come tutti quelli che hanno scelto l’uomo come soggetto, e non semplicemente come una cosa.

4. Per approfondire

E. ShorterLa tormentata storia del rapporto medico paziente, Feltrinelli, Milano 1986.

Una panoramica storica delle trasformazioni a cui è andato incontro il rapporto medico-paziente, dal Settecento ai nostri giorni. Il quadro è tracciato nella consapevolezza del deterioramento a cui è sottoposto il rapporto ai nostri giorni — medici sempre più inaspriti, pazienti sempre più delusi — non tanto a causa di mancanza di virtù, da una parte come dall’altra, quanto per le forze storiche e naturali che in tal rapporto si esprimono. La tesi è che la scienza da sola non basta per costituire l’«arte del guarire».

I. e H. C. PiperInfermiera e paziente, Edizioni Paoline, 1984.

Il libro è costituito essenzialmente dalla registrazione di brani di conversazione tra infermiera e paziente, analizzati e commentati dal punto di vista della comunicazione. Aiuta ad acquisire consapevolezza di quello che avviene tra l’operatore sanitario e il malato, sia superficialmente, sia a livello profondo.

Aa. Vv., Per un ospedale più umano, Edizioni Paoline, 1985.

Il rinnovamento di un antico ordine ospedaliero; l’apporto dell’etica — in particolare la «bio-etica», nata in America — a una considerazione totale dell’uomo malato, compresi i suoi problemi etici e spirituali; la necessità di integrare le scienze umane — prima tra tutte la psicologia — a quelle biologiche per ricostruire l’interezza del soggetto. Tre approcci per un progetto comune: una «rivoluzione conservatrice» nell’assistenza sanitaria.

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XII

PROBLEMI DI GIUSTIZIA NELLA SANITÀ

1. Sanità e giustizia sociale

Una sola giustizia per tutta la terra

A un sistema sanitario chiediamo che sia non solo funzionale ed efficiente, ma anche giusto. La prima è un’esigenza che poniamo in nome della razionalità politica, la seconda in forza dell’etica. Non saremmo disposti ad accettare un’organizzazione della sanità in cui alcuni cittadini avessero ― per ragioni di censo o di privilegio ― i servizi sanitari garantiti, mentre altri fossero esposti senza tutela agli imprevisti della sorte. La saggezza tradizionale riconosce che davanti alla malattia e alla morte tutti gli uomini sono uguali. Ma questa pretesa non risponderebbe affatto a verità, qualora alcuni potessero tutelarsi ricorrendo ai servizi della medicina, da quelli ordinari a quelli più sofisticati, mentre altri ne fossero esclusi in ragione della loro situazione economica o sociale. Troveremmo questa situazione contraria allo spirito democratico e ai princìpi di giustizia che devono reggere la convivenza civile.

Queste affermazioni di principio, se non vogliono essere puramente velleitarie, devono confrontarsi con la realtà sociopolitica concreta. Il confronto comporta un duplice giudizio. L’etica giudica i fatti, misurandoli sul metro di valori che essa tutela e promuove. Ma si può dire, inversamente, che anche i fatti giudicano l’etica. La sperequazione clamorosa dei livelli di salute e di disponibilità di risorse sanitarie giudica e condanna un’etica che non si opponesse a questa situazione. Un’etica di questo genere meriterebbe l’accusa senza appello di essere viziata dall’individualismo e di mettersi a servizio della buona coscienza illusoria: niente più che un espediente per sentirsi «morali» in luoghi immorali...

