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Sandro Spinsanti
La bioetica: una via per la crescita della coscienza
in Il futuro dell'uomo
anno XVII, 1990, n. 2, pp. 5-12
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LA BIOETICA: UNA VIA PER LA CRESCITA DELLA COSCIENZA
Partecipando al primo convegno europeo della «International Transpersonal Association», tenutosi a Bruxelles nel 1984, Elisabeth Kübler Ross ha sorpreso molti di quelli che l’ascoltavano con una sua affermazione. Presentando se stessa e il suo lavoro, la celebre psichiatra affermava: «Io non ho mai fatto ricorso a droghe psichedeliche per alterare gli stati di coscienza; non so stare ferma a fare meditazione, né conosco stati di illuminazione o esperienze mistiche. Tutto quello che so fare è stare accanto alle persone gravemente malate, stare ad ascoltarle, accompagnarle fino alla morte. Questo è il mio contributo alla realizzazione transpersonale mia e degli altri».
Con le sue parole confermava l’impressione di molti: nella casa del transpersonale vi sono molte dimore. Con rara tollerarla, in questo movimento si tende più a includere che ad escludere. Non predomina la tendenza a uniformare i comportamenti delle persone, a far camminare tutti con lo stesso passo. Nel transpersonale non si entra come in una religione, mediante una conversione, lasciando dietro di sé la propria vita precedente. Riconoscersi nel transpersonale è piuttosto questione di un «insight», che modifica la percezione della propria attività abituale, ma ci rimanda ad essa. Anche pratiche così care a chi si colloca in questo ambito, come la meditazione o l’azione rivolta a modificare gli stati della coscienza, non sono un obbligo o una via prescritta per nessuno.
La Kübler Ross, rappresentante eminente dello sforzo attuale di umanizzare la medicina, non ha semplicemente voluto, con una «plaisanterie», evitare un inquadramento rigido e riduttivo nel movimento transpersonale. Ha piuttosto avanzato un suggerimento metodologico: considerare il transpersonale non come un «hortus conclausus»,
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ma come un paradigma interpretativo che si può applicare a diverse realtà.
Accettando la sua indicazione, ci possiamo chiedere: la bioetica ha qualche rapporto con il transpersonale? Ovvero: quella riflessione sistematica sulla qualità morale e l’accettabilità civile di comportamenti resi possibili dal progresso della biologia e della medicina, diffusasi con il nome di bioetica, contribuisce a quell’obiettivo di crescita della coscienza dell’umanità, che è proprio del movimento transpersonale?
È difficile rispondere con un «sì» o un «no» univoci, perché si può fare bioetica in diversi modi, che hanno legami più o meno stretti con il livello transpersonale. Procedendo in modo piuttosto schematico, si possono prendere in considerazione tre diversi scenari. In tutt’e tre la riflessione e l’azione connessa possono legittimamente richiamarsi alla bioetica, ma con implicazioni diverse rispetto a ciò che costituisce l’interesse specifico del transpersonale, cioè la modificazione degli stati di coscienza. In breve, possiamo dire che i tre scenari implicano percezioni diverse del rapporto dell’uomo con la vita.
Il primo scenario colloca tutta la novità della bioetica nella consapevolezza di nuovi doveri dell’uomo nei confronti del mondo e della vita, a seguito delle capacità di manipolazione della natura rese possibili dal progresso tecnologico. La bioetica che nasce in questo orizzonte si può sinteticamente ricondurre al «principio di responsabilità», formulato dal filosofo Hans Jonas. A suo avviso, la tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove, che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. La natura si è dimostrata vulnerabile e l’avventura dell’umanità sulla terra risulta essere minacciata. Ancor più, ci si è resi conto che l’irresponsabilità dell’uomo può compromettere la vita stessa sul pianeta: sia che ciò avvenga attraverso la bomba atomica — timore prevalente fino a poco tempo fa —, sia attraverso la «bomba biologica», secondo le più recenti paure.
Questo atteggiamento responsabile nei confronti della vita apre orizzonti nuovi per la moralità e introduce nell’ethos comune sensibilità finora assenti. Per fare solo qualche esempio: solo ora la vita animale non umana sembra affacciarsi entro l’orizzonte della preoccupazione etica. Finora l’uomo, almeno nella tradizione occidentale,
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ha pensato nei confronti degli animali di avere solo diritti, non anche doveri. Questa sicurezza da padrone dispotico sta cedendo il posto ad atteggiamenti più riflessi; anche se sono pochi coloro che si lasciano sedurre dagli ideali estremisti della «animal liberation», un senso di moderazione nei rapporti con i viventi non appartenenti alla specie umana sta entrando nei costumi.