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Il conflitto tra la distribuzione delle risorse sanitarie e le esigenze della giustizia è stridente, se consideriamo l’insieme del pianeta. Sulla base del più recente «Rapporto sulla situazione sanitaria nel mondo», redatto dall’Organizzazione mondiale della sanità, possiamo affermare che la situazione patologica delle popolazioni dei Paesi industrializzati e del Terzo mondo si presenta con tratti marcati non solo di differenza, ma di differenza ingiusta. Nei Paesi sviluppati, che hanno raggiunto nell’ultimo quarto di secolo una speranza di vita che si situa tra i 70-78 anni per le donne e i 64-72 anni per gli uomini, i decessi prematuri sono dovuti in primo luogo a malattie cardiocircolatorie e secondariamente al cancro ― le tipiche malattie del benessere segue in terzo luogo la mortalità dovuta a incidenti (il 10 per cento dei decessi). La situazione nei Paesi non industrializzati presenta invece un quadro in cui le malattie infettive e parassitarle predominano e la speranza di vita è molto ridotta. La mortalità infantile, ad esempio, nei Paesi più poveri del mondo è venti volte più alta che in Occidente: «una situazione ― commenta l’Oms ― non solo evitabile, ma anche imperdonabile, che riflette la mancanza di premura della comunità mondiale nel colmare l’abisso che separa i Paesi sviluppati da quelli non sviluppati sul piano sanitario».

La dizione eufemistica di «Paesi in via di sviluppo» non può più essere usata senza ipocrisia, se teniamo presente che, mentre i Paesi industrializzati consacrano alla sanità dal 5 al 6 per cento del loro bilancio, gli altri vi dedicano solo il 2-3 per cento delle loro scarse risorse. Lo scarto è dunque destinato ad accrescersi ulteriormente, e il sottosviluppo a cronicizzarsi. Alla situazione di «povertà assoluta» (monetizzata convenzionalmente in un reddito annuale inferiore ai 500 dollari), in cui versano attualmente un miliardo di esseri umani, fa riscontro una miseria sanitaria assoluta. Ciò implica che l’ambizioso programma formulato dall’Oms ― «Salute per tutti per l’anno 2000» ― non può essere realizzato senza un nuovo ordine sanitario internazionale.

La presenza di scandalose disuguaglianze a livello mondiale incombe sulla bio-etica, in quanto sistema rivolto a risolvere i problemi posti dal progresso bio-medico secondo criteri di giustizia. La discussione etica di tali problemi resterà un lusso intellettuale e avrà un carattere mistificatorio, finché ci saranno

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persone che muoiono per mancanza di cibo e di cure elementari, finché 20 milioni di individui resteranno colpiti da cecità da tracoma per mancanza di igiene rudimentale o di antibiotici, finché nella stagione delle piogge milioni di individui continueranno a diguazzare nel focolaio di infezioni creato dai loro propri escrementi.

Finché questa situazione, frutto di un ordine economico mondiale ingiusto, non sarà modificata, anche il sistema etico di distribuzione delle risorse sanitarie più soddisfacente potrà essere legittimamente sospettato di essere nient’altro che un alibi ideologico.

La comunità civile e l’assistenza sanitaria

problemi della giustizia non sono meno drammatici anche se limitiamo la nostra considerazione a un ambito geo-politico più ristretto, come può essere il nostro Paese. La difficoltà in questo caso deriva dai cambiamenti intervenuti nel modo di considerare la salute, che hanno reso il problema della distribuzione delle risorse mediche secondo giustizia infinitamente più complesso. In particolare, il perno di tali problemi sta nel mutato ruolo dello Stato riguardo alla sanità. Nelle società primitive si lasciava morire di fame i vecchi o li si induceva a sopprimersi volontariamente per non essere più di peso. Già l’antichità, intuendo che i bisognosi costituivano un pericolo pubblico, istituì delle forme di assistenza, non basate sul principio del merito (come le istituzioni create per i vecchi legionari romani), bensì su quello della necessità: così il «panis popularis» nella Roma del Basso impero.

Il cristianesimo introdusse l’ideale della carità e sviluppò le forme di assistenza, come gli ospedali, che con molte trasformazioni sopravvivono al giorno d’oggi. Con l’illuminismo l’assistenza fu secolarizzata e demandata allo Stato. Secondo la logica del Contratto sociale di Rousseau, la società, a profitto della quale l’individuo ha alienato una parte della sua libertà, deve in cambio farlo beneficiare di un’organizzazione senza difetti. Lo stato di bisogno equivale a una violazione del contratto sociale, e la società deve riparare questa mancanza al suo obbligo contrattuale.

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Le istituzioni di previdenza sociale, che in epoca di liberalismo erano limitate alla classe operaia, hanno cominciato di recente a estendersi fino a coprire con il loro ombrello tutti i cittadini. L’idea generale è che ogni individuo, in quanto tale, ha diritto a una garanzia da parte dello Stato per quanto riguarda le esigenze fondamentali della salute. Da questo spirito è nato in Italia nel 1978 il Servizio Sanitario Nazionale, alla luce del duplice ideale di promozione della persona e di tutela del benessere essenziale della salute.

La bancarotta del generoso progetto di uno Stato che garantisce a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria, non è dovuta solo a disfunzioni contingenti. Parallelamente all’attribuzione allo Stato di compiti assistenziali sempre maggiori, la concezione stessa di salute si è allargata, fino a comprendere uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto l’assenza di infermità» (definizione proposta dall’Oms nel 1946). La medicina stessa si vede proposto un compito nuovo, che supera enormemente in ampiezza quello tradizionale di cercare di allontanare la morte. Essa deve infatti, promuovendo la salute, procurare un «completo benessere».

Il confine tra bisogni e desideri si fa esiguo, fino quasi a dissolversi. Per fare qualche esempio: se per una donna, afflitta da sterilità, «il completo benessere» psicofisico richiede soggettivamente una gravidanza e la generazione di un figlio proprio, perché non dovrebbe la comunità, attraverso il servizio sanitario, concederle la costosa pratica della fecondazione artificiale? Lo stesso discorso vale anche per il transessuale, autorizzato oggi anche dalla legge a dichiarare la propria appartenenza a un sesso psicologico discordante con quello biologico, il quale volesse eliminare la discrepanza mediante un’operazione chirurgica. L’esemplificazione potrebbe continuare con la chirurgia estetica, la cura della calvizie, la scelta prenatale del sesso del proprio figlio...

La moltiplicazione dei bisogni, al ruolo dei quali tendono ad essere promossi anche i desideri, fa divaricare inevitabilmente la forbice tra la domanda e le possibilità di rispondervi. Per quanto si accrescano gli investimenti per la sanità, i bisogni non potranno mai essere soddisfatti: essi tendono infatti ad essere teoricamente infiniti. Di qui la necessità di assumere delle decisioni per distribuire le risorse sanitarie limitate secondo criteri che

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corrispondano sia alla razionalità-programmazione, sia alla giustizia.

Utilità e giustizia: due esigenze da conciliare

La ricerca di una base etica per la distribuzione delle risorse è una preoccupazione tanto del pensiero filosofico, quanto di quello religioso. Per quanto riguarda il primo, la riflessione contemporanea ha assunto due orientamenti: quello di tipo utilitaristico e quello che si riferisce alla giustizia distributiva. Secondo il principio dell’utilità, un sistema sanitario è giusto se procura il bene per il maggior numero di persone, ovvero se migliora la salute dell’intera società. Ciò vorrebbe dire, in concreto, che il sistema sanitario in questione permette alla maggioranza di raggiungere il più alto livello possibile di sopravvivenza infantile, il maggior numero di anni di speranza di vita, il maggior numero di giorni senza ospedalizzazione. Ma se un sistema ― si può obiettare ―, per migliorare la salute della maggior parte della società, trascurasse minoranze quali gli anziani o gli handicappati, potrebbe ancora essere giusto? Il problema etico che sorge dall’indirizzo utilitaristico è proprio il trattamento riservato a coloro che non possono essere inclusi nel «grande numero».