Un secondo esempio è l’apertura dall’etica alla prospettiva delle generazioni future. Il bene e il male hanno anche una misura temporale. Da questo punto di vista, Hans Jonas ha potuto riformulare l’imperativo kantiano introducendo la responsabilità verso le generazioni non ancora nate: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione rendano possibile la continuazione della vita sulla terra». L’uomo dell’epoca postindustriale ritrova così un aspetto ben presente nell’etica delle culture tradizionali. Jeremy Rifkin riferisce, in un suo saggio recente, di un capo di una tribù di Irochesi che esprimeva così la procedura deliberativa del suo popolo: «Quando dobbiamo decidere qualcosa, ci domandiamo: La decisione che ora prendiamo, andrà a beneficio della settima generazione? Se possiamo rispondere in senso affermativo, prendiamo la decisione; altrimenti decidiamo in senso contrario».
Per riassumere quest’etica della responsabilità nei confronti della vita, possiamo ricorrere a uno slogan che è stato recentemente utilizzato per promuovere una nuova rivista internazionale di bioetica. Fino al XX sec. il motto era: «Nul n’est censé ignorer la Loi» (ovvero: «Nessuno può incolpevolmente ignorare la legge»); nel XXI secolo sarà: «Nul n’est censé ignorer la Vie» («Nessuno può incolpevolmente ignorare la vita»).
Non possiamo che rallegrarci di questa attenzione alla vita. Tuttavia non è in questa direzione che troviamo la novità che interessa chi si orienta secondo la dimensione transpersonale. La vita di cui ci si preoccupa e nei cui confronti ci si vuol comportare responsabilmente è per il soggetto ancora una cosa, che può essere rappresentata dal pronome neutro «esso». Il paradigma entro cui si muove questa bioetica è «Io-esso» in inglese: (I-it).
Un secondo scenario di dibattito bioetico è quello rappresentato dal paradigma reso celebre da Martin Buber: quello del rapporto «Io-Tu» (I-You). Si tratta del paradigma che regola i rapporti interpersonali. L’eticità è qui misura di riconoscimento reciproco, che
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comporta uguale dignità, rispetto e presa in carico reciproca (con un corollario che riguarda chi non è in grado di rivendicare i propri diritti: questi deve essere preso in carico da altri).
Nella bioetica contemporanea il criterio personalista è un punto di riferimento centrale. La dignità della persona è invocata per tutelare da comportamenti in cui l’attenzione esclusiva al lato tecnico e a risultati di efficienza può esporre a prevaricazioni gravi nei confronti di altri soggetti.
Il progresso tecnologico ha, infatti, anche un lato d’ombra, che produce clamorosi tradimenti dei valori umanistici. Dire che la persona umana va tutelata dall’inizio alla fine della sua vicenda corporea, significa mettere dei limiti a ciò che siamo in grado di fare con la biologia e la medicina di cui disponiamo oggi: non ci è lecito fare tutto ciò che siamo capaci di fare.
Le associazioni mentali più spontanee sono quelle collegate con l’inizio e la fine della vita umana. Si tratta dei problemi che la divulgazione della bioetica ha fatto conoscere anche al grande pubblico: fecondazione artificiale e tecnologie applicate alla riproduzione, diagnosi prenatale e interruzione della gravidanza; e poi ancora: rinuncia all’accanimento terapeutico ed eutanasia, comunicazione della diagnosi, rispetto della volontà del paziente che vuol mettere dei limiti alla cure che gli vengono somministrate, trattamento di malati in stato vegetativo permanente, accompagnamento dei morenti.
Non esistono delle formule capaci di risolvere tutti i problemi connessi con i segmenti iniziali e finali della vita, là dove le categorie antropologiche vengono meno, tanto che nei casi specifici non sappiamo se si tratta già di vita umana (embrioni in stato precocissimo di sviluppo), o se c’è ancora vita umana (stato vegetativo permanente). Tuttavia il criterio personalista costituisce una valida indicazione di principio: «Stabilisci con l’altro un rapporto Io-Tu; tratta l’altro — anche l’altro che è l’embrione, o il malato terminale — come te stesso». È superfluo dire quanto questa via sia difficile, ma anche quante possibilità offra di crescere in umanità.