In sintonia con l’orientamento utilitaristico, si ricorre anche, come criterio per distribuire le risorse, all’analisi costi/benefici. La difficoltà in questo caso consiste nel fatto che la sanità implica giudizi di valore non riconducibili alla metodologia scientifica ed economica. Secondo un’ottica utilitaristica, per esempio, in certi casi, non curare un individuo sarebbe la scelta più giusta rispetto al bene comune: così, ad esempio, quando nasce un bambino gravemente handicappato, il quale per il resto della vita assorbirà una parte consistente delle risorse sanitarie. Ma la vita di una persona non è un bene comparabile con altri bene, né può essere sottoposto a un’analisi quantitativa. Inoltre in una società i beni non sono solo di ordine economico, ma anche simbolico, etico e spirituale. Quando si fa, per esempio, uno sforzo eroico per salvare la vita di un bambino, la società trae da questo gesto un vantaggio simbolico, che per la convivenza civile può essere molto più importante di qualsiasi

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profitto economico. Crescono infatti la filantropia e la pietà, viene incrementato il senso di appartenenza alla comunità, nasce la fiducia, si stimola contagiosamente il desiderio di altruismo e di abnegazione: tutti valori che non sono riconducibili ad un’analisi in termini esclusivi di costi e benefici, considerati in senso monetario.

L’altra via percorsa dall’etica filosofica è quella di creare il criterio per la distribuzione delle risorse limitate nella giustizia sociale. Sul principio in se stesso non è difficile ottenere il consenso. Le difficoltà sorgono quando si passa a stabilire dei criteri operativi. Alcuni pensatori si orientano secondo criteri più meritocratici (del genere: «a ognuno secondo il suo contributo sociale»); altri ritengono che, per giustizia distributiva, lo Stato deve fornire ai cittadini solo un minimo decente di assistenza sanitaria in maniera uguale, lasciando che chi ha i mezzi possa, a proprie spese, procurarsi dei servizi più individualizzati o cure mediche di più alto livello; altri ancora esigono, sempre in nome della giustizia distributiva, che siano tenute presenti le differenze rilevanti tra le persone, affinché si possa dire che sono trattate in maniera uguale. La malattia o l’handicap sono alcune di tali differenze rilevanti da considerare. La discussione filosofica non è comunque ancora così avanzata da poter offrire indicazioni operative in campo di politica sanitaria.

Sulla esigenza di fondo di pensare i problemi sanitari alla luce della giustizia concorda anche la riflessione religiosa. La giustizia sociale costituisce un argomento centrale nel magistero e nella predicazione della Chiesa cattolica, almeno da quando si è evidenziata la «questione sociale», nella seconda metà del XIX secolo. Il Vaticano II nella costituzione Gaudium et Spes ha ricordato la centralità del «bene comune» ― definito come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» ― come fonte di diritti e doveri che riguardano l’intero genere umano (Gaudium et Spes, n. 26).

Neppure l’ideale etico-religioso della promozione del bene comune, fornisce regole comportamentali per risolvere i dilemmi che si presentano nella distribuzione delle risorse mediche limitate. Se ne può tuttavia ricavare indicazioni tutt’altro che irrilevanti. In tal senso va considerato il parere autorevole del

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card. Carlo M. Martini, secondo il quale «uno dei maggiori incrementi della salute deriva dalla lotta contro la povertà, dalla migliore igiene di vita, da una migliore distribuzione delle ricchezze e, in ultima analisi, da una giustizia sociale che promuove il bene comune». La politica sanitaria più giusta, sia a livello nazionale che a dimensione planetaria, è quella che include lo spazio per migliorare le condizioni delle persone in più grave necessità e per lottare contro le abitudini nocive della nostra società.

2. La giusta distribuzione delle risorse sanitarie

Criteri per la scelta

Il medico, più o meno consapevole dei presupposti di etica sociale che stanno a monte del suo operato, si trova sempre più frequentemente confrontato in dilemmi connessi con la scarsità delle risorse e la necessità di operare delle scelte. Tali dilemmi raggiungono il massimo dell’intensità drammatica nell’ambito delle lifesaving therapies. «Chi deve vivere, quando tutti non possono vivere?»: questo, in termini crudi, il dilemma che devono affrontare sempre più frequentemente i sanitari. Il caso più discusso, sin dalla fine degli anni ’60, è stato quello del rene artificiale, disponibile in misura sempre inferiore al numero delle persone che ne hanno drammaticamente bisogno.

La distribuzione di organi artificiali o naturali (trapianti), a pazienti che altrimenti morirebbero, resta la situazione emblematica di un problema di più ampia portata che può essere ricondotto all’interrogativo: chi deve ricevere assistenza medica in quelle circostanze in cui non ci sono risorse sufficienti per tutti? È opinione del filosofo etico Fletcher che il compito «numero uno» dell’etica medica oggi sia quello di sviluppare criteri per la selezione. L’etica può contribuire in maniera decisiva a identificare i sistemi giusti e quelli ingiusti, e ad elaborare modelli di scelta orientativi, dando una giustificazione razionale delle scelte.

Riguardo ai criteri per la selezione, la discussione etica ha

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distinto con chiarezza due serie di criteri: quelli di esclusione e quelli di selezione finale. Quando le risorse mediche insufficienti richiedono una selezione tra diversi pazienti, vanno in un primo tempo esclusi coloro per i quali la terapia, da un punto di vista medico, avrebbe poche o nulle probabilità di successo. Una risorsa medica limitata va distribuita solo a quei pazienti che hanno ragionevoli probabilità di trarne beneficio. L’«accettabilità medica» è un criterio sostanzialmente oggettivo, che suscita di per sé poche controversie. Talvolta però questo criterio di esclusione implica anche dei fattori psicosociali, meno oggettivi e controllabili di quelli strettamente clinici. Alcuni medici, per esempio, ritengono che la «cooperatività» sia un atteggiamento assolutamente indispensabile in dialisi: il paziente che non coopera condanna al fallimento questa terapia, che esige costanza e disciplina. Anche per il trapianto di reni i fattori psicosociali sono importanti. È appurato, infatti, che il suicidio tra le persone sottoposte a questo tipo di terapia renale è cento volte maggiore che nel resto della popolazione.

Molto più controverse sono le regole per la selezione finale tra pazienti che non siano stati esclusi per qualcuno dei motivi precedenti: alcuni dei criteri specifici proposti si sovrappongono a quelli del primo stadio. Saranno preferiti coloro per i quali, dal punto di vista medico, si intravede una relativa probabilità di successo. Ma per la selezione si ricorre per lo più a fattori sociali, che niente hanno a che vedere con l’aspetto strettamente sanitario. Tale è, ad esempio, il ruolo familiare del malato: numero ed età delle persone che da lui dipendono. Oppure la sua utilità, misurata sui potenziali contributi che darà alla società, una volta ristabilito. Un altro fattore sociale considerato sono i servizi passati resi alla società (un politico o un filantropo sono con questo criterio anteposti a un barbone). Sono legittimi tali confronti tra persone in situazioni di vita e di morte?

L’orientamento ai criteri sociali è strenuamente difeso da chi in etica si ispira ai principi dell’utilitarismo. Nella forma estrema, l’argomento utilitarista può essere così formulato: le istituzioni mediche sono fiduciarie della società e devono rendere conto ad essa del loro operato. Nello scegliere di salvare una vita piuttosto che un’altra, bisogna garantire gli interessi della società, considerando i futuri servizi che saranno resi al paziente. La società, infatti, investe una risorsa scarsa in una persona piuttosto

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che in un’altra, e ha diritto di aspettarsi di recuperare il suo investimento. Il criterio utilitarista è fortemente avversato da altre impostazioni etiche, sia deontologiche (la bontà morale dell’azione non deriva dalla felicità che produce o dal dolore che evita, bensì dal dovere a cui si obbedisce), sia personalistiche (l’etica cristiana in primo luogo, con la sua affermazione del valore incomparabile di ogni individuo, creato da Dio e salvato da Cristo).