Lo scenario personalista, che pur stenta a ottenere il consenso unanime nel dibattito pubblico, non è l’orizzonte ultimo per la bioetica. Pur valorizzando al massimo le possibilità offerte dal paradigma «Io-Tu», dobbiamo considerare una terza possibilità di concettualizzare i rapporti con la vita: è quella che ci è offerta dal paradigma
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«Io-Sé» (I-Self). L’evocazione del Sé può suonate come dottrina iniziatica a chi non sia familiarizzato con il linguaggio del movimento transpersonale. Lasciando alla letteratura specifica gli appropriati approfondimenti, possiamo indicare nella prospettiva che trascende la persona il contributo originale che questo movimento offre alla cultura temporanea: il richiamo a un punto di convergenza al di là del livello personale, quale si realizza all’interno di un’esperienza vissuta del reale come totalità (Wholeness).
In questo scenario l’etica e la vita si correlano attraverso un rapporto non di possesso responsabile (Io-esso), né di incontro interpersonale (Io-Tu), ma di sottomissione partecipativa. Il soggetto vivente si scopre parte della vita come un Tutto; si sperimenta come Io nel Sé e grazie al Sé, in un processo esperienziale diretto. Nella visione olistica promossa dall’istanza transpersonale l’io, senza essere abolito, si risolve in un Tutto, che lo comprende a un livello superiore.
Tutto ciò si riduce a delle formule, finché il vissuto non le traduce in possibilità esistenziali. L’accesso a questa dimensione della vita che si staglia al di là della «persona» — sintesi suprema, ma anche maschera; epifania, ma anche parziale eclissi dell’Essere — è quello che la tradizione considera tipico della mistica. Ma è anche proprio di ogni esperienza — religiosa o areligiosa, quotidiana o straordinaria, in modo privilegiato attraverso le possibilità offerte dall’amore universale e dalla creatività artistica — che porta a un superamento della percezione duale della realtà.
Adottare la prospettiva transpersonale per la bioetica implica una radicale correzione dell’antropocentrismo (la bio-etica è già per sua naturale vocazione correlata alla bio-sfera) e l’accesso a quell’atteggiamento verso la vita che è tipico della tradizione religiosa-sapienziale. La vita si presenta allora essenzialmente un dono, a cui si partecipa mediante la modalità della comunione.
Questo, che è lo stato di coscienza tipico dell’uomo spirituale, è anche l’ideale di una bioetica che non voglia essere semplicemente una disciplina che si limita a registrare il consenso sociale sui nuovi interventi in campo biologico-medico.
La prospettiva transpersonale può arricchire anche la riflessione bioetica che si sviluppa entro un paradigma di riferimento interpersonale (Io-Tu). Essa corrobora, ad esempio, l’imperativo di non ridurre
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mai l’altro entro uno schema interpretativo. Questo può essere biologico (come avviene correntemente nella medicina organicista: il malato identificato con la sua malattia), ma anche morale. Questo secondo aspetto merita una spiegazione più dettagliata perché è più difficile da identificare.
Possiamo partire dal senso di colpa. Non esiste solo il senso di colpa per qualcosa che si è commesso. Questo è il più ovvio e il più frequente; ma esiste anche un senso di colpa esistenziale, collegato con il tradimento dell’essere: per non aver realizzato le potenzialità di cui si era dotati, per aver trascurato qualche dimensione del proprio essere (l’affettività, per esempio, a vantaggio dell’intellettualità o della realizzazione professionale; oppure per aver soffocato la propria crescita spirituale). La prospettiva transpersonale ci presenta appunto il senso di colpa non come un esito spiacevole dello sviluppo dell’individuo, da eliminare con adeguato intervento psicoterapeutico: esso ci appare piuttosto come un’ombra che accompagna permanentemente lo sviluppo della persona.