«Il primo venuto»: razionalità del criterio casuale

In assenza della possibilità di stabilire una gerarchia tra le persone da salvare prioritariamente, molti ripiegano sul criterio della scelta casuale, come è quella di dare la precedenza ai primi iscritti nelle liste di attesa (in America il criterio suona come: «first come, first treated»). Malgrado l’apparenza dell’arbitrio, questo approccio ― sostengono i suoi fautori ― tutela meglio di altri alcuni valori fondamentali della società. Come la dignità personale, violata ogni volta che si istituiscono confronti tra il valore relativo degli individui. Oppure il valore del rapporto di fiducia tra il paziente e il medico, che viene invece irrimediabilmente compromesso quando il paziente si sente sottoposto a giudizi comparativi e trattato come un mezzo per un fine sociale. Anche dal punto di vista psicologico i candidati a terapie che salvano la vita e le loro famiglie possono sopportare meglio il rifiuto se questo è basato sul caso, piuttosto che su giudizi di natura sociale.

Un argomento particolarmente incisivo a favore della regola del caso è stato avanzato dal teologo evangelico Ramsey: nel distribuire le risorse mediche tra persone ugualmente bisognose ― egli sostiene ― l’estensione della cura non discriminatoria di Dio negli affari umani richiede una selezione a caso e proibisce giudizi, che presumano di essere «divini», se un essere umano sia più meritevole di un altro. La selezione casuale, insomma, assomiglierebbe di più al comportamento di Dio, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni, e fa piovere sui giusti come sugli empi» (Mt 5,45). L’aspetto razionale di questo criterio è che assicura fin dall’inizio che ci saranno uguali opportunità di sopravvivenza, senza alcun favoritismo (quello che si

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paventa sono soprattutto i giudizi di valore surrettizi: le priorità stabilite in base a una pratica equiparazione tra valore sociale e rispettabilità sociale).

Solo la scelta casuale evita un giudizio di valore, secondo cui alcuni esseri umani sono più degni di essere salvati di altri. Tuttavia, per quanto stringenti possano essere le argomentazioni a favore di criteri casuali di scelta, sarà difficile sottrarsi a una valutazione di ordine sociale se si dovesse scegliere, poniamo, tra uno scienziato che è una persona di alto valore morale e padre di cinque bambini, e un assassino che ha compiuto una strage...

Nessun sistema di distribuzione di risorse mediche scarse può realizzare tutti i valori di una società. Ma è auspicabile che chi si trova nella situazione ingrata di dover fare delle scelte che comportano seri effetti sociali, sia in grado di giustificare a se stesso e all’opinione pubblica i criteri ai quali si ispira; e possa confrontarli con altri criteri. L’etica più umana è proprio quella che nasce dal crogiolo del confronto, in spirito di dialogo.

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INDICE

INTRODUZIONE. Questo libro: perché e come

I - I DOVERI IN CAMPO BIO-MEDICO

1. In nome della professione: la deontologia

9 La nozione di deontologia

10 Un comportamento sanitario professionalmente corretto

12 La deontologia: sì, ma non solo

15 2 - In nome dell'uomo: l'etica

15 In nome dell’uomo: l’etica

15 Una nuova disciplina: la «bio-etica»

18 La medicina rincontra la filosofia

20 3 - In nome di Dio: la morale religiosa

20 Morale ed etica: la stessa cosa?

22 La morale medica cattolica

25 Gli orientamenti post-conciliari

27 4 - Per approfondire

29 II - L’UOMO E LA NATURA

29 1 - Potere e responsabilità dell’uomo verso l’ambiente

29 Un’etica da «scialuppa di salvataggio»?

31 L’etica fa posto agli animali

35 2 - Sperimentazione e uso bio-medico degli animali

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35 Dalla polemica alla riflessione etica

39 La regolamentazione della sperimentazione

41 3 - La genetica: la nuova frontiera della bio-etica

41 Le mani dell’uomo nel meccanismo della vita

43 Allarmi e interrogativi

45 Valutazione etica

47 - Per approfondire

49 III - LA VITA PRENATALE E LA NASCITA

49 1 - Un nuovo compito dell'umanizzazione: la nascita

49 La medicina ostetrica sotto accusa

51 Il parto medicalizzato: una violenza indebita?

52 La nascita, evento di famiglia

54 «Partorirai nel dolore»: una maledizione inevitabile?

55 Una buona nascita: fortuna o responsabilità?

56 2 - La responsabilità verso la vita non nata

56 L’aborto procurato: un problema sociale antico

58 La nuova normativa in Italia

59 La tutela della vita ad opera della deontologia medica

61 Il cristianesimo e la condanna dell’aborto procurato

62 Quando ha inizio la vita umana?

64 3 - Diagnosi prenatale e medicina fetale

64 La conoscenza previa dello stato di salute del feto

66 Il feto malformato: dilemmi angoscianti

67 L’aborto terapeutico

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68 4 - Per approfondire

71 IV - PROBLEMI ETICI IN PEDIATRIA

71 1 - Curare o non curare i neonati malformati?

72 E se salvare la vita fosse un danno?

73 Interessi in conflitto

75 A chi spetta la decisione

77 2 - Il bambino in ospedale

79 3 - Per approfondire

81 - LA DECISIONE DI PROCREARE

81 1 - La procreazione assistita

81 In quanti e quali modi si può fare un bambino...

83 Un nuovo ordine giuridico e sociale della procreazione

85 Un figlio ad ogni costo

89 Orientamenti dell’etica

93 Scelte politico-legislative e deontologiche

98 2 - La sterilizzazione

99 Per il bene della persona e della specie

99 La sterilizzazione contraccettiva: permessa o no dalla legge?

102 Problemi professionali per il medico

105 3 - La regolazione delle nascite

105 Un problema di etica bio-medica?

107 La scelta dei metodi

111 4 - Per approfondire

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113 VI - LA SESSUALITÀ UMANA

113 1- Sessualità sana e malata: un problema medico?

113 Medicina tradizionale e sessualità

115 La conoscenza scientifica della sessualità umana

116 È lecita la ricerca sui comportamenti sessuali?