Accettare l’altro come persona significa aprire una linea d’orizzonte più ampia di ogni riduzione, comprese quelle riduzioni che operano fomentando nell’individuo il senso di colpa. Non mi riferisco solo alle colpevolizzazioni più grossolane (come quelle messe in atto nei confronti dei malati di Aids, quando sono dichiarati puniti da Dio e meritevoli di ciò che si sono andati a cercare...), ma anche a quelle più sottili, anche a quelle che non provengono dall’esterno ma sono elaborate dall’individuo stesso.
Il rapporto Io-Tu, quando è compreso sullo sfondo costituito dalla dimensione transpersonale, mette in contatto con l’essenza personale che sta dietro alla maschera; rifiuta di ridurre l’altro a ciò che appare (un grumo di cellule ancora indifferenziato, un organismo devastato dal male, un progetto di libertà deformato dalla propria colpa); sa cogliere l’eccedenza della persona rispetto a tutto ciò che la limita. Nel rapporto interpersonale autentico il «Tu» produce un’interpellazione, che ci porta a evadere dalle prigioni dell’Ego. Compresa la prigione che ci costruiamo da soli con la colpa esistenziale. L’incontro con il «Tu» fa risuonare una promessa liberatoria: «Io sono più grande di me stesso!».
Una seconda dimensione di ampliamento della coscienza resa possibile dalla dimensione transpersonale è quella del «pathos». La
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bioetica si trova molto impegnata a mettere dei confini al desiderio: al desiderio di generare, di generare figli con certe caratteristiche e a certe condizioni, di prolungare la vita o di abbreviarla, di modificare il patrimonio genetico, ecc. In breve, la bioetica è confrontata con le mille trasformazioni dell’eros. Questo ci presenta la vita, propria e altrui, come un campo di intervento illimitato, grazie all’aumento di possibilità dovuto al progresso scientifico e tecnologico. L’ebbrezza di interventismo attivo sulla vita, tipica della cultura occidentale, centrata sulle possibilità di tutto conoscere e tutto cambiare, ha bisogno di un correttivo: questo è il «pathos», cioè quella modalità di esistenza che dipende non da ciò che facciamo, ma da ciò che subiamo.
La determinazione volontaria è entrata pesantemente anche in fatti esistenziali che prima venivano fatti dipendere dal caso o dalla Provvidenza: come il numero e la temporalità delle nascite, e anche il momento di arrendersi alla morte. Tutto ciò ora tende a dipendere dall’azione dell’uomo.
Questo sbilanciamento unilaterale verso l’azione produce una deformazione antropologica: l’uomo che aumenta il potere arbitrario su se stesso non diventa ancora più uomo, ma una caricatura d’uomo. Abbiamo bisogno di integrare la modalità «pratica» dell’esistenza nel repertorio dei comportamenti che costituiscono l’umano autentico. La «passione», infatti, e non solo l’azione, costituisce una possibilità di crescita.
Anzi, la pazienza — intesa in senso etimologico, come virtù del «pathos» — ci può far arrivare là, dove l’azione non ci può portare. «Passività di crescita» ha chiamato Teilhard de Chardin questi eventi dell’esistenza che richiedono la pazienza come risposta comportamentale. La passività costituisce, rispetto all’azione, l’altro braccio con cui Dio ci attira a sé; la pazienza è la virtù che si appropria di queste possibilità di crescita.
La bioetica non ha il compito, come un gendarme, di mettere dei limiti e delle scadenze al desiderio. Il suo obiettivo, espresso positivamente, è quello di far emergere l’interpellazione presente in ciò che la vita ci fa subire. Deve educare il desiderio a riconoscere la voce del «pathos», ad aprirsi a questo «Tu» che ci viene incontro nella durezza di ciò su cui non abbiamo potere.
Possiamo ancora designare col nome di «bioetica» l’orizzonte
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di autorealizzazione che si apre all’essere umano a questo livello? Il termine sembra scricchiolare sotto il peso di un tale ideale. Siamo molto lontani dalle accurate misurazioni del lecito e dell’illecito nell’ambito della genetica, della biologia e della nuova medicina, con le quali abitualmente si associa tale disciplina. Ma se è l’etica che deve farsi guidare dalla vita, allora è questa coscienza della vita come dono a cui come viventi partecipiamo che deve ispirare la riflessione e l’azione. Ed è compito di chi promuove quello stato di coscienza partecipativo dell’Essere, quale è concettualizzato all’interno del movimento transpersonale, stimolare la riflessione bioetica a confrontarsi anche con questo ultimo orizzonte.