117 Sesso fa rima con amore

118 2 - Norma e devianza: le terapie sessuali

118 Chi stabilisce che cosa è normale o anormale?

121 Quando il sesso va curato: interrogativi etici di sesso

123 Il medico e la richiesta di cambiamento di sesso

124 3 - Per approfondire

127 VII - LA SALUTE MENTALE

127 1 - Problemi etici della pratica psichiatrica

127 Il «caso Tarasoff»

129 La psichiatria è a servizio della repressione?

131 Controllo del comportamento e consenso

133 Alcune terapie psichiatriche

136 Uso e abuso di farmaci e droghe

138 - La professione dello psicoterapeuta

138 Curare con la parola

141 La psicoterapia: avversaria o alleata della religione?

144 Autorealizzazione e valori spirituali

145 3 - Per approfondire

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147 VIII - RICERCA E SPERIMENTAZIONE CON GLI ESSERI UMANI

147 1 - La coscienza del problema

147 Nel ricordo dell’orrore

149 Quando i responsabili nella società si preoccupano

151 2 - La giustificazione etica della ricerca

153 3 - Le regole morali per guidare la ricerca

153 Le carte in regola secondo la scienza

155 Il consenso informato

156 4 - Alcuni campi speciali di ricerca

156 La ricerca non terapeutica sui bambini

157 Embrioni e feti

161 IX - DONO E TRAPIANTO DI ORGANI

161 1 - Nuovi traguardi, nuovi problemi

164 2 - Cultura del dono

166 3 - Norme deontologiche a tutela dei trapianti

168 4 - Princìpi etici nel campo dei trapianti

170 5 - Per approfondire

171 X - IL TERMINE DELLA VITA

171 1 - Nell’ora della nostra morte

174 2 - Il prolungamento medico della vita

174 La morte come problema bio-etico

176 I medici cambiano le loro regole deontologiche?

179 Gli equivoci del dibattito sull’eutanasia

182 La volontà di morire

185 L’etica della vita terminale: un«work in progress»

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188 3 - L'accompagnamento dei morenti

188 Un nuovo compito dell’etica della vita terminale

190 Conoscere il morente

193 4 - Per approfondire

195 XI - LA COMUNICAZIONE NEL PROCESSO TERAPEUTICO

195 1 - Modelli di comunicazione medico-paziente

195 La relazione che guarisce

196 Rapporto medico-paziente: al plurale

199 La comunicazione all’interno dell’ospedale

201 2 - Il segreto professionale e la verità al malato

201 «Tacerò come cosa sacra...»

204 Parlare? Tacere? Mentire?

207 3 - Un modello alternativo

207 Il reparto di psicosomatica clinica di Ulm

210 Nuove forme di cooperazione e collaborazione

211 Uno spazio per lo spirito

213 4 - Per approfondire

215 XII - PROBLEMI DI GIUSTIZIA NELLA SANITÀ

215 1 - Sanità e giustizia sociale

215 Una sola giustizia per tutta la terra

217 La comunità civile e l’assistenza sanitaria

219 Utilità e giustizia: due esigenze da conciliare

221 2 - La giusta distribuzione delle risorse sanitarie

221 Criteri per la scelta

223 «Il primo venuto»: razionalità del criterio casuale

[quarta di copertina]

Mentre l’anno 2000 si profila sempre più vicino all’orizzonte, la biologia e la medicina suscitano crescenti speranze e preoccupazioni. La conoscenza delle strutture della vita, abbinata al progresso tecnologico, ha reso possibili interventi impensabili in passato: prolungamento artificiale della vita, concepimento extracorporeo e bambini in provetta, farmaci che modificano l’umore e il comportamento, uso degli individui per la ricerca e la sperimentazione, trapianto di organi e ricorso a organi artificiali, manipolazioni genetiche, diagnosi prenatale e interventi sulla vita intrauterina. È necessaria una riflessione che accompagni le nuove acquisizioni, per non lasciarsi semplicemente aspirare dalla vertigine del possibile. A un grado accresciuto di potere deve corrispondere un livello di maggiore responsabilità. L’enorme efficienza raggiunta è impiegata a vantaggio o a danno dell’uomo? Questo discernimento è l’obiettivo dell’etica nel campo bio-medico. Con linguaggio accessibile a tutti, Sandro Spinsanti, un esperto nel settore, fornisce le informazioni bio-mediche ed etiche necessarie perché ognuno possa orientarsi nell’intrico dei problemi di scottante attualità e maturare un giudizio personale.

SANDRO SPINSANTI, teologo e psicologo, è nato ad Ancona nel 1942. È docente di Bioetica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze e la Pontificia Università di S. Tommaso. Dirige il Dipartimento di Scienze Umane presso l’Ospedale Fatebenefratelli dell'Isola Tiberina, a Roma. Tra le sue pubblicazioni di etica medica presso le Edizioni Paoline: Etica cristiana della malattia, Roma 1971; Umanizzare la malattia e la morte, Roma 1980; Documenti di deontologia ed etica medica, Milano 1985; Per un ospedale più umano (in collaborazione), Milano 1985. Ha collaborato con alcune voci al Dizionario enciclopedico di teologia morale, Roma 19856 e al Nuovo dizionario di Spiritualità, Roma 19854. Collabora regolarmente come giornalista pubblicista con «Famiglia cristiana» e «Jesus».

